14 SERVI

Non ho mai saputo cosa significasse vedere, se non uscendo dalla nebbia. Così disse Orem, il Piccolo Re; così mi disse quando pensava di non essere saggio.

L’acqua della regina

Non sembrava neppure mattina quando Orem uscì dalla locanda, tanto era fitta la nebbia. Gli edifici dall’altra parte della strada erano invisibili, a meno di non andare in mezzo alla strada. I passanti gli apparivano davanti all’improvviso, e quasi gli venivano addosso. Doveva camminare adagio e guardarsi bene intorno. Ogni tanto si sentivano imprecazioni, e scambi di “Cieco!” e “Scemo!”. Orem aveva paura di perdersi e di sprecare il suo ultimo giorno intero nella città, ma Pulce lo trovò.

— Cosa vuoi che sia la nebbia? — disse. — Se ci chiudessimo in casa quando c’è la nebbia, si lavorerebbe molto poco a Inwit. Per me è una giornata d’oro. Mi sono già guadagnato tre denari, senza neppure un coltello per tagliare le borse.

Sapere di avere un ladro come compagno metteva Orem a disagio, ma non aveva nessun’altra guida, e in una giornata come quella aveva più che mai bisogno di Pulce. Il giorno prima avevano battuto la parte settentrionale. Quel giorno provarono a est, sperando di trovare lavoro per Orem in un ufficio contabile, o in qualche posto dove la sua educazione potesse essere utile.

Ma non erano scrittori, lettori o contabili quelli che volevano nella parte est della città. Erano ragazzi per gli sport crudeli del Gioco, e per i letti dei pederasti: ragazzi che potessero sparire senza che nessuno li andasse a cercare. Per due volte Orem si fece attirare in posti dove sarebbe stato meglio non andare, e per due volte Pulce dovette tirarlo fuori, e non con le parole.

Lasciarono un giocatore con un calcio nelle palle bene assestato. Corsero un pericolo maggiore nella Grande Borsa, perché quando rifiutarono la lucrosa offerta del mezzano di un banchiere, questi si mise a gridare “Al ladro!” Solo la nebbia li salvò, e l’abilità di Pulce nel cercare scampo in posti in cui un adulto non avrebbe mai pensato di guardare. Verso la fine del pomeriggio, si trovarono vicini alla bocca dell’acquedotto, senza fiato per il gran correre.

I grandi archi si fermavano prima di aver attraversato completamente la strada. Ai piedi dell’ultimo arco c’era una piccola vasca, sorvegliata dalle guardie e circondata da file di persone che attendevano di riempire una fiasca, un otre, un’anfora.

— Hai sete? — chiese Pulce.

— È sicuro aspettare qui? Non ci seguiranno?

Pulce sorrise. — Vediamo se si può accorciare la fila. — Camminò fra le file fino a un punto abbastanza vicino alla vasca, poi con un grande gesto disse ad alta voce: — La generosità della Regina.

Qualcuno vicino cercò di zittirlo, ma gli altri Fecero finta di non sentire. — Acqua — disse Pulce — dalla grande Casa dell’Acqua nel Castello. Una sorgente abbondante tutto l’anno, da cui l’acqua scorre senza bisogno di scavare, e nella sua generosità la Regina lascia scorrere ben metà dell’acqua in città.

E dopo che l’acqua è stata incanalata nelle case dei ricchi ai due lati della Strada della Regina, dopo che il Tempio ha avuto la sua acqua e le Corporazioni la loro, dopo che l’acqua ha attraversato il Parco, finalmente c’è n’è un poco che arriva in una vasca per la gente di Inwit.

Il discorsetto funzionò. Si trovarono soli in quel punto della fontana, perché quelli davanti e quelli dietro di loro si erano allontanati da quella discussione ad alta voce sulla Regina. E tuttavia, nulla di compromettente era stato detto; le guardie poterono solo guardarli torve, mentre Orem immergeva la sua fiasca nell’acqua e la ritirava piena. Ma non bevve. Porse invece l’acqua a Pulce, lasciandone deliberatamente cadere qualche goccia sulle mani del ragazzo. Pulce lo guardò sorpreso; poi con aria grave lo spruzzò a sua volta. Era giunto il momento di scambiarsi l’acqua, anche se Pulce era un ladro e Orem un tempo era stato quasi un prete.


Servo di un servo

Si riposarono a nord della fontana, vicino all’imboccatura di un largo vicolo che correva fra due palazzi. Servi in livrea andavano e venivano dal vicolo. Orem li guardò, così indaffarati e con aria di grande importanza, ma con il tempo di scambiarsi un cenno del capo e un sorriso, indipendentemente dalla livrea. Oh, ce n’erano anche alcuni che passavano con fare molto sostenuto, vide Orem, ma anche in questo caso si capiva che lo facevano in conseguenza di qualche litigio: non c’erano estranei fra i servitori.

— Scordatelo — disse Pulce.

— Scordarmi cosa?

— Non riuscirai mai a farti assumere in una delle grandi case. Non riuscirai mai a superare i guardiani alla porta.

— Allora passiamo da quella posteriore.

Pulce si rifiutò di andare. — Se andiamo lì penseranno che siamo ladri.

— Ce la siamo cavata una volta — disse Orem.

— Per poco — rispose Pulce.

— Giochi coi serpenti e hai paura dei servi?

Così Pulce andò con lui, ma questa volta si tenne dietro, costringendo Orem ad andare per primo. La strada si restrinse rapidamente, e anche se la nebbia persisteva, serviva solo a rendere grigi gli edifici ai due lati. All’inizio c’erano ancora dei portoni, perché alcune delle case meno grandi avevano l’ingresso sul vicolo e non sulla strada. Poi questi cessarono e la strada si allargò, trasformandosi in una piazza fra case dagli alti muri. Dentro la piazza c’era un piccolo labirinto di strade, e lungo le stradine repliche in legno dei grandi edifici di pietra. C’erano colonne di pietra, sulle facciate dei palazzi? Allora lì c’erano colonne di legno con intricati intagli. Le grandi case erano fornite di finestre con grate di ferro? Allora quelle piccole repliche erano adorne delle loro piccole finestre, con sbarre di legno al posto di quelle di bronzo e di ferro. I servi imitavano i loro padroni meglio che potevano, anche se le loro piccole case si trovavano fra le cucine dei signori.

Orem non aveva idea di dove andare, adesso che era arrivato lì. Si era aspettato che qualcuno li fermasse, ma nessuno l’aveva fatto. In effetti, c’erano altri senza livrea, vestiti semplicemente come lui. Questo gli diede speranza. Forse c’era davvero la possibilità di trovare un lavoro.

— È come una piccola città — mormorò Pulce.

— Vieni — disse Orem. Si avviò baldanzosamente verso la porta posteriore di un palazzo, dove i fuochi della cucina bruciavano caldi e fumosi, ispessendo la nebbia e ingiallendo la luce. — Ehi, ragazzi! — Un vecchio li chiamò dal portico di una casa di legno.

— Salve, vecchio — rispose Orem.

— Volete lavorare? — chiese il vecchio.

— Volentieri — disse Orem.

— Ah, sì, volete lavorare. Tutti vogliono lavorare, tranne quelli che hanno già un lavoro. E tranne me. Ho una bella pensione, e sto seduto sulla veranda tutto il giorno e parlo ai ragazzi con i loro disperati abiti da contadini. Lo sapete che dentro quella casa coloro che badano ai vini, oltre a quelli che cucinano e quelli che cuociono il pane e quelli che servono, sanno che state arrivando?

— Lo sanno? E come?

— L’odore di un contadino e di un ragazzo della Palude possono essere sentiti a pertiche di distanza. Lo scalpiccio dei vostri sandali sui nostri marciapiedi di pietra può essere sentito da più lontano ancora, e il vostro accento rozzo vi tradisce più di qualsiasi altra cosa. Siete stati visti mentre vi allontanavate dalla fontana pubblica. Siete stati notati mentre stavate accovacciati vicino ai portali del nostro umile vicolo. E adesso siete esaminati da un vecchio che non ha niente di meglio da fare che allontanare i patetici stranieri che pensano ci sia lavoro per loro, qui.

Orem era stato mandato via troppe volte per avere ancora paura di sentirsi dire di no. — C’è lavoro da fare qui. Perché non dovrei farlo io?

Il vecchio ridacchiò. — Oh, dovresti, dovresti… ma non puoi. Chiunque può imparare a essere un nobile o un mendicante, ma uno deve nascerci per essere un buon servitore.

— Io sono nato per essere un chierico o un soldato — disse Orem. — Non sono abbastanza umile per fare il primo, né abbastanza forte per l’altro. Perché non dovrei imparare a fare quello che fanno i servi? Qualcuno sarà pur stato il primo servitore. Chi ha insegnato a lui?

— Ecco, questa è la prima cosa che devi perdere: le tue maniere insolenti.

— Andiamocene — disse Pulce. — Vuole solo chiacchierare.

Il vecchio lo sentì e gridò, arrabbiandosi: — Sì, andatevene! Se non volete quello che ho da offrirvi, andatevene! Non avrete una seconda occasione da me.

— Cosa ci offri? — chiese Orem.

— Un lavoro e un visto. Significa qualcosa per voi?

Così si fermarono, e ascoltarono. Lui fece cenno che entrassero dal cancello, e i due ragazzi si fermarono davanti al vecchio, che sorrise mostrando i denti. I suoi denti erano tutti di bronzo. Lo facevano sembrare una statua, almeno nella bocca. Era come un miracolo osservarlo parlare.

— State in piedi, sì: questo è quello che fa un servo quando il suo padrone gli parla. State in piedi e guardatemi con rispetto, senza distogliere gli occhi, e ascoltate ogni parola, nel caso vi faccia una domanda. Che non vi capiti di farvi pescare a non aver sentito quello che ho detto. E state con i piedi indietro, sempre pronti a inchinarvi, e la risposta pronta sulle labbra. Dovrete chiamare il vostro padrone “onorato signore”, e suo figlio “padroncino” e il secondo figlio e la figlia “consacrati” e il terzo figlio e i successivi “senza-speranza”, detto sempre in tono grave, con il dovuto rispetto e un tocco d’ironia, perché sappiano che sei loro amico, anche se il loro padre non lo è. E se l’uomo è il signore di un’altra casa, allora è “stimato signore” a meno che lui e il vostro padrone siano in cattivi rapporti, nel qual caso diventa “alta e nobile eminenza”, detto sempre con la più grande deferenza, in maniera che non colga il suo significato fallico; e la moglie è “stimata signora” se è un’amica, ma se il vostro padrone la disprezza, allora dovete chiamarla “fecondissima madre di una nobile stirpe” e se la vostra signora la disprezza dovete dire “invidia delle nazioni” e se entrambi la disprezzano, non le dite niente ma vi inchinate profondamente fino a toccare la terra con la fronte, che sarà per lei un insulto insopportabile, a cui tuttavia non oserà rispondere. Avete capito? Sapreste farlo adesso?

— Sono tutte balle, per me — disse Pulce.

— E tu, alto e magro come l’ultimo fumo di un incensiere, tu hai un’altra idea?

Orem sorrise. — Era più o meno lo stesso alla Casa di Dio. Se parli con Dio avendo pesanti peccati nel cuore, ma ci sono degli altri e non vuoi sentire domande, ti rivolgi a Dio come Benedetto Che Stai nei Cieli. Se sei disposto a confessare i tuoi peccati e il tuo pentimento, allora ti rivolgi a Lui come Santo Padre Che Ami i Deboli. Se preghi per avere la compagnia di uomini migliori di te, il nome di Dio è Signore dei Fratelli, ma se preghi per la compagnia di gente comune, o se questa è mista, lo chiami Creatore di Tutto, Primo Principio, e se è presente il Re…

— Basta, basta! — gridò il vecchio. — Allora sei stato istruito da prete?

— Abbastanza per sapere che non sarei mai stato un prete.

— E neppure il servitore in una grande casa. Nessuno vi vuol male. Proprio no. Ti facciamo i nostri auguri. Ma il lavoro di un servitore è di essere invisibile, di fare tutto silenziosamente; il lavoro di un servitore è non dare segno che venga fatto alcun lavoro. Un servitore si muove come un ballerino. È un’arte: ecco cos’è. Un’arte, e noi nasciamo e siamo allevati per essa, e non c’è speranza che qualcuno possa appropriarsene. Cosa faresti se il padrone avesse bevuto troppo vino, e ne volesse ancora?

Orem sorrise e alzò le spalle. Come faceva a saperlo?

— Metti acqua nel vino? Mai. Rifiuti di portarglielo, o gli dai mezzo bicchiere? Mai. No: ci aggiungi il liquore più forte che ci sia in casa, affinché il bicchiere successivo lo stenda, e tu ti metti graziosamente al suo fianco, saluti i suoi ospiti uno per uno a suo nome, e tutti gli toccano la mano andandosene, cosicché la mattina dopo potrai dirgli: “Avete stretto la mano a tutti, quando se ne sono andati.” Nessuno pensa male di lui, perché è stato fatto graziosamente, e anche se lui sa quello che hai fatto, non gli importa perché questa è la maniera in cui deve essere fatto. Siamo noi quelli che mandiamo avanti le cose a Inwit. Chi credi che serva nel palazzo? Noi, le Cinquanta famiglie. Noi siamo i soli servitori di Inwit e lo siamo stati dall’inizio. Quando Dio stava ancora dicendo il suo nome a degli stranieri, noi servivamo il pane e la carne. La Casa di Grell ha bisogno di un ragazzo per pulire le scale? Io ho un nipote. La Casa di Bran ha bisogno di una bambinaia? Mia moglie sa occuparsi dei bambini, ed è anche capace di insegnare il ballo. La mia famiglia si chiama Dyer, e abbiamo un uomo o una donna al servizio di ogni grande casa, e in posti di responsabilità anche. Nulla accade nella Strada della Regina che noi non veniamo a sapere.

Mi fanno male i piedi, pensò Orem. Qual è la tua offerta?

— Credi tu che questi signori governino tutto? Sciocchezze. Noi governiamo. È uno di noi che fa il maggiordomo e dirige la casa. Chi è il fattore che si occupa delle sue terre, se non uno di noi? Oh, il signore prende le decisioni, ma chi è che gli fornisce tutte le informazioni che gli servono per decidere? Noi siamo i signori di Inwit, siamo il flusso e il riflusso di tutto. Noi concediamo loro di che vivere, e loro credono di pagarci! Credono perfino di assumerci!

— Ma l’offerta di cui ci hai parlato: per cosa puoi avere bisogno di noi?

Il vecchio si piegò in avanti, sorridendo. — Be’, vedete, mentre noi ci occupiamo delle loro case, cosa succede nelle nostre? Abbiamo delle belle case qui, sai, le più belle di Inwit, a parte quelle dei nostri padroni. Chi serve nella casa del servitore? È per questo che abbiamo bisogno di voi.

Il servo di un servo. Questo è il mio visto. Questo il mio ingresso a Inwit. Orem non si sentiva trionfante per aver trovato un lavoro. Cercava invece di ricordare se aveva mai sentito una canzone.su un servitore.

— Quanto? — chiese Pulce.

— Due denari la settimana — disse il vecchio. — Due denari la settimana, un pomeriggio libero, un altro nei giorni santificati, se adorate Dio, oltre a una stanza e due pasti.

— Due denari — disse Pulce, impressionato.

— E il meglio è questo: vi sposerete qui, metterete su famiglia qui, avrete figli, e loro, i vostri figli e le vostre figlie, saranno quello che voi non potete essere. Porteranno la livrea, apprenderanno le parole e i tempi, staranno al fianco di grandi uomini e saranno parte della nostra famiglia, la famiglia Dyer, e ci onorerete per sempre. Sarete i padri di membri della Cinquanta famiglie, anche se non lo sarete mai voi stessi.

Orem capì che doveva rifiutare. Non sapeva perché, neppure lontanamente. Era un lavoro, era un modo di stare a Inwit, ma era insopportabile. I suoi figli e le sue figlie servitori, e i loro figli e le loro figlie, per l’eternità, tutti i suoi figli che si inchinavano e svanivano, cucinavano e svanivano, pulivano e svanivano. — No — disse Orem. — Grazie, signore, ma no.

Pulce lo afferrò per la camicia, tirando così forte che si strappò al collo. — In nome di Dio, Magro, è la nostra occasione! Non si discute su un visto e due denari la settimana!

— Il giovanotto è rozzo, ma ha ragione — disse il vecchio. — Io non mi metterei a contrattare. So di essere generoso.

— Non sto contrattando — disse Orem.

— Allora cosa? — chiese il vecchio.

— Dico di no.

— Allora sei uno sciocco — disse l’altro con disprezzo.

— Sì. Non c’è dubbio.

— E io? — chiese Pulce al vecchio. — Mi prenderai senza di lui?

Il vecchio fece un sorriso a labbra strette. — A un denaro la settimana. Lui sa leggere. I due alla settimana erano perché eravate venuti insieme.

— Uno o due alla settimana, per me va bene.

— Resta, Pulce — disse Orem.

— Grazie di tutto. Che i doni di Dio siano con te. — Gli rivolse un cenno di saluto, e scese dalla veranda. Suo padre era stato solo un contadino, troppo povero per dare una parte di terra al suo settimo figlio, ma era stato un uomo libero; anche suo figlio era libero, e non avrebbe messo al mondo figli meno liberi di lui.

Era uscito dal vicolo e si stava addentrando dentro la nebbia, che si faceva più fitta e più scura, quando sentì dei passi alle sue spalle. Riconobbe chi correva. — Pulce — disse.

— Fottuto — disse Pulce.

— Può darsi.

— Due pasti al giorno e in più dei soldi. Perché no, nel nome del sangue di mia madre?

— Sono venuto a Inwit per un nome, un posto e una poesia.

— Credevo che fossi venuto per trovare lavoro.

— Perché lavorare? Per vivere. Ma perché vivere? Non per quello. Non farmene una colpa. Tu potevi restare.

— Fottuto! Credevo che sapessi quello che facevi. Una poesia! Il piscio di mio padre. — E Pulce sputò a terra, per sottolineare il concetto.

— Allora torna.

— Lo farò.

— Bene.

— Domani.

Camminarono in silenzio, e si fermarono insieme davanti alla porta del Badile e della Fossa. La nebbia era fitta, la notte era su di loro, sopra i tetti si scorgeva solo una pallida luce; le lanterne brillavano patetiche, come se nutrissero qualche illusione di gettare un po’ di luce in un’aria così umida. — Che genere di poesia? — chiese Pulce a bassa voce.

— Una poesia vera.

— Vuoi una poesia del genere, Magro?

— Perché no?

— Gli eroi fanno grandi cose.

— Io intendo farle.

— Gli occhi di mia madre.

— E non c’è speranza per il servo di un servo.

— Adesso cosa farai, Magro? Non hai il visto per domani.

— Uscirò. E tornerò.

— Quando la guancia sarà guarita! Fra qualche mese!

— Tornerò in un altro modo.

Pulce scosse la testa. — Non conosco quella parte della città. Non conosco quelli che entrano in quella maniera.

— Buona notte, Pulce — disse Orem. — Di sicuro sono uno sciocco. Torna da quel vecchio e vivi contento.

— Le parole più vere che abbia mai sentito. Dio ti aiuti. — E Pulce svanì nella nebbia.


Patti

Orem dormì bene quella notte, con sua sorpresa, e il giorno seguente scese da basso e disse al proprietario di andare a farsi fottere, anche se ancora non aveva capito bene cosa volesse dire. Poi andò in un’altra locanda e mangiò una colazione da un denaro, che gli fece male allo stomaco, ma non per questo gli sembrò meno buona. Era il suo gesto di sfida dopo aver quasi digiunato tre giorni per risparmiare.

E mentre usciva dalla locanda, con la pancia piena e contento, passò accanto a un ragazzino che bighellonava vicino alla porta, e non lo riconobbe fino a quando non ebbe fatto un paio di passi nella strada. Si voltò e disse: — Pulce!

Pulce lo guardò infastidito. — Avresti potuto conservare un po’ di quella roba per me.

Si incamminarono insieme in direzione della Strada del Piscio.

— Credevo che avresti fatto colazione con quel vecchio — disse Orem. — Credevo che mi avessi detto addio.

— Avrei dovuto farlo — disse Pulce. — Ma sono così scemo che ho creduto a quello che mi hai detto ieri sera. Se tu puoi avere una poesia, Magro, perché non posso anch’io? Peserò il doppio di te quando sarò cresciuto. Mio padre maneggiava l’ascia per il Re, mi ha detto mia madre. Mi ha detto anche altre cose, ma chissà se erano vere… Forse.

— Forse.

— Portami con te quando andrai a guadagnarti la tua poesia. Promettilo.

— Per la mia speranza di un nome e di una poesia, te Io prometto — disse Orem solennemente.

Pulce non disse nulla. Toccò soltanto la mano di Orem per un attimo. E quando la staccò c’erano tre denari nella mano di Orem.

— No — disse Orem.

— Non sono miei. Puoi anche tenerteli tu.

— Non posso prendere i tuoi soldi.

— Perché li ho rubati? Mentirò e ti dirò che li ho trovati, se preferisci.

— Non mi devi nulla.

— Mi metterai nella tua poesia. Perciò lascia che ti aiuti a cominciarla. — E con queste parole, Pulce corse via fra la folla nella Strada del Piscio.

Orem lo guardò sparire alla vista, e continuò a guardare anche quando da un pezzo era scomparso. Era in debito con un ladro dentro Inwit e con un falegname bugiardo fuori. Erano la cosa più vicina a uomini di onore che avesse trovato.

La fila all’uscita era lunga come quella all’entrata, ma questo succedeva perché era mattina; e questa volta la fila si muoveva in fretta. Nome, restituisci il visto, fai vedere la cicatrice alla guancia, e poi fuori. Per un momento quasi si voltò, quasi corse indietro nel vicolo dei servi per prendere il posto che gli aveva offerto il vecchio, dimenticando i suoi sogni infantili. Ma poi la fila si mosse, lo spinse fuori, e ne fu contento.

C’era Braisy, l’ometto con la faccia astuta, appoggiato alle mura, che guardava i poveri che lasciavano scoraggiati la porta. Orem andò dritto verso l’uomo.

— Cinque denari — disse Orem.

— Un allegro saluto. Cinque era tutto quello che avevi tre giorni fa. Quanto hai adesso?

— Cinque.

Braisy lo guardò, sollevando le sopracciglia. — Un piccolo fottuto pieno di risorse, eh?

— Cinque. Voglio entrare nell’altro modo. Se c’è lavoro.

— Non ti prometto nulla. Diavolo, non ti prometto neppure di farti arrivare fin dentro. Conosco le prime porte, e i nomi di quelle che hanno dei nomi. Più di quello che sai tu, ecco tutto. E sono cinque denari fin là.

— Allora andiamo.

— Hai una gran fretta. — Braisy si leccò le labbra. — Forse faresti meglio ad aspettare che ti sia guarita la guancia.

— Stai cercando di alzare il prezzo?

Braisy lo studiò un momento, poi fece un largo sorriso. Se avesse avuto più denti, Orem avrebbe detto che era un sorriso minaccioso. — D’accordo. Cinque denari. Subito.

— Uno adesso, uno alla prima porta, il resto quando sarò arrivato fin dove mi sai portare, se mi sembrerà avanti abbastanza.

— Due adesso, tre alla porta.

— Uno adesso, due alla porta, due alla fine.

— Affare fatto. Ma fammeli vedere prima.

Orem fece un passo indietro e gli mostrò i denari, a una distanza tale che non potesse portarglieli via.

— Hai imparato la cautela, vero?

— Uno adesso. — Orem gli gettò la moneta. Braisy la prese al volo, la soppesò su un dito, e se la fece scivolare nella camicia, sotto l’ascella. Deve avere una borsa lì, pensò Orem. Ho bisogno anch’io di una borsa. Per sicurezza. Ci sono ladri capaci di rubarti i soldi dalle mutande.

Fu così che Orem violò la legge ed entrò attraverso la Porta Occidentale, invece di scegliere la sicurezza come servo di un servo. Dimmi, Palicrovol, puoi immaginare che tuo figlio avrebbe scelto altrimenti?

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