XVII IL TELAIO DI BECCA

Ad Alvin sembrava che l’inverno durasse da una mezza eternità. In precedenza la neve gli piaceva, quando poteva sbirciare fuori della finestra attraverso le screpolature della crosta di ghiaccio, e guardare i raggi del sole che si riflettevano abbaglianti sulla candida, intatta superficie di quel mare di neve. Ma a quei tempi se faceva freddo poteva sempre tornare in casa al calduccio, riempirsi la pancia con i manicaretti della mamma e ficcarsi in un morbido letto. Non che adesso soffrisse più di tanto; via via che imparava a vivere come un Rosso, Alvin se la cavava sempre meglio.

Durava da troppi mesi, ecco tutto. Era trascorso quasi un anno da quel mattino di primavera in cui Alvin e Measure avevano intrapreso il viaggio verso il fiume Hatrack. Allora, gli era sembrato un viaggio lunghissimo; adesso, in confronto a tutta la strada che aveva fatto, gli sarebbe parso una gita domenicale. Si erano spinti tanto a sud che i Rossi, quando parlavano la lingua dei Bianchi, usavano più lo spagnolo dell’inglese. Si erano spinti a est fino alle nebbiose pianure alluvionali lungo il Mizzipy. Avevano parlamentato con i Cree-Ek, i Chok-Taw e il «selvaggio» popolo Cherriky del basso corso del fiume. A nord, si erano spinti fino alle estreme diramazioni del Mizzipy, dove i laghi erano tutti collegati uno all’altro e così numerosi che si poteva arrivare dappertutto in canoa.

In ogni villaggio le cose andavano sempre nello stesso modo. «Sappiamo chi sei, Ta-Kumsaw, sei venuto a parlare di guerra. Noi non vogliamo la guerra. Ma… se l’uomo bianco arrivasse fin qui, combatteremmo.»

Allora Ta-Kumsaw spiegava che se mai l’uomo bianco fosse giunto fino al loro villaggio, sarebbe stato ormai troppo tardi, si sarebbero ritrovati soli e i Bianchi si sarebbero rovesciati su di loro come una grandinata, schiacciandoli senza pietà. «Dobbiamo unirci in un solo esercito. In questo modo saremo ancora più forti di loro.»

Non era mai sufficiente. Qualche giovane annuiva, avrebbe voluto dire di sì, ma gli anziani, loro, non volevano la guerra, non volevano la gloria, volevano solo pace e tranquillità, e l’uomo bianco era ancora lontano, solo una diceria da non prendere troppo sul serio.

Allora Ta-Kumsaw si rivolgeva a Alvin e gli ordinava: «Racconta che cosa è accaduto sul Tippy-Canoe».

Quando ebbe raccontato quella storia per la terza volta, Alvin capì che cosa sarebbe accaduto quando l’avesse raccontata per la decima, la centesima, la millesima. Lo capì non appena i Rossi seduti intorno al fuoco si voltarono a guardarlo, con disprezzo perché era bianco, con interesse perché era il ragazzo bianco che viaggiava con Ta-Kumsaw. Per quanto si sforzasse di raccontare solo l’essenziale, per quanto ricordasse che i Bianchi del territorio del Wobbish erano convinti che Ta-Kumsaw avesse rapito e torturato a morte lui e Measure, il cuore degli ascoltatori si gonfiava di dolore e di furia a mala pena trattenuta. Alla fine del racconto gli anziani stringevano convulsamente manate di terra, strappate al terreno come per liberare qualche terribile belva imprigionata nel sottosuolo; e i giovani si passavano delicatamente sulle cosce il coltello dalla lama di selce, disegnando sottili linee di sangue, insegnando al coltello ad avere sete, insegnando al proprio corpo a cercare il dolore e ad amarlo.

«Quando non vi sarà più neve sulle sponde dell’Hio» diceva Ta-Kumsaw.

«Ci saremo» dicevano i giovani, e i vecchi annuivano. Lo stesso in ogni villaggio, in ogni tribù. Oh, ogni tanto qualcuno si alzava a parlare del Profeta e a predicare la pace; ma gli altri lo schernivano dandogli della «vecchia»; anche se per quanto Alvin poteva vedere, le vecchie sembravano le più scatenate di tutti nel dare sfogo al loro odio.

Eppure Alvin non si ribellò mai al fatto che Ta-Kumsaw lo stesse usando per sobillare i Rossi contro la sua stessa gente. In fin dei conti la storia che Alvin doveva raccontare era vera, no? Non poteva rifiutarsi di raccontarla, di fronte a nessuno, per nessuna ragione, più di quanto i suoi familiari potessero rifiutarsi di parlare dopo essere stati colpiti dalla maledizione del Profeta. Certo, se non l’avesse raccontata le sue mani non avrebbero grondato sangue. Ma Alvin si sentiva addosso lo stesso peso di tutti i Bianchi che avevano assistito al massacro del Tippy-Canoe. La storia del Tippy-Canoe era vera, e se ogni Rosso che l’udiva si sentiva colmare d’odio e non desiderava che la vendetta, non desiderava che sterminare ogni Bianco che non se ne fosse tornato in Europa, ebbene, sarebbe stato questo un motivo sufficiente perché Alvin nascondesse loro la verità? O non era forse un loro diritto naturale, quello di conoscere la verità in modo da farne buono o cattivo uso, come meglio credevano?

Non che Alvin potesse parlare di diritti naturali e cose del genere a voce alta. Le occasioni di conversare non erano molte. Sì, certo, era sempre in compagnia di Ta-Kumsaw, che non lo perdeva mai d’occhio. Ma Ta-Kumsaw non rivolgeva quasi mai la parola ad Alvin, e quando lo faceva era per dirgli cose del tipo: «Andiamo a pescare» oppure: «Vieni con me». Dal comportamento di Ta-Kumsaw traspariva chiaramente che al momento non provava alcuna simpatia per Alvin, e anzi avrebbe preferito di gran lunga non tirarsi dietro un ragazzo bianco. Ta-Kumsaw camminava di buon passo come facevano i Rossi, e non si guardava mai alle spalle per vedere se Alvin lo seguiva oppure no. L’unico momento in cui pareva importargli qualcosa della presenza di Alvin era quando si voltava dalla sua parte e gli ordinava: «Racconta loro che cosa è successo al Tippy-Canoe».

Una volta, dopo aver lasciato un intero villaggio talmente infuriato coi Bianchi che i guerrieri cominciavano a considerare con interesse lo scalpo di Alvin, questi venne preso da un soprassalto d’orgoglio e disse: «Perché non mi chiedi di raccontar loro come te, Scambiastorie e io siamo riusciti a salire sulla Collina Ottagonale?» Per tutta risposta, Ta-Kumsaw si mise a camminare così in fretta che Alvin dovette correre per tutta la giornata solo per tenergli dietro.

Per quanto riguardava la compagnia, viaggiare con Ta-Kumsaw era come essere soli. Alvin non ricordava di essersi mai sentito tanto solo in vita sua. E allora perché non me ne vado? si chiedeva. Perché continuo a seguirlo? Come divertimento non è granché, sto contribuendo a far scoppiare una guerra contro la mia stessa gente, e per di più fa sempre più freddo, come se il sole avesse smesso di brillare e il mondo dovesse diventare un’unica immensa distesa di alberi grigi e spogli e pianure accecanti di neve, e lui nemmeno mi vuole con sé.

Che cosa gli dava la forza di proseguire? In parte la profezia di Tenska-Tawa secondo cui Ta-Kumsaw non sarebbe morto finché Alvin fosse rimasto al suo fianco. Anche se non gradiva in modo particolare la compagnia di Ta-Kumsaw, Alvin sapeva che era un uomo buono e nobile, e se in qualche modo poteva contribuire a mantenerlo in vita, allora era suo dovere provarci con tutte le sue forze.

Ma c’era anche qualcosa di più, più del senso del dovere nei confronti del Profeta al quale in qualche modo aveva promesso di prendersi cura di suo fratello; più del bisogno di condividere la tremenda punizione che si era abbattuta sulla sua famiglia narrando la storia del Tippy-Canoe in ogni angolo dei territori abitati dai Rossi. Alvin non riusciva a trovare le parole per spiegarselo, correndo nella foresta, perso in uno stato tra il sonno e la veglia, mentre il verde della foresta guidava i suoi passi e gli riempiva la testa della sua musica. No, non era un momento adatto alle parole. Ma era un momento adatto a capire senza parole, a sentire che quello che stava facendo era giusto, che Alvin era come l’olio sull’asse della ruota di un carro, che portava a maturazione grandi eventi. Può darsi che tutto questo porti semplicemente alla mia fine, può darsi che resti bruciato dal calore della ruota che gira sull’asse, ma il mondo sta cambiando, e in qualche modo sono parte di ciò che lo spinge innanzi. Ta-Kumsaw sta costruendo qualcosa, sta chiamando a raccolta i Rossi per unirli in qualcosa di nuovo e di diverso.

Era la prima volta che Alvin si rendeva conto che anche con gli uomini si poteva costruire qualcosa, che quando Ta-Kumsaw convinceva quei Rossi a sentire con un solo cuore e a pensare con una sola mente, essi diventavano qualcosa di più grande di una massa di persone; e costruire qualcosa del genere significava opporsi al Distruttore, no? Proprio come quando Alvin da piccolo costruiva i suoi Canestrini. I fili d’erba, presi a sé, non erano nient’altro che erba, ma una volta intrecciati diventavano qualcosa di più della semplice erba.

Ta-Kumsaw stava costruendo qualcosa di nuovo là dove in precedenza non esisteva nulla; ma quel qualcosa di nuovo non sarebbe potuto nascere senza di lui, Alvin.

Alvin era spaventato all’idea di aiutare Ta-Kumsaw a fare qualcosa che egli non era in grado di capire; ma al tempo stesso non vedeva l’ora di assistere alla nascita di quel futuro. Così andava avanti, sempre avanti, senza curarsi della fatica, e raccontava la sua storia ai Rossi che iniziavano ad ascoltarlo con sospetto e finivano pieni di odio, e trascorreva la maggior parte delle sue giornate alle spalle di Ta-Kumsaw che, correndo davanti a lui, si inoltrava sempre di più nella foresta. Il verde dei boschi divenne prima rosso e oro, poi nero con le piogge d’autunno sui tronchi spogli, finalmente grigio e bianco e immobile. E tutte le sue preoccupazioni, il suo scoraggiamento, la sua confusione, il suo dolore per i terribili eventi che vedeva arrivare e i terribili eventi cui aveva assistito in passato… tutto si trasformò in noia e disgusto per l’inverno, impazienza che la stagione cambiasse, che la neve si sciogliesse e arrivasse finalmente la primavera, e poi l’estate.

L’estate, quando avrebbe potuto guardarsi alle spalle e pensare a tutto questo come a qualcosa di passato. L’estate, quando avrebbe saputo come tutto quanto sarebbe andato a finire, nel bene e nel male, e la sua mente non sarebbe più stata ossessionata da quel nauseante terrore bianco come la neve che ricopriva ogni altro sentimento, proprio come la neve ricopriva ogni particolare del terreno sottostante.

Un giorno, finalmente, Alvin si accorse che l’aria si era davvero intiepidita, qua e là dalla neve affioravano ciuffi d’erba e chiazze di terra, sui rami degli alberi di neve non ce n’era proprio più, e un lampo rosso indicava il punto in cui un uccelletto si accingeva a trovar moglie e a costruirsi il nido per la stagione della cova. Quello stesso giorno Ta-Kumsaw piegò a est dirigendosi verso una catena di colline, ne risalì la cresta, e finalmente si fermò in piedi su un masso che dominava una vallata in cui sorgevano numerose fattorie di Bianchi, nella regione settentrionale dello Stato degli Appalachi.

Alvin non aveva mai visto un panorama del genere. Non era come la città francese di Detroit, dove tutti vivevano ammassati, né come gli insediamenti sparsi del territorio del Wobbish, dove le fattorie e i campi erano come incuneati a forza nella foresta verde e rigogliosa. Qui gli alberi erano disciplinati, disposti in linea retta in modo da segnare il confine tra una fattoria e l’altra. Solo sulle colline che cingevano la valle la vegetazione tornava ad avere un aspetto un po’ più selvaggio. E siccome il terreno aveva cominciato ad ammorbidirsi, i contadini erano al lavoro sui campi con l’aratro, intenti ad aprire la terra con la stessa delicatezza con cui i guerrieri rossi si passavano il coltello di selce sulle gambe, insegnando alla lama ad aver sete, insegnando alla terra a generare, e come il sangue che sotto la lama di selce cominciava a filtrare verso l’alto, così anche il grano, il mais, l’avena e l’orzo avrebbero cominciato a filtrare verso l’alto formando un sottile velo di vita sulla pelle della terra, una ferita aperta per tutta l’estate finché le falci non avessero praticato un altro genere di ferita. Poi di nuovo la neve, a formare una specie di crosta, sotto la quale la terra potesse rigenerarsi fino alla primavera successiva. Tutta quella valle era così, mansueta come un vecchio cavallo.

Non dovrei provare tutto questo, pensò Alvin. Dovrei essere contento di rivedere le terre dei Bianchi. Dai cento comignoli sparsi per tutta la vallata si levavano riccioli di fumo. Laggiù c’era gente, bambini che uscivano a giocare dopo essere stati rinchiusi per tutto l’inverno, uomini che sudavano nell’aria frizzante dell’inizio della primavera, animali da tiro caldi e ansimanti che emettevano nubi di vapore dal naso. Non era un po’ come essere tornati a casa? E quella valle non era ciò in cui Armor e suo padre e ogni altro uomo bianco avrebbero voluto trasformare il territorio del Wobbish? Era la civiltà, una casa accanto all’altra, una famiglia accanto all’altra, a spalla a spalla, a gomito a gomito, tutta la terra divisa fino all’ultimo pollice affinché nessuno potesse più avere il minimo dubbio su chi ne fosse il proprietario, chi avesse il diritto di sfruttarla e chi invece stesse sconfinando e avrebbe fatto meglio a togliersi dai piedi.

Ma dopo un anno trascorso assieme ai Rossi, senza praticamente vedere altri Bianchi se non Measure, quando era andato a curarlo, e Scambiastorie, per un paio di giorni, Alvin non vide quella valle con gli occhi di un Bianco. La vide come l’avrebbe vista un Rosso, e di conseguenza gli parve la fine del mondo.

«Che ci facciamo qui?» chiese a Ta-Kumsaw.

Per tutta risposta, Ta-Kumsaw scese il pendio e s’inoltrò nella valle, come se ne fosse stato il padrone. Alvin non ci capiva niente, ma lo seguì come un’ombra.

Con grande sorpresa di Alvin, mentre lui e Ta-Kumsaw attraversavano un campo arato a metà, il contadino non urlò loro di stare attenti ai solchi, ma si limitò a guardarli a occhi socchiusi e subito dopo a salutarli con la mano. «Salve, Isaac!» esclamò.

Isaac?

Ta-Kumsaw alzò a sua volta la mano in segno di saluto e tirò diritto.

Ad Alvin venne quasi da ridere. Ta-Kumsaw conosciuto tra gli abitanti di un posto civile come quello, e conosciuto così bene che un Bianco l’aveva riconosciuto a un campo di distanza! Ta-Kumsaw, il più spietato cacciatore di Bianchi che quelle boscose regioni avessero mai visto, apostrofato con un nome da Bianco?

Ma Alvin si guardò bene dal chiedere spiegazioni. Si limitò a restare alle calcagna di Ta-Kumsaw, finché questi non giunse dove voleva arrivare.

Sembrava una casa come tutte le altre, forse un po’ più vecchia. Grande, però, e costruita in tempi successivi come un disordinato accumulo di edifici. Forse quell’angolo della casa era la capanna di tronchi originaria con le sue fondamenta di pietra; poi era stata aggiunta un’ala più grande, e la capanna era stata sicuramente trasformata in cucina; sul davanti era stata di certo aggiunta una seconda ala, stavolta a due piani, con una soffitta; poi era stato aggiunto un piano rialzato anche sul retro della capanna, direttamente appoggiato al tetto di quest’ultima, che aveva conservato la forma a punta ed era stato incorniciato con tronchi squadrati, una volta imbiancati a calce; ma ora che la pittura se ne stava andando il legno cominciava a mostrare chiazze grigiastre. In quella casa era racchiusa l’intera storia della valle… prima una capanna tirata su in fretta e furia per tenersi all’asciutto tra una battaglia e l’altra con la foresta; poi un po’ di pace e la possibilità di aggiungere un paio di stanze per stare più comodi; in seguito una certa misura di prosperità, e altri bambini, e il desiderio di presentare al mondo una bella facciata di due piani; infine, quando in quella casa vivevano ormai tre generazioni, il bisogno di costruire non per orgoglio ma per pura necessità di spazio, di stanze in cui mettere a letto i ragazzi.

Così era quella casa, una casa che nella sua forma racchiudeva in sé l’intera storia della vittoriosa battaglia dell’uomo bianco contro la terra.

E Ta-Kumsaw si dirige senza esitare verso una porticina sgangherata sul retro, e senza nemmeno bussare l’apre ed entra.

Be’, a quel punto Alvin per la prima volta non sapeva che cosa fare. Per abitudine, avrebbe voluto seguire Ta-Kumsaw in quella casa, come l’aveva seguito in cento capanne dalle pareti intonacate di fango. Ma per abitudine ancora più antica, sapeva che non si entrava in quel modo in una casa come quella, con una vera porta e tutto quanto. Bisognava andare alla porta principale, bussare educatamente, e attendere che i padroni di casa ti invitassero a entrare.

Perciò Alvin rimase fuori della porta posteriore, che Ta-Kumsaw naturalmente non si era neanche sognato di chiudere, a guardare le prime mosche primaverili entrare ronzando nell’ingresso. Gli sembrava quasi di udire sua madre urlare improperi a chi lasciava la porta aperta così che le mosche entravano in casa e la notte non ti lasciavano dormire. Perciò Alvin fece quello che sua madre gli avrebbe detto di fare in simili circostanze: entrò chiudendosi la porta alle spalle.

Ma una volta entrato non osò avventurarsi oltre l’ingresso. Alla parete erano appesi soprabiti pesanti, mentre accanto alla porta erano disordinatamente ammucchiati stivali incrostati di fango. Trovarsi lì dentro gli sembrava così strano che non osava muoversi. Ascoltava da tanti mesi il verde canto della foresta, che adesso rimase quasi assordato dalla cacofonia di una fattoria di Bianchi in primavera.

«Isaac» disse una voce di donna.

Uno di quei rumori da Bianchi cessò all’improvviso. Solo allora Alvin si rese conto che era stato un rumore vero, di quelli che si udivano con le orecchie, non i rumori della vita che sentiva con i suoi sensi da Rosso. Cercò di ricordare di che si trattasse. Un rumore ritmico e regolare, come… come quello di un telaio. Quello che aveva udito era il rumore di un telaio. Ta-Kumsaw doveva essere entrato senza preavviso nella stanza in cui una donna era intenta a tessere. Ma in quella casa non era un estraneo, anche lei l’aveva chiamato con lo stesso nome usato da quel tale laggiù nel campo. Isaac.

«Isaac» disse di nuovo la donna, chiunque fosse.

«Becca» rispose Ta-Kumsaw.

Un nome come un altro, non c’era motivo perché il cuore di Alvin si mettesse a galoppare all’impazzata. Ma il modo in cui Ta-Kumsaw l’aveva pronunciato, il modo in cui parlava… era un tono di voce inteso a far battere i cuori. E c’era dell’altro: Ta-Kumsaw non parlava più con le strane vocali dei Rossi che pronunciano l’inglese, ma con un accento perfetto, come se fosse nato e cresciuto in Inghilterra. Quando parlava in quel modo, somigliava al reverendo Thrower più di quanto Alvin avrebbe mai creduto possibile.

No, non poteva essere Ta-Kumsaw, doveva essere qualcun altro, un uomo bianco che si trovava nella stessa stanza della donna bianca, ecco tutto. Alvin avanzò a passi felpati nell’ingresso per accertarsi della provenienza di quelle voci, per vedere l’uomo bianco la cui presenza avrebbe spiegato ogni cosa.

Invece si trovò davanti una porta aperta, e guardando dentro vide Ta-Kumsaw che teneva per le spalle una donna bianca, e la guardava negli occhi così come lei guardava nei suoi. Senza scambiarsi una parola, si guardavano e basta. Nella stanza non c’era alcun altro.

«La mia gente si sta radunando presso il fiume Hio» disse Ta-Kumsaw, con quella sua strana voce da inglese.

«Lo so» disse la donna. «È già nell’ordito.» Poi si voltò a guardare Alvin, ritto sulla soglia. «E non sei arrivato solo.»

Alvin non aveva mai visto degli occhi come quelli. Era ancora troppo piccolo per correre dietro alle donne come aveva visto fare a Wastenot e Wantnot quando entrambi avevano superato al galoppo i quattordici anni. Perciò, guardandola negli occhi, non provò niente di simile a ciò che prova un uomo quando desidera una donna. Si limitò a guardare quegli occhi come talvolta gli accadeva di guardare il fuoco, osservando la danza delle fiamme senza alcuna pretesa di scorgervi un senso, ma abbandonandosi alla pura casualità del suo disegno. Così erano gli occhi di Becca, come se quegli occhi avessero visto accadere centomila cose, e tutte quelle cose continuassero a ondeggiarle dietro le pupille, e nessuno si fosse mai curato di richiamare all’esterno quelle visioni ricavandone storie plausibili… o nessuno avesse mai saputo come fare.

E Alvin ebbe una gran paura che in lei si celasse qualche potere occulto, capace di trasformare Ta-Kumsaw in un uomo bianco.

«Mi chiamo Becca» disse la donna.

«E lui si chiama Alvin» lo presentò Ta-Kumsaw, o meglio Isaac, dato che a sentirlo parlare sicuramente somigliava ben poco a Ta-Kumsaw. «È figlio di un mugnaio del territorio del Wobbish.»

«È il filo che ho visto correre fuori dell’ordito.» Sorrise ad Alvin. «Vieni avanti» disse. «Voglio proprio conoscere il leggendario Ragazzo Rinnegato.»

«E chi sarebbe?» chiese Alvin. «Il Ragazzo Rinne… che?»

«Rinnegato. Su di lui negli Appalachi circola ogni genere di storie, non lo sapevi? Ta-Kumsaw che un giorno compare nel territorio dell’Osh-Kontsy, il giorno dopo in un villaggio sulle rive del fiume Yazoo, e incita i Rossi a massacrare e torturare. E insieme con lui c’è immancabilmente un ragazzo bianco che esorta i Rossi a essere ancora più spietati, che insegna loro i metodi segreti di tortura usati dall’inquisizione papista in Spagna e in Italia.»

«Questo non è vero» disse Alvin.

La donna sorrise. Le fiamme nei suoi occhi danzarono.

«Debbono proprio odiarmi» aggiunse Alvin. «Non so nemmeno che cosa sia, io, l’inqui… inqui…»

«Inquisizione» disse Isaac.

Alvin avvertì una fitta di paura alla bocca dello stomaco. Se su di lui circolavano storie del genere, questo significava che ormai tutti lo consideravano un criminale… un mostro, praticamente. «Io non faccio che accompagnare…»

«Lo so, quello che fai, e perché» disse Becca. «Da queste parti conosciamo Isaac abbastanza bene da non credere a questo genere di storie.»

Ma ad Alvin non importava nulla di «quelle parti». Quello che veramente gli importava era ciò che pensavano dalle sue parti, nel territorio del Wobbish.

«Non preoccuparti» proseguì Becca. «Nessuno sa chi sia questo leggendario ragazzo bianco. Sicuramente non uno dei due innocenti che Ta-Kumsaw ha fatto a pezzi nella foresta. Sicuramente non Alvin o Measure. Tra l’altro, scusami, chi sei dei due?»

«Alvin» disse Isaac.

«Ah, già» replicò Becca. «Me l’avevi anche detto. Non riesco mai a ricordarmi i nomi delle persone»

«Ta-Kumsaw non ha fatto a pezzi nessuno.»

«Come potrai facilmente immaginare, Alvin, da queste parti non abbiamo dato molto credito nemmeno a questa storia.»

«Oh.» Alvin non sapeva che cosa dire, e avendo vissuto per tanto tempo come un Rosso, fece ciò che fanno i Rossi quando non hanno niente da dire, qualcosa che ai Bianchi difficilmente viene in mente di fare. Non disse assolutamente nulla.

«Pane e formaggio?» chiese Becca.

«Sei troppo gentile. Grazie» disse Isaac.

Una cosa da non credersi. Ta-Kumsaw che ringraziava come un perfetto gentiluomo. Non che in mezzo alla sua gente non si comportasse in maniera nobile e cortese. Ma quando usava la lingua dell’uomo bianco si era sempre mostrato così freddo, così laconico. Fino a ora. Stregoneria.

Becca suonò un campanello.

«È cibo semplice, ma in questa casa viviamo semplicemente. Soprattutto io in questa stanza. Ma mi sembra appropriato a un posto così semplice.»

Alvin si guardò intorno. Becca aveva ragione. Solo allora capì di trovarsi nella capanna di tronchi originaria, con l’unica finestra sopravvissuta da cui entrava a fiotti la luce del meridione. Le pareti erano ancora di legno grezzo; Alvin semplicemente non se n’era accorto, per via della stoffa drappeggiata qua e là, appesa alle pareti, ammucchiata sui mobili, arrotolata in pezze. Una stoffa strana, intessuta di tanti colori che tuttavia non formavano un disegno sensato, ma ondeggiavano da una parte e dall’altra, mutavano di sfumature e di colori — un’ampia striscia azzurra, qualche sottile filo verde — che prima s’intrecciavano e poi si dividevano.

In risposta al campanello di Becca entrò qualcuno, probabilmente un uomo anziano a giudicare dalla voce; Becca gli chiese di portare da mangiare, ma Alvin non lo guardò neanche, perché non riusciva a staccare lo sguardo da quel tessuto. A che cosa poteva servire tutta quella stoffa? A che scopo una simile disordinata e vivacissima accozzaglia di colori?

E poi, dove finiva?

Alvin si avvicinò a una decina di pezze arrotolate, appoggiate verticalmente una all’altra in un angolo, e si accorse che ogni rotolo veniva fuori dall’altro. Qualcuno aveva preso la fine di ciascuna pezza avvolgendola su se stessa in modo da formare l’inizio della pezza successiva, e così via, così che ora il tessuto uscendo dal fondo di un rotolo balzava in alto per rituffarsi al centro di quello successivo, formando una specie di catena. Non era un mucchio di pezze separate; era un’unica pezza, arrotolata fino a diventare quasi troppo pesante per poter essere alzata, e allora cominciava quella successiva senza che le forbici avessero mai toccato il tessuto. Alvin cominciò a fare il giro della stanza seguendo con le dita il disegno della stoffa appesa alle pareti e piegata sul pavimento. Gira gira, arrivò alla fine, proprio mentre il vecchio rientrava nella stanza con pane e formaggio. Il tessuto usciva dalla parte anteriore del telaio di Becca.

Nel frattempo, Ta-Kumsaw aveva continuato a rivolgersi a Becca con la sua voce da Isaac, e lei a rispondergli con quella sua voce profonda e melodiosa, con un lievissimo accento forestiero simile a quello di certi olandesi dalle parti di Vigor Church, che in America ci erano nati ma, nella pronuncia, conservavano ancora una traccia della terra d’origine. Solo ora, in piedi davanti al telaio, con il cibo su un tavolino basso circondato da tre sedie, solo ora Alvin prestò attenzione a quello che i due si dicevano, e questo soltanto perché avrebbe tanto voluto chiedere a Becca a che cosa servisse tutta quella stoffa che lei stava evidentemente tessendo da più di un anno, a che cosa servisse quell’unica lunga pezza che nessuno tagliava per ricavarne qualcosa. Era quello che la mamma avrebbe chiamato «uno spreco vergognoso», avere qualcosa e non usarlo, come la sua vicina Dally Framer che aveva una voce così bella e a casa cantava tutto il giorno, mentre in chiesa non apriva bocca.

«Mangia» disse Ta-Kumsaw. E nel rivolgersi bruscamente ad Alvin, la sua voce perse qualsiasi accento britannico; era di nuovo il vero Ta-Kumsaw. Alvin allora si tranquillizzò, rendendosi conto che sotto non c’era alcuna stregoneria, che Ta-Kumsaw aveva semplicemente due modi di parlare; ma ovviamente questo fece sorgere nella sua mente nuove domande, riguardo a dove Ta-Kumsaw potesse avere imparato a parlare in quel modo. Alvin non aveva mai sentito accennare nemmeno per caso al fatto che Ta-Kumsaw potesse avere degli amici bianchi nello Stato degli Appalachi; e si poteva star certi che una storia del genere avrebbe fatto in fretta a circolare. Anche se non era difficile immaginare il motivo per cui Ta-Kumsaw avrebbe avuto tutto l’interesse a evitarlo. Che cosa avrebbero detto i Rossi infiammati dalle sue parole se avessero potuto vederlo adesso? Che ne sarebbe stato della guerra?

Tra l’altro, com’era possibile che Ta-Kumsaw volesse veramente la guerra, se tra i Bianchi aveva dei veri amici come la gente di quella valle? Sicuramente per un Rosso la terra di quel posto era morta. Come faceva Ta-Kumsaw a sopportare una cosa del genere? Ad Alvin dava una tale sensazione di vuoto che, pur essendosi ingozzato di pane e formaggio fino ad avere la pancia che gli strabuzzava in fuori, continuava a sentire qualcosa che gli rodeva dentro, il bisogno di tornare nella foresta e avvertire dentro di sé il canto della terra.

Mentre Alvin e Ta-Kumsaw mangiavano, Becca riferiva a quest’ultimo le ultime novità della valle, citando nomi che ad Alvin non dicevano nulla, tranne per il fatto che ciascuno avrebbe potuto essere il nome di qualche abitante di Vigor Church; c’era perfino gente che si chiamava Miller, cosa del tutto naturale considerando che molti mugnai si chiamavano così — in inglese miller significa appunto «mugnaio» — e in una valle di quelle dimensioni si produceva sicuramente grano bastante a dar lavoro a più di un mulino.

Il vecchio tornò e prese a sparecchiare.

«Sei venuto a vedere il mio tessuto?» chiese Becca.

Ta-Kumsaw annuì. «In parte anche per questo.»

Becca sorrise e lo condusse al telaio. Sedutasi sullo sgabello, si tirò in grembo la stoffa appena tessuta. Col dito indicò un punto a circa tre braccia dal bordo del telaio. «Ecco» gli mostrò. «Questa è la tua gente che si raduna a Prophetstown.»

Alvin la vide passare la mano su un vero e proprio fascio di fili che sembravano uscire dall’ordito, trasmigrando attraverso la pezza per raccogliersi vicino al bordo.

«Rossi di ogni tribù» disse Becca. «I più forti del tuo popolo.»

Anche se le fibre tendevano al verdastro, erano effettivamente più grosse, forti e ben tirate della maggior parte delle altre. Becca si tirò in grembo un altro po’ di stoffa. Il fascio di fili si faceva più spesso ed evidente, e i fili stessi di un verde più brillante. Com’era possibile che cambiassero colore in quel modo? E com’era possibile che l’ordito, costretto dai meccanismi del telaio, si spostasse in quella maniera?

«E ora i Bianchi che si radunano contro di loro» disse Becca.

E difatti altri fili, inizialmente più vicini degli altri, cominciavano a stringersi, annodandosi gli uni agli altri. Agli occhi di Alvin quel tessuto parve un vero disastro, con tutti quei fili che si ispessivano e si aggrovigliavano — chi mai si sarebbe messo una camicia fatta di quella roba? — e i colori erano del tutto incomprensibili, tutti mescolati, senza il minimo tentativo di creare un disegno o comunque un ordine preciso.

Ta-Kumsaw stese il braccio e cominciò a tirare la stoffa verso di sé finché non giunse a un punto in cui tutti quei fili color verde brillante si allentavano, e per la maggior parte s’interrompevano. L’ordito diventava rado e fine, i fili che restavano erano forse uno su dieci, come il gomito di una vecchia camicia, liso al punto che piegando il braccio si vedono solo alcuni radi fili che vanno in una direzione, nessuno nell’altra.

Se i fili verdi significavano Prophetstown, allora non poteva esserci alcun dubbio sull’accaduto. «Il Tippy-Canoe» mormorò Alvin. Adesso capiva il senso di quel tessuto.

Becca si chinò sulla stoffa, bagnandola con le lacrime che le sgorgavano copiose dagli occhi.

Impassibile, Ta-Kumsaw continuò a tirare la stoffa verso di sé. Alvin vide il resto dei fili verdi che rappresentavano i pochi sopravvissuti al massacro del Tippy-Canoe emigrare fino al bordo del tessuto e qui fermarsi. Contemporaneamente, il tessuto si restringeva in corrispondenza dei fili mancanti. Intanto però se ne vedevano raccogliersi altri, stavolta non più verdi, ma per lo più neri.

«Neri d’odio» commentò Becca. «Stai raccogliendo la tua gente con l’odio.»

«Riesci a immaginare una guerra condotta con amore?» chiese Ta-Kumsaw.

«Potrebbe essere un motivo per non farla affatto» ribatté lei dolcemente.

«Non metterti a parlare come una Bianca» la rimproverò Ta-Kumsaw.

«Ma se è Bianca» disse Alvin, al quale le parole di Becca erano apparse del tutto sensate.

Entrambi guardarono Alvin, Ta-Kumsaw senza tradire alcuna emozione, Becca con… divertimento? Compassione? Poi tornarono a occuparsi del tessuto.

Ben presto giunsero al punto in cui il tessuto scavalcava la trave per inserirsi nella parte anteriore del telaio. Intanto i fili neri dell’esercito di Ta-Kumsaw si stringevano sempre più, si annodavano, si intrecciavano. Altrove, altri fili, azzurri, gialli, neri, andavano raccogliendosi facendo raggrinzire il tessuto. Certo, ora era più spesso, ma ad Alvin non dava l’impressione di essere più robusto. Più debole, caso mai. Meno utile. Meno sicuro.

«Se continua così, presto questa stoffa non potrà più servire a niente» disse Alvin.

Becca sorrise amaramente. «Mai parole furono più vere, ragazzo mio.»

«Se questo pezzo rappresenta circa un anno di storia» proseguì Alvin «lassù dovete averne almeno duecento anni.»

Becca inclinò la testa. «Di più» disse.

«Come fate a sapere che cosa succede, in modo da poterlo mettere nella stoffa?»

«Certe cose si possono benissimo fare senza conoscerne il perché» sentenziò Becca.

«Non potreste fare in modo che le cose andassero diversamente, cambiando la disposizione dei fili?» Ad Alvin era venuta in mente la possibilità di distribuire i fili in maniera più uniforme, allontanando quelli neri uno dall’altro.

«Non è così che funziona» gli spiegò Becca. «Non sono io a far accadere le cose in un modo o nell’altro. Sono le cose che accadono a cambiare me. Non devi crucciartene, Alvin.»

«Ma duecento anni fa i Bianchi non erano ancora arrivati in questa parte dell’America. Com’è possibile che la stoffa vada ancora più indietro?»

Becca sospirò. «Isaac, era proprio necessario che tu lo portassi qui a tempestarmi di domande?»

Ta-Kumsaw le rivolse un sorriso.

«Mi assicuri che non lo dirai a nessuno, ragazzo?» chiese Becca. «Saprai tenere il segreto su ciò che sono e su quello che faccio?»

«Ve lo prometto.»

«Io tesso, Alvin. Questo è tutto. Da tempo immemorabile, i membri della mia famiglia fanno i tessitori.»

«È così che vi chiamate, allora? Becca Weaver? Becca la Tessitrice? Anche il padre di mio cognato, Corazza-di-Dio, si chiamava Weaver, e…»

«Nessuno ci chiama tessitori» disse Becca. «Se potessero darci un nome, ci chiamerebbero… no.»

Non ci fu verso di farglielo dire.

«No, Alvin, non posso caricarti di un simile fardello. Perché allora vorresti venire. Vorresti venire a vedere…»

«A vedere che cosa?» chiese Alvin.

«Come Isaac. Non avrei mai dovuto dirlo nemmeno a lui.»

«Lui però il segreto l’ha mantenuto. Non ne ha mai fatto parola con nessuno.»

«Tranne che con se stesso. Ed è venuto a vedere.»

«A vedere che cosa?» chiese di nuovo Alvin.

«A vedere quanto sono lunghi i fili che entrano nel mio telaio.»

Solo allora Alvin fece caso alla parte posteriore del telaio, dove i fili dell’ordito erano tenuti a posto da una rastrelliera di sottili fili d’acciaio. I fili non erano colorati. Erano bianchi. Erano forse di cotone? Certamente non di lana. Di lino, forse. Con tutti i colori presenti nel tessuto finito, Alvin fino a quel momento non aveva fatto particolare attenzione al materiale di cui era fatto.

«E i colori da dove saltano fuori?» chiese Alvin.

Nessuno gli rispose.

«Alcuni fili si allentano.»

«Alcuni finiscono» aggiunse Ta-Kumsaw.

«Molti finiscono» terminò Becca. «E molti cominciano. È il ritmo della vita.»

«Che cosa vedi, Alvin?» chiese Ta-Kumsaw.

«Se quei fili neri sono la tua gente» disse Alvin «allora direi che si sta preparando una battaglia, e che molti di loro moriranno. Non come al Tippy-Canoe, però. Non sarà così orribile.»

«È quello che vedo anch’io» convenne Ta-Kumsaw.

«E quei colori tutti aggrovigliati, che cosa sono? Un esercito di Bianchi?»

«Corre voce che un uomo di nome Andrew Jackson, proveniente dal Tennizy occidentale, stia raccogliendo un esercito. Lo chiamano Vecchio Hickory.»

«Lo conosco» disse Ta-Kumsaw. «A volte ha qualche problema a stare in sella.»

«Jackson sta facendo con i Bianchi la stessa cosa che stai facendo tu con i Rossi, Isaac. Da qualche tempo gira in lungo e in largo le regioni occidentali, sobillando la gente e indottrinandola sul ‘pericolo rosso’. Su di te, Isaac. Per ogni Rosso che tu hai arruolato, lui ha arruolato due Bianchi. Ed è convinto che andrai a nord, per unirti all’esercito francese. Sa tutti i tuoi piani.»

«E invece non sa nulla» la contraddisse Ta-Kumsaw. «Alvin, dimmi, quanti fili di questo esercito bianco si interrompono?»

«Molti. Forse di più. Non saprei. Non c’è molta differenza.»

«Allora non mi dice niente.»

«Ti dice che avrai la battaglia che cerchi» disse Becca. «Ti dice che al mondo, grazie a te, ci saranno ancora sangue e sofferenza.»

«Ma non dice niente di una vittoria» commentò Ta-Kumsaw.

«È sempre così.»

Alvin si chiese se non si sarebbe potuto semplicemente legare un altro filo a uno di quelli spezzati, salvando la vita a qualcuno. Cercò con lo sguardo le spolette di filo dell’ordito, ma non le trovò. I fili scendevano dalla trave posta trasversalmente dietro il telaio, tesi come se dall’altra parte fossero legati a un grosso peso, ma Alvin non riuscì a capire da dove venissero. Non toccavano il pavimento. E nemmeno finivano da qualche parte. Fino a un certo punto, erano lì in aria belli tesi. Da un certo punto in poi, non si vedeva più nulla. Quei fili sbucavano dal nulla, e nessun occhio umano avrebbe potuto capire dove iniziassero, o trovare una spiegazione razionale alla loro sparizione.

Ma lui, Alvin, poteva vedere con altri occhi, con quegli occhi interiori con cui poteva studiare il minuto funzionamento del corpo umano, o le fredde correnti interne della pietra. E con quella sua vista segreta guardò un filo e percepì il modo in cui le fibre si avvolgevano su se stesse intrecciandosi le une alle altre, acquistando forza e consistenza. Stavolta poté seguire il filo finché, molto oltre il punto in cui l’occhio umano non vedeva più nulla, il filo non s’interruppe. Chiunque esso rappresentasse, aveva davanti a sé una vita lunga e tranquilla.

Ogni volta che qualcuno moriva, il suo filo terminava. E in qualche modo, quando nasceva un bambino, cominciava un nuovo filo. Un nuovo filo venuto dal nulla.

«Non finirà mai» disse Becca. «Anch’io diventerò vecchia e morirò, Alvin, ma la tela continuerà.»

«E voi sapete qual è il vostro filo?»

«No» rispose Becca «e non voglio saperlo.»

«Credo che a me invece piacerebbe. Vorrei proprio sapere quanti anni mi restano.»

«Molti» si intromise Ta-Kumsaw. «O pochi. L’unica cosa che conta è l’uso che ne fai.»

«Ma anche quanto vivrò ha la sua importanza» disse Alvin. «E non dirmi che non è vero, perché non ci crederesti nemmeno tu.»

Becca rise.

«Signorina Becca» le si rivolse Alvin «se non siete voi a far succedere le cose, allora perché fate questo lavoro?»

Becca alzò le spalle. «È un lavoro come un altro. Ciascuno ha il suo lavoro, e questo è il mio.»

«Potreste uscire di qui e tessere per gli altri. Fare cose che possano mettersi addosso.»

«Mettersi addosso per poi consumarle» puntualizzò lei. «E poi no, Alvin, non mi è concesso di uscire.»

«Volete dire che non uscite mai di casa?»

«Sto sempre qui» disse Becca. «In questa stanza, col mio telaio.»

«Una volta ti ho supplicato di venire con me» fece Isaac.

«E una volta sono stata io a supplicarti di restare.» Becca alzò lo sguardo su di lui, sorridendo.

«Non potrei trascorrere i miei giorni dove la terra è morta.»

«E io non potrei allontanarmi un istante dalla mia tela. Come la terra vive nella tua mente, Isaac, così nella mia vivono le vite di tutte le anime d’America. Ma ti amo. Perfino in questo momento.»

Alvin ebbe la netta sensazione di essere di troppo. Era come se si fossero dimenticati della sua presenza, anche se fino a un istante prima avevano parlato con lui. Alla fine gli capitò di pensare che probabilmente avrebbero preferito essere soli. Perciò si allontanò, avvicinandosi di nuovo alla tela, e cominciò a seguirne il percorso, anche se stavolta in direzione opposta, frugando in fretta ma accuratamente le pareti, i rotoli e i mucchi, in cerca dell’altra estremità, quella più antica.

Ma non riuscì a trovarla. Anzi, doveva aver cercato nella direzione sbagliata o a un certo punto doveva essersi confuso, perché ben presto si ritrovò a seguire la stessa strada della prima volta, quella che l’aveva condotto al telaio. Ripartì nella direzione opposta, e poco dopo si ritrovò di nuovo a procedere in direzione del telaio. Come non era possibile muoversi in avanti per capire da dove venissero i fili, così non era possibile muoversi all’indietro in cerca dell’altra estremità.

Si voltò di nuovo verso Ta-Kumsaw e Becca. Qualunque fosse stato l’argomento della loro conversazione, i sussurri erano finiti. Ta-Kumsaw sedeva a gambe incrociate sul pavimento di fronte a lei, il capo chino. Lei gli carezzava la testa con mano leggera.

«Questa tela è più vecchia della parte più antica di questa casa» disse Alvin.

Becca non gli rispose.

«Questa tela dura da sempre.»

«Questa tela passa attraverso il telaio da quando gli uomini hanno imparato a tessere.»

«Ma non questo telaio. Questo telaio è nuovo» osservò Alvin.

«Ogni tanto cambiamo telaio, costruendo quello nuovo intorno a quello vecchio. È così che fanno gli uomini della nostra stirpe.»

«Questa tela risale a prima che in America arrivassero i Bianchi» disse Alvin.

«Una volta faceva parte di una tela più grande. Ma un giorno, nella nostra terra d’origine, ci accorgemmo che gran parte dei fili si stava muovendo verso il bordo. Allora il mio bis-bis-bis-bis-bis-bisnonno costruì un nuovo telaio. Avevamo i fili che ci servivano, quelli che si separavano dalla vecchia tela. E di lì abbiamo continuato. È ancora collegato… è questo che vedi.»

«Ma adesso è qui.»

«È qui e laggiù. Non provare a capire, Alvin. Io stessa ci ho rinunciato molto tempo fa. Ma non è bello sapere che tutti i fili della vita sono intessuti in un’unica immensa tela?»

«E chi tesse la tela per i Rossi che sono andati a ovest con Tenska-Tawa?» chiese Alvin. «I fili che sono usciti dalla tela.»

«Questa non è cosa che ti riguardi» disse Becca. «Diciamo soltanto che è stato costruito un nuovo telaio, e che è stato portato a ovest.»

«Ma Ta-Kumsaw ha detto che nessun Bianco avrebbe mai potuto attraversare il fiume per andare a ovest. L’ha detto anche il Profeta.»

Ta-Kumsaw si voltò lentamente, senza alzarsi dal pavimento. «Alvin» disse «sei solo un ragazzo.»

«E io ero solo una bambina» gli ricordò Becca «quando mi sono innamorata di te.» Si voltò verso Alvin. «È stata mia figlia a portare il telaio a ovest. L’ha potuto fare perché è Bianca solo a metà.» Carezzò di nuovo la testa di Ta-Kumsaw. «Isaac è mio marito. Mia figlia Wieza è sua figlia.»

«Mana-Tawa» disse Ta-Kumsaw.

«Per qualche tempo ho creduto che Isaac sarebbe rimasto qui, a vivere con noi. Ma poi vidi il suo filo allontanarsi dal nostro, anche se il suo corpo era ancora qui. Allora capii che sarebbe tornato dalla sua gente. Sapevo perché fosse venuto da noi, uscendo tutto solo dalla foresta. Esiste una fame ancora più grande di quella dell’uomo rosso per il canto della foresta vivente, di quella del fabbro per la liquida massa del ferro rovente, persino di quella del rabdomante per il vuoto cuore della terra. È stata quella fame a condurre Ta-Kumsaw a casa nostra. A quei tempi al telaio c’era ancora mia madre. Ho insegnato a Ta-Kumsaw a leggere e a scrivere; dopo aver divorato tutta la biblioteca di mio padre, ha letto ogni altro libro che si trovasse nella valle; allora abbiamo ordinato altri libri a Filadelfia e lui ha letto anche quelli. Quando ha dovuto scegliersi un nome, ha scelto quello dell’autore dei Principia. Diventati grandi, ci siamo sposati. Ho avuto una figlia. Lui se n’è andato. Quando Wieza aveva tre anni, Isaac è tornato, le ha costruito un telaio e se l’è portata a ovest, oltre le montagne, perché vivesse con il suo popolo.»

«E voi l’avete lasciata andare?»

«Proprio come la mia antenata seduta al suo telaio lasciò partire sua figlia perché attraversasse l’oceano con un nuovo telaio e un padre premuroso al suo fianco, sì, anch’io l’ho lasciata andare.» Becca sorrise mestamente. «Abbiamo tutti un lavoro da compiere, ma non esiste lavoro ben fatto che non abbia il suo prezzo. Quando Isaac se la portò via, mi trovavo già in questa stanza. Tutto ciò che è accaduto è stato un bene.»

«Ma se quando è arrivato non gli avete nemmeno chiesto come stava vostra figlia! E ancora non glielo avete chiesto.»

«Non ne avevo bisogno» disse Becca. «Alla custode del telaio non può accadere niente di male.»

«Be’, se vostra figlia se n’è andata, chi prenderà il vostro posto?»

«Forse prima o poi arriverà un altro marito. Un marito che resterà in questa casa, e costruirà un altro telaio per me, e un altro ancora per una figlia di là da venire.»

«E a voi che cosa succederà?»

«Quante domande, Alvin» protestò Ta-Kumsaw. Ma la sua voce era bassa e stanca e britannica; Alvin non provava alcuna soggezione per il Ta-Kumsaw che leggeva i libri dei Bianchi, e di conseguenza non si curò di quel benevolo rimprovero.

«Che ne sarà di voi quando vostra figlia prenderà il vostro posto?»

«Non lo so» disse Becca. «Ma si narra che andiamo nel luogo da cui vengono i fili.»

«E laggiù che cosa fate?»

«Filiamo.»

Alvin cercò di immaginarsi la madre di Becca, e sua nonna, e tutte le donne che le avevano precedute, tutte in fila, cercò di immaginarsi quante potessero essere, tutte al lavoro davanti al filarello, che torcevano la fibra grezza infilata nel fuso ricavandone fili bianchi che finivano chissà dove, si allungavano e sparivano nel nulla finché a un certo punto non si spezzavano. O forse quando il filo si spezzava, esse lo tenevano per un istante tra le mani, un’intera vita umana, e poi lo gettavano in alto finché non veniva afferrato da un venticello passeggero, e poi ricadeva giù e andava a impigliarsi nel telaio di qualcuno. Una vita in balia del vento, che casualmente andava a intessersi nella tela dell’umanità; una vita nata in un momento arbitrario, che lottava per trovare il modo di inserirsi nella tela, e trovava la sua forza nell’intrecciarsi con tutte le altre.

E nell’immaginare tutto questo, Alvin immaginò anche di capire meglio la natura di quella tela. Più l’ordito era stretto, infatti, più il tessuto acquistava forza e resistenza. I fili che serpeggiavano alla superficie della stoffa, tuffandosi solo raramente nella trama, contribuivano poco alla robustezza del tessuto, molto al colore. Altri fili dei quali il colore neanche si distingueva erano invece profondamente inseriti nella trama e tenevano insieme tutto il resto. In quei fili nascosti che univano tutti gli altri c’era qualcosa di intrinsecamente buono. Da quel momento in poi, Alvin avrebbe saputo apprezzare nel suo giusto valore la persona — uomo o donna — che viveva una vita tranquilla e poco appariscente, alla quale gli altri non prestavano né attenzione né considerazione, e che pure continuava a intessere la propria vita in quella del villaggio, del paese o della città, unendo e rinsaldando tutte le altre vite; e Alvin avrebbe silenziosamente salutato quella persona rendendole omaggio in cuor suo, consapevole che era proprio la sua vita a dare resistenza al tessuto, consistenza alla trama.

Alvin ricordò anche i numerosi fili che si interrompevano là dove avrebbe avuto luogo la battaglia voluta da Ta-Kumsaw, come se questi avesse preso un paio di forbici e li avesse troncati di netto.

«Non c’è modo di evitarlo?» chiese Alvin. «Non c’è speranza che la battaglia non si svolga, e i fili non si spezzino?»

Becca scosse la testa. «Se Isaac si rifiutasse di parteciparvi, la battaglia avrebbe luogo anche in sua assenza. No, i fili non sono stati spezzati da qualcosa che Isaac abbia fatto. Si sono spezzati nel momento in cui un qualsiasi uomo rosso ha scelto un corso d’azione che lo avrebbe sicuramente portato a morire in battaglia; se è questo che ti preoccupa, tu e Isaac non siete andati in giro a spargere la morte, non più di quanto lo stia facendo Vecchio Hickory. Quella che avete sparso è soltanto una possibilità di scelta. Nessuno era tenuto a credervi. Nessuno era costretto a scegliere la morte.»

«Ma loro in quel momento non sapevano di scegliere.»

«Certo che lo sapevano» lo smentì Becca. «Tutti quanti lo sappiamo. Non vogliamo ammetterlo neanche di fronte a noi stessi, fino al momento stesso della morte, ma in quel momento, Alvin, ci vediamo davanti tutta la nostra vita, e capiamo che giorno dopo giorno abbiamo scelto le circostanze in cui saremmo morti.»

«E se uno se ne va in giro tranquillamente e gli cade un macigno in testa e lo sfracella?»

«È stato lui a decidere di trovarsi in un posto dove succedono cose del genere. E in quel momento non guardava in alto.»

«Non ci credo» disse Alvin. «Secondo me la gente può sempre cambiare quello che le succederà, e certe cose succedono senza che nessuno le abbia volute.»

Becca gli sorrise, tendendo il braccio verso di lui. «Vieni, Alvin. Lasciati stringere. La tua candida fede mi rincuora, e a quella fede voglio aggrapparmi, anche se non riesco a farla mia.»

Becca lo strinse a sé per qualche minuto, e ad Alvin quel braccio intorno alle spalle ricordò a tal punto la stretta forte e gentile di sua madre, che gli venne perfino un po’ da piangere. Anzi, pianse molto di più di quello che avrebbe voluto, se pure aveva avuto intenzione di piangere. E si guardò bene dal chiedere a Becca di mostrargli il filo della sua vita, pur immaginando che trovarlo non sarebbe stato difficile: l’unico filo nato nella parte bianca della tela, che poi emigrava dall’altra parte e diventava verde. Sicuramente diventava verde, come quelli dei seguaci del Profeta.

Di un’altra cosa era sicuro, talmente sicuro che non si prese nemmeno la briga di informarsi, anche se non era certo il tipo che si vergognava di far domande. Era sicuro che Becca sapesse quale fosse il filo di Ta-Kumsaw, ed era altrettanto sicuro che il proprio filo e quello di Ta-Kumsaw erano strettamente intrecciati uno all’altro, almeno per un certo tratto. Finché Alvin fosse restato al suo fianco, Ta-Kumsaw sarebbe vissuto. Alvin sapeva che la loro vicenda aveva due possibili conclusioni: nella prima, Alvin moriva per primo lasciando solo Ta-Kumsaw, che ben presto sarebbe morto a sua volta; nella seconda, nessuno dei due moriva, e i loro fili proseguivano fino a scomparire. A dire il vero, ci sarebbe stata anche un’altra possibilità: che Alvin se ne andasse, abbandonando Ta-Kumsaw al proprio destino. Ma se l’avesse fatto, non sarebbe stato più Alvin, per cui non aveva alcun senso considerarla una possibilità visto che così non era.

Quella notte Alvin dormì in biblioteca, su una stuoia, dopo aver letto qualche pagina di un libro scritto da un tale chiamato Adam Smith. Dove fosse andato a dormire Ta-Kumsaw, Alvin non lo sapeva, né si sognò di chiederlo. Quello che un marito fa con sua moglie non è cosa che debba interessare i bambini. Questo lo sapeva; ma allo stesso tempo si chiese se il motivo principale per cui Ta-Kumsaw era tornato in quella casa non fosse tanto il desiderio di vedere il telaio, quanto quella fame di cui aveva parlato Becca. Il bisogno di un’altra figlia che potesse prendersi cura del telaio di Becca. A giudizio di Alvin, non era affatto una cattiva idea affidare la tela dell’America bianca alle mani della figlia di un uomo rosso.

Il mattino seguente Ta-Kumsaw se lo riportò via nella foresta. Non parlarono più di Becca, né di qualsiasi altro argomento; tutto era tornato come prima, con Ta-Kumsaw che parlava solo per ordinargli di fare questo o quello. Alvin non lo udì più parlare con la sua voce da Isaac, tanto che cominciò a dubitare di averla mai udita.

Sulla riva settentrionale del fiume Hio, a poca distanza dalla confluenza col Wobbish, si andava raccogliendo l’esercito dei Rossi, più Rossi di quanti Alvin avrebbe mai creduto che ne potessero esistere in tutta l’America. Più gente di quanta Alvin avrebbe mai potuto immaginarsi di veder radunata in un unico luogo.

E siccome tanti guerrieri insieme avrebbero certamente rischiato di patire la fame, avvertendo il loro bisogno accorsero in quel luogo anche gli animali, che in quel modo raggiungevano lo scopo per il quale erano nati. Possibile che la foresta avesse capito che ogni speranza di sfuggire alla scure dell’uomo bianco dipendeva dalla vittoria di Ta-Kumsaw?

No, concluse Alvin, la foresta stava semplicemente facendo ciò che aveva sempre fatto: si dava da fare per nutrire i suoi figli.

Il mattino in cui lasciarono le rive dell’Hio, diretti a nord, pioveva e tirava un vento fresco. Ma che cos’era la pioggia per l’uomo rosso? Il messaggero che aspettavano dai francesi di Detroit era arrivato. Era giunto il momento di unire le forze, e attirare l’esercito di Vecchio Hickory verso nord.

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