PROLOGO

«Draghi.» Mollander si chinò a raccogliere da terra una mela avvizzita e incominciò a passarsela da una mano all’altra.

«Lanciala in aria» esortò Alleras la Sfinge. Tolse una freccia dalla faretra e la incoccò.

«Mi piacerebbe vedere un drago.» Roone era il più giovane del gruppo, un ragazzo tarchiato cui mancava ancora un paio d’anni per raggiungere la virilità. «Mi piacerebbe proprio tanto.»

"E a me piacerebbe dormire tra le braccia di Rosey" pensò Pate. Si agitò inquieto sulla panca. Entro il mattino, la ragazza poteva essere sua. "La porterò lontano da Vecchia Città, attraverso il mare Stretto, fino a una delle città libere." Là non c’erano maestri, nessuno che lo potesse accusare.

Da dietro la finestra chiusa sopra di loro, si sentiva l’eco della risata di Emma, mescolata alla voce profonda dell’uomo che la stava sollazzando.

Emma era la più vecchia delle serve del Piumino Boccale, quarant’anni compiuti, ma ancora attraente in modo carnale. Rosey era sua figlia, quindicenne e appena oltre la pubertà. Emma aveva stabilito il prezzo della verginità di Rosey: un dragone d’oro. Pate aveva risparmiato nove cervi d’argento e una pentola piena di stelle di rame, ma quelle monete non gli sarebbero servite a niente. Sarebbe stato più facile far nascere un drago vero piuttosto che tentare di ammassare abbastanza conio da metterne assieme uno d’oro.

«Sei nato troppo tardi per i draghi, ragazzo» stava dicendo Armen l’Accolito a Roone. Armen portava attorno al collo una stringa di cuoio cui erano appesi anelli di peltro, alluminio, piombo e rame. Come la maggior parte degli accoliti, sembrava credere che ai novizi, al posto della testa, in mezzo alle spalle crescesse una rapa. «L’ultimo è morto durante il regno di re Aergon III.»

«L’ultimo drago delle terre d’Occidente» insistette Mollander.

«Lancia quella mela» esortò nuovamente Alleras la Sfinge. Era un giovane di bell’aspetto. Tutte le serve gli sbavavano dietro. Perfino Rosey, quando gli portava il vino, a volte lo toccava, e Pate, digrignando i denti, era costretto a fare finta di non vedere.

«Fu proprio l’ultimo drago» non cedette Armen. «Questo è risaputo.»

«La mela» ripeté Alleras. «A meno che tu non voglia mangiartela.»

«Ecco, prendi.» Trascinandosi dietro la gamba di legno, Mollander fece un saltello, roteò su se stesso e lanciò la mela in obliquo nelle brume che fluttuavano sul fiume Vino di Miele. Se non fosse stato per quel piede monco, sarebbe stato un cavaliere, come suo padre. Aveva la forza per esserlo, con quelle braccia massicce e quelle ampie spalle. La mela volò lontano e veloce…

… Ma non veloce come la freccia che le sibilò dietro, una verga di legno dorato lunga una iarda, dall’impennaggio scarlatto. Pate non vide la freccia centrare la mela, me ne udì il rumore. L’eco soffocata rimbalzò dall’altra parte del fiume, seguita dal suono liquido dell’impatto contro la corrente.

«L’hai colpita!» Mollander fischiò. «Magnifico.»

"Nemmeno metà di quanto è magnifica Rosey." Pate era incantato dai suoi occhi azzurri e dal seno acerbo, dal modo in cui lei gli sorrideva quando lo incontrava. Era incantato dalle fossette nelle sue guance. A volte Rosey serviva a piedi nudi, così da sentire l’erba sotto i propri passi. Pate era incantato anche da questo. E dall’odore di pulito, di fresco, che la circondava. E da come si tirava i capelli dietro le orecchie. Era incantato perfino dalle dita dei suoi piedi. Una notte Rosey gli aveva permesso di massaggiarglieli e di giocare con loro, e Pate aveva inventato una storiella divertente per ciascun dito, strappandole delle risatine.

Forse avrebbe fatto meglio a restare da questo lato del mare Stretto. Con il conio che aveva risparmiato poteva comprarsi un asino, lui e Rosey si sarebbero dati il cambio sulla sella vagando per le terre d’Occidente. Ebrose non riteneva che lui fosse degno di ricevere pagamenti in argento, ma Pate sapeva ridurre fratture e salassare ferite con le sanguisughe. Il popolino gli sarebbe stato grato del suo aiuto. Se fosse riuscito a imparare a tagliare capelli e radere barbe, avrebbe addirittura potuto fare il barbiere. "Questo mi basterebbe" disse tra sé "se solo avessi Rosey." Rosey era per lui il massimo dei desideri.

Non era sempre stato così. Una volta aveva sognato di essere un maestro, al servizio di un qualche munifico lord che lo avrebbe onorato per la sua saggezza e gli avrebbe fatto dono di un purosangue bianco per ringraziarlo dei suoi servigi. E come se ne sarebbe stato eretto sulla sella, sorridendo nobilmente al popolino lungo la strada…

Una notte, nella sala comune del Piumino Boccale, dopo la seconda coppa di un sidro maledettamente forte, Pate aveva dichiarato che non sarebbe rimasto novizio per sempre. "Troppo vero" aveva replicato Leo il Pigro. "Infatti sarai un ex novizio, guardiano dei porci." Pate si era scolato fino all’ultima goccia.

Quella mattina, la terrazza del Piumino Boccale illuminata dalle torce era un’isola di luce circondata da un mare di nebbia. Lungo il fiume, molto più a valle, il faro remoto di Hightower, la torre alta, fluttuava nell’umidità della notte come una fosca luna arancione, ma quella luce non gli tirò su granché il morale.

"L’alchimista avrebbe già dovuto essere qui." Era solo uno scherzo crudele, o forse a quell’uomo era accaduto qualcosa? Non sarebbe certo stata la prima volta che la fortuna girava le spalle a Pate. Un tempo si era ritenuto fortunato a essere stato scelto per occuparsi dei corvi dell’anziano arcimaestro Walgrave. Non immaginava che ben presto avrebbe finito per portargli da mangiare, rassettare le sue stanze, vestirlo ogni mattina. Tutti dicevano che Walgrave aveva dimenticato dell’arte dei corvi ben più di quanto sapesse la maggior parte dei maestri, così Pate aveva pensato che come minimo avrebbe ricevuto un anello di ferro nero, ma poi aveva scoperto che Walgrave non glielo poteva concedere. Il vecchio rimaneva arcimaestro solo formalmente. Un tempo, certo, era stato un grande sapiente ma ora le sue tonache celavano biancheria sempre più spesso lordata dall’incontinenza. E sei mesi prima alcuni accoliti lo avevano trovato in lacrime nella Biblioteca, incapace di ritrovare la strada per ritornare nelle proprie stanze. Ora, dietro la maschera di ferro, al posto di Walgrave sedeva maestro Gormon, quello stesso Gormon che una volta aveva accusato Pate di furto.

Sull’albero di mele vicino al fiume, iniziò a cantare un usignolo. Un suono delicato, piacevole intermezzo fra le urla roche e il continuo gracchiare dei corvi di cui Pate si occupava tutto il giorno. I corvi bianchi conoscevano il suo nome, e lo ripetevano gli uni agli altri ogni volta che lo vedevano, "Pate, Pate, Pate", una nenia così ossessiva che gli veniva voglia di urlare. I grandi uccelli bianchi erano l’orgoglio dell’arcimaestro Walgrave. Alla sua morte, voleva che divorassero il suo corpo, ma Pate pensava che volessero far fuori anche lui.

Forse era l’effetto di quel sidro dannatamente forte — Pate non era andato alla locanda per bere, ma Alleras aveva voluto offrire per festeggiare il suo anello di rame, e il senso di colpa gli aveva messo sete — ma sembrava che l’usignolo ripetesse "ferro in oro, ferro in oro, ferro in oro". Davvero strano, perché erano le parole che aveva usato il forestiero la notte in cui Rosey li aveva fatti incontrare. "Chi sei?" gli aveva chiesto Pate. "Un alchimista" aveva risposto l’uomo. ’Posso trasmutare il ferro in oro." E poi nella sua mano era apparsa la moneta, danzando tra una nocca e l’altra, il giallo pastoso dell’oro che scintillava alla luce della candela. Su una faccia c’era un drago con tre teste, sull’altra il ritratto di qualche re defunto. "Ferro in oro" ricordò Pate. "Non si potrebbe fare di meglio. Vuoi la fanciulla? La ami?" "Non sono un ladro" aveva detto Pate al sedicente alchimista. "Sono un novizio della Cittadella." L’uomo aveva chinato il capo. "Se tu dovessi ripensarci" aveva concluso "di qui a tre giorni tornerò con il mio dragone d’oro."

I tre giorni erano passati. Pate era ritornato al Piumino Boccale ancora incerto su chi o che cosa era. Ma invece dell’alchimista aveva trovato Mollander, Armen e la Sfinge, con Roone alle calcagna. Non unirsi alla compagnia avrebbe sollevato sospetti.

Il Piumino Boccale non chiudeva mai. Da seicento anni si ergeva sulla sua isola nella corrente del fiume Vino di Miele, e non una sola volta le sue porte erano state chiuse per i commerci. Anche se l’alta struttura di legno pendeva verso sud nello stesso modo in cui a volte i novizi pendevano verso i loro boccali, Pate era certo che la locanda avrebbe continuato a stare in piedi per altri seicento anni, vendendo vino e birra e quel sidro dannatamente forte a pescatori del fiume e a uomini di mare, a fabbri e cantastorie, a preti e principi, ai novizi e agli accoliti della Cittadella.

«Vecchia Città non è il mondo» dichiarò Mollander a voce troppo alta.

Era figlio di un cavaliere, e così ubriaco da non reggersi in piedi. Da che gli avevano recato la notizia della morte del padre, caduto nella battaglia delle Acque Nere, Mollander si ubriacava quasi ogni notte. Perfino là a Vecchia Città, lontano dai combattimenti, al sicuro dietro le sue mura, la guerra dei Cinque re li aveva toccati tutti… benché l’arcimaestro Benedict ribadisse che, da quando Renly Baratheon era stato assassinato e Balon Greyjoy si era autoincoronato, non era mai esistita alcuna guerra dei Cinque re.

«Mio padre diceva sempre che il mondo è più grande di qualsiasi castello» continuò Mollander. «I draghi devono essere l’ultima cosa che un uomo può trovare a Qarth, ad Asshai e a Yi Ti. Quelle storie di marinai…»

«… sono solo storie di marinai, mio caro Mollander» lo interruppe Armen. «Prova ad andare al molo, e ti garantisco che troverai marinai che ti parleranno delle sirene che si sono portati a letto e di come hanno passato un anno dentro la pancia di un pesce.»

«Tu come fai a sapere che non è vero?» ribatté Mollander da dietro il bicchiere, cercando altre mele. «Devi esserci finito tu dentro la pancia di quel pesce per giurare che loro non ci sono andati. Un marinaio racconta una storia, aye, ci si può anche ridere sopra, ma quando i rematori di quattro diverse navi raccontano la medesima storia in quattro lingue diverse…»

«Non è la medesima storia» insistette Armen. «Draghi ad Asshai, draghi a Qarth, draghi a Meereen, draghi dothraki, draghi che liberano schiavi… ogni storia è diversa dall’altra.»

«Solo nei dettagli.» Più Mollander beveva, più diventava ostinato, ed era uno zuccone anche da sobrio. «Parlano tutte di draghi, e di una bellissima giovane regina.»

L’unico drago che interessava a Pate era fatto d’oro massiccio. Si domandò che cosa fosse successo all’achimista. Il terzo giorno. Aveva detto che sarebbe tornato il terzo giorno.

«C’è un’altra mela vicino al tuo piede» disse Alleras a Mollander «e io ho ancora due frecce nella mia faretra.»

«Al diavolo la tua faretra.» Mollander raccolse un’altra mela strappata dal vento. «Questa ha dentro il verme» si lamentò, ma la lanciò comunque in aria.

La freccia centrò la mela proprio mentre stava cominciando a ricadere, spaccandola di netto in due. Una metà finì sul tetto di una torretta, rotolò su quello più in basso e mancò Armen di mezzo metro.

«Se tagli un verme in due, avrai due vermi» sentenziò l’accolito.

«Funzionasse così anche con le mele, nessuno patirebbe più la fame» commentò Alleras con uno dei suoi sorrisi melliflui. La Sfinge sorrideva sempre, come se conoscesse qualche segreto che tutti gli altri ignoravano. Questo gli conferiva un aspetto malevolo che ben si intonava con il mento appuntito, l’attaccatura dei capelli a punta e la folta massa di riccioli tagliati corti, neri come l’inchiostro.

Alleras sarebbe diventato un maestro. Era alla Cittadella da appena un anno, ma era già riuscito a forgiare tre anelli della catena dell’ordine. Armen avrebbe potuto averne di più, ma per forgiare ognuno dei suoi aveva impiegato un anno. Eppure, anche lui sarebbe diventato un maestro. Roone e Mollander restavano novizi dal collo roseo, ma Roone era molto giovane, mentre Mollander preferiva il bere alla lettura.

Pate, invece…

Era arrivato alla Cittadella da cinque anni, poco più che tredicenne, ma il suo collo era ancora roseo e intonso come il giorno del suo arrivo dalle terre d’Occidente. Due volte aveva ritenuto di essere pronto. La prima volta si era presentato al cospetto del maestro Vaellyn, deciso a dimostrare la sua conoscenza del firmamento. Per contro aveva scoperto perché Aceto Vaellyn si era guadagnato quel soprannome. C’erano voluti due anni prima che Pate trovasse il coraggio di tentare di nuovo. Questa volta aveva affrontato il benevolo maestro Ebrose, noto per la voce pacata e per le mani gentili, ma i sospiri sconsolati di Ebrose si erano rivelati dolorosi quanto le parole taglienti di Vaellyn.

«Un’ultima mela» promise Alleras «e ti dirò qual è il mio sospetto riguardo a questi draghi.»

«Tu che cosa credi di sapere che io non so?» borbottò Mollander. Notò una mela ancora appesa al ramo, spiccò un salto, la strappò e la lanciò.

Alleras tese la corda dell’arco fino all’orecchio, si voltò con grazia seguendo il bersaglio in volo. Scoccò la freccia nell’attimo esatto in cui la mela cominciava a cadere.

«Manchi sempre l’ultimo tiro» disse Roone.

La mela, intatta, colpì il fiume sollevando uno spruzzo.

«Visto?»

«Il giorno in cui li centrerai tutti, smetterai di migliorare.» Alleras tolse la corda dall’arco lungo e lo ripose nella custodia di pelle. L’arco era fatto di cuordoro, un legno raro e rinomato delle isole dell’Estate. Una volta Pate aveva cercato di tenderlo, senza riuscirci. "La Sfinge sembra esile, ma c’è molta forza in quelle braccia sottili" rifletté mentre Alleras si metteva a cavalcioni della panca e allungava una mano verso la coppa di vino. «Il drago ha tre teste» annunciò nel melodioso accento dormano.

«Un enigma?» chiese Roone. «Nelle leggende, le Sfingi parlano sempre per enigmi.»

«Nessun enigma.» Alleras sorseggiò il vino.

Gli altri scolavano boccali del fortissimo sidro per cui il Piumino Boccale era rinomato, ma lui continuava a preferire gli esotici vini dolci di Dorne, terra dei suoi avi. Perfino a Vecchia Città quei vini non erano a buon mercato.

Era stato Leo il Pigro a dare ad Alleras quel soprannome: la Sfinge. Una sfinge è un po’ di questo e un po’ di quello: il volto di un uomo, il corpo di un leone, le ali di un falco. Alleras era proprio così: suo padre era un dorniano, sua madre una nativa delle isole dell’Estate dalla pelle scura. La pelle di Alleras era scura come il tek. E, come le sfingi di marmo verde ai lati del portale principale della Cittadella, Alleras aveva occhi color onice.

«Nessun drago ha mai avuto tre teste, tranne quelli sugli scudi e sui vessilli» dichiarò con fermezza Armen l’Accolito. «È un simbolo araldico, niente di più. Inoltre, i Targaryen sono tutti morti.»

«Non tutti» replicò Alleras. «Il re Mendicante aveva una sorella.»

«Credevo le avessero sfracellato il cranio contro un muro» disse Roone.

«No» ribatté Alleras. «Fu la testa del giovane principe Aegon, il figlio minore di Rhaegar, a essere fracassata contro un muro dai coraggiosi soldati del Leone di Lannister. Stiamo parlando della sorella di Rhaegar, venuta alla luce alla Roccia del Drago prima della caduta dei Targaryen. Quella chiamata Daenerys.»

«"Nata dalla tempesta." Adesso ricordo.» Mollander alzò il boccale, scuotendo il sidro rimasto. «A lei io brindo!» Dopo averlo svuotato, lo batté sulla panca, ruttò e si passò il dorso della mano sulle labbra. «Dov’è Rosey? La nostra legittima regina si merita un altro giro di sidro, non siete d’accordo?»

«Abbassa la voce, stolto.» Armen l’Accolito era allarmato. «Non dovresti neanche dire cose del genere. Non si sa mai chi è in ascolto. Il Ragno ha orecchie dappertutto.»

«Ah, non pisciarti addosso, Armen. Stavo solo proponendo un brindisi, non una rivolta.»

Pate udì qualcuno sogghignare. Una sottile voce vellutata riecheggiò alle sue spalle. «L’ho sempre saputo che eri un traditore, Saltarospo.» Leo il Pigro era stravaccato all’imboccatura del vecchio ponte di assi, drappeggiato in mantello a strisce verde e oro, con una cappa di seta nera trattenuta alla spalla da una rosa di giada. A giudicare dalle chiazze, il vino colato sul davanti del mantello era di un rosso cupo. Una ciocca di capelli biondo cenere gli ricadeva su un occhio.

Nel vederlo, Mollander si irrigidì. «Alla malora. Vattene. Non sei il benvenuto qui.» Alleras gli posò una mano sul braccio per calmarlo, mentre Armen corrugava la fronte. «Leo, mio signore. Avevo creduto di capire che saresti stato confinato nella Cittadella per…»

«… altri tre giorni.» Leo il Pigro scrollò le spalle. «Perestan sostiene che l’età del mondo è di quarantamila anni. Per Mollos invece è di cinquecentomila. Per cui, vi chiedo, che saranno mai tre giorni?» C’era una dozzina di tavoli vuoti sulla terrazza, ma Leo venne a sedersi al loro. «Offrimi una coppa di vino dorato di Arbor, Saltarospo, e forse non dirò a mio padre del tuo brindisi. All’Azzardo Inaspettato i dadi mi si sono rivoltati contro e ho sprecato il mio ultimo cervo d’argento per la cena. Maialino da latte in salsa di prugne, ripieno di castagne e tartufi bianchi. Un uomo deve pur mangiare. Voialtri che cosa avete preso?»

«Montone» mugugnò Mollander. Non sembrava per nulla soddisfatto di quella scelta. «Abbiamo condiviso uno stinco di montone bollito.»

«Sono certo che vi avrà riempito la pancia.» Leo si rivolse ad Alleras. «Il figlio di un lord dovrebbe essere più largo di manica, Sfinge. Mi hanno detto che hai forgiato il tuo anello di rame. Questo vale un brindisi.»

Alleras rispose al suo sorriso. «Offro solamente agli amici. E io non sono il figlio di un lord, te l’ho già detto. Mia madre faceva commerci.»

«Tua madre era una scimmia delle isole dell’Estate.» Gli occhi azzurri di Leo luccicavano di vino e di malizia. «Quanto ai dorniani, fottono qualsiasi cosa abbia un buco tra le gambe. Senza offesa. Tu sarai anche scuro di pelle, ma per lo meno ti fai il bagno. A differenza di quel maiale pieno di croste del nostro ragazzotto, qui» e indicò Pate con un gesto molle della mano.

"Se lo colpissi alle labbra con il boccale, potrei spaccargli metà dei denti." pensò il giovane novizio. Pate il Macchiato, il ragazzo maiale, era l’eroe di mille storie: lo stolto dal cuore buono e dalla testa vuota che riusciva sempre a battere i pingui signorotti, i cavalieri infidi e i pomposi septon che lo disprezzavano. In un modo o nell’altro, la sua stupidità finiva sempre per rivelarsi una sorta di ruvida scaltrezza: le storie finivano sempre con Pate il Macchiato che si ritrovava seduto sullo scanno di un alto lord o sdraiato nel letto della figlia di un cavaliere. Ma quelle erano leggende. Nella realtà non c’erano finali del genere per i ragazzi maiale. A volte Pate pensava che sua madre doveva averlo odiato per avergli imposto quel nome.

Alleras aveva smesso di sorridere. «Tu ora ti devi scusare.»

«Davvero?» fece Leo. «E come potrei? Ho la gola talmente secca…»

«Ogni parola che pronunci… getti vergogna sulla tua casata» disse Alleras. «Ed essendo uno di noi, getti vergogna sulla Cittadella.»

«Lo so. Forza, offrimi del vino, e ci annegherò la mia vergogna.»

«Ti strapperei via quella linguaccia…» minacciò Mollander.

«Sul serio? Ma poi come farei a parlarti dei draghi?» Leo scrollò nuovamente le spalle. «Lo scimmiotto dice il giusto. La figlia del re Folle è viva, ed è lei che ha tre draghi.»

«Tre?» Roone era stupefatto.

«Più di due e meno di quattro.» Leo gli diede dei colpetti sulla mano. «Non tenterei di ottenere l’anello d’oro, se fossi in te.»

«E lascialo stare» intimò Mollander.

«Come sei cavalleresco, Saltarospo! Come desideri. Chiunque abbia navigato fino a cento leghe da Qarth parla di quei draghi. C’è chi dice addirittura di averli visti. Il Mago è incline a crederci.»

«Marwyn non c’è con la testa.» Armen protese le labbra in segno di disappunto. «L’arcimaestro Perestan è il primo a dirlo.»

«Lo dice anche l’arcimaestro Ryam» intervenne Roone.

Leo sbadigliò. «Il mare è bagnato, il sole è caldo e il gregge odia il mastino.»

"Ha una parola di spregio per tutti" pensò Pate, ma al tempo stesso non poteva negare che Marwyn sembrava più un mastino che un maestro. "Come se ti volesse mordere." Il Mago non era come gli altri maestri. La gente diceva che preferiva la compagnia delle baldracche e degli stregoni, che parlava nel loro linguaggio con i villosi ibbenesi e con i nativi neri come il carbone delle isole dell’Estate, che faceva sacrifici a strane divinità nei piccoli templi dei marinai giù al molo. Qualcuno diceva di averlo visto nella Suburra, nelle fosse dei ratti e nei bordelli oscuri, intento a far comunella con guitti, cantastorie, mercenari e perfino mendicanti. Alcuni arrivavano a sussurrare che una volta aveva ucciso un uomo a mani nude.

Quando Marwyn aveva fatto ritorno a Vecchia Città, dopo aver trascorso otto anni all’Est tracciando mappe di terre lontane, cercando libri perduti, studiando con gli stregoni e i vati delle ombre, Aceto Vaellyn lo aveva soprannominato "il Mago". "Lascia gli incantesimi e le preghiere ai preti e ai septon e piega la tua arguzia imparando saggezza da un uomo di cui ti puoi fidare" aveva consigliato una volta a Pate l’arcimaestro Ryam, ma l’anello, la verga e la maschera di Ryam erano giallo oro, e la sua catena di maestro non aveva anelli in acciaio di Valyria.

Armen scrutò Leo il Pigro dall’alto in basso. Il suo naso lungo e sottile era perfetto per quel tipo di atteggiamento. «L’arcimaestro Marwyn crede in molte cose insolite» disse «ma non ha più prove dell’esistenza dei draghi di quante ne possieda Mollander. Sono soltanto altre storie di marinai.»

«li sbagli» ribatté Leo. «C’è una candela di vetro che brucia nelle stanze del Mago.»

Sulla terrazza illuminata dalle torce calò un improvviso silenzio. Armen sospirò, scuotendo la testa. Mollander cominciò a ridere. La Sfinge scrutò Leo con i suoi grandi occhi neri. Roone aveva lo sguardo sperduto.

Pate sapeva delle candele di vetro, anche se non ne aveva mai vista una bruciare. Erano il segreto peggio custodito della Cittadella. Si diceva che fossero state portate a Vecchia Città da Valyria mille anni prima del Disastro. Pate aveva sentito dire che ne esistevano quattro: una verde e le altre tre nere, e tutte erano alte e ritorte.

«Che cosa sono queste candele di vetro?» chiese Roone.

Armen l’Accolito si schiarì la voce. «La notte prima di pronunciare il giuramento, l’accolito deve stare di veglia nella cripta. Non gli è concessa una lanterna, né torcia, né lampada o lume… Solo una candela di ossidiana. Dovrà trascorrere la notte nelle tenebre, a meno che non riesca ad accendere quella candela. Alcuni ci provano, gli sciocchi e gli ostinati che hanno studiato questi cosiddetti alti misteri. Spesso si tagliano le dita, perché si dice che i bordi della candela di ossidiana siano affilati come rasoi. Poi, con le mani insanguinate, sono costretti ad aspettare fino all’alba, rimuginando sul loro fallimento. Gli uomini più saggi si mettono a dormire e basta, o passano la notte in preghiera, ma ogni anno c’è sempre qualcuno che ci deve provare.»

«Sì.» Anche Pate aveva sentito raccontare quella storia. «Ma a che cosa serve una candela che non fa luce?»

«È un insegnamento» rispose Armen «l’ultima lezione che dobbiamo apprendere prima di indossare la catena di maestri. La candela di vetro significa verità e conoscenza, cose rare, belle e fragili. Ha la forma di una candela per ricordarci che un maestro deve diffondere luce ovunque sia, e i bordi della candela sono affilati per ricordarci che la conoscenza può essere pericolosa. Gli uomini saggi possono tramutare la loro saggezza in arroganza, ma un maestro deve sempre rimanere umile. La candela di vetro ci ricorda tutto questo. Perfino dopo aver pronunciato il giuramento e avere indossato la catena ed essere andato a servire, il maestro ricorderà la tenebra della sua notte di veglia, e ricorderà come nulla di quanto aveva tentato fosse stato in grado di far bruciare quella candela… perché anche se si possiede la conoscenza, certe cose sono comunque impossibili.»

Leo il Pigro scoppiò a ridere. «Impossibili per te, vorrai dire. Io ho visto con i miei occhi la candela bruciare.»

«Hai visto bruciare una candela, di questo non dubito» disse Armen. «Forse una candela di cera nera.»

«So quello che ho visto. La luce era strana e vivida, molto più intensa di quella di qualsiasi candela di cera o di sego. Proiettava strane ombre e la fiamma non ondeggiava mai, nemmeno quando una folata d’aria è arrivata da una porta aperta alle mie spalle.»

Armen incrociò le braccia. «L’ossidiana non brucia.»

«Vetro di drago» disse Pate. «Il popolino lo chiama così.» La cosa sembrava importante.

«È vero» mormorò Alleras la Sfinge «e se i draghi hanno fatto ritorno nel mondo…»

«Draghi e cose ancora più oscure» disse Leo. «Le pecore grigie hanno chiuso gli occhi e il mastino vede la verità. Antiche forze si risvegliano. Ombre si agitano. Un’era di meraviglie e di terrori incombe su di noi, un’era di dèi e di mitici eroi.» Si stiracchiò, esibendo il suo pigro sorriso. «Tutto questo vale una coppa, dico io.»

«Abbiamo bevuto abbastanza» dichiarò Armen. «Il mattino ci sarà addosso prima di quanto vorremmo, e l’arcimaestro Ebrose parlerà delle proprietà dell’urina. Quelli che intendono forgiare un anello d’argento faranno bene a non perdere la sua prolusione.»

«Lungi da me trattenervi da un assaggio di piscio» disse Leo. «Quanto a me, preferisco del vino dorato di Arbor.»

«Se la scelta è fra te e il piscio, preferisco il piscio.» Mollander si allontanò dal tavolo. «Andiamo, Roone.»

La Sfinge afferrò la custodia dell’arco. «Me ne vado a letto anch’io. Credo che sognerò draghi e candele di vetro.»

«Andate via tutti?» Leo scrollò le spalle. «Bene, rimane Rosey. Forse risveglierò il piccolo birillo e farò di lei una donna.»

Alleras notò l’espressione sul volto di Pate. «Se non ha una moneta di rame per comprarsi una coppa di vino, non ha nemmeno un dragone d’oro per comprarsi la ragazza.»

«Aye» gli fece eco Mollander. «E poi ci vuole un uomo per fare una donna. Vieni con noi, Pate. Il vecchio Walgrave si sveglia al sorgere del sole. Avrà bisogno di te per andare alla latrina.»

"Ammesso che oggi si ricordi chi sono." L’arcimaestro Walgrave non aveva alcun problema nel riconoscere i corvi, ma non era altrettanto bravo con le persone. Certi giorni confondeva Pate con qualcuno di nome Cressen.

«Non subito» disse Pate agli amici. «Io resto un altro po’.» Non era ancora l’alba. L’alchimista poteva ancora arrivare e in quel caso Pate voleva essere là ad attenderlo.

«Come vuoi» disse Armen.

Lanciò a Pate una lunga occhiata, poi si mise l’arco sull’esile spalla e seguì gli altri verso il ponte. Mollander era così ubriaco da essere costretto a camminare appoggiando una mano sulla spalla di Roone per non cadere. La Cittadella non era lontana, a patto di essere un corvo, solo che nessuno di loro lo era, e Vecchia Città era un vero e proprio labirinto, tutta vicoli, stradine incrociate le une con le altre e strette strade tortuose.

«Sta’ attento» Pate udì Armen dire mentre le nebbie del fiume inghiottivano i quattro giovani apprendisti maestri. «La notte è umida e i ciottoli sono scivolosi.»

Dopo che se ne furono andati, Leo il Pigro lanciò a Pate uno sguardo tetro dall’altra parte del tavolo. «Che tristezza. La Sfinge se n’è andato con tutto il suo argento, abbandonandomi qui con Pate il Macchiato, il ragazzo maiale.» Si stiracchiò, sbadigliando. «Dimmi un po’, come sta la nostra piccola, adorata Rosey?»

«Dorme» rispose seccamente Pate.

«Nuda, senza dubbio.» Leo sogghignò. «Pensi che valga davvero un dragone d’oro? Un giorno o l’altro dovrò scoprirlo.»

Pate fu abbastanza furbo da non rispondere.

A Leo non serviva una risposta. «Immagino che dopo averle dato una ripassata, il suo prezzo crollerà, e anche i ragazzi maiale se la potranno permettere. Dovresti ringraziarmi.»

"Dovrei ucciderti" pensò Pate, ma non era ubriaco al punto di gettare via la propria vita. Leo aveva ricevuto un addestramento d’arme e si diceva fosse micidiale con l’accoppiata bravosiana lama lunga e pugnale. E se anche fosse riuscito a ucciderlo, questo gli sarebbe comunque costato la testa. Leo aveva due nomi, mentre Pate ne aveva uno soltanto, e il secondo nome di Leo era Tyrell. Ser Moryn Tyrell, comandante della Guardia cittadina di Vecchia Città, era il padre di Leo. Mace Tyrell, lord di Alto Giardino e Protettore del Sud, era suo cugino. E l’Anziano di Vecchia Città, lord Leyton di Hightower, che tra i suoi molti titoli annoverava anche quello di Protettore della Cittadella, aveva giurato fedeltà alla Casa Tyrell quale alfiere. "Lascia perdere" si disse Pate. "Parla così solamente per ferirti."

Verso est, le nebbie stavano diradandosi. "L’alba" si rese conto Pate. "L’alba è arrivata, l’alchimista invece no." Non sapeva se ridere o piangere. "Rimango un ladro anche se restituisco il maltolto senza che nessuno sappia mai nulla?" Un’altra domanda per la quale non aveva risposta, come per quelle che gli avevano posto Ebrose e Vaellyn.

Quando spinse indietro la panca e si alzò in piedi, tutto quel sidro dannatamente forte gli arrivò alla testa come una slavina. Dovette puntellarsi al tavolo con una mano per tenersi diritto. «Lascia stare Rosey» disse, a mo’ di commiato. «Lasciala stare, se no potrei ucciderti.»

Leo Tyrell scostò la ciocca di capelli dall’occhio. «Non mi metto a duellare con ragazzi maiale. Vattene.»

Pate gli voltò le spalle e attraversò la terrazza. I suoi tacchi martellarono contro le assi corrose del vecchio ponte. Quando raggiunse l’estremità opposta, il cielo stava tingendosi di rosa. "Il mondo è grande" pensò. "Se comprassi quell’asino, potrei vagabondare per le strade e i crocicchi dei Sette Regni, facendo salassi al popolino e togliendo pidocchi dai capelli. Potrei imbarcarmi su una nave, mettermi ai remi e arrivare fino a Qarth attraverso i Portali di Giada, in modo da vedere con i miei occhi quei draghi maledetti. Non devo tornare per forza dal vecchio Walgrave e dai suoi corvi."

Ma i piedi lo portarono verso la Cittadella.

Quando la prima lama di luce solare spezzò le nubi a est, le campane del mattino cominciarono a suonare dal Tempio del Marinaio giù verso il porto. Il Tempio del Lord si unì ai rintocchi un attimo dopo, poi furono i Sette Santuari dai loro giardini sulla riva opposta del fiume Vino di Miele, infine il Tempio Stellato, che per mille anni era stato lo scanno dell’Alto Sacerdote prima che Aegon Targaryen il Conquistatore sbarcasse ad Approdo del Re. Tutti quei rintocchi si fusero in un’unica melodia. "Anche se non è dolce quanto il canto di un solo usignolo."

Pate udiva anche un canto, sotto la voce delle campane. Ogni mattina, alle prime luci, i preti rossi si radunavano per accogliere il sole all’esterno del loro modesto tempio sul fronte del porto. "Perché oscura è la notte e piena di terrori." Pate li aveva uditi centinaia di volte intonare quelle parole, chiedendo al loro dio R’hllor, Signore della luce, di salvarli dalle tenebre. I Sette Dèi erano sufficienti per Pate, ma aveva udito che ora Stannis Baratheon si era messo a adorare i fuochi notturni. Stannis era addirittura arrivato a sostituire sui vessilli il cervo incoronato, simbolo della sua antica casata, con il cuore fiammeggiante di R’hllor. "Se dovesse salire sul Trono di Spade, tutti noi faremmo bene a imparare le parole di quel canto" pensò Pate, ma la cosa non sembrava probabile. Tywin Lannister aveva sbaragliato Stannis e R’hllor sul fiume delle Acque Nere, ben presto il lord del Leone li avrebbe finiti, issando la testa dell’aspirante re Baratheon su una picca sopra le porte di Approdo del Re.

Mentre le brume della notte si dileguavano, Vecchia Città prese forma attorno a Pate, emergendo come una teoria di spettri dal plumbeo della prealba. Pate non aveva mai visto Approdo del Re, ma sapeva che era una città di canniccio e argilla, una distesa di strade fangose, tetti di tegole e strutture di legno. Vecchia Città era fatta di pietra, e tutte le sue strade erano acciottolate, dalle grandi arterie fino al vicolo più misero. La città non appariva mai così bella come al sorgere del sole. A ovest del fiume, gli edifici dell’ordine dei Maestri si susseguivano lungo la riva come una fila di palazzi nobiliari. A monte, le cupole e le torri della Cittadella si levavano su entrambe le sponde del Vino di Miele, collegate da ponti di pietra, circondate da padiglioni e case. A valle, sotto le mura di marmo nero e le finestre ad arco del Tempio Stellato, le casupole del popolino si ammassavano come bambini raccolti ai piedi di un vecchio saggio.

E più oltre, dove il Vino di Miele si allargava nello stretto dei Sussurri, svettava la Hightower, con i suoi fuochi scintillanti contro l’alba. Dalla sua posizione, in cima alle scogliere dell’isola della Battaglia, la sua ombra si proiettava sulla città come una spada oscura. Chi era nato e vissuto a Vecchia Città, era in grado di capire l’ora del giorno in base a dove cadeva quell’ombra. Alcuni asserivano che dalla sua sommità si riusciva a vedere fino alla Barriera, l’immane sbarramento di ghiaccio all’estremo nord dei Sette Regni. Forse era per questo che da oltre dieci anni lord Leyton non scendeva dalla Hightower, preferendo dominare la sua città dalle nubi.

Il carretto di un macellaio superò Pate cigolando lungo la strada del fiume, con cinque maialini sul pianale che rugliavano di paura. Pate saltò di lato, evitando di essere inzuppato da una donna che da una finestra svuotava i pitali pieni degli escrementi della notte. "Quando sarò maestro in un castello avrò un cavallo mio" pensò. Poi inciampò in un ciottolo e si domandò chi volesse ingannare. No, non ci sarebbero state catene di maestro per lui, né scanni al desco di un alto lord, né destrieri bianchi da montare. Avrebbe trascorso i suoi giorni con le orecchie piene del gracchiare incessante dei corvi, ripulendo chiazze di merda dalle mutande dell’arcimaestro Walgrave.

Con un ginocchio a terra, Pate stava cercando di togliersi il fango dalle tonache. Da dietro venne una voce.

«Buongiorno, Pate.»

L’alchimista incombeva su di lui.

Pate si rialzò. «Il terzo giorno… avevi detto che saresti venuto al Piumino Boccale.»

«Eri con i tuoi amici. Non volevo intromettermi nel vostro cameratismo.» L’alchimista indossava un mantello da pellegrino con il cappuccio, marrone e anonimo. Il sole nascente dardeggiava sui tetti dietro di lui, per cui era difficile distinguere i lineamenti sotto il cappuccio. «Hai deciso chi sei, Pate?»

"Deve proprio farmelo dire?" «Un ladro, credo.»

«Lo immaginavo.»

La cosa più difficile era stata mettersi carponi e tirare fuori la cassa da sotto il letto dell’arcimaestro Walgrave. Era di legno massiccio e rinforzata da bande di ferro, ma il lucchetto era rotto. Maestro Gormon sospettava che fosse stato Pate a romperlo, ma non era vero. Lo aveva spezzato Walgrave quando si era accorto di aver perso la chiave.

Nella cassa, Pate aveva trovato una sacca di cervi d’argento, una ciocca di capelli biondi legata da un nastro, la miniatura di una donna che sembrava Walgrave (baffi inclusi) e un guanto ferrato da cavaliere in acciaio lamellare. Il guanto ferrato era appartenuto a un principe, a detta di Walgrave, anche se non riusciva più a rammentare quale. Pate lo aveva scosso e la chiave era caduta sul pavimento.

"Se la raccolgo, sono un ladro" ricordò di avere pensato. La chiave era vecchia e pesante, di ferro scuro. Si diceva potesse aprire tutte le porte della Cittadella. Gli arcimaestri erano gli unici a possedere quel genere di chiavi. Gli altri le tenevano con sé o le riponevano in un luogo sicuro, ma se Walgrave avesse nascosto la sua, nessuno l’avrebbe più vista. Pate aveva preso la chiave e, a metà strada dalla porta, era tornato indietro a prendere anche l’argento. Un ladro resta comunque un ladro, che rubi poco o molto. "Pate" aveva chiamato uno dei corvi bianchi. "Pate, Pate, Pate."

«Hai il mio dragone d’oro?» chiese all’alchimista.

«Solo se tu hai quello che ti ho chiesto.»

«Tiralo fuori. Lo voglio vedere.» Pate non aveva intenzione di farsi fregare.

«La strada del fiume non è il posto adatto. Vieni.»

Pate non ebbe il tempo di riflettere, di valutare le alternative. L’alchimista si stava allontanando. Pate fu costretto a seguirlo, altrimenti rischiava di perdere sia Rosey sia il dragone d’oro, per sempre. Pate seguì l’alchimista. Camminando, infilò una mano nella manica. Poteva sentire la chiave, al sicuro nella tasca segreta che aveva cucito all’interno. Le tonache dei maestri erano piene di tasche, come lui sapeva fin da bambino.

Fu costretto ad affrettare il passo per tener dietro alle lunghe falcate dell’alchimista. Percorsero un vicolo, svoltarono un angolo, superarono il vecchio Mercato dei Ladri, percorsero la strada dei Venditori di Stracci. Alla fine, l’alchimista si infilò in un altro vicolo, più stretto del primo.

«Qui è abbastanza lontano» disse Pate. «In giro non c’è nessuno. Concludiamo.»

«Come desideri.»

«Voglio il mio dragone.»

«Certamente.»

La moneta apparve. L’alchimista la fece vorticare tra una nocca e l’altra, come aveva fatto quando Rosey lo aveva presentato a Pate. Nella luce del mattino, il drago istoriato sulla moneta scintillava a ogni movimento, conferendo alle dita dell’alchimista una sfumatura dorata.

Pate gli strappò la moneta. L’oro era caldo nella palma della sua mano. Si portò la moneta alla bocca, diede un morso come aveva visto fare ad altri uomini. A dire il vero, non sapeva che sapore avesse l’oro, ma non voleva fare la figura dello stolto.

«La chiave?» chiese gentilmente l’alchimista.

Qualcosa indusse Pate a esitare. «È un libro che vuoi?» Si diceva che alcuni degli antichi rotoli di Valyria custoditi nelle cripte della Cittadella fossero gli unici esemplari rimasti al mondo.

«Quello che voglio non ti riguarda in alcun modo.»

«No.» "È fatta" si disse Pate. "Va’. Torna di corsa al Piumino Boccale, sveglia Rosey con un bacio, dille che ora lei è tua." Ma rimase in quel vicolo. «Mostrami la tua faccia.»

«Come desideri.» L’alchimista abbassò il cappuccio.

Era soltanto un uomo, e la sua faccia era soltanto una faccia. Il viso di un uomo giovane, ordinario, guance piene e un accenno di barba. La pallida traccia di una cicatrice gli segnava la guancia destra. Aveva il naso adunco e folti capelli neri, arricciati dietro le orecchie. Una faccia che Pate non riconobbe.

«Non ti conosco.»

«Né io conosco te.»

«Chi sei?»

«Uno straniero. Nessuno. Davvero.»

«Oh.» Pate era a corto di parole. Tirò fuori la chiave e la mise nella mano dello straniero. Si sentiva la testa vuota, come al limite di una vertigine. "Rosey" ricordò a se stesso. «Allora abbiamo finito.»

Si diresse verso l’uscita del vicolo. I ciottoli cominciarono a muoversi sotto i suoi piedi. "Le pietre sono bagnate, scivolose" pensò, ma non era quello. Pate sentì il cuore martellargli nel petto.

«Ma che cosa succede…?» Sentì le gambe tramutarsi in acqua. «Non capisco.»

«Non capirai mai» disse una voce triste.

I ciottoli si sollevarono a baciarlo. Pate cercò di gridare, ma anche la sua voce stava svanendo.

Il suo ultimo pensiero fu per Rosey.

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