XIX A CASA

Napoleone non fu costretto a portare catene durante il viaggio di ritorno in Francia. Dormì nella cabina del secondo, e consumò i suoi pasti alla tavola del governatore. La Fayette era ben felice di conversare con lui. Nei lunghi e torridi pomeriggi della traversata atlantica, La Fayette confidò all’amico Napoleone tutti i suoi progetti rivoluzionari, e Napoleone gli diede molti utili consigli su come realizzarli presto e bene.

«L’aspetto più rassicurante di questi tristi eventi» commentò La Fayette il giorno in cui la vedetta scorse da lontano le coste della Bretagna «è che adesso siamo amici, e che la rivoluzione avrà sicuramente successo, perché anche tu ne sarai parte. E pensare che una volta sospettavo di te, nella convinzione che fossi uno strumento del re. Uno strumento di Carlo! Ma ben presto la Francia intera riconoscerà in te un eroe, e attribuirà al re e a Freddie la responsabilità del sacco di Detroit. Un immenso territorio è caduto nelle mani dei protestanti e dei selvaggi; ma ora siamo qui, e possiamo offrire al popolo di Francia qualcosa di più e di meglio: un vero capo! Ah, Napoleone, in tutti questi anni di complotti per la democrazia, ho sempre sognato un uomo come te. Tutto ciò di cui noi foglianti avevamo bisogno era un capo, un uomo in grado di guidarci, un uomo che potesse condurre la Francia verso la vera libertà.» La Fayette sospirò, appoggiandosi ai cuscini della poltrona.

Napoleone l’aveva ascoltato con soddisfazione, sì, ma anche con tristezza. Una volta aveva creduto che La Fayette fosse immune al suo fascino grazie a particolari risorse interiori. Ora sapeva che ciò era avvenuto solo grazie a uno stupido amuleto, e che, in quanto a resistere a Napoleone, La Fayette era un uomo come tutti gli altri. Ora che l’amuleto giaceva in una fossa comune fuori delle mura di Detroit, intrecciato alle vertebre ammuffite di Frederic de Maurepas, Napoleone sapeva che a questo mondo non avrebbe mai trovato un suo pari, all’infuori di Dio o della Natura. Nessun essere umano avrebbe mai avuto la forza di opporglisi, questo era sicuro. Ascoltò dunque i vaneggiamenti di La Fayette esprimendo in cuor suo il pio desiderio di incontrare un giorno quel genere d’uomo che aveva creduto di trovare in La Fayette.

Sul ponte, si incominciò a sentire un gran trambusto, uno scalpiccio, un frastuono di argani e catene. Stavano attraccando; Napoleone finalmente era tornato in Francia.


Ta-Kumsaw non aveva motivo per temere la fitta nebbia che lo avvolse non appena la canoa raggiunse il punto in cui l’Hio si gettava nel Mizzipy, perdendosi nell’immensità delle sue acque. Sapeva in che direzione andare; a ovest, e ogni spiaggia sarebbe stata il suo rifugio, la sua sicurezza, la fine della sua esistenza.

Perché questo e non altro era ciò che ora vedeva dinanzi a sé. I territori a ovest del Mizzipy appartenevano a suo fratello, e l’uomo bianco non avrebbe mai potuto mettervi piede. Il suolo, l’acqua, ogni creatura vivente avrebbero unito le loro forze per impedire il passaggio a qualsiasi Bianco abbastanza pazzo da pensare che i Rossi potessero essere nuovamente sconfitti. Ma ciò di cui il popolo rosso aveva bisogno adesso erano i doni del Profeta, non quelli di un guerriero come Ta-Kumsaw. All’est, tra Bianchi creduloni e Rossi degradati, poteva anche essere una figura leggendaria, ma all’ovest l’avrebbero riconosciuto per quello che era: un fallimento, un uomo dalle mani lorde di sangue che aveva condotto la sua gente allo sterminio.

L’acqua lambiva i fianchi della canoa. Poco lontano, Ta-Kumsaw udì levarsi il canto di un pettirosso. La nebbia si fece più bianca, più abbagliante; poi a un tratto si dissolse, e il fulgore del sole lo accecò. Con tre colpi di pagaia, la canoa toccò la sponda. Lì, con sua grande sorpresa, Ta-Kumsaw vide la sagoma di un uomo stagliarsi contro il cielo luminoso del tardo pomeriggio. Sceso di corsa fino alla riva, l’uomo afferrò la prua della canoa tirandola in secco sulla sponda, poi aiutò Ta-Kumsaw a uscire dalla piccola imbarcazione. Accecato dal sole, Ta-Kumsaw non riusciva a distinguerne i lineamenti; ma dal tocco della mano capì ugualmente chi fosse. E poi la voce mormorò: «Lascia che la canoa sia trascinata via dalla corrente. Nessuno più attraverserà questo fiume, fratello mio».

«Lolla-Wossiky!» esclamò Ta-Kumsaw. Poi pianse, e s’inginocchiò ai piedi del fratello, abbracciandogli le ginocchia. Tutta la sua angoscia, tutta la sua sofferenza si sciolsero in quelle lacrime, mentre sopra di lui Lolla-Wossiky, detto Tenska-Tawa, detto il Profeta, intonava un canto malinconico, un canto sulla morte delle api.


Quando Alvin giunse in paese, vide che qualcosa era cambiato. Sulla strada del Wobbish c’era un cartello che diceva:

Straniero, vattene se puoi, non indugiare.

O una storia atroce sarai costretto a udire

Be’, Alvin sapeva quale fosse lo scopo di quel cartello. Ma lui lì non era certo uno straniero.

Oppure sì? Nel procedere sulla deviazione che conduceva a Vigor Church, vide che erano sorti nuovi edifici, e nuove case erano state costruite. Adesso gli abitanti vivevano molto più a gomito a gomito, e Vigor Church poteva cominciare a dirsi una vera cittadina. Ma nessuno uscì in strada a salutarlo, e nemmeno i bambini che giocavano nel pascolo comune gli rivolsero la parola. Certamente i genitori avevano insegnato loro a non dare il benvenuto agli stranieri; o forse erano soltanto stanchi di udire i padri e i fratelli maggiori raccontare la loro terribile storia a tutti gli stranieri che capitavano da quelle parti. Meglio dunque non dare il benvenuto a nessuno.

Anche lui era cambiato, durante l’anno trascorso lontano da casa. Certo, era diventato più alto, ma non solo. Anche la sua camminata si era fatta diversa. Adesso somigliava a quella di un Rosso, non abituato a sentirsi sotto i piedi le strade dei Bianchi, desideroso soltanto di udire il verde canto della foresta, che da quelle parti ormai era quasi scomparsa. Forse ora sono uno straniero. Forse in quest’anno ho fatto e visto troppe cose per poter tornare a essere Alvin Junior.

Anche con tutti quei cambiamenti, Alvin sapeva bene dove andare. Questo almeno non era cambiato: lungo la strada che conduceva a casa di suo padre, ogni corso d’acqua era scavalcato da un ponte. Alvin si concentrò cercando di sentire la rabbia dell’acqua verso di lui. Ma il male nero che una volta era stato suo nemico ora non lo riconosceva quasi più, perché camminava come un Rosso, in perfetta unità col mondo vivente. Non importa, pensò Alvin. Quando la terra sarà addomesticata e asservita, io camminerò di nuovo come un Bianco, e il Distruttore mi troverà. Com’è riuscito a spezzare la benefica presa dell’uomo rosso sulla terra, cercherà di spezzare anche me, e se Ta-Kumsaw non era abbastanza forte, se Tenska-Tawa non era abbastanza saggio da potersi opporre al Distruttore, che mai potrò fare io? Tirare avanti, momento per momento, come diceva quel vecchio inno. Tirare avanti, momento per momento, o mio Signore, luce d’amore, il mio cuore alleggerisci, l’anima mia guarisci, colma la mia tazza, donami la pienezza. Amen. Amen.

Cally era in veranda, senza far nulla, quasi si fosse messo lì di guardia nel caso che Alvin Junior avesse scelto proprio quel giorno per tornare a casa. E forse era proprio così, forse si trovava lì proprio per quello. A ogni modo fu Cally a urlare, fu Cally a riconoscerlo immediatamente nonostante suo fratello fosse tanto cambiato.

«Alvin! Ally! Alvin Junior! È tornato! Sei tornato!»

Il primo ad accorrere a quel richiamo, girando l’angolo della casa con le maniche arrotolate e la scure ancora stretta in mano, fu Measure. Non appena vide che si trattava veramente di Alvin, lasciò cadere la scure e preso Alvin Junior per le spalle lo esaminò da capo a piedi in cerca di ferite o cicatrici, e lo stesso fece Alvin, nel caso Measure recasse ancora qualche cicatrice. Nessuna, neanche un piccolissimo segno. Ma Measure trovò in Alvin i segni di ferite più profonde, e a bassa voce gli disse: «Sei diventato più vecchio, Al». Al che Alvin non seppe proprio che cosa rispondere, perché era vero, e per un istante rimasero a guardarsi negli occhi, ciascuno dei due ben consapevole di quanto lontano l’altro si fosse spinto sulla lunga via della sofferenza e dell’esilio al fianco dell’uomo rosso. Ciò che loro due sapevano, nessun altro Bianco l’avrebbe mai saputo.

Poi la mamma uscì sulla veranda, e papà uscì di corsa dal mulino, e seguirono baci, abbracci, lacrime, risate, grida e silenzi. Non uccisero il vitello grasso, ma un porcellino non vide l’alba del giorno dopo. Cally corse a casa dei fratelli e alla bottega di Corazza-di-Dio a portare la notizia dell’accaduto, e ben presto l’intera famiglia si trovò riunita per dare il benvenuto ad Alvin Junior, del quale tutti sapevano che era vivo, ma che nessuno avrebbe più sperato di rivedere.

E poi, siccome si stava facendo tardi, arrivò il momento in cui papà si nascose le mani in tasca, e gli uomini tacquero, e poi le donne, finché Alvin non annuì e disse: «Conosco la storia che dovete raccontarmi. Perciò raccontatemela, tutti quanti, e poi vi racconterò di me».

Così fecero, e altre lacrime vennero versate, stavolta non di gioia ma di dolore. La valle del Wobbish era l’unica dimora che i suoi abitanti avrebbero mai conosciuto; solo così avrebbero potuto continuare a vivere tutti coloro che avevano partecipato al massacro del Tippy-Canoe; solo così avrebbero potuto vivere in pace, senza vedere stranieri. Altrimenti, dove mai avrebbero potuto trovare un po’ di tranquillità, condannati com’erano a raccontare la loro storia a ogni nuovo venuto? «Perciò siamo costretti a restare, Al Junior. Ma questo non vale per te, né per Cally. Potremmo sempre chiedere al fabbro se ti vuole ancora come apprendista, che ne diresti?»

«Abbiamo tutto il tempo per pensarci» disse la mamma. «Tutte queste domande ce le faremo più tardi. È tornato a casa, e per ora questo è tutto, mi avete capito? È tornato a casa, anche se ormai ero sicura che non l’avrei più riveduto. Siano rese grazie a Dio per non avermi concesso il dono della profezia, quando dissi che non avrei più posato lo sguardo sul mio piccolo Alvin.»

Alvin ricambiò con uguale forza l’abbraccio di sua madre. Ma non le disse che la sua profezia in realtà si era realizzata. Quello che era tornato a casa non era più il piccolo Alvin. E prima o poi avrebbe dovuto rendersene conto. Adesso bastava sapere che l’anno era trascorso, che aveva visto dispiegarsi grandi cambiamenti, che ora, per quanto diversa, per quanto amara, la vita poteva procedere diritta per la sua strada, senza sentirsi franare il terreno sotto i piedi.

Quella notte, nel suo letto, Alvin ascoltò il canto lontano della foresta, ancora caldo e meraviglioso, ancora vivace e pieno di speranza, anche se la foresta si stava facendo ogni giorno più rada, anche se il futuro era così vago e incerto. Perché nel canto della vita non c’è paura del futuro, solo l’eterna gioia dell’attimo presente. E questo per adesso è tutto quello che voglio, pensò Alvin. L’attimo presente, e tanto mi basta.


FINE
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