16 IL SAPORE DELLA FORZA

Come Orem seppe della morte che rosicchiava il cuore del mondo.

Nella casa del mago

Come tutti i maghi di Inwit, a quel tempo, Vetro-di-Forca abitava nella Via dei Maghi. La sua casa aveva un’apparenza normale e modesta, vista dall’esterno. L’unico segno distintivo era un ferro di cavallo appeso a un chiodo, poiché una volta era stata la casa di un fabbro. I cardini erano talmente consumati che le porte parevano appoggiarsi più che chiudersi, e un’imposta sbatteva al vento che soffiava lungo la strada. Sulla veranda c’era della polvere che pareva lì da anni. Tuttavia il mago non sembrò notare niente di strano mentre saliva i gradini, afferrava una porta e la spostava.

— Entra, entra — sussurrò. Orem entrò, chinando la testa per evitare una pesante ragnatela il cui proprietario non gradì molto l’intrusione. Era buio dentro, e divenne ancora più buio quando il mago entrò e chiuse la porta.

— Lampada, lampada — disse, cercando nel buio.

— Cos’è questo posto?

— Il celeste focolare, il letto gentile, il conforto del cuore. In una parola, il mio domicilio.

Vetro-di-Forca trovò un fiammifero. Lo strofinò una volta, due; non voleva accendersi. I fiammiferi avevano un incantesimo dentro, tutti lo sapevano, e adesso Orem capì perché sua madre lo mandava fuori di casa ogni volta che doveva accendere il fuoco della cucina. Vetro-di-Forca mise giù i fiammiferi. — Dobbiamo proprio insegnarti in fretta.

Accese una fiamma senza magia. — Pietra e acciarino, dove siete? Eccoli. — Vetro-di-Forca era molto meno abile di Braisy. Finalmente ci fu una scintilla e una fiammella, ma non con la lana, bensì con un pezzo di carta. Bruciare la carta era una cosa che Orem non aveva mai visto fare prima. La carta era troppo preziosa, nella Casa di Dio a Banningside. Tuttavia ardeva, e Orem si guardò intorno mentre Vetro-di-Forca accendeva la lampada.

Era una stanza piccola e piena di roba ammassata in disordine su mensole curve contro le pareti, accumulata per terra e sui gradini della scaletta ripida che portava alla stanza di sopra. Contro una parete c’erano tre grossi barili, senza alcuna scritta, ma umidi e coperti di muschio. E su tutto, uno spesso strato di polvere.

— Non potevi trovare un posto migliore? — chiese Orem.

Vetro-di-Forca lo guardò infastidito. — Di solito non ha questo aspetto. Ma ci sei tu, così dovrò fare a meno dei miei normali mobili, per un po’. — Mentre diceva queste parole, la lampada si spense. — Accidenti, ragazzo, perché non vai di sopra, così posso accenderla come si deve?

Orem trovò le scale, nel buio, e salì fra le ragnatele. Poi ascoltò Vetro-di-Forca che armeggiava di sotto. Ben presto si sentì un fuoco crepitare, anche se non c’era stato un focolare nella stanza, prima. E poté sentire Vetro-di-Forca andare da una stanza all’altra, aprendo e chiudendo le porte, anche se prima c’era stata solo quella stanza. Con la magia quel posto si trasformava in un palazzo. Con un Pozzo diventava una catapecchia. Il mago non si era mai occupato delle faccende domestiche, con la magia ad aiutarlo.

Poi sentì la voce di Vetro-di-Forca. — Non ho potuto farne a meno — disse il mago lamentosamente. Ci fu un sussurro in risposta? Nessuno era entrato con loro. Orem aspettò, con le orecchie tese, e alla fine, dopo un tempo che gli parve di ore, divenne impaziente.

— Vetro-di-Forca!

— Non scendere le scale o ti rompo la testa!

— Non sto scendendo! Non mi sono mosso!

— Bene! È la sola cosa che ti faccia restare vivo!

— Ho fame! È buio quassù!

Di sotto si sentì il coperchio di una botte che veniva chiuso con una mazza. Poi Orem sentì i passi del mago che salivano le scale. Dapprima come se ci fosse un tappeto, poi di colpo si sentì la suola delle scarpe sul legno nudo. — Che le ossa dei tuoi antenati marciscano. — La voce era bassa, ma chiaramente udibile, perché la testa del vecchio mago stava sbucando nella stanza. Sollevò la lampada, per far luce nella piccola stanza.

— Che schifo! — disse il mago.

Orem si disse silenziosamente d’accordo. Sporca, disordinata, odorante di marciume, era peggio delle stanze del Badile e della Fossa.

— Ecco — disse Vetro-di-Forca. — Gli porse un piatto con del pane secco.

— È tutta qui la mia cena?

— Era colomba arrosto quando l’ho preparata, di sotto. Non posso farci niente se tu la riduci così.

— Neanch’io posso farci niente — disse Orem. — Ma non posso vivere di pane secco.

— Allora impara in fretta — disse il mago. — Ero pronto ai pericoli di averti con me, ma non agli inconvenienti! — Vetro-di-Forca frugò fra il ciarpame e tirò fuori una branda con uno strappo in mezzo alla tela. — È quanto di meglio posso offrirti. — Devi accontentarti, fino a quando non avrai imparato.

— Sarebbe il mio letto?

— Finché non avrai imparato, maledetto impiastro! Non lamentarti, quando la colpa è tua!

— Allora insegnami! — ribatté Orem.

— Non posso insegnarti così! — e il mago fece schioccare le dita davanti alla faccia di Orem. — Posso solo suggerire, reagire, informare… tu devi imparare. E dentro di te, una volta che avrai imparato a riconoscerlo e a controllarlo. Come faccio a insegnarti? Non sono mai stato un Pozzo, io.

— Qualsiasi cosa ci sia da fare, cominciamo subito — disse Orem.

— Che tono, il piccolo bastardo!

— Ho solo fame.

Il mago lo fece stendere sul pavimento, con un pezzo di tela arrotolato sotto la testa. Poi una serie di strani ordini, a voce bassa: Allunga le dita, chiudi gli occhi, e dimmi il colore dell’aria sopra la tua testa. Cerca di sentire il rumore della mia barba che cresce. Sì, ascolta, allunga le dita; cerca di sentire il sapore del sudore dentro gli occhi.

Orem non ci capiva niente. — Non posso — mormorò.

Il mago non gli badò, e proseguì: — Stai dormendo, mentre mi ascolti, dormendo finché pensi di essere sveglio, sveglio solo quando scopri il tuo sonno. Senti l’aria diventare più calda, sentila sulla nuca, guarda il sole splendere, guardalo con il punto morbido dietro il ginocchio, sì, hai un occhio segreto lì, guarda com’è bianco.

C’era qualcosa di impellente nel ritmo delle sue parole, nella cadenza, che a volte sembravano una preghiera, a volte una canzone, a volte l’abbaiare di un cane infuriato. I sensi di Orem divennero confusi. Smise di vedere attraverso gli occhi, e tuttavia era ancora consapevole di vedere, o qualcosa del genere. Un grigiore attorno a lui, come la nebbia del giorno prima. Poteva udire lo scorrere del tempo. Non avvertiva più dentro di sé dove erano le dita, ma piuttosto le gustava, e la lingua gli bruciava nella bocca, poi era di ghiaccio, poi si raggrinzì e rimpicciolì finché non perse il filo di ciò che era la bocca, ciò che era la lingua, e perfino di ciò che era Orem.

Cercò di parlare e il suo ginocchio si piegò, e lo sentì come un lampo di luce nello stomaco. Cercò di muovere la mano e dalla sua gola uscì un ronzio acuto, ma lo percepì come un grande peso che gli schiacciava i testicoli, e pianse per il dolore.

Poi qualcosa, qualche comando che impartì senza saperlo, fece flettere tutta la nebbia grigia attorno a lui. Una rapida contrazione. Non seppe cosa aveva fatto, ma ecco! Ancora, e ancora. Come spasmi, ma imparò a flettere il grigio, più volte, lo tirò a sé, ne sostenne la pressione. Scivolò via, si afflosciò, Orem si stancò e avvertì la stanchezza come un verde scuro nelle sue cosce, ma sapeva che questo era quello che si voleva da lui. Prendilo, tiralo dentro, stringilo, stringilo e stringilo.

E adesso poteva aprire gli occhi e vedere: non un vecchio che teneva una debole lampada in una istanza sporca, ma un giovane, biondo e bello, l’uomo che il padre di Orem avrebbe voluto che lui diventasse: alto e forte, e non aveva una lampada in mano, ma una stella scintillante. La stanza non era sporca e piccola; era steso in un letto in una stanza dalle pareti ricoperte di mogano scuro, intagliato, e da tappezzerie in broccato, e il giovane alto e biondo lo guardava con diamanti nelle pupille degli occhi.

— Questa è la mia casa, Orem, quando me lo permetti — disse il giovane con la stella e gli occhi di diamante.

E poi fu troppo per lui, e Orem sentì qualcosa rompersi dentro di sé, e il grigio sgorgò da lui e i suoi sensi volarono pazzamente per la stanza, e nell’interno della sua mente. Si contorse sulla sua miserabile brandina, finché si sentì come un ragno che chiudeva le zampe, esausto, circondato nuovamente dalla sporcizia. Il vecchio annuì. — Niente male, per essere la prima lezione. Migliorerai col tempo. Se sopravvivi.

Diventò più bravo e più forte, finché dopo qualche settimana fu in grado di tenere la nebbia dentro la sua pelle, mentre era sveglio, con grande sollievo del mago. Adesso potevano mangiare insieme. E dopo due mesi la cosa era diventata automatica, e riusciva a controllarla anche durante il sonno. Tranne di tanto in tanto, quando gli sfuggiva e si ritrovava steso sulla brandina invece che sul suo morbido letto. Disse a Vetro-di-Forca di queste ricadute. Il mago alzò le spalle, e i suoi occhi di diamante brillarono. — Anche tu ti facevi la pipì addosso, quando eri piccolo.


Le donne del mago

— Vedo che i miei barili di sottaceti attirano i tuoi occhi — disse il mago mentre leggevano nella biblioteca, una sera.

— Ti devono piacere molto… i sottaceti — disse Orem esitando.

Vetro-di-Forca sorrise, con il suo sorriso splendido. Poi aprì un coperchio con il piede di porco che era appoggiato sull’ultimo barile.

— È la cosa che mi piace di più al mondo — disse il mago. — È non sono mantenuti con la magia, per niente. Perciò non si sono rovinati quando sei entrato in così malo modo, mandando tutto all’aria. Sono soltanto quello che sembrano. — Il coperchio si sollevò, con un risucchio di acqua. Orem si alzò per guardare. Non erano cetrioli quelli che galleggiavano nel liquido, né cipolline, e neppure, come era sembrato in un primo momento, un singolo cavolfiore. Il mago allungò una mano, afferrò una manciata di capelli, e tirò su la testa raggrinzita di una donna.

Testa, collo e spalle nude. Le palpebre pendevano flosce, la bocca era aperta, la pelle era rugosa come uva secca vecchia di cento anni, e bianca. Bianca come un uovo di Dardo, bianca come l’occhio di un pesce cieco delle caverne di Watermount.

— Il mio amore, la mia vita, il mio tesoro, mia moglie. La più amata di tutte le donne. La polvere nella borsa alla mia cintura, la polvere del suo sangue, ecco… un pizzico, solo un pizzico, e guarda, guarda. — La polvere nerastra scivolò dalle dita di Vetro-di-Forca, e Orem vide il corpo rabbrividire sotto la mano del mago. Le palpebre tremarono, si alzarono pigramente.

— Nn — disse il corpo.

— Mia signora — disse Gallowglass.

— Nnnn.

— Ho un apprendista, adesso, che vuole vederti.

— Nnnn.

— È un ragazzo sveglio, a modo suo. Non conosce le buona maniere, mangia come un maiale e puzza peggio, e non c’è altro rimedio che un bagno, perché respinge gli incantesimi come il grasso respinge la pioggia. Ma ha buon cuore. Pensi che sarebbe commosso dalla tua storia, amore mio?

La voce era ancora un lamento, ma Orem si accorse che la lingua articolava fiaccamente delle parole. — Lasciami dormire — aveva forse detto. Oppure: — Lasciami morire. — Era difficile capire. Vetro-di-Forca si limitò ad annuire.

— È stato lungo il viaggio, e faticoso, vero amore? E tuttavia, malgrado la strada sia lunga, sai che ti amo. Questo deve essere un conforto per te, nella tua morte, come è un conforto per me avere la tua compagnia.

— Nnnn — disse la testa sottaceto. Un getto di bile le uscì dalla bocca, poi la testa si afflosciò. Delicatamente il mago la rimise nel barile. Quando si voltò verso Orem, i suoi occhi erano smeraldi, verdi come il muschio cresciuto sui barili.

— Ti ho detto che sono il più grande dei maghi di Inwit? È vero, ma non è un grande onore. Credi che la Regina Bella mi lascerebbe restare se fossi potente? Un mago potente non lascia che sua moglie e le sue figlie muoiano di una ridicola malattia. Non le guarda consumarsi giorno dopo giorno. Un mago potente non ha il cuore così molle da lasciarle morire con il loro sangue. Sleeve non avrebbe visto le loro morti, e con calma avrebbe preso il loro sangue vivo, con la forza ancora calda. Ma io ho aspettato come una strega, e l’ho preso freddo, l’ho preso morto, sangue trovato. L’ho ridotto in polvere, con la poca forza che basta per riportarle indietro, di tanto in tanto, e parlare con loro. — Le lacrime scorsero lungo le sue guance. — Mi viene da piangere, ma non nasconderò il mio cuore al mio discepolo. Oh, Fianchi-Magri; ragazzo mio, mia moglie era la più bella delle signore della forza, a parte Bella, mia moglie era deliziosa, e la sua bellezza non diminuì anche quando venne divisa fra le mie figlie. Guardale!

Vetro-di-Forca tolse il coperchio agli altri barili, e sollevò le figlie, e Orem guardò anche se non aveva alcuna voglia di vedere.

— Guarda la curva dei seni… adesso sono cadenti, ma puoi immaginarla!

Orem non poteva, ma mormorò il suo assenso. Ai suoi occhi le figlie erano vecchie quanto la madre, perché quello che non avevano fatto gli anni l’aveva fatto la salamoia.

— Capelli d’oro, e sua sorella neri, come il giorno e la notte che camminassero per la città. Non le ho toccate con nessun incantesimo per renderle belle… era in loro, era loro. E gli uomini che non me le chiedevano in moglie! Ma io le avevo riservate a un amante migliore di qualsiasi uomo. — Ancora una volta le lacrime brillanti sgorgarono dagli occhi di smeraldo. — Le avevo riservate per la Morte, che avanzando a piccoli passi le sedusse mentre io guardavo impotente. Le raggrinzì, le consumò davanti ai miei occhi. Ma io ho abbastanza potere per risvegliarle. Posso riportarle indietro. Tu l’hai visto!

— Sì — disse Orem.

— Oh, per le sorelle, per il Cervo, per il dannato Dio che ha spezzato il nostro potere e ci ha legato le mani, se solo io sapessi ciò che sapevano i maestri! Ho ucciso il cervo nella torre perché i miei competitori vedessero la carcassa per indurli a pensare che io abbia più forza di loro. Ma non so cosa fare di quel sangue, se non sciocchi trucchi di invisibilità, e questo si può anche fare con le pecore! Verso il sangue del cervo, e cosa ottengo? Una nuova prova della mia debolezza. — Chiuse i barili, batté con la mazza sui coperchi. — La mia vita è qui dentro, raggrinzita con la salamoia. Ma con i tuoi doni sarò il più potente di Speranza del Cervo, il più grande di tutti. E tuttavia… — Andò verso la scala, dicendo tra sé: — Il più potente di tutti, e tuttavia troppo debole, troppo debole, non ho potuto salvarle.

Quella notte Orem non dormì a lungo. Si svegliò agitato, e si trovò nella branda, non nella stanza di mogano. Nel sogno, la testa in salamoia della moglie del mago l’aveva chiamato, e lui era andato da lei perché non poteva rifiutarsi.

C’era una debole luce nella biblioteca. Veniva dalla muffa verde che ricopriva i barili. Si sedette su una pila di cianfrusaglie, nella stanza sporca e priva di magia. Osservò.

Fu il barile che conteneva la moglie che tremò per primo; poi gli altri, come se i cadaveri al loro interno avessero delle silenziose convulsioni e scuotessero i barili, agitando l’acqua. Poi un coperchio saltò via rumorosamente; un altro si spezzò a metà; il terzo venne risucchiato nel barile, e l’acqua lo coperse mentre veniva attirato dentro.

Nel sogno Orem non avvertiva alcun segno di pericolo, ma aveva paura. Le cose morte dovevano starsene ferme, tutti lo sapevano. Ma quando i morti chiamano, solo uno sciocco si rifiuta di ascoltarli. Così rimase e vide una mano uscire da un barile, da due, da tutti e tre: mani dalle lunghe dita, con rivoli di luce verde che scendevano lentamente, come bruchi, lungo i polsi.

— Non fatemi male — sussurrò Orem.

D’improvviso tutte le mani puntarono verso di lui. Orem boccheggiò, chiamò a raccolta il suo potere di negazione per fermarle. Ma quella non era una magia; non la magia legata al sangue che un Pozzo può inghiottire. Le mani rimasero indifferenti ai suoi sforzi più intensi. Si piegarono sotto il bordo dei barili, e con un dito ciascuna cominciarono a scrivere sulla muffa. Orem poté leggere le linee scure sulla muffa luminescente, ciascuna donna la sua parola, ciascuna tremando, come se una forza incontenibile le controllasse.

“Sorella” scrisse la moglie.

“Dio” scrisse la figlia dai capelli neri.

“Corno” scrisse la figlia dai capelli biondi.

Poi più in fretta, mentre le mani diventavano più sicure.


Sorella Dio Corno

Puttana Schiavo Pietra

Tu Tu Tu

Devi Devi Devi

Vedere Servire Salvare


Poi le mani tremarono violentemente, si alzarono nell’aria e si rituffarono nell’acqua, tornarono a uscire, ma vennero risucchiate di nuovo, come se cercassero di scrivere ancora, o addirittura di lasciare le botti, e qualcosa glielo impedisse con la forza. La volontà di scrivere ebbe il sopravvento: le dita tracciarono in lettere appena leggibili parole che avevano un significato solo insieme.


Lascia ci morire


Era finita; le mani si rituffarono nell’acqua; i coperchi tornarono al loro posto; quello spezzato parve tornare integro chiudendosi. La muffa perse la sua luminescenza, le ultime lettere delle ultime parole svanirono in un nerume uniforme. Orem corse di sopra.


Sorella puttana tu devi vedere.

Dio schiavo tu devi servire.

Corno pietra tu devi salvare.

Lasciaci morire.


Non capiva nulla, e giacque fra la veglia e il sonno tutta la notte, cercando di capire, cercando di non pensare. Se l’ultimo messaggio era delle donne del mago, che parlavano per se stesse, allora il primo messaggio di chi era? Ma aveva davvero un significato? Chi poteva sollevare le mani dei morti, anche quando la forza di un Pozzo aveva rubato tutta la magia?

Soltanto alle prime luci dell’alba pensò di fare la cosa più ovvia, più istintiva: sommò le parole verso l’alto, verso il basso, da destra a sinistra e da sinistra a destra. La somma delle colonne verso l’alto era Palicrovol. Quella verso il basso Bella. E in qualunque senso venissero addizionate le righe, davano sempre il medesimo risultato: Dai tutto, prendi niente.


Beffe

Per tutto l’inverno e per tutta la primavera, Orem imparò a usare i suoi nuovi sensi. Non aveva parole per descrivere, anche a se stesso, ciò che sentiva, perciò adattò le parole che aveva. Quando me lo descrisse, era un racconto di lingua e di gusto, punzecchiature e bastonate, anche se per tutto il tempo giaceva immobile come un morto sulla branda.

Verso la fine della primavera Vetro-di-Forca decise che era pronto per guadagnarsi il vitto e l’alloggio. Perciò Orem cominciò a estendere i propri sensi lungo la Via dei Maghi. Percepì le magie degli altri maghi come piccoli fuochi, alcuni molto caldi, altri che si andavano raffreddando, a seconda della loro forza. E lui ne assaggiò alcuni, o ne pizzicò altri, o qualche altra parola inadatta che descriva quello che fece, e tutta la forza guadagnata col sangue svanì.

Fin dall’inizio l’esperimento fu un successo.

— Orem! Mio Fianchi-Magri! Avresti dovuto sentire i lamenti! Per tutta la Via dei Maghi! Due case tenute su dalla magia sono crollate. Un vecchio mago che teneva in funzione il corno con incantesimi ha ricevuto una tale umiliazione che non andrà nella Via delle Puttane per qualche anno. E non potranno mai sapere se un incantesimo funzionerà o no. I topi e le pecore che hanno versato invano il loro sangue in tutti questi anni… Ah, se tu potessi sentire i pianti di quei tangheri! Nelle taverne dove ci troviamo noi maghi io ascolto, mi lamento come gli altri. Qualche volta pensano che siano gli Uomini di Dio, che hanno scoperto qualche terribile incantesimo. E qualche volta pensano che sia la Regina, che li sta rimettendo al loro posto, anche se è passato molto tempo da quando si è data pensiero dei nostri miseri poteri. Alcuni pensano che siano le Dolci Sorelle, e che è ora che le donne prendano il loro posto fra i poteri del mondo. Nessuno di loro sospetta, nessuno immagina, che qui, nella mia miserabile sporca bottega di fabbro che uso come casa, ho trovato e addestrato un Pozzo!

— Ha funzionato, allora? — chiese Orem.

— In un certo modo. C’è stato un tentativo di assassinio alla Grande Borsa, un omicidio ben pagato… Sei stato tu a mandarlo a monte?

— Non so. C’era qualcosa, lontano. Non posso distinguere tutto.

— Era veleno. Tu gli hai tolto il potere, ma il sapore è rimasto. Per fortuna l’assassino si è ucciso prima di denunciare il mandante… Un tipo fedele alla parola, una cosa rara di questi tempi. Ma c’è stato un mago che ha visto in faccia la morte per alcuni istanti, te lo dico io.

— E chi era?

— Io. Devi imparare a distinguere fra le mie magie e quelle degli altri, o sarà un guaio.

E così passarono in rassegna tutto quello che Orem aveva fatto, e Vetro-di-Forca gli mostrò tutti i suoi incantesimi e i suoi poteri, e Orem poco alla volta imparò a distinguere la fiamma di un mago da quella di un altro dal sapore, dal tatto, dal colore.

Fu così che conobbe dapprima la Regina Bella dalla sua magia.


Come Orem ingaggiò per la prima volta battaglia con la Regina

Era la fine dell’autunno, e Orem vagava in lungo e in largo, seguendo i suoi sensi dove lo conducevano. Sapeva grazie a essi quali punti di luce erano uomini e quali donne; aveva imparato la differenza fra il bianco di un uomo sveglio e l’argento brillante di un’anima addormentata. Imparò anche che le cose fatte in un posto vi indugiavano anche dopo che gli uomini se ne erano andati, e così poteva gustare una lunga e appassionata storia d’amore e dire quando l’accoppiamento era solo comprato, poteva odorare la differenza fra una casa in cui c’era amore e una in cui c’era odio, poteva percepire nel terreno che tipo di uomo era passato attraverso una certa porta. C’erano i fuochi dei maghi, le cui opere adesso riconosceva facilmente; c’erano le pozze di acqua amara dove gli Uomini di Dio erigevano isole fra la dolcezza circostante. Orem poteva seguire la vita del mondo come se fosse una mappa aperta davanti a lui. Sconfiggeva gli altri maghi con tale facilità che non c’era più nessun divertimento. Fu la noia, in una fredda sera d’autunno, che lo spinse a cercare Re Palicrovol. Era un gioco, per vedere se riusciva, in piccolo, a uguagliare la Vista della Regina.

Cominciò col trovare il fiume e a seguirlo lungo il suo corso, indagando ciascun puntino mentale che rappresentava un contadino che scendeva lungo la corrente. Cercò a lungo prima di giungere alla prima città. Solo allora si rese conto di quanto fosse vasta Burland. Aveva vissuto tròppo a lungo dentro Inwit, e aveva cominciato a pensare come troppi dei suoi cittadini pensavano: che Inwit fosse almeno la metà del mondo, e tutto quello che era fuori fosse piccolo e vicino. Invece era lontano, e se continuava a cercare lungo il fiume con quel passo, ci avrebbe messo una settimana per arrivare a Banningside.

Perciò si alzò nell’aria, per vedere se riusciva a percepire come un uccello, dall’alto. Mentre saliva, il mare di dolcezza in cui si era sempre mosso d’improvviso cessò, e in luogo dell’oscura visione e dei vaghi odori che era solito percepire, gli sembrò di poter sentire tutte le cose, per sempre. Tranne che ogni volta che scendeva tornava la dolcezza, come la nebbia della città, che lo faceva rallentare e oscurava la sua vista.

Cercò di capire cosa potesse essere, si chiese se c’era una sorta di cappa nell’aria, oppure se dove iniziavano le nuvole la sua visione magica migliorava. Ma la dolcezza era troppo bassa, non si levava mai oltre l’altezza degli edifici più alti… e d’improvviso Orem capì. Il dolce mare di nebbia non era affatto naturale. Era l’Occhio della Regina. Era la sua magia, che pervadeva ogni cosa. Naturalmente lei non si preoccupava di mantenerla al di sopra del livello a cui poteva giungere un uomo. Erano gli uomini che lei voleva spiare.

Vede anche me? Oppure un Pozzo divora anche la magia della Regina Bella? Audacemente si tuffò nella nebbia dolce e invece di muoversi dentro di essa, l’assaggiò come assaggiava i fuochi dei maghi. Non aveva un centro, nessun luogo più potente da spegnere, ma Orem scoprì che poteva facilmente cancellarne ampi tratti, come se cancellasse del gesso da una lavagna, senza nessuno sforzo, e ciò che ripuliva restava pulito.

Dapprima fu allarmato per ciò che aveva fatto. Senza dubbio la Regina si sarebbe accorta della falla nella sua Vista, e sarebbe venuta a cercarlo. Ma mentre giaceva sul suo letto, sentendosi un po’ male per la paura, si rese conto che se poteva bloccare la sua Vista a molte miglia da Inwit, poteva bloccarla anche lì. E così fece, eliminando la nebbia dolce dalla Via dei Maghi, e dai bordi dell’isola amara del Grande Tempio, e anche da altri luòghi, in maniera che non potesse individuare in una falla la residenza del suo nemico.

Nemico? Sono dunque nemico della Regina Bella?

Ricordò Palicrovol, che lo guardava con occhi d’oro dalla Casa di Dio a Banningside. Era stato lui, o forse qualche dio, a chiamare Orem in quel momento, perché potesse fare proprio quello che stava facendo, accecare la Regina? Non aveva mai sentito parlare di un mago che avesse osato sfidare la sua Vista; non aveva mai neppure sentito di un mago che capisse come funzionava. Per la prima volta venne in mente a Orem che il suo potere come Pozzo poteva essergli stato dato non per farsi beffe degli altri maghi di Inwit, ma per sfidare la Regina Bella in persona. Suo padre l’aveva trovato mentre giocava ai soldati nella polvere, un gioco da bambini… ma non poteva servire adesso Re Palicrovol come nessun altro avrebbe potuto servirlo? Non poteva bloccare il potere della Regina di rendere codardi i suoi uomini, e permettere al suo esercito di assalire una città indifesa?

Orem si mise a cercare Palicrovol con foga, volando sopra la nuvola di Bella finché non trovò un posto dove la sua dolce magia era più luminosa, abbagliante. Era lì che lei assaliva i maghi del Re, scavalcava le loro difese, si infiltrava, le abbatteva e le frantumava, come un gatto che giocasse con una striscia di carta. E c’era il Re: un singolo punto di luce solitaria, che vegliava in un mare di amarezza di preti, in un cerchio di eleganti ma impotenti mura erette dai maghi del Re. Palicrovol, il Re buono, ancora punito per un peccato vecchio di secoli, che non aveva mai trasmesso le sue sofferenze al suo popolo. Posso darti pace, almeno per un’ora, almeno per una notte, disse Orem silenziosamente.

Ma prima di agire, si ricordò della Regina. Lei era il respiro senza parole alle spalle di ogni parlante che cadeva nel silenzio, di ogni amante che si guardava dietro le spalle, di ogni pensatore che canticchiava per distogliere un pensiero pericoloso dalla mente. Ricordò che lei era la bambina inerme violentata sulla schiena del Cervo. Chi era lui per giudicare che la sua vendetta dovesse essere interrotta, che era tempo di spezzare il suo potere?

Tu sai cosa decise Orem, Palicrovol. Ricordi quella notte. D’improvviso un mago entrò, la sua faccia bianca per il terrore, per dire che la Regina aveva distrutto tutti i loro incantesimi; poi era arrivato un altro dicendo che anche la forza della Regina era svanita. Tu non osavi credere che la magia fosse così completamente disfatta, fino a quando il prurito all’inguine cessò per qualche ora, i tuoi intestini da lungo tempo bloccati si liberarono, senza dolore per alcune ore, e per la prima notte in trecento anni ti fu concesso di dormire senza sogni. Allora credesti.

Ma perché Orem decise di scendere in campo contro la Regina? Lui non sospettava di essere tuo figlio. Tu non gli avevi fatto alcun favore. La Regina non gli aveva fatto alcun male. Fu solo per questo: se Orem fosse stato vivo quando violentasti Asineth sulla schiena del Cervo, e avesse avuto il potere di fermarti, l’avrebbe fatto. Era uno che istintivamente combatteva contro i forti e aiutava gli inermi. Era il suo modo di fare, congenito. Non aveva il cuore per la crudeltà necessaria, come avevi tu. E così sfidò la Regina Bella, in parte perché era coraggioso, e lei era l’unico avversario interessante, ma soprattutto per pietà verso il suo debole e tartassato Re. Non trascurare questo quando lo giudichi. Ci fu un tempo in cui tu eri impotente, e lui ti aiutò.

Quella notte Orem attaccò incessantemente, per ore, non soltanto ingoiando tutta la magia attorno a te, ma allargandosi su una zona ampia quanto poté, cancellando la vista della Regina, nella speranza di disorientarla, di distrarla, per concederti un po’ più tempo. Non aveva speranza di sfidarla nel Castello, perché il suo potere era solo negativo: non poteva far nulla per colpirla nella persona. Ma poteva disfare il suo lavoro, e così sciolse le sue reti di visione, fino a quando ebbe la forza di farlo per quella notte.

Alla fine dormì, esausto, e dopo parecchie ore di ricerca, la Regina ti ritrovò, Palicrovol, e le tue sofferenze iniziarono di nuovo, più intense di prima, e molti dei tuoi maghi morirono. Orem era giovane, e non immaginava quanto lei si sarebbe arrabbiata, o che tu avresti sopportato le conseguenze della sua rapida vendetta. Orem aveva pensato che lei avrebbe saputo chi era e l’avrebbe cercato. Ma anche così, questo ti disse alcune cose. Ti disse che se Bella era arrabbiata, voleva dire che esisteva una forza al mondo che poteva sconfiggerla, anche se solo per breve tempo. Non sapevi se fosse stato uno degli dèi a liberarsi, o se Sleeve era riuscito a operare qualche magia, ma comprendesti che era un buon segno, e che dovevi cercare nuovamente di portare il tuo esercito alle porte di Inwit. Ammettilo, Palicrovol: fu Orem a spingerti all’ultima battaglia contro la Regina.

Quanto alla Regina, ricordo anche quella notte, nel palazzo. Svegliò tutti con un turbine di ordini. Le guardie vennero mandate sugli spalti, e Urubugala venne crudelmente torturato, fino a quando non confessò di non sapere nulla. Coniglio si limitò a sorridere alla notizia: lei sapeva che non aveva il potere di fare una cosa del genere. E Donnola disse alla Regina l’amara verità, come era suo obbligo:

— Stai diventando vecchia, e la forza che hai comprato sta svanendo.

Fu così che tu cominciasti un’altra volta a raccogliere il tuo esercito, e Bella cominciò a cercare un padre adatto per il suo figlio di dodici mesi. Quando ti ebbe ritrovato, e si fu assicurata che nessuno degli dèi e nessuno dei tuoi potenti amici si fosse liberato, obbligò le Dolci Sorelle a tessere un sogno per lei, sul telaio da lungo tempo inutilizzato. Mostratemi la faccia del consorte che farà da padre al mio potente bambino, disse. E le Dolci Sorelle… sapevano quale faccia mandarle nel sogno.


Il ferimento del cervo

Avrebbe volentieri dormito fino a tardi, quel mattino, ma Vetro-di-Forca lo svegliò all’alba. — Cosa hai fatto? — chiese il mago.

— Come? — chiese Orem.

— Questa notte la casa ha tremato, e questa mattina mi sono svegliato alle grida di centomila uccelli. Ho guardato dalla finestra e il cielo ne era pieno, volavano in cerchio, e d’improvviso si sono dispersi, hanno volato lontano, ma tutti scendevano e risalivano sopra questa casa. Era vero o era una visione? Li hai chiamati tu?

— Non so come chiamare.

— No, era una visione, lo so. Non era una magia. Conosco la magia, e non posso sbagliarmi su questo. Non senti come trema il pavimento?

Sì, c’era un ronzio molto basso, che faceva vibrare il letto. Orem cominciò ad avere paura, ricordando la sua sciocca bravata. Non osava tenere all’oscuro il mago, perché solo lui poteva sapere cosa fare adesso. Così gli raccontò della sua battaglia notturna per Palicrovol, contro la Regina.

— Oh, Orem — sussurrò Vetro-di-Forca — appena hai un po’ di potere, subito vuoi strafare! Non avvicinarti neppure alla Regina!

— È lei che scuote la casa?

— No! Non è la Regina Bella. Non può sapere dove sei. Ma è già un guaio che sappia che esisti.

— Saprà che sono un Pozzo?

— Saprà che d’improvviso, da qualche parte di Burland, c’è un mago che può disfare ciò che lei ha fatto. Questo non le piacerà. Cercherà, indagherà, e saprà che anche qui, nella Via dei Maghi, delle magie sono state cancellate, e allora comincerà a chiedersi cosa sta succedendo.

Vetro-di-Forca camminava su e giù, battendo un pugno contro il palmo della mano. — È uno sciocco colui che cerca di sfidare la forza della Regina! La Regina potrebbe schiacciarci in un istante. Noi maghi ci lascia vivere perché non facciamo niente di pericoloso. Possiamo curare verruche e macchie della pelle. Possiamo fare incantesimi d’amore e di vendetta contro i nostri nemici, e beffe, e spiare. Possiamo perfino tenere in città sangue caldo di cervo e diventare invisibili alla luce del sole, quando ne abbiamo bisogno. Ma non oscuriamo il cielo né muoviamo i cuori delle masse in città. Non poniamo domande alle Dolci Sorelle e non facciamo tremare la terra.

I corsi dei fiumi sono al di là della nostra portata, e non parliamo coi venti, né avveleniamo il latte nel seno o prosciughiamo il seme nei lombi di un uomo.

Orem non replicò, perché proprio alle spalle di Vetro-di-Forca c’era un cervo con le corna a cento punte, che batteva gli zoccoli a terra, il grande collo sollevato in alto per sopportare quel peso impossibile. Il mago sentì la bestia quasi nello stesso istante in cui Orem la vide, e si voltò, si inginocchiò e disse: — Oh Cervo, perché sei venuto?

Il Cervo lo guardò, ma non si mosse per rispondere.

— Sei reale o sei una visione? — chiese Vetro-di-Forca.

Il mago aveva paura, ma non Orem. Quella era la bestia che aveva già visto fra i cespugli sulla riva del Banning, mentre sua madre si bagnava. Guardò gli occhi luccicanti e seppe che non doveva avere paura. Il Cervo non era venuto con ira. Orem uscì da sotto le coperte e andò verso il grande Cervo.

— Non spaventarlo — disse il mago.

— Non è venuto per te — disse Orem. — Ti perdona per i cervi che hai dissanguato nella torre, — Adesso Orem poteva vedere che il petto dell’animale si alzava e abbassava in profondi, silenziosi respiri, e che la sua pelliccia era bagnata di sudore.

Dove sei stato questa notte? Perché hai corso tanto?

Orem si inginocchiò e allungò una mano verso lo zoccolo. Il Cervo alzò la zampa e la porse al ragazzo; Orem non avvertì alcun peso, e tuttavia la sua mano non poteva chiudersi, e un grande calore gli entrò nel braccio. Il Cervo, benché privo di sostanza per Inwit, dimorava nella carne dentro la Città del Cervo.

— Perché sei venuto da me? — chiese Orem, con la voce reverente come quella di un prete in preghiera.

— Silenzio — invocò a bassa voce Vetro-di-Forca.

Orem alzò gli occhi, e il Cervo chinò lentamente la testa. Il peso delle corna era troppo per qualsiasi collo, ma quel collo lo sopportava. Il Cervo puntò le zampe posteriori e facendosi forza chinò la testa facendo oscillare le corna davanti alla faccia di Orem, finché una singola punta non si fermò immobile come la cima di una montagna proprio dove egli non poteva guardare nient’altro. E Orem guardò, e guardò ancora, guardò più a fondo, e vide.

Che le stelle di un piccolo cielo danzavano attorno al corno. Che lui cadeva verso le stelle, le superava, e la punta del corno era grande come la luna, grande come il mondo. Poi fu il mondo, e Orem non riuscì a respirare mentre cadeva sempre più giù, finché d’improvviso tutto fu immobile e Orem si trovò sospeso sopra la città di Inwit.

La città ribolliva di vita; le barche attraccavano e salpavano dai moli; le guardie marciavano su e giù per le mura come formiche. Ma non era la vita nella città che dava l’impressione di un costante movimento. Poiché sotto gli occhi di Orem, la città cambiava volto, come se il tempo scorresse a ritroso, e fosse un secolo, due secoli nel passato. Le strade mutavano il loro corso; le case tornavano nuove, e comparivano per un attimo come scheletri di impalcature, per essere sostituite da edifici più vecchi e più piccoli. Apparvero sempre più campi coltivati all’interno delle mura, mentre le abitazioni all’esterno diminuirono, e quasi sparirono. D’improvviso il Grande Tempio sparì, e il Piccolo Tempio cambiò tanto che non ci furono più sette cerchi su ogni colonna, poi anche il Piccolo Tempio sparì, e la città prese una forma diversa: la Strada del Re piegava bruscamente verso ovest, e la grande porta della città era Traccia del Cervo, la Porta Occidentale, il Buco.

Poi anche questo passò: le mura della città si assottigliarono rivelando mura più piccole, poi anche queste svanirono e non ci furono più mura, e neppure il castello, a parte il piccolo Castello Vecchio, sulla punta orientale della Collina del Re. Questo rimase stabile per un po’. Poi anche il Castello svanì, e ci fu solo la foresta, e di Inwit non rimase nulla se non poche centinaia di case costruite in cerchi attorno a un singolo santuario. E le case divennero sempre meno, e il santuario più piccolo, a poco a poco, e Orem cadde ancora, finché vide come se fosse sospeso a poche braccia da terra. Non c’era nessun villaggio. Solo la foresta, e una radura con una capanna al centro, e dove c’era stato il santuario, c’era solo un contadino che arava.

Quel contadino non arava come il padre di Orem. Era lui stesso a tirare la lama dell’aratro, e sua moglie la guidava, tracciando un solco poco profondo nella terra. Era un lavoro faticoso, e Orem capì perché il campo fosse così piccolo: non c’era modo di arare una superficie maggiore.

D’improvviso ci fu un movimento ai bordi della radura. Con sollievo di Orem, il tempo stava scorrendo nuovamente in avanti, a velocità normale. Un cervo balzò sui solchi, i suoi zoccoli si piantarono a fondo nel terreno morbido. Era spaventato. Dietro di lui giunsero quattro cacciatori con archi e lance, e cani che abbaiavano furiosamente. Il cervo corse verso il contadino, che si tolse la bardatura dell’aratro e prese la testa del cervo fra le mani, per un momento, poi la lasciò andare. Il cervo non si mosse. Non mostrò timore del contadino, e forse fu per questo che i cacciatori si fermarono, vedendo una tale meraviglia.

Il contadino alzò una mano, e il cervo fece un passo in direzione della foresta dalla parte opposta della radura. Anche i cacciatori si mossero, e i cani fecero un balzo avanti. Il contadino abbassò la mano e tutti i movimenti cessarono, in attesa di un suo gesto.

Il contadino si girò verso l’aratro. Lo sollevò, pesante com’era, e lo posò rovesciato davanti ai cani dei cacciatori. Si inginocchiò tremando di fronte all’aratro. Dietro di lui, anche sua moglie si inginocchiò e gli prese la testa fra le mani, lo aiutò ad appoggiare la gola contro la lama dell’aratro. Per un momento si fermarono. Non fu la moglie, poiché le sue mani si tirarono indietro all’ultimo momento, troppo pietose per compiere l’atto. Fu il contadino stesso a spingere violentemente il collo contro l’aratro. Il sangue sgorgò e Orem rabbrividì. La moglie finì ciò che il marito aveva iniziato: spinse giù la testa del contadino finché la lama non fu penetrata quasi completamente nel collo.

Allora i cacciatori abbassarono gli archi, e non si accorsero neppure che il cervo era riuscito a fuggire fra gli alberi. Guardarono invece i loro cani venire avanti e leccare il sangue che scendeva lungo la lama dell’aratro. Dopo aver leccato il sangue, i cani sembrarono impazzire: facevano balzi altissimi in aria, come se stessero ballando, e fuggirono gioiosamente dalla radura, nella direzione da cui erano venuti. I cacciatori si inginocchiarono, stupiti, e la moglie immerse un dito nel sangue e tracciò il segno del cervo sulle loro facce. Anche i cacciatori se ne andarono, felici.

Era buio, e la luna si alzò, e il cadavere dell’uomo giaceva ancora spezzato sull’aratro, quando il cervo tornò nella radura. Questa volta era seguito da una dozzina di maschi e da una dozzina di femmine, e sette volte sette di loro, a uno a uno, vennero a leccare i capelli del contadino. Quando ebbero finito andarono dalla moglie e il cervo la cui vita era stata salvata dal contadino le porse il collo. Lei prese un virgulto che cresceva vicino alla loro casupola e lo spezzò come se fosse secco, benché le foglie fossero verdi e lussureggianti. Poi con l’estremità spezzata e aguzza tagliò la pancia del cervo dal petto al ventre. Le interiora del cervo si rovesciarono fuori. La bestia sanguinante si trascinò fino all’uomo e giacque al suo fianco, e il loro sangue si mescolò sull’aratro.

Poi, mentre Orem guardava, l’aratro divenne una zattera, e la testa dell’uomo insieme alla testa del cervo galleggiarono sopra di essa, sull’acqua limpida. La zattera andava controcorrente. O era l’acqua che scorreva dai corpi spezzati dei due? Lungo le rive del fiume un milione di persone si inginocchiarono e bevvero, ognuna un sorso, e se ne andarono cantando.

Finalmente la zattera si fermò su una spiaggia. Come fiasche di pelle, i due corpi sembravano vuoti, e da essi non scorreva più acqua.

Orem alzò gli occhi e vide, accanto ai cadaveri sulla riva, il cervo e l’uomo vivi e interi, entrambi nudi nella luce della luna.

E la faccia del contadino era la faccia di Orem, e il cervo era quello che era davanti a loro nella stanza, le corna abbassate per permettergli di vedere la punta marrone del corno.

Orem respirò a fondo, per calmare il battito violento del cuore. Quanto di quella visione era vero, e se era vero, cosa significava?

Come in risposta venne la faccia di una donna. Era il viso più bello che Orem avesse mai visto, gentile e innamorato, che gridava come una tragica vergine assetata per la vita di un uomo dentro di lei. Orem non la conosceva, ma seppe subito chi era. Soltanto una donna poteva avere quel viso, perché quel viso gridava un solo nome: Bella. Era la Regina, e lo chiamava, e una lacrima di gioia spuntò da un occhio quando lo vide e lo prese fra le sue braccia.

Poi la visione sparì, di colpo, e Orem si ritrovò solo con Vetro-di-Forca nella stanza al primo piano.

— Hai visto? — chiese Orem.

— Ti ho visto inchinarti davanti al Cervo, e ti ha offerto le corna, e d’improvviso il sangue ha cominciato a sgorgare da una ferita profonda nella tua gola, e ho pensato che fossi morto.

Ferito. Orem tastò con la mano, e sì: lungo la sua gola c’era il solco di una ferita profonda ma da lungo tempo guarita. — Non ho mai avuto una cicatrice qui.

— Cosa hai visto?

— Ho visto come questo luogo ha preso il nome di Speranza del Cervo. E che significato ha il Santuario dell’Albero Spezzato. E ho visto la faccia di Bella.

Non ci fu ambiguità quando il nome venne detto. Bella indossava solo una faccia a Burland, anche se erano in pochi ad averla vista. Ogni uomo aveva la propria immagine della Regina Bella nella sua mente, da temere e da adorare quando era massimamente solo. Ogni donna la conosceva, e ogni donna sapeva come Bella si faceva beffe della loro insufficienza.

— Mi ha trovato? — chiese Orem.

— No — rispose Vetro-di-Forca. Di scatto si voltò e uscì dalla stanza. Ci volle un momento prima che Orem si rendesse conto che stava piangendo. Il ragazzo si alzò, si infilò le mutande e la camicia e si allacciò i vestiti, mentre seguiva il mago nella stanza di sotto. Quando arrivò in fondo alle scale. Vetro-di-Forca aveva già sollevato il primo coperchio, poi il secondo, poi il terzo, poi sollevò i corpi delle donne che galleggiavano nella salamoia, li sollevò in alto e li appoggiò ai bordi delle botti, con le facce che gocciolavano sul tappeto. — Mi avete tradito! — gridò il mago. — Siete spergiure, siete ladre! — E afferrò la testa raggrinzita della figlia bionda, ravvicinò alla sua e sputò negli occhi spalancati. — Cosa siete per me, carne gonfia e sporca? Mi avete defraudato della vostra forza, mi avete defraudato delle vostre vite dentro la mia casa, e adesso il Cervo è entrato nella mia casa, e voi dove eravate? Dove eravate quando la vita è sgorgata dalla gola del mio terribile ragazzo? Un sorso, e sareste vissute, sareste vissute, sareste vissute!

E il mago lasciò di nuovo penzolare la testa, che dondolò un poco. Verso la mensola, verso la borsa di sangue in polvere. Orem non poté sopportare di vedere le donne richiamate un’altra volta dalla semimorte che Vetro-di-Fuoco aveva imposto loro. E così usò il suo potere, d’improvviso, come un tagliaborse usa il coltello, e in un attimo il sangue fu privo del suo essiccato potere. Sapeva che così facendo adempiva al desiderio delle donne e spezzava il cuore di Vetro-di-Forca. Il mago lasciò cadere un pizzico di polvere, ma invece di dar vita alle donne, fu come se le corrodesse: le loro facce si annerirono, i capelli caddero a terra a ciocche, la pelle si staccò e scivolò sul tappeto bagnato con flaccidi tonfi, e a una a una le teste si afflosciarono e caddero, per dissolversi rapidamente in masse irriconoscibili di putrefazione.

Solo quando le ossa si furono staccate, rimanendo a mucchietti sul tappeto, solo quando le metà inferiori delle tre donne furono sparite nell’acqua, solo allora Vetro-di-Forca si voltò verso Orem, e la sua faccia era terribile. I suoi occhi brillavano di una luce rossa, i suoi denti erano nudi come quelli di un tasso, e Orem vide la morte nelle mani dell’uomo.

Si lanciò verso la porta e l’aprì. Una mano gli afferrò il collo della camicia per tirarlo indietro, ma Orem riuscì a sfuggire, strappando la camicia. Corse nella strada gelida, con la camicia che gli penzolava addosso, trattenuta solo dalla cintura. Corse nella strada gelida, sotto una pioggia di ghiaccioli che si scioglievano, corse sulla superficie gelata della strada, con la fredda luce del sole alle spalle.


Il santuario dell’albero spezzato

Corse senza meta, più spaventato di ciò che aveva fatto che di Vetro-di-Forca stesso. Quando fu giunto sulla Strada dei Ladri, tuttavia, un piano si stava formando nella sua mente. Avrebbe ritrovato Pulce, e gli avrebbe chiesto di aiutarlo a nascondersi. La Regina l’avrebbe cercato fra i maghi, e Vetro-di-Forca non l’avrebbe mai trovato, poiché non poteva usare la magia.

Ciò che non aveva previsto, naturalmente, era il nemico che sempre attendeva gli imprudenti a Inwit. Una squadra di guardie sorvegliava le strade del quartiere. Un’occhiata alla camicia strappata, alla faccia spaventata, e seppero che Orem era loro. Non avevano bisogno di conoscere la sua colpa per sapere che era colpevole. Gli gridarono di fermarsi, gli chiesero di mostrare il visto.

Non aveva il visto con sé; né osava dire loro che era a casa di Vetro-di-Forca. perché l’avrebbero portato da lui per verificarlo, e il mago allora avrebbe potuto vendicarsi come voleva. Così Orem si voltò e corse nelle strade strette e tortuose.

Era più veloce delle guardie, ma quelle erano molte e lui era solo. Dovunque fuggisse, lo aspettavano al varco, e alla fine lo spinsero verso il Santuario abbandonato dell’Albero Spezzato. Poteva vedere le guardie giungere dai due lati della Strada del Santuario. Non c’era via di scampo. Così si appoggiò al basso muro che circondava il Santuario, guardò il ceppo e vide che l’estremità spezzata era esattamente come l’aveva lasciata la moglie del contadino nella visione. Il sogno era vero. Era bello sapere che qualcosa era vero.

Ma cosa significava, in nome del cielo?

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