5

Mio padre era Eptarca ereditario della provincia di Salla, sulla costa orientale. Mia madre era la figlia dell’Eptarca di Glin; egli l’incontrò durante una missione diplomatica e la loro unione fu decisa, si disse, fin dal momento in cui si videro. Il primo figlio fu mio fratello Stirron, che ora è Eptarca a Salla al posto di mio padre. Io nacqui due anni più tardi e dopo di me vennero altre tre figlie; due di esse sono ancora vive, mentre la più giovane fu uccisa dai razziatori di Glin circa venti lune fa.

Ho conosciuto poco mio padre. Su Borthan, siamo tutti stranieri tra di noi, ma di solito il proprio padre è un po’ meno distante degli altri; col vecchio Eptarca non era così. Tra noi ci fu sempre un impenetrabile muro di formalità. Nel rivolgerci a lui, dovevamo usare le stesse formule di rispetto degli altri sudditi. I suoi sorrisi erano così rari che credo di poterli ricordare uno per uno. Una volta, non lo dimenticherò mai, mi prese al suo fianco sul trono di legno grossolanamente intagliato, mi lasciò toccare l’antica imbottitura gialla e mi chiamò affettuosamente col mio nome da fanciullo; era il giorno della morte di mia madre. Altrimenti mi ignorò sempre. Io lo amavo e lo temevo, mi nascondevo tremando dietro i pilastri del suo Tribunale per guardarlo mentre amministrava la Giustizia. Pensavo che se mi avesse scorto mi avrebbe annientato, ma non potevo privarmi della vista di mio padre in tutta la sua maestà.

Egli era, stranamente, un uomo sottile e di media statura: e io e mio fratello torreggiavamo su di lui fin da quando eravamo ragazzi. Ma c’era in lui una terribile forza di volontà che gli permetteva di superare qualsiasi ostacolo. Una volta, quando ero bambino, venne in visita all’Eptarchia un certo ambasciatore, un tipo dell’Ovest, grosso, abbronzato dal sole. Ancor oggi lo ricordo grande come il Monte Kongoroi: probabilmente era soltanto alto e grosso quanto lo sono io adesso. Durante il banchetto l’ambasciatore bevve troppo del nostro vino blu e disse di fronte a mio padre, ai suoi compagni e alla sua famiglia: — Si vorrebbe dimostrare la propria forza agli uomini di Salla, ai quali si potrebbe insegnare qualcosa in fatto di lotta.

— C’è qui qualcuno — replicò mio padre, con furia improvvisa, — al quale forse non c’è da insegnare proprio nulla.

— Che venga fuori — disse il grosso uomo dell’Ovest alzandosi e gettando via il mantello. Ma mio padre, sorridendo, e la vista di quel sorriso fece tremare i suoi cortigiani, rispose al vanaglorioso straniero che non sarebbe stato corretto farlo combattere mentre aveva la mente annebbiata dal vino. Queste parole, naturalmente, mandarono del tutto fuori di sé l’ambasciatore. Entrarono i musicisti per cercare di allentare la tensione, ma l’ira del nostro visitatore non accennò a diminuire, dimodoché, un’ora dopo, quando l’ubriachezza gli fu un poco passata, egli chiese ancora di incontrare il campione di mio padre. Nessun uomo di Salla, disse il nostro ospite, sarebbe stato in grado di resistere alla sua forza.

A questo punto l’Eptarca disse: — Combatterò io con te, io stesso.

Quella sera, io e mio fratello eravamo seduti all’estremità più lontana della tavola, insieme con le donne. Giù dal trono piovve, dalla voce di mio padre, la sbalorditiva parola «Io», subito seguita dall’altra «Io stesso». Erano oscenità che Stirron ed io avevamo spesso sussurrato ridacchiando nel buio della nostra camera da letto, ma non avremmo mai immaginato di sentirle pronunciare irosamente nella sala dei banchetti e proprio dalle labbra dell’Eptarca. Al colpo reagimmo in modo diverso: Stirron sussultò violentemente e rovesciò la sua coppa, mentre io mi lasciai sfuggire un acuto risolino a stento represso, d’imbarazzo e di delizia, che mi procurò un fulmineo schiaffo da parte della dama che si occupava di noi ragazzi. La mia risata era in realtà soltanto un modo per nascondere l’orrore che sentivo dentro di me. Non avrei mai creduto che mio padre conoscesse quelle parole, e meno che mai che le avrebbe pronunciate davanti a tale augusta compagnia. Combatterò io con te, io stesso. Mentre l’eco delle parole proibite ancora mi stordiva, mio padre si fece avanti rapidamente, gettò via il mantello, si pose di fronte al robusto ambasciatore, lo afferrò al gomito e alla coscia in un’agile presa sallana e lo mandò immediatamente lungo disteso sul lucido pavimento di pietra grigia. L’ambasciatore gettò un grido terribile: aveva una gamba ripiegata stranamente all’infuori, in modo da formare con l’anca un angolo impossibile. Per il dolore e l’umiliazione cominciò a battere più e più volte il pavimento con il palmo della mano. Forse, adesso, nel palazzo di mio fratello Stirron si pratica la diplomazia in un modo più sofisticato.

L’Eptarca morì quando io avevo dodici anni ed ero alle soglie della virilità. Ero vicino a lui, quando la morte lo prese. Per sfuggire la stagione delle piogge, a Salla, ogni anno egli andava a caccia di uccelli-spada nelle Terre Basse Bruciate, proprio nella zona in cui io adesso mi nascondo e aspetto. Fino ad allora, non ero mai andato con lui, ma quella volta mi fu permesso di accompagnare il gruppo dei cacciatori, dato che ormai ero un giovane principe e dovevo imparare quell’arte propria del mio rango. Stirron, come futuro Eptarca, aveva altre cose da imparare e rimase a Salla come reggente durante l’assenza di mio padre dalla capitale. Sotto un cielo plumbeo, pesante di nuvole, la colonna di veicoli, una ventina, si avviò fuori di città, verso occidente, attraversando la pianura invernale, spoglia e inzuppata d’acqua. Le piogge non ebbero pietà, quell’anno, e lavarono via la preziosa terra superficiale, fino a mettere a nudo l’ossatura rocciosa del nostro paese. Dappertutto i contadini si affannavano a riparare gli argini, ma i risultati erano scarsi. Vedevo i fiumi in piena portare via, insieme con l’acqua giallo-bruna, la ricchezza di Salla: e mi veniva da piangere al pensiero che quel tesoro veniva trascinato in fondo al mare. Quando arrivammo nella zona occidentale di Salla, la strada si fece stretta e cominciò ad inerpicarsi sulle prime pendici della catena degli Huishtor. In breve ci trovammo in una zona più asciutta e più fredda dove, invece della pioggia, dal cielo veniva giù la neve e dove gli alberi erano fasci di rami secchi sul candore accecante che copriva la terra. Seguendo la strada di Kongoroi, penetrammo nei Monti Huishtor. Gli abitanti ci vennero incontro per dare il benvenuto all’Eptarca mentre passava. Le montagne brulle sembravano denti di porpora contro il cielo grigio. Noi, pur dentro i nostri veicoli chiusi, tremavamo di freddo; ma la bellezza tempestosa di quei posti mi faceva dimenticare il disagio. Grandi distese piatte di rocce scure striate fiancheggiavano la strada e non vi era praticamente traccia di humus. Ad eccezione di alcuni punti ben riparati, non c’erano né alberi né arbusti. Voltandoci indietro, potevamo vedere giù in basso tutta Salla, come in una carta geografica, dal candore dei distretti occidentali fino alle popolose e scure spiagge orientali, il tutto in scala ridotta, quasi irreale. Non ero mai arrivato così lontano da casa, prima di allora. Anche se ormai eravamo nelle zone alte, anche se eravamo, come sembrava, a metà strada tra cielo e mare, le vette più interne dei Monti Huishtor si levavano ancora davanti a noi, e sembravano una grande muraglia che dividesse in due il continente da Nord a Sud. Le vette incoronate di neve si ergevano aspre da quella specie di continuo bastione di roccia nuda. Mi domandavo se saremmo arrivati fino in cima o se avremmo trovato qualche passaggio. Ero al corrente dell’esistenza del Passo di Salla, e sapevo che avremmo dovuto transitare di lì, ma in quel momento mi sembrava che il Passo fosse solo una leggenda.

Continuammo a salire sempre più in alto, fino a quando i generatori dei nostri veicoli cominciarono a sussultare e fummo costretti a fermarci di tanto in tanto per liberare dal ghiaccio i condotti di alimentazione. La scarsità di ossigeno ci faceva girare la testa. Ogni notte ci fermavamo in uno dei rifugi costruiti per accogliere gli Eptarchi durante i loro viaggi, ma la sistemazione era ben lungi dall’essere regale. Una volta capitammo in un rifugio i cui guardiani erano tutti periti sotto una slavina poche settimane prima e fummo costretti a scavarci un passaggio nel ghiaccio, per entrare. Eravamo tutti nobili, nel gruppo, e nonostante ciò tutti impugnammo la pala, ad eccezione dell’Eptarca, per il quale il lavoro manuale sarebbe stato una colpa. Ero uno dei più alti e robusti, perciò scavai con maggiore energia degli altri; ma ero anche giovane e imprudente, andai oltre le mie forze e finii col crollare sulla pala. Giacqui come morto nella neve per circa un’ora, finché non si accorsero di me. Mio padre si avvicinò, mentre mi soccorrevano e mi dedicò uno dei suoi rari sorrisi: allora lo credetti un gesto d’affetto e questo contribuì ad accelerare notevolmente la mia ripresa, ma in seguito dovetti constatare che si era trattato più che altro di un segno di disprezzo.

Quel sorriso mi sostenne mentre continuavamo a salire. Non avevo più paura di traversare le montagne, sapevo che ce l’avrei fatta, sentivo che, arrivati laggiù, mio padre ed io avremmo cacciato insieme gli uccelli-spada nelle Terre Basse Bruciate, ci saremmo guardati l’un l’altro dai pericoli, avremmo inseguito e ucciso insieme la preda, e ci sarebbe stata tra noi quell’intimità che non avevo mai conosciuto nell’infanzia. Una volta ne parlai al mio fratello di legame Noim Condorit, che viaggiava con me nel mio veicolo e che era l’unica persona al mondo alla quale potessi dire certe cose. — Si spera di essere scelti dall’Eptarca per il suo gruppo di caccia — dissi. — Si ha ragione di credere che si sarà richiesti e che avrà fine questa lontananza tra padre e figlio.

— Tu sogni — mi rispose Noim Condorit. — Vivi nelle nuvole.

— Ci si augurerebbe un più caldo incoraggiamento, da un fratello di legame — replicai addolorato.

Noim era sempre stato un pessimista; lo ignorai e cominciai a contare i giorni che ci separavano dal Passo di Salla. Quando lo raggiungemmo, non ero preparato allo splendore che ci attendeva. Per tutta la mattina e per metà del pomeriggio, avevamo seguito un ripido sentiero sul fianco del Monte Kongoroi, all’ombra dei due grandi picchi. Mi sembrava che avremmo continuato ad arrampicarci per sempre e che per sempre il Kongoroi avrebbe torreggiato su di noi. Infine, la nostra carovana piegò a destra: i veicoli sparivano uno ad uno dietro un pilone di neve a fianco della strada. Venne il nostro turno e, girato l’angolo, ci si presentò uno spettacolo incredibile: la montagna era spaccata in due da una profonda frattura, come se qualcuno avesse spazzato via con la mano una parte del Kongoroi. Attraverso lo squarcio irrompeva, accecante, la luce del giorno. Era la Porta di Salla, il miracoloso Passo attraverso il quale i nostri antenati, dopo aver vagabondato nelle Terre Basse Bruciate, erano penetrati per la prima volta in quello che sarebbe diventato il nostro paese. Ci lanciammo gioiosamente attraverso il Passo, correndo coi veicoli affiancati a due o a tre sulla neve solida. Prima di accamparci per la notte, già riuscivamo a vedere lo strano splendore delle Terre Basse Bruciate, che scintillavano meravigliosamente sotto di noi.

Nei due giorni che seguirono, superammo i tornanti delle pendici occidentali del Kongoroi, avanzando a passo ridicolmente lento lungo una strada che lasciava ben poco spazio per qualsiasi manovra. Un piccolo errore di guida e il veicolo sarebbe precipitato in un abisso senza fine. Da questa parte degli Huishtor non c’era neve e la roccia nuda, battuta dal sole, aveva un aspetto cupo e opprimente. Oltre alle rocce, c’era soltanto terra rossa. Entrammo nel deserto: lasciammo l’inverno per un mondo soffocante dove ogni respiro bruciava i polmoni e dove strani animali sconosciuti fuggivano terrorizzati alla nostra vista. Il sesto giorno raggiungemmo i territori di caccia, un posto disseminato di scarpate frastagliate, molto al di sotto del livello del mare. Il posto dove mi trovo adesso è ad appena un’ora di viaggio da lì.

Gli uccelli-spada hanno i nidi laggiù; volano tutto il giorno sulla pianura arroventata, in cerca di carne, e al tramonto ritornano, scendendo al suolo con il loro strano volo a spirale per rientrare nelle loro inaccessibili tane.

Nella divisione dei gruppi, io fui uno dei tredici scelti a far parte del gruppo dell’Eptarca. — La tua gioia è condivisa — mi disse solennemente Noim; aveva le lacrime agli occhi, come me. Tutti e due sapevamo quanto mi avesse fatto soffrire la freddezza di mio padre. All’alba, i gruppi di cacciatori partirono: nove gruppi in nove direzioni diverse.

Catturare un uccello-spada vicino al nido è considerata cosa vergognosa. Quando ritorna al nido, l’uccello di solito è carico di carne per la prole e perciò è impacciato e vulnerabile, privo di tutta la sua grazia e la sua potenza. Ucciderlo in simili condizioni non è una cosa difficile, ma solo un vigliacco esibizionista lo farebbe. (Esibizionista! Guardate come la penna mi tradisce! Io, che ho esibito di me stesso più di dieci uomini di Borthan tutti insieme, ancora, senza volerlo, adopero questa parola in senso spregiativo. Ma lasciamo stare.) Voglio spiegare che l’abilità, in questo tipo di caccia, non consiste tanto nella cattura del trofeo, quanto piuttosto nell’affrontare i pericoli e le difficoltà che si incontrano cacciando. Noi cacciamo gli uccelli-spada per mettere alla prova la nostra abilità, non per la sua carne, che è ripugnante.

Per questo i cacciatori vanno nelle Terre Basse, dove anche d’inverno il sole infuria, dove non ci sono alberi che possano offrire un po’ d’ombra o sorgenti che plachino la sete. Si dividono, uno qua, due là, si fermano nell’arida pianura di terra rossa senza sentieri, offrendosi come esca agli uccelli-spada. L’uccello vola altissimo nel cielo, al punto da sembrare soltanto un puntino nero sulla volta brillante. Ci vuole una vista acutissima, per scoprirne uno, anche se la sua apertura d’ali è pari a due volte l’altezza media di un uomo. Dal suo altissimo punto di osservazione, l’uccello scruta il deserto sottostante, alla ricerca di qualche incauto animale. Nulla sfugge ai suoi occhi lucenti, per piccolo che sia; quando avvista una buona preda, viene giù a capofitto nell’aria turbolenta e si ferma più o meno all’altezza del tetto di una casa, iniziando il suo volo di morte, lanciandosi in una serie di cerchi selvaggi e stringendo attorno alla sua vittima ignara un nodo mortale. Il primo giro può arrivare ad abbracciare l’area di mezza provincia, ma i giri successivi sono sempre più stretti, la velocità aumenta ed alla fine l’uccello-spada diventa una paurosa macchina di morte che arriva gridando dall’orizzonte con una velocità da incubo. Ormai la preda ha capito, ma non servirà a molto. Il fremere delle forti ali, il sibilo della forma snella e potente che fende l’aria arroventata, poi la lunga spada mortale che spunta dall’osso frontale dell’uccello raggiunge il bersaglio e la vittima cade, avvolta dalle nere ali frementi. Il cacciatore spera di abbattere il suo uccello-spada mentre ancora questo sta volteggiando in aria, quasi al limite della visibilità; porta un’arma progettata per le grandi distanze, e l’abilità sta nella mira, nel riuscire a calcolare il punto d’incontro delle due traiettorie a così grande distanza. Il pericolo, in questo tipo di caccia, è nel fatto che non si sa mai se si è cacciatori o se si è cacciati, in quanto non si può più vedere un uccello-spada, una volta che abbia iniziato il suo volo di morte, fino al momento in cui colpisce.

Così uscii, mi fermai e rimasi lì dall’alba a mezzogiorno. Il sole si accaniva sulla mia pelle, pallida per l’inverno, perlomeno su quella che avevo osato lasciare libera; la maggior parte del mio corpo era ricoperta da una tenuta da caccia di morbido cuoio cremisi che mi faceva soffocare dal caldo. Bevvi dalla borraccia solo il minimo indispensabile per sopravvivere, perché sapevo che gli occhi dei miei compagni erano fissi su di me e non volevo mostrarmi debole. Eravamo disposti in un doppio esagono e mio padre stava solo tra i due gruppi. Il caso volle che io mi trovassi nel punto del mio esagono più vicino a lui, ma era ugualmente più di un tiro di freccia, e per tutta la mattina l’Eptarca ed io non scambiammo una sola parola. Stava piantato lì, scrutando il cielo con l’arma pronta. Se pure bevve, durante l’attesa, io non me ne accorsi. Osservai il cielo fino a quando gli occhi cominciarono a dolermi; mi sembrava che due raggi roventi mi trapassassero il cervello e mi martellassero il fondo del cranio. Più di una volta mi parve di vedere lassù in alto la sagoma scura di un uccello-spada e ad un certo momento fui sul punto di sollevare il fucile e puntarlo, il che mi avrebbe ricoperto di biasimo, perché non si può sparare ad un uccello-spada prima di aver gridato per rivendicare la priorità dell’avvistamento. Non sparai, chiusi gli occhi e quando li riaprii il cielo era deserto. Sembrava che gli uccelli-spada fossero altrove, quella mattina.

A metà giornata mio padre diede un segnale e noi ci slargammo per la pianura, mantenendo la formazione; forse gli uccelli-spada ci avevano visti troppo vicini e se ne erano rimasti lontani. Mi trovavo adesso sulla cima di una bassa collinetta di terra che aveva la forma del seno di una donna e, mentre andavo a prendere posizione, mi sentii invadere dal terrore. Mi sembrava di essere terribilmente esposto al pericolo dell’attacco di un uccello-spada. Man mano che la paura mi invadeva, mi convincevo che già un uccello-spada volava i suoi cerchi di morte intorno alla collinetta e che da un istante all’altro la sua spada mi avrebbe trafitto le reni mentre io stavo là a guardare stupidamente il cielo metallico. Ne ero talmente sicuro, che dovetti lottare con me stesso, per rimanere al mio posto. Tremavo, lanciavo occhiate circospette alle mie spalle, e per confortarmi stringevo forte l’impugnatura della mia arma, tendevo l’orecchio per avvertire il sibilo del nemico che si avvicinava nella speranza di riuscire a voltarmi e a sparare prima che mi trafiggesse. Mi rimproveravo aspramente questa mia vigliaccheria, e ringraziavo il cielo che Stirron fosse nato prima di me, dato che evidentemente non ero adatto a succedere a mio padre nell’Eptarchia. Mi ricordai, comunque, che negli ultimi tre anni nessun cacciatore era stato ucciso e mi chiesi se era plausibile che io dovessi morire così giovane, alla mia prima partita di caccia, mentre c’era gente come mio padre, che cacciava già da trenta stagioni ed era sempre rimasto illeso. Mi chiedevo perché avessi quella terribile paura, quando tutti i miei precettori, per anni, sì erano affannati ad insegnarmi che l’io è nulla e che preoccuparsi per la propria persona è un grave peccato. Forse mio padre non si trovava nello stesso pericolo, laggiù nella pianura bruciata dal sole? Forse non aveva lui, che era un Eptarca, anzi un Primo Eptarca, molto più da perdere di me, che non ero altro che un ragazzo? In questo modo, pian piano, la paura cominciò a lasciarmi e io ricominciai a studiare il cielo senza più preoccuparmi della spada che avrebbe potuto colpirmi nella schiena. In breve, tutti i miei timori mi sembrarono assurdi. Avrei potuto rimanere lì, senza paura, anche per molti giorni, se fosse stato necessario. Quasi subito, ricevetti il premio per quella mia vittoria sull’io: avvistai una forma scura che ondeggiava contro l’accecante splendore del cielo; solo un puntino, ma questa volta non era un’illusione, perché i miei giovani occhi potevano distinguere le ali e la spada.

Lo avevano avvistato anche gli altri? Era mio il diritto di tentare la cattura? E, se fossi riuscito ad ucciderlo, l’Eptarca avrebbe battuto sulla mia spalla, dichiarando che io ero il migliore dei suoi figli?

Tutti gli altri cacciatori rimanevano in silenzio.

— Si reclama il proprio diritto! — urlai giubilante e, sollevata l’arma, mirai, ricordando ciò che mi era stato insegnato: lasciare che il subcosciente facesse i calcoli, mirare e sparare sotto la spinta dell’impulso, prima che l’intelletto, con i suoi dubbi, guastasse il comando dell’intuito. Ma, un istante prima che io facessi partire il colpo, alla mia sinistra si levò un urlo spaventoso e io feci fuoco senza mirare affatto, mentre mi voltavo verso il posto dove stava mio padre; lo vidi, mezzo nascosto dalla sagoma di un enorme uccello-spada che agitava furiosamente le ali dopo averlo trapassato dalla spina dorsale al ventre con la sua acuta spada. L’aria intorno era offuscata dalla sabbia rossa che il mostro dibattendosi sollevava con le ali. Tentava disperatamente di sollevarsi da terra, ma un uccello-spada non riesce a sollevare il peso di un uomo, anche se questo non gli impedisce di attaccarlo. Corsi in aiuto dell’Eptarca. Gridava ancora, stringendo con le mani il collo dell’uccello, ma nelle sue urla c’era già una nota liquida, come un gorgoglio, e quando lo raggiunsi, fui il primo ad arrivare, egli giaceva abbandonato al suolo, con la spada ancora conficcata nel corpo, ricoperto dalla nera massa del mostro come da un mantello. La mia spada era già fuori del fodero e con un colpo netto recisi il collo della bestia, come se fosse un tubo di gomma; allontanai a calci la carcassa, afferrai disperatamente la testa demoniaca orrendamente inchiodata nella schiena dell’Eptarca che giaceva bocconi. Intanto erano arrivati gli altri e mi allontanarono; qualcuno mi prese per le spalle e mi scosse finché non tornai in me. Quando mi voltai di nuovo verso di loro, essi strinsero le file per nascondermi il cadavere di mio padre e poi, con mia costernazione, si inginocchiarono dinnanzi a me per rendermi omaggio.


Naturalmente, fu Stirron che divenne Eptarca a Salla, e non io. La sua incoronazione fu un avvenimento grandioso, perché, anche se era così giovane, Stirron sarebbe diventato il Primo Eptarca della provincia. Gli altri sei Eptarchi di Salla vennero alla capitale, solo in simili occasioni si riunivano nella stessa città, e per qualche tempo si fecero grandi festeggiamenti, con sventolii di bandiere e squilli di trombe. Stirron era al centro di tutto questo, mentre io ne ero ai margini: era giusto che così fosse, anche se finii col sentirmi un garzone di stalla, invece che un principe. Dopo l’incoronazione, Stirron mi offrì titoli, terre e potere, ma non si aspettava che accettassi e difatti non accettai. A meno che l’Eptarca non sia un debole di mente, è bene che i suoi fratelli più giovani non rimangano vicino a lui per aiutarlo, in quanto nella maggior parte dei casi un simile aiuto non è affatto desiderato. Io non avevo mai conosciuto zii paterni e volevo che fosse così anche per i figli di Stirron; trascorso il periodo di lutto, me ne andai rapidamente da Salla.


Mi recai a Glin, il paese di mia madre. Qui le cose non mi andarono troppo bene e dopo qualche anno mi trasferii nella nebbiosa provincia di Manneran, dove presi moglie, misi al mondo i miei figli, divenni principe più di fatto che di nome, e dove vissi felice fino a quando non arrivò per me il tempo delle metamorfosi.

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