XIII LA COLLINA OTTAGONALE

Nei pressi del fiume Licking la terra trasmetteva una sensazione diversa. Alvin non se ne rese conto immediatamente, anche perché correva — per così dire — a stoppino abbassato. Di ciò che gli stava attorno non si curava quasi per niente. Correre in quel modo era per lui come un lungo sogno ininterrotto. Tutt’intorno a sé, qualunque cosa il sogno gli mostrasse in quel momento, cominciò a scorgere scintille di un fuoco nero e profondo. Non come il nulla sempre in agguato ai margini del suo campo visivo. Non come quell’oscurità impenetrabile che risucchiava dentro di sé ogni raggio di luce, catturandolo per sempre. No, quel nero brillava, e mandava scintille.

E quando smisero di correre e Alvin tornò in sé, le fiammelle nere si abbassarono leggermente, ma non sparirono del tutto. Senza pensarci, Alvin si avvicinò a una di quelle fiammelle, un bagliore nero in un mare di verde, si chinò e la raccolse. Era una selce, bella grossa.

«Una selce da venti frecce» valutò Ta-Kumsaw.

«Brucia, ma è fredda. Brilla, ma è nera» fu il commento di Alvin.

Ta-Kumsaw annuì. «Vuoi veramente diventare un Rosso? Allora ti insegnerò a fabbricare le punte di freccia.»

Alvin imparò in fretta. Non era la prima volta che lavorava la pietra. Quando tagliava una macina da mulino, le superfici dovevano essere piane e lisce. Con la selce ciò che contava non erano le superfici, ma i bordi. Le prime due punte di freccia non gli vennero troppo bene, ma quei primi tentativi gli servirono a saggiare la struttura interna della pietra, le pieghe e le fratture naturali, delle quali servirsi per spezzarla. Arrivato alla quarta punta di freccia, non si servì più di un’altra pietra ma della semplice pressione delle dita, con cui staccò delicatamente la punta dal resto del pezzo di selce.

Il volto di Ta-Kumsaw era completamente inespressivo. Così lo vedevano i Bianchi per la maggior parte del tempo. Pensavano che i Rossi, e in particolar modo Ta-Kumsaw, non provassero mai niente, solo perché non lasciavano mai trasparire i loro sentimenti all’esterno. Ma Alvin l’aveva visto ridere e piangere, e assumere tutte le espressioni possibili a un essere umano. Perciò sapeva che quando il viso di Ta-Kumsaw non lasciava trapelare alcuna emozione era proprio perché stava provando un mucchio di cose.

«Ho già lavorato la pietra prima d’ora» gli confidò Alvin, come per chiedere scusa.

«La selce non è pietra» ribatté Ta-Kumsaw. «I ciottoli dei fiumi, i macigni, quella è pietra. Questa è roccia vivente, roccia di fuoco, dura terra che la terra ci offre spontaneamente. Non abbiamo bisogno di strappargliela a forza, come fanno i Bianchi col ferro.» Alzò la quarta punta di freccia, quella che Alvin aveva staccato con le dita dal pezzo di selce. «L’acciaio non avrà mai un filo così tagliente.»

«Non credo di aver mai visto un filo così perfetto» disse Alvin.

«Nemmeno un segno o un’intaccatura» confermò Ta-Kumsaw. «Nel vedere questa punta, un uomo rosso direbbe che è stata la terra stessa a crearla così.»

«Ma tu sai com’è andata» replicò Al. «Sai che ho questo dono.»

«Un dono piega la terra» disse Ta-Kumsaw. «Come un tronco sommerso in un fiume fa ribollire la superficie dell’acqua. La terra fa lo stesso, quando un Bianco usa i suoi doni. Ma non quando lo fai tu.»

Alvin ci meditò su per qualche istante. «Vuoi dire che quando qualcuno fa uno scongiuro, getta un incantesimo o esercita la rabdomanzia, tu riesci a sentirlo?»

«Come il puzzo di un malato che si libera l’intestino» affermò Ta-Kumsaw. «Ma tu… quello che fai tu è pulito. Come se facesse parte della terra. Avevo creduto di poterti aiutare a diventare un Rosso. Invece è la terra stessa a concederti le punte di freccia. Come se volesse farti un dono.»

Di nuovo, Alvin ebbe la sensazione di dovergli chiedere scusa. In qualche modo Ta-Kumsaw sembrava irritato dalle cose che lui riusciva a fare. «Non è che l’abbia chiesto a nessuno» disse. «Mi è semplicemente capitato di essere il settimo figlio maschio di un settimo figlio maschio, e il tredicesimo figlio dei miei genitori.»

«Questi numeri — sette, tredici — a cui voi Bianchi date tanta importanza! Per la terra è come se non esistessero. I veri numeri sono quelli che la terra stessa ci dà. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… questi sono i numeri che vediamo intorno a noi nella foresta. Dov’è il sette? Dov’è il tredici?»

«Forse è per questo che sono così potenti» azzardò Alvin. «Forse è proprio perché non sono naturali.»

«Se questo tuo dono è innaturale, perché mai la terra dovrebbe apprezzarlo?»

«Non lo so, Ta-Kumsaw. Ho solo dieci anni, e vado per gli undici.»

Ta-Kumsaw rise. «Dieci? Undici? Sono numeri molto deboli.»

Lì trascorsero la notte, ai confini della Terra delle Selci. Ta-Kumsaw narrò ad Alvin la storia di quel luogo, dove si trovavano le selci migliori della terra. Per quante selci uno si portasse via, dal terreno ne uscivano di nuove, e bastava chinarsi per raccoglierle. In passato, ogni tanto qualche tribù aveva cercato di impadronirsi di quel luogo inviando i suoi guerrieri a occuparlo con l’incarico di uccidere chiunque vi si recasse in cerca di selci. In quel modo la tribù sarebbe stata l’unica a poter disporre di punte di freccia. Ma la cosa non aveva mai funzionato. Non appena la tribù vittoriosa s’impossessava di quel luogo, le selci immediatamente scomparivano senza lasciare la minima traccia. I guerrieri perlustravano il terreno a palmo a palmo senza trovare nulla. Allora se ne andavano, e quando un’altra tribù capitava da quelle parti scopriva che le selci erano tornate, numerose come prima.

«Questo posto appartiene a tutti. Tutti i Rossi qui sono in pace. Niente sangue, niente guerre, niente litigi… o la tribù resta senza selci.»

«Quanto vorrei che il mondo intero fosse così» disse Alvin.

«Basta ascoltare mio fratello abbastanza a lungo, ragazzo bianco, e uno comincia a pensare che la meta sia già raggiunta. No, no, non spiegarmi nulla. Non difenderlo. Lui ha preso la sua strada, io la mia. E sono convinto che in fondo alla sua strada i morti — Rossi e Bianchi — saranno molto più numerosi che in fondo alla mia.»

Quella notte Alvin fece un sogno. Camminava lungo la base della Collina Ottagonale, finché non arrivava al punto dove un sentiero scosceso sembrava condurre alla sommità della collina. Lo prendeva, e alla fine arrivava in cima. Mosse dalla brezza, le foglie d’argento degli alberi tremolavano accecandolo con i loro riflessi. Avvicinatosi a un albero, Alvin scorgeva un nido di pettirosso. Ciascuno di quegli alberi ne ospitava uno.

Tutti tranne uno, molto diverso dagli altri. Era vecchio e contorto, e i suoi rami invece di dirigersi verso l’alto si allargavano. Come quelli di un albero da frutto. E le foglie non erano d’argento, ma d’oro, e il loro riflesso era meno forte, ma caldo e gradevole. Appesi ai rami Alvin scorgeva dei frutti bianchi e rotondi, e capiva che erano maturi. Ma quando allungava la mano per coglierne uno e mangiarlo, udiva risate e grida di scherno. Si voltava, e alle sue spalle vedeva tutti coloro che lo avevano conosciuto, e tutti quanti ridevano di lui. Tranne uno… Scambiastorie. In piedi accanto a lui gli diceva: «Mangia». Alvin stendeva la mano, coglieva uno di quei frutti, se lo portava alla bocca e gli dava un morso. La polpa era soda e succosa, e il sapore era dolce e amaro, salato e acido insieme, così forte da farlo rabbrividire da capo a piedi… ma squisito, un sapore che Alvin avrebbe voluto conservare dentro di sé per sempre.

Stava per dare un secondo morso, quando si accorgeva che il frutto era sparito, e sull’albero non ne restava più neanche uno. «Per ora un morso è tutto ciò di cui hai bisogno» diceva Scambiastorie. «Ricorda sempre questo sapore.»

«Non me ne dimenticherò» assicurava Alvin.

Gli altri continuavano a ridere, più forte che mai; ma Alvin non se ne dava per inteso. Aveva dato un morso a quel frutto, e ora pensava soltanto a condurre a quell’albero i suoi familiari, tutti coloro che aveva conosciuto in vita sua, persino gli estranei, e far loro assaggiare quei frutti. Se solo li avessero assaggiati, pensava Alvin, avrebbero capito.

«Che cosa capirebbero?» chiedeva Scambiastorie.

Al non riusciva a farselo tornare in mente. «Capirebbero e basta» diceva. «Capirebbero tutto. Tutto quello che bisogna capire.»

«Giusto» ribatteva Scambiastorie. «Al primo morso, si capisce.»

«E al secondo?»

«Al secondo morso, si vive in eterno» diceva Scambiastorie. «E questa non è cosa da augurare a nessuno, ragazzo mio. Brutta cosa, mettersi in testa di poter vivere in eterno.»

Al mattino, quando si svegliò, Alvin aveva ancora in bocca il sapore di quel frutto. Per convincersi che era stato solo un sogno dovette quasi farsi violenza. Ta-Kumsaw era già in piedi. Dopo avere acceso un focherello, aveva chiamato a sé due trote del fiume Licking, che ora sfrigolavano sulle braci con un bastoncino infilato nella bocca. Ta-Kumsaw ne porse una ad Alvin perché la reggesse sul fuoco.

Ma Alvin non aveva voglia di mangiare. Se l’avesse fatto, non avrebbe più sentito il sapore di quel frutto. Avrebbe cominciato a dimenticare, e invece voleva ricordare. Certo, sapeva bene che prima o poi avrebbe dovuto mangiare qualcosa… A forza di digiunare, si rischia di dimagrire un po’ troppo. Ma quel giorno, o almeno per il momento, non voleva mangiare.

Ciò nonostante, prese lo spiedo e guardò la trota sfrigolare. Ta-Kumsaw intanto parlava, spiegandogli che quando uno aveva bisogno di nutrirsi poteva chiamare i pesci e gli altri animali. Chiedendo loro di venire. Se la terra vuole che tu mangi, gli animali da te chiamati arrivano; o magari ne arrivano altri, non importa, comunque mangi ciò che la terra ti dona. Alvin pensò al pesce che stava cuocendo. Non lo sapeva, la terra, che quella mattina non avrebbe avuto voglia di mangiare? O gli aveva mandato quel pesce per fargli capire che avrebbe dovuto cibarsi?

Né l’una né l’altra cosa. Nel preciso istante in cui i pesci furono pronti, infatti, si udì il tipico rumore di passi pesanti e rami spezzati che preannunciava l’arrivo di un Bianco.

Ta-Kumsaw si immobilizzò, ma non fece nemmeno il gesto di prendere il coltello. «Se la terra ha permesso a un Bianco di arrivare fin qui» disse «questo significa che non è mio nemico.»

Qualche istante dopo, l’uomo bianco faceva il suo ingresso nella radura. Dove non era calvo, aveva i capelli bianchi. Il cappello lo portava in mano. Sulla spalla aveva una bisaccia semivuota, ed era completamente disarmato. Alvin seppe immediatamente che cosa c’era in quella bisaccia. Qualche indumento di ricambio, un po’ di cibo e un libro. Il primo terzo di quel libro conteneva le frasi di coloro che vi avevano descritto la cosa più importante che avessero visto con i loro occhi. Gli altri due terzi del libro, invece, erano chiusi da una cinghia di pelle. Qui Scambiastorie scriveva le sue storie, quelle in cui credeva e della cui importanza era convinto.

E infatti si trattava proprio di Scambiastorie, che Alvin non aveva più sperato di rivedere. A un tratto, rivedendo il suo vecchio amico, Alvin capì come mai al richiamo di Ta-Kumsaw avessero risposto due pesci. «Scambiastorie» disse Alvin «spero che tu abbia fame, perché ho qui un pesce che ti aspetta.»

Scambiastorie sorrise. «Sono proprio contento di vederti, Alvin, e sono proprio contento di vedere quel pesce.»

Alvin gli porse lo spiedo. Scambiastorie si mise a sedere sull’erba sul lato opposto del fuoco rispetto ad Alvin e a Ta-Kumsaw. «Ti ringrazio infinitamente, Alvin» disse. Tirato fuori il coltello, cominciò a tagliare sottili fette di pesce. Gli scottavano le labbra, ma lui continuò imperterrito a leccare e a far schioccare la lingua. Nel giro di pochi minuti la trota era sparita. Nel frattempo anche Ta-Kumsaw mangiava, mentre Alvin li osservava entrambi. Ta-Kumsaw non distolse mai lo sguardo da Scambiastorie.

«Questo è Scambiastorie» lo presentò Alvin. «È l’uomo che mi ha insegnato a guarire.»

«Io non ti ho insegnato nulla» disse Scambiastorie. «Ti ho solo suggerito qualche idea sul modo in cui avresti potuto imparare a farlo. E ti ho persuaso a provare.» Scambiastorie si rivolse a Ta-Kumsaw. «Era deciso a lasciarsi morire, piuttosto che usare il suo dono per curare se stesso. Incredibile, vero?»

«E questo è Ta-Kumsaw» terminò le presentazioni Alvin.

«Ah, l’ho capito dal primo momento che ti ho visto. Lo sai che tra i Bianchi sei una leggenda? Sei come Saladino ai tempi della crociata… ti ammirano più di quanto non ammirino i loro stessi capi, anche se sanno che hai giurato di non deporre le armi finché l’ultimo Bianco non se ne sarà andato dall’America.»

Ta-Kumsaw non disse nulla.

«Ho conosciuto almeno due dozzine di bambini che portavano il tuo nome, in maggioranza maschi, e tutti Bianchi. E ho udito molte storie su di te… di come avresti impedito che alcuni prigionieri bianchi fossero bruciati vivi, di come avresti portato del cibo a gente che tu stesso avevi cacciato dalla sua casa e che altrimenti avrebbe rischiato di morire di fame. A qualcuna di quelle storie ci ho perfino creduto.»

Ta-Kumsaw finì il suo pesce, e gettò lo spiedo sulle braci.

«Venendo qui, ho anche sentito raccontare che avevi catturato due Bianchi di Vigor Church, inviando ai genitori i loro abiti laceri e insanguinati. Che li avevi torturati a morte per far capire a tutti che avevi intenzione di sterminare tutti i Bianchi, uomini, donne e bambini. Che avevi affermato che non era più il tempo di comportarsi da persone civili, e che adesso avresti fatto ricorso soltanto al terrore per scacciare l’uomo bianco dall’America.»

Per la prima volta dall’arrivo di Scambiastorie, Ta-Kumsaw parlò. «E a questa storia ci hai creduto?»

«Francamente no» disse Scambiastorie. «Ma questo perché sapevo già la verità. Vedi, avevo con me il messaggio di una ragazza che conosco… credo che ormai la si possa definire una giovane donna. Una lettera.» Dalla tasca della giubba tirò fuori una lettera piegata, tre fogli fittamente coperti di scrittura, che porse a Ta-Kumsaw.

Senza degnarla di uno sguardo, Ta-Kumsaw passò la lettera ad Alvin. «Leggimela» lo pregò.

«Ma tu l’inglese lo sai leggere» obiettò Alvin.

«Non qui» disse Ta-Kumsaw.

Alvin guardò la lettera, ne studiò le tre pagine, e con sua grande sorpresa nemmeno lui riusciva a leggerla. I caratteri gli erano familiari, certo, e considerandoli uno per uno riusciva persino a riconoscerli — i-l-c-r-e-a-t-o-r-e-h-a-b-i-s-o-g-n-o-d-i-t-e, così cominciava — ma Alvin non riusciva a cavarne niente di sensato, non riusciva neanche a capire in che lingua fosse scritta. «Non riesco a leggerla nemmeno io» disse, restituendola a Scambiastorie.

Il vecchio la studiò per qualche istante, poi rise riponendola nella tasca della giubba. «Be’, questa è proprio una storia da scrivere nel mio libro» commentò. «Un posto dove nessuno è più capace di leggere.»

Con grande sorpresa di Alvin, Ta-Kumsaw sorrise. «Nemmeno tu?»

«So che cosa c’è scritto, perché l’ho già letta» disse Scambiastorie. «Ma oggi non riesco a capire una sola parola. Anche quando so che cosa dovrebbe esserci scritto. Ma in che razza di posto siamo?»

«Siamo nella Terra delle Selci» spiegò Alvin.

«Siamo all’ombra della Collina Ottagonale» aggiunse Ta-Kumsaw.

«Non credevo che ai Bianchi fosse consentito arrivarci» disse Scambiastorie.

«Nemmeno io» replicò Ta-Kumsaw. «Ma ecco qui un ragazzo bianco, e di fronte a me un uomo bianco.»

«La notte scorsa ti ho sognato» disse Alvin. «Ho sognato di trovarmi in cima alla Collina Ottagonale, e tu eri insieme con me, e mi spiegavi delle cose.»

«Non contarci» fece Scambiastorie. «Dubito che sulla Collina Ottagonale vi sia una sola cosa che io sia in grado di spiegarti.»

«Come hai fatto ad arrivare fin qui» chiese Ta-Kumsaw «se non sapevi di essere diretto alla Terra delle Selci?»

«Mi era stato detto di risalire il Musky-Ingum, e quando avessi visto un macigno bianco alla mia destra, alla prima biforcazione avrei dovuto prendere a sinistra. Qui avrei trovato Alvin Miller Junior seduto davanti al fuoco insieme con Ta-Kumsaw, intento ad arrostire un pesce.»

«Chi ti ha detto tutto questo?» chiese Alvin.

«Una donna» rispose Scambiastorie. «Una fiaccola. Mi ha detto che tu, Alvin, l’avevi vista oltre la parete di una torre di cristallo, non più di una settimana fa. È quella stessa che ti ha tolto il cappuccio dal viso quando sei nato. Da quel momento ti ha tenuto d’occhio, come usano fare le fiaccole. È entrata in quella torre assieme a te, e ha visto con i tuoi stessi occhi.»

«Il Profeta me l’aveva detto, che non eravamo soli» esclamò Alvin.

«Ha visto anche con gli occhi di lui» disse Scambiastorie «e ha visto tutti i suoi futuri. Il Profeta morirà. Domattina. Colpito dal fucile di tuo padre, Alvin.»

«No!» gridò il ragazzo.

«A meno che…» disse Scambiastorie. «A meno che Measure non arrivi in tempo per dimostrare a tuo padre che è ancora vivo, che Ta-Kumsaw e il Profeta non gli hanno mai fatto del male, né a lui né a te.»

«Ma Measure è partito da diversi giorni!»

«È vero, Alvin. Ma è stato catturato dagli uomini del governatore Harrison. Harrison può fare di lui quello che vuole, e oggi, forse in questo preciso momento, uno degli uomini di Harrison lo ucciderà. Spezzandogli le ossa, rompendogli il collo. Domani Harrison attaccherà Prophetstown con i suoi cannoni, uccidendone tutti gli abitanti. Tutti fino all’ultimo. E scorrerà tanto sangue che le acque del Tippy-Canoe diventeranno scarlatte, e il Wobbish si tingerà di rosso fino al punto in cui le sue acque si gettano in quelle dell’Hio.»

Ta-Kumsaw balzò in piedi. «Debbo tornare indietro. Debbo…»

«È troppo lontano, e lo sai» disse Scambiastorie. «Pensa a dove si trovano i tuoi guerrieri. Anche se tu corressi giorno e notte come solo voi Rossi sapete fare…»

«Domani a mezzogiorno» rifletté Ta-Kumsaw.

«Sarà già morto» asserì Scambiastorie.

Ta-Kumsaw si lasciò sfuggire un grido di disperazione, così forte che alcuni uccelli si levarono in volo e si allontanarono gracchiando oltre la radura.

«Aspetta un momento, tira le redini. Se non ci fosse più nulla da fare, perché mai avrebbe dovuto mandarmi a cercarvi? Non capite che siamo pedine di un piano più grande di ciascuno di noi? Com’è accaduto che i Chok-Taw al servizio di Harrison abbiano rapito proprio Alvin e Measure? Com’è accaduto che noi tre ci siamo trovati qui proprio nel giorno in cui c’è più bisogno di noi?»

«È laggiù che hanno bisogno di noi» gli fece notare Ta-Kumsaw.

«Non credo» disse Scambiastorie. «Credo che, se così fosse, in questo momento ci troveremmo laggiù. E invece è qui che c’è bisogno di noi.»

«Sei come mio fratello, che cerca sempre di trovarmi un posto nei suoi piani!»

«Quanto vorrei essere davvero come lui! Nelle sue visioni il Profeta vede tutto ciò che avviene, mentre io ho soltanto la lettera di una fiaccola. Ma eccomi qui, assieme a voi, e se non dovessimo essere qui, state pur certi che non ci saremmo, che vi piaccia o no.»

Ad Alvin questi discorsi su ciò che avrebbe dovuto essere non andavano affatto a genio. A che pro tante supposizioni? Che cosa intendeva veramente dire Scambiastorie… che tutti loro erano soltanto burattini appesi a un filo? Chi era a muoverli a suo esclusivo piacimento? «Se veramente esiste qualcuno che decide tutto al posto nostro» osservò «mi sembra che non se la stia cavando molto bene, almeno a giudicare dal pasticcio in cui ci ha ficcati.»

Scambiastorie sorrise. «Con te la religione proprio non attacca, eh, ragazzo?»

«Semplicemente, non penso che ci sia nessuno a decidere che cosa dobbiamo fare.»

«Nemmeno io» concordò Scambiastorie. «Sto solo dicendo che le cose non vanno mai così male che non sia possibile far qualcosa per migliorarle.»

«Be’, accetterei volentieri qualche suggerimento. Che cosa dovrei fare, secondo la tua fiaccola?» chiese Alvin.

«Secondo lei dovresti salire sulla montagna e guarire Measure. Non chiedermi altro… È tutto quello che mi ha detto. Da queste parti non c’è una sola montagna degna di questo nome, e Measure si trova nella cantina delle patate dietro la casa di Vinegar Riley…»

«So dov’è» disse Alvin. «Ci sono stato. Ma non posso… insomma, non ho mai provato a guarire nessuno che non si trovasse davanti a me.»

«Basta con le parole» intervenne Ta-Kumsaw. «La Collina Ottagonale ti ha chiamato in sogno, ragazzo bianco. Quest’uomo è venuto a dirti che devi salire sulla montagna. Tutto comincerà quando vi salirai. Se ci riesci.»

«Sulla Collina Ottagonale comincerà qualcosa, ma qualcos’altro finirà» disse Scambiastorie.

«Che cosa ne sa un uomo bianco di questo posto?» chiese Ta-Kumsaw.

«Assolutamente niente» ammise Scambiastorie. «Ma molti anni fa mi sono inginocchiato accanto al letto di morte di una vecchia Irrakwa, che mi ha detto che la cosa più importante della sua vita era stata salire sulla Collina Ottagonale. Dopo di lei, nessuno della sua gente vi era più salito.»

«Gli Irrakwa sono tutti diventati bianchi nel profondo del cuore» commentò Ta-Kumsaw. «Nessuno di loro può più accedere alla Collina Ottagonale.»

«Ma io sono bianco» obiettò Alvin.

«Molto giusto» fu la replica di Ta-Kumsaw. «Sarà la Collina a darti la risposta. Forse la risposta è che non ti è consentito di salire, e tutti moriranno. Andiamo.»

Ta-Kumsaw li guidò lungo il sentiero che la terra apriva davanti a loro, finché non giunsero a una ripida salita, ricoperta da un fitto intrico di alberi e di rovi. Lì non c’erano più sentieri.

«Questa è la Faccia dell’Uomo Rosso» spiegò Ta-Kumsaw. «A quanto si narra, a seconda del lato dal quale si sale si trova una collina diversa. Salendo dalla Faccia dei Costruttori si trova la loro antica città, ancora abitata. Salendo dalla Faccia degli Animali, si trova una terra il cui re è un gigantesco bisonte, un mostruoso animale dalle corna che gli spuntano dalle fauci, e il naso somigliante a un orrendo serpente; enormi giaguari dalle zanne lunghe come lance si inchinano davanti a lui. Chi può sapere se queste storie sono vere? Nessuno più scala la collina da quella parte.»

«Esiste anche una Faccia dell’Uomo Bianco?» chiese Alvin.

«Uomo Rosso, Medicina, Costruttori, Animali. Le quattro facce rimanenti nessuno sa come si chiamino. Può darsi che una di esse sia quella dell’Uomo Bianco. Venite.»

Ta-Kumsaw li condusse intorno alla base della collina, che ora si innalzava alla loro sinistra. Non si vedevano sentieri. Alvin riconosceva tutto ciò che vedeva. Il suo sogno della notte precedente si era avverato, per lo meno in questo: Scambiastorie era con lui, e prima di salire stavano girando intorno alla collina.

Giunsero all’ultima delle facce senza nome. Non si scorgeva traccia di sentiero. Alvin fece per andare oltre.

«È inutile» fece loro notare Ta-Kumsaw. «Abbiamo visto tutte e otto le facce, e nessuna ci ha consentito di salire. La prossima è di nuovo la Faccia dell’Uomo Rosso.»

«Lo so» ribatté Alvin. «Ma ecco il sentiero.»

E infatti davanti a loro si apriva il sentiero, dritto come una freccia. Esattamente sullo spigolo tra la Faccia dell’Uomo Rosso e quella senza nome che la precedeva.

«Allora sei veramente mezzo Rosso» esclamò Ta-Kumsaw.

«Su, salite» li esortò Scambiastorie.

«Nel sogno, ti trovavi lassù insieme con me» disse Alvin.

«Può anche darsi» ammise Scambiastorie. «Ma il sentiero di cui voialtri state parlando, io non lo vedo. Per me, questo lato è esattamente uguale agli altri. Perciò immagino di non essere stato invitato.»

«Vai» lo spronò Ta-Kumsaw. «Sbrigati.»

«Accompagnami tu, allora» propose Alvin. «Il sentiero lo vedi, no?»

«Io la collina non l’ho sognata» disse Ta-Kumsaw. «E ciò che vedrai una volta lassù sarà per metà ciò che potrebbe vedere un uomo rosso, e per metà un posto del tutto nuovo, che a me non è consentito di vedere. Va’, adesso, non sprecare altro tempo. Mio fratello e tuo fratello moriranno, se non fai ciò che la terra vuole.»

«Ho sete» si lamentò Al.

«Berrai lassù», replicò Ta-Kumsaw, «se la collina ti offrirà dell’acqua. E se ti offrirà del cibo, mangerai.»

Al mise piede sul sentiero e cominciò a salire aiutandosi con le mani e con i piedi. La salita era ripida, ma c’erano radici a cui aggrapparsi e punti d’appoggio per i piedi, e ben presto il sentiero si fece meno ripido, poi pianeggiante, mentre la vegetazione si diradava e scompariva.

Alvin avrebbe pensato che la collina fosse un’unica altura, con otto facce. Una volta in cima, tuttavia, vide che ciascuna delle otto facce costituiva una collina separata. Nel mezzo si spalancava un’ampia conca. La valle tuttavia gli parve troppo vasta, le colline di fronte troppo distanti. Non aveva forse fatto il giro dell’intera collina nel breve arco di un mattino insieme con Ta-Kumsaw e Scambiastorie? All’interno, la Collina Ottagonale era molto più vasta di come appariva dall’esterno.

Facendo attenzione a dove metteva i piedi, cominciò a scendere il pendio erboso. L’erba che cresceva a ciuffi irregolari gli dava una sensazione di fresco; il suolo era umido e compatto. La discesa gli parve molto più lunga della salita. Quando finalmente arrivò in fondo, si trovò sul limitare di un prato dove crescevano alberi dalle foglie d’argento, proprio come nel sogno. Questo dunque era stato veritiero, gli aveva mostrato un posto che esisteva veramente, non un parto della sua immaginazione.

Si chiese come avrebbe potuto trovare Measure per curarlo. Che c’entrava la Collina Ottagonale con tutto il resto? Ormai era pomeriggio, avevano perso un sacco di tempo a fare il giro della collina… Measure poteva essere ormai moribondo, e Alvin non aveva la minima idea di come poterlo soccorrere.

L’unica cosa che poteva fare era camminare. Sulle prime avrebbe voluto attraversare la valle per andare a vedere più da vicino qualcuna delle altre colline, ma quando ci provò accadde una cosa stranissima. Per quanto camminasse, per quanti alberi dalle foglie d’argento oltrepassasse, la collina di fronte restava sempre alla medesima distanza. Cominciò ad avere paura — sarebbe mai riuscito a tornare indietro? — e si affrettò a tornare sui suoi passi. In pochi minuti raggiunse il punto in cui le sue stesse impronte scendevano il pendio della collina. All’andata, gli pareva di essere arrivato molto più distante. Qualche altro tentativo lo convinse che la valle si estendeva all’infinito in tutte le direzioni, tranne quella dalla quale era venuto. In quella direzione era come se si fosse continuamente trovato al centro della collina, indipendentemente da quanto poteva aver camminato.

Alvin cercò l’albero dalle foglie d’oro e dai frutti candidi e rotondi, ma non lo trovò, né la cosa lo sorprese. In bocca sentiva ancora il sapore del frutto che aveva assaggiato in sogno la notte prima. Sveglio o addormentato, non si sarebbe mai sognato di assaggiarlo di nuovo, perché il secondo morso lo avrebbe fatto vivere in eterno. Non è che quella rinuncia gli costasse molto. Era difficile che un ragazzo della sua età sentisse sul collo il fiato della Morte.

Udì scorrere dell’acqua. Un ruscello di acqua limpida e freschissima che gorgogliava rapida sui sassi. Era impossibile, naturalmente. La valle della Collina Ottagonale era completamente chiusa. Se l’acqua vi scorreva così abbondante, come mai non aveva ancora formato un lago? E come mai all’esterno non si vedeva uscire neanche un filo d’acqua? E quell’acqua, da dove veniva? La Collina Ottagonale era chiaramente opera dell’uomo, come le altre colline di forma simile sparse in tutto il paese, anche se nessuna era così antica. E da una collina artificiale non sgorgano sorgenti. L’impossibile presenza di quell’acqua lo insospettì. Ma a pensarci bene, da quando era nato di cose impossibili glien’era capitata più d’una, e questa anzi era ben lungi dall’essere la più strana.

Ta-Kumsaw gli aveva detto che se la collina gli avesse offerto dell’acqua, avrebbe potuto bere; perciò Alvin si inginocchiò, cacciò il viso nell’acqua e bevve a lunghe sorsate. Il sapore del frutto non scomparve. Anzi, se possibile, dopo aver bevuto era ancora più forte.

Inginocchiato sulla sponda, studiò la riva opposta del ruscello. Laggiù l’acqua scorreva in maniera diversa, lambendo la sponda come avrebbe potuto fare l’acqua di un mare. Subito dopo aver fatto questa prima scoperta Alvin si accorse che la forma della riva opposta era identica a quella della carta della costa orientale che gli era stata mostrata da Corazza-di-Dio. Il ricordo gli balzò vivido alla memoria. Qui, dove la costa s’incurvava verso il mare aperto, c’era la Carolina, nelle Colonie della Corona. Quella profonda insenatura era il Chase-a-pick, mentre laggiù c’era la foce del Potty-Mack, che segnava il confine tra gli Stati Uniti e le Colonie della Corona.

Alvin fece un passo avanti mettendo il piede nell’acqua.

Sulla riva opposta c’era soltanto erba. Non scorse né fiumi né città, né confini né strade. Ma basandosi sulla forma della costa non gli fu difficile capire dove si trovava il territorio dell’Hio, e la collina stessa sulla quale era. Alvin fece altri due passi avanti, e all’improvviso si vide di fronte Ta-Kumsaw e Scambiastorie, seduti per terra. Alla sua comparsa i due restarono impietriti dalla sorpresa.

«Allora vi siete decisi a salire anche voi» disse Alvin.

«Non direi proprio» rispose Scambiastorie. «Da quando te ne sei andato, non ci siamo mossi di un passo.»

«Perché sei tornato giù?» chiese Ta-Kumsaw.

«Non sono affatto tornato giù» replicò Alvin. «Sono sempre qui, nella valle al centro della collina.»

«Valle?» chiese Ta-Kumsaw.

«Ma se siamo sempre rimasti quaggiù» insisté Scambiastorie.

Allora Alvin capì. Non in maniera da poterlo esprimere a parole, ma abbastanza da poterlo usare, usare ciò che la collina gli aveva donato. In quel modo poteva viaggiare sulla superficie della terra facendo cento miglia a ogni passo, e vedere coloro che aveva bisogno di vedere. Le persone che conosceva. Measure. Alvin si toccò la fronte in segno di saluto verso i due uomini che lo stavano aspettando, quindi fece un piccolo passo. I due scomparvero.

Trovare la città di Vigor Church non gli fu difficile. La prima persona che vide fu Corazza-di-Dio, inginocchiato a pregare. Alvin non gli disse nulla, per timore che Armor lo prendesse per una visione dell’oltretomba. Dove si sarà trovato? A casa sua? In questo caso, la fattoria di Vinegar Riley si trovava un po’ più indietro, a est del paese. Alvin si voltò.

Vide suo padre, seduto accanto alla mamma. Papà stava togliendo le sbavature da alcune palle da moschetto appena fuse. La mamma gli sussurrava qualcosa in tono ansioso. Tutti e due sembravano arrabbiati. «Donne e bambini, ecco chi c’è in quella città. Anche ammettendo che siano stati il Profeta e Ta-Kumsaw a uccidere i nostri ragazzi, quelle donne e quei bambini non ne hanno alcuna colpa. Se osi alzare la mano su di loro, diventerai anche tu un assassino. Non ti permetterò più di rimettere piede in questa casa. Non ti vedrò mai più. Te lo giuro, Alvin Miller.»

Papà continuò nel suo lavoro senza far commenti, tranne a un certo punto quando disse: «Hanno ammazzato i miei ragazzi».

Alvin cercò di ribattere, aprì la bocca per dire: «Ma io non sono morto, papà!»

Non funzionò. Non riusciva a spiccicar parola. Evidentemente non era stato condotto lì per apparire ai suoi genitori. Doveva trovare Measure, altrimenti il moschetto di suo padre avrebbe ucciso l’Uomo Luminoso.

Non dovette andare lontano, nemmeno un passo. Gli bastò strusciare leggermente i piedi per terra, e papà e mamma scomparvero. Di sfuggita, scorse Cairn e David che sparavano… probabilmente al bersaglio. E Wastenot e Wantnot, che calcavano qualcosa… dei proiettili, nella bocca di un cannone. Scorse anche altre persone, anche se meno distintamente, forse perché non le conosceva o di loro non gl’importava nulla. Alla fine vide Measure.

Doveva essere morto. A giudicare dall’angolo della testa aveva il collo spezzato, e le braccia e le gambe fratturate in più punti. Alvin non osò muoversi, o in un secondo si sarebbe spostato di un miglio, e Measure sarebbe scomparso come gli altri. In piedi, immobile, inviò la propria scintilla nel corpo di suo fratello, disteso a terra davanti a lui.

Alvin non aveva mai sentito un tale dolore in vita sua. Non era il dolore di Measure, era il suo. Era il suo senso di come le cose sarebbero dovute essere, della giusta forma delle cose: all’interno del corpo di Measure, invece, niente era al suo posto. Certe parti di lui stavano già morendo, il sangue gli si era rappreso nella pancia cacciandone a forza la vita, il cervello non era più collegato al corpo. Era il più tremendo, osceno pasticcio che Alvin avesse mai visto in vita sua. Era tutto fuori posto, così fuori posto che solo a vederlo provò un dolore straziante, un dolore che lo costrinse a urlare. Ma Measure non lo udì. Measure non poteva udire più nulla. Se non era morto ci mancava un capello, questo era sicuro.

Per prima cosa Alvin si curò del cuore. Stava ancora pompando, ma nelle vene non c’era quasi più sangue, si era tutto raccolto nella pancia e nel torace. Questa era la prima cosa che Alvin doveva sistemare: riparare i vasi sanguigni e fare in modo che il sangue tornasse a scorrere nei canali giusti.

Tempo, tutto questo richiedeva tempo. Le costole fratturate, gli organi interni lacerati. Le ossa da saldare senza nessuno che potesse aiutarlo a rimetterle come dovevano essere… Certe ossa si trovavano in una posizione tale che saldarle era impossibile. Avrebbe dovuto attendere che Measure riprendesse i sensi a sufficienza per aiutarlo.

Così Alvin entrò nel cervello di Measure, nei nervi che scendevano lungo la spina dorsale, e aggiustò tutto, rimise tutto come doveva essere.

Measure si svegliò con un unico, lungo, terribile urlo di dolore. Era vivo, e il dolore era tornato, più vivo e lancinante di prima. Mi spiace, Measure. Non posso guarirti senza farti di nuovo soffrire. Eppure debbo guarirti, o troppi innocenti moriranno.

Alvin nemmeno si accorse che era già scesa la notte, e che era soltanto a metà del lavoro.

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