12 LE DOLCI SORELLE

In cui si narra come Orem, detto Fianchi-Magri, detto Banningside, andò nella Strada delle Puttane, e ne venne via insoddisfatto.

La puttana e il vergine

Entrando in Inwit per la Strada del Piscio, sulla sinistra c’è il quartiere miserabile detto la Palude, sulla destra le sgargianti Taverne, e davanti, in lontananza, si staglia il Castello Vecchio. Non è una scelta difficile per i nuovi arrivati. Orem girò a destra, fra le Taverne, e vagò per le strade, nell’incipiente oscurità, chiedendosi quanto gli sarebbe costato il cibo e l’alloggio.

Nelle Taverne, tutte le strade portano alla Strada delle Puttane, e senza sapere dove stava andando, Orem ci finì ben presto. All’inizio non capì che era la Strada delle Puttane. A lui sembrava la città più ricca che avesse mai visto, perché gli edifici erano alti, puliti, e c’erano alberi in mezzo alla strada, molti alberi e cespugli, e sembrava di camminare in un bosco. Le case erano semplici e graziose, ben proporzionate, e più di una era costruita in maniera da sembrare una Casa di Dio.

La natura del luogo gli venne rivelata quando un gruppo di ragazzi, mezzo ubriachi e sghignazzanti, fermò due donne e diede a ognuna una moneta. Ci vollero solo pochi minuti perché tutti i ragazzi fossero soddisfatti, dopo essersele fatte contro gli alberi, fra grida e bavosi baci da ubriachi, alzando in alto le loro gonne e discutendo su quale fosse la migliore. Erano come dei bambini che orinassero, ridacchiando, confrontando i rispettivi attributi, e contando ad alta voce il tempo che ci mettevano. Orem non era ignorante: aveva vissuto in una fattoria. Ma non aveva mai visto farlo da un uomo e una donna, e non riusciva a staccare gli occhi dalla scena. Solo quando fu finita guardò le facce delle puttane. Le vide proprio mentre i ragazzi se ne andavano, mentre i sorrisi svanivano, e tiravano un sospiro, si sistemavano i vestiti, e si dividevano equamente i soldi. Ripresero la conversazione che avevano interrotto: l’incontro con i ragazzi non aveva significato nulla per loro. Quando Orem mi raccontò di quella notte, era ancora sgomento per il fatto che un uomo potesse immergersi nella fontana delle Sorelle, e la donna non rammaricarsene.

Un’ora più tardi, Orem era appoggiato a un albero, osservando una delle orge più eleganti, in cui gli uomini e le donne conversavano di argomenti filosofici per un’ora circa prima di accoppiarsi. Non si accorse che una donna gli era venuta vicina, fino a quando lei non gli toccò un braccio.

— A meno che tu non abbia più soldi di quanto sembri — disse — faresti meglio ad andartene a casa. Più vai avanti nella Via delle Puttane, più diventa cara.

Era tutta seno e denti… almeno così sembrava a Orem, perché tutto quello che poteva vedere quando la guardava in faccia erano le due file di denti quando sorrideva, e quando non le guardava il viso, tutto quello che riusciva a vedere erano i due seni che pendevano provocanti dentro la camicia.

Forse era una di quelle poche puttane che non hanno perso il gusto per la bellezza e per l’amore. Non che Orem fosse bello. Ma aveva una sorta di allampanata grazia, come un puledro che corre per la prima volta, e riusciva a sembrare insieme infantile e pericoloso. (Forse solo io vidi il pericolo sul suo viso; Bella avrebbe avuto più fortuna se l’avesse visto prima). Qualsiasi fosse la ragione, lei accettò un’offerta che lui non aveva fatto. Orem si fidò tanto che quando lei glielo chiese, disse che aveva solo cinque denari. Lei aveva una coscienza: gliene chiese solo quattro.

La sua puttana lo fece passare oltre il truce guardiano di una casa vicina, annunciò a gran voce a tutti quelli che volevano sentirla che aveva trovato un vergine stelo da falciare, e lo spinse verso la scala. Gli venne dietro, e due volte infilò una mano sotto la sua tunica e gli tirò il perizoma sotto le natiche. Ogni volta lui sobbalzò per la sorpresa, e ogni volta lei ridacchiò.

In cima alle scale, lui fece per voltarsi lungo l’ampio corridoio coperto da un tappeto, ma lei lo tirò per la camicia.

— Questo costa uno scudo d’argento, prezzo fisso imposto dalla casa, io non ho scelta. — Salirono un’altra rampa. Questa volta il tappeto terminava al primo giro della scala, non appena i gradini diventavano invisibili dal corridoio sottostante. — È come cento case in una — spiegò lei — a seconda di quello che paghi. — La rampa successiva scricchiolava. E la quarta oscillava sotto i loro piedi. — Sono le stanze più economiche, scusa le pulci, ma quattro denari sono proprio pochini.

Presero per un corridoio buio, illuminato solo da una torcia a ciascuna estremità. Orem lanciò un’occhiata in tutte le stanze che erano aperte. Solo un’occhiata, finché ciò che vide non lo fece fermare.

Sedevano una vicino all’altra. Due donne, immobili come alberi. Erano vestite come tutte le altre puttane, e avevano corpi forse più belli delle altre. Ma le loro facce: qual era quella più terribile? Quella con un solo occhio, la bocca che si apriva da un fianco, e il naso così piegato che la narice guardava più in alto che in basso? O quella senza nessuna faccia? Né sopracciglia, né occhi, né naso né labbra, solo una circonferenza di capelli e uno spazio vuoto di carne interrotto da una sottile fessura che non poteva definirsi una bocca, perché non c’erano labbra, e rimaneva aperta in una flaccida O, da cui un rivoletto di saliva colava fra i seni.

— Sono gemelle siamesi — sussurrò la puttana di Orem, trascinandolo via. Anche se non sopportava l’idea di guardare le donne, Orem rimase fermo. Lei tirò più forte, e lui si staccò dalla porta. — Gemelle siamesi. Nate in una casa nobile, dicono, e hanno avuto i migliori medici e i migliori maghi, per non parlare dei preti che le hanno tanto benedette che per poco non gli spuntavano le ali. Le hanno separate. Gemelle siamesi, unite nella faccia, solo che una guardava un po’ di fianco, perciò aveva un occhio, mezza bocca e mezzo naso, e l’altra niente, a parte un piccolo buco che le faceva arrivare l’aria dalla bocca dell’altra. Hanno allargato il buco. Le benedizioni hanno funzionato, perché sono sopravvissute. E gli incantesimi hanno funzionato anche quelli, perché la pelle è cresciuta sulle ferite. Ma cosa c’era per loro? E qual è la più disgraziata, secondo te? Quella che non può vedere? O quella che conosce gli specchi? Le chiamano le Dolci Sorelle. Una battuta.

Orem non aveva mai conosciuto una donna che potesse scherzare sulle Dolci Sorelle.

La puttana aprì una porticina, e si chinò per entrare. Anche Orem si chinò, ma batté lo stesso la testa. — C’è il soffitto basso — disse lei.

La donna si tolse la camicia dalle spalle; i seni le salirono, poi ballonzolarono giù quando abbassò le braccia. Orem vide, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era la faccia floscia con il buco colante. La puttana lo svestì, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era il singolo occhio, il naso storto, la mezza bocca. La puttana lo accarezzò e lo baciò, ma non servì a niente; si sdraiò sul sottile tappeto che copriva il pavimento, impotente, freddo e tremante. Qualsiasi cosa avesse voluto mentre saliva le scale, la puttana non ebbe nulla di lui, perché aveva visto le gemelle siamesi che un tempo erano state unite per la faccia, e non poteva pensare a nient’altro.

— Quindici anni? — disse la puttana con disprezzo. — Potrebbero essere anche cinque. Cosa pensavi di infilarci qui, il ginocchio? Sa Dio se non è magro abbastanza da starci. Hai le palle di un topo e l’uccello di una pulce, ecco cos’hai, perciò non dire che è colpa mia, sono ancora carina, non ti ho mica sentito dire che ero brutta, giù in strada, vero? — Si vestì in fretta, poi si interruppe e prese quattro monete da dove Orem le aveva lasciate, sul pavimento. — Paghi per il mio tempo… non è colpa mia se non lo usi. E sei fortunato che non prendo anche l’altra, per l’offesa. — Sputò sul suo perizoma, che giaceva vuoto e patetico sul pavimento, poi lo calpestò. — Questo e una pisciata è tutto quello che troverai nelle tue mutande, la mattina. Trovati da solo la strada per uscire, uccello-moscio. Quando avrai dieci anni ritorna e vedremo cosa si potrà fare. — E se ne andò.


Unite per la faccia

Rosso di vergogna, Orem cercò di ripulire le mutande dallo sputo con la camicia. È così che sarebbe cominciata la sua poesia?

Si vestì e uscì nel piccolo corridoio buio. Immediatamente vide il rettangolo di parete illuminato dalla porta dove i mostri detti Dolci Sorelle attendevano il suo passaggio. Era contemporaneamente attirato e terrorizzato da loro. Avanzò cautamente, con le ginocchia che gli tremavano, inciampò, si appoggiò a una parete. Più si sforzava di essere silenzioso, più faceva rumore.

— Chi è? — disse una voce sottile, acuta e tremante.

Orem rimase in silenzio, inginocchiandosi sul pavimento del corridoio buio. Non uscite a cercarmi. Restate dove siete, dormite, morite. Lasciatemi passare.

— Rispondi. Se non rispondi mia sorella si arrabbia.

L’ultima cosa che Orem voleva era fare arrabbiare una sorella. Nel nome di Dio, pregò silenziosamente, non arrabbiarti con me. — Sono caduto — disse.

— La voce di un bambino, sì? La voce di un bambino goffo, sì? La voce di un bambino che ha pagato quattro denari e non ha avuto in cambio niente. Ma pensa, pensa: non ti ha neppure preso nulla. Per la modica somma di quattro denari, sei ancora come un lago non prosciugato da alcun torrente. — Si sentì una risatina, che fece arrabbiare Orem. La sua puttana aveva gridato troppo: conoscevano il suo fallimento.

— Entra — disse la voce.

— No.

— Devo venire a prenderti? — Orem si alzò in piedi, sentendosi molto debole, e avanzò; giunto alla porta si girò. Il singolo occhio di una delle facce lo guardava, ma se distoglieva gli occhi, l’unico punto dove guardare era l’altra, la pelle vuota, il rivoletto ininterrotto di saliva. Si sforzò di guardare la stanza. C’era una sola sedia, oltre a quelle in cui sedevano le due, vecchia e cadente. C’era un piccolo telaio, con una pezza di stoffa mezzo finita, piena di buchi e ammuffita, e il telaio era coperto di ragnatele e di polvere. Poi c’era il tappeto, proprio come quello su cui si era sdraiato impotente, nella stanza vicina: solo che questo brillava nella luce, e Orem si rese conto che era stato intrecciato con fili d’oro.

— Siediti.

Non provò neppure la sedia, e sedette sul pavimento.

— Quattro denari. Ne valeva la pena, per vedere due tette cadenti? — C’era un sorriso sulla sua faccia deforme? — È una vecchia megera in calore… devi essere appena arrivato in città, per non saperlo. — La donna con un solo occhio guardò la sua placida sorella. — Quanti anni credi che abbia?

Con orrore di Orem, la bocca senza labbra cercò di rispondere. Era un lamento, un lamento modulato, come una canzone di dolore, e la sorella con un solo occhio annuì. — Sì, quindici anni, ma è magro di corpo. Mia sorella dice che la tua volontà è di pietra… Puoi andare in frantumi sotto il martello, ma molto tempo dopo che il martello sarà stato ridotto in polvere dalla ruggine, tu resterai. Non è bello? Come ti chiami?

— Orem. — Non aveva ancora imparato a mentire.

— Orem, rivuoi i tuoi quattro denari?

Non gli era venuto in mente che fosse possibile. — Sì.

— Allora devi intrattenerci.

— Come?

— Raccontaci la storia delle due sorelle siamesi e unite per la faccia che grazie alla magia e alle preghiere e alla chirurgia, vennero separate: una con un solo occhio e l’altra senza faccia, tranne un buco per la bocca che le lascia scendere un rivoletto di saliva fra i seni e fino alla pancia.

— Io… io non… non posso raccontarvi questa storia.

— Oh, noi non ci crederemo, stai tranquillo. Cose simili non possono accadere. Dicci cosa fanno queste povere donne nel bordello.

— Siedono… in una stanza, all’ultimo piano.

— E cosa fanno queste donne sedute?

— Ascoltano.

— E cosa credi che sentano?

— I rumori di… di…

— Dell’amore?

Orem annuì. La sorella con un solo occhio scosse la testa.

— Non l’amore — disse Orem.

— Cosa allora?

— Il rumore… degli uccelli.

— Sì, uccelli. E oltre agli uccelli cosa?

Che rumore c’era oltre agli uccelli? Che significato aveva quel racconto? — Il rumore del vento sul tetto della casa.

La sorella senza faccia emise il suo lamento, e l’altra scoppiò a ridere. — Sì, lui sa, lui sa; lui ha molte molte orecchie dentro la sua testa, sì, e cos’altro sentono?

Orem cominciava a capire. Era un gioco, come gli indovinelli dei manoscritti. — Il rumore del sole che si leva e tramonta. Il rumore delle stelle che passano in cielo. Il rumore di Dio che chiude gli occhi sul mondo. Il rumore del Cervo che scuote la testa e lancia i pianeti.

L’unico occhio si spalancò; il buco della bocca cessò enfaticamente di sbavare, per un momento, cosicché il filo di saliva si interruppe e la parte superiore del filo venne risucchiata nella bocca come il corpo di un ragno penzolante.

— La bocca si apre e parla — disse la sorella dall’unico occhio.

— Nnnnnnnng — disse l’altra.

— Siamo legate con la magia — disse quella con un solo occhio. — Tuttavia lui parla con le nostre lingue. Bella ci ha ridotte al silenzio, eppure i nostri doni vengono dalla bocca del ragazzo. Oh, Cervo, tu sei più astuto di noi.

— Cosa significa? — chiese Orem.

— Niente: dimentica, dimentica, non dire a nessuno ciò che hai visto, perché non è un favore, tu sei solo un normale ragazzo.

Il suo stomaco si contrasse per la paura, alla forza delle loro parole.

— Anche noi siamo puttane, lo sapevi? Abbiamo lasciato la casa di nostro padre e siamo venute qui perché sapevamo che senza facce avevamo solo i nostri corpi. Lo sai quanto costa prenderci? Mille scudi o cento ettari di terra coltivata. Per una sola notte. E siamo occupate venti notti all’anno. Oh, siamo ricche, siamo sorelle siamesi, sorelle di bellezza. Siamo benedette. E non tutti quelli che vengono da noi sono uomini. Ci sono donne che vengono e passano la notte a esplorarci, cercando di scoprire cosa ci rende così belle. Non riescono a indovinarlo. Ma tu sai, vero?

— No. Non lo so.

— Bene. Non puoi saperlo se pensi di saperlo. Noi sentiamo altre cose, ascoltiamo altre cose, non solo le stelle. Non solo i battiti del cuore del grande Cervo dalle mille corna, che tiene i mondi sulla punta delle sue corna. Non solo le grandi eruzioni del sole che eiacula i suoi fiotti di luce per inseminare il mondo. Anche questo sentiamo.

E si interruppe.

E dopo un lungo, lungo silenzio, durante il quale Orem udì soltanto il proprio respiro pesante, aggiunse: — Anche tu l’hai sentito?

— No.

— Ecco perché pagano tanto per averci.

Quella dall’occhio aprì un piccolo scrigno, vicino a lei. Era pieno di gioielli che brillavano alla luce delle torce come mille piccoli fuochi.

E quella la cui faccia era tutta uguale come una nebbia, si alzò e fece un movimento con la mano. Di colpo fu nuda, e la sua faccia splendeva come il sole stesso; non c’era un solo pelo sul suo corpo, la sua pelle era profonda come l’ambra, ed era così bella che Orem non poté impedire ai suoi occhi di riempirsi di lacrime, tanto che non riuscì più a vedere.

— E come pensavo — disse quella che poteva parlare. — I suoi occhi non possono chiudersi se non per il pianto e per la fiducia.

La donna senza faccia era tornata a sedersi, d’improvviso come si era alzata; come aveva potuto rivestirsi così rapidamente?

— Hunnnnnng — disse. — Ngiiiiunh.

— Quattro denari — dice mia sorella — e un bacio.

Non fu per i soldi che le baciò, ma per la paura. Baciò le loro bocche, quali erano, e le monete gli caddero nelle mani, e fuggì dalla stanza.

Mentre correva lungo la Strada delle Puttane, poté sentire per la prima volta nella sua vita il canto che sua madre aveva più amato: il sibilo incessante della linfa che saliva negli alberi, il canto della capillarità. Ah, era meraviglioso, e pianse fino a quando la saliva della donna dalla faccia di nebbia non si fu asciugata sulle sue labbra.

Un letto al Badile e alla Fossa costava solo un denaro per due notti, non tanto come aveva temuto. Rimase sdraiato per qualche tempo con le mani fra le gambe, a causa del grande dolore alla base della pancia. Poteva sentire la linfa scorrere anche dentro di lui. Perché sono venuto a Inwit? gridò a se stesso. Ma sapeva che la domanda stessa era una bugia. Non era venuto. C’era stato spinto.

Ecco perché Orem era vergine quando Bella ebbe bisogno di lui.

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