Janov Pelorat vide, per la prima volta nella sua vita, una stella brillante trasformarsi a poco a poco in una sfera, dopo quello che Trevize aveva definito micro-Balzo. Il quarto pianeta, un mondo abitabile che costituiva la loro meta del momento, s’ingrandì più lentamente davanti ai loro occhi, nell’arco di giorni.
Il computer ne aveva fornito una mappa e questa appariva ora sullo schermo dell’apparecchio portatile che Pelorat teneva in grembo.
Con la sicurezza di chi abbia già atterrato su innumerevoli pianeti, Trevize disse:
— Non cominciate a guardarvi intorno troppo presto, Janov. Dobbiamo superare la stazione d’entrata, e la faccenda potrebbe diventare seccante.
Pelorat alzò gli occhi. — Ma si tratta solo di una formalità...
— Sì, ma potrebbe diventare una formalità seccante.
— Ma siamo in tempo di pace!
— Sicuro. Questo significa solo che ci faranno passare. Prima però c’è da sistemare la questione dell’equilibrio ecologico. Tutti i pianeti hanno il loro e non desiderano che venga alterato, così hanno stabilito che le navi che arrivino debbano essere controllate, in modo che eventuali organismi nocivi od eventuali infezioni vengano fermati per tempo: è una precauzione ragionevole.
— Mi pare però che noi non siamo portatori di infezioni.
— No, e non potranno non constatarlo. Ricordatevi tuttavia che il Pianeta Sayshell non è membro della Federazione della Fondazione, per cui faranno sicuramente di tutto per dimostrarci la loro indipendenza.
Una piccola nave si affiancò alla “Far Star” per ispezionarla e un funzionario della dogana di Sayshell salì a bordo. Memore di quando era stato militare, Trevize parlò con lui in modo conciso.
— La “Far Star”, di Terminus — disse. — Ecco i documenti. Non armata. È una nave privata. Il mio passaporto. Un solo passeggero, ecco il suo passaporto. Siamo turisti.
Il funzionario della dogana indossava una divisa sgargiante in cui dominava il cremisi. La pelle delle guance e quella sopra il labbro erano perfettamente rasate, ma dal mento partiva una barbetta che, divisa in due punte, costeggiava la linea della mandibola. — Una nave della Fondazione? — disse.
Trevize si guardò bene dal correggerlo od anche solo dall’abbozzare un sorriso.
C’erano tante variazioni dialettali del galattico standard quanti erano i pianeti, e ciascuno aveva diritto alla propria: finché ci s’intendeva, le sfumature non avevano importanza.
— Sì, signore — disse Trevize. — Una nave della Fondazione. di proprietà privata.
— Bene. Il vostro cargo, prego.
— Il mio cosa?
— Il vostro cargo. Cosa trasportate?
— Ah, il mio carico. Ecco, questa è la lista dettagliata. Solo beni personali. Non siamo qui per fare commercio: siamo semplici turisti.
Il funzionario della dogana si guardò intorno con curiosità.
— È una nave abbastanza di lusso, per due turisti.
— Non secondo il metro della Fondazione — disse Trevize. affabile. — Sono ricco e posso permettermi una nave del genere.
— State insinuando che mi si potrebbe mancizzare? — Il funzionario fissò un attimo Trevize, poi distolse lo sguardo.
Trevize esitò un secondo, cercando di afferrare l’esatto significato del termine, poi decise quale comportamento adottare.
— No — disse, — non intendevo corrompervi. Non ho alcun motivo per corrompervi e, anche se fosse, voi non mi sembrate proprio il tipo di persona che si faccia corrompere. Potete ispezionare la nave, se volete.
— Non ce n’è bisogno — disse il funzionario, mettendo via il registratore tascabile. — Siete già stati esaminati per il controllo infezioni ed avete superato l’esame. Alla nave è stata assegnata una lunghezza d’onda radio che fungerà da radar di avvicinamento.
Se ne andò: l’intera operazione era durata un quarto d’ora.
Pelorat disse, a bassa voce: — Avremmo potuto combinare un guaio. Si aspettava veramente di venire corrotto?
Trevize, si strinse nelle spalle. — Dare mance ai funzionari della dogana è una consuetudine antica come la Galassia, l’avrei fatto se avesse accennato alla cosa una seconda volta. Evidentemente ha preferito non correre rischi con una nave della Fondazione, per di più una nave di lusso. Il nostro buon sindaco, sia benedetta la sua pellaccia insensibile, ha detto che il nome della Fondazione ci avrebbe protetti dovunque fossimo andati, e non aveva torto. Avremmo potuto perdere molto più tempo.
— Perché? A quanto sembra il funzionario ha saputo quello che voleva sapere.
— Sì, ed è stato così gentile da fare il controllo della nave con un’analisi radio a distanza. Se avesse voluto avrebbe potuto ispezionare la “Far Star” con un apparecchio manuale, impiegando ore. Ed avrebbe potuto spedirci tutti e due in un ospedale da campo e tenerci lì per diversi giorni.
— Davvero? Oh, ma è terribile, caro amico!
— Non mettetevi in agitazione. L’importante è che non l’abbia fatto. Ho temuto che lo facesse, ma non l’ha fatto, il che significa che siamo liberi di atterrare. Vorrei atterrare gravitazionalmente, perché così impiegheremmo solo un quarto d’ora, ma non so dove possano essere i campi autorizzati, e non voglio combinare guai. Questo significa che dovremo seguire il fascio di onde radio e scendere a spirale attraverso l’atmosfera. Ci vorranno ore.
— È fantastico, Golan — disse Pelorat, tutto allegro. — Atterreremo abbastanza lentamente da poter osservare il suolo? — Sollevò il suo schermo portatile, sul quale appariva la mappa del pianeta.
— Più o meno. Bisogna attraversare la piattaforma di nubi e poi ci muoveremo alla velocità di alcuni chilometri al secondo. Non sarà come viaggiare in pallone, ma avremo modo di renderci conto della planetografia.
— Fantastico! Fantastico!
Trevize disse, pensieroso: — Mi chiedo però se staremo sul Pianeta Sayshell abbastanza a lungo da trovare conveniente regolare l’orologio della nave secondo l’ora locale.
— Immagino dipenda da quello che intendiamo fare. Voi cosa pensare che faremo, Golan?
— Il nostro compito è trovare Gaia. Non so quanto tempo ci prenderà questa ricerca.
— Possiamo regolare gli orologi da polso e lasciare quello della nave così com’è.
— Forse sì — disse Trevize. Guardò il pianeta che si stendeva ampio sotto di loro.
— Non ha senso aspettare ancora. Regolerò il computer per l’atterraggio guidato dalle onde raggio. Userò i motori gravitazionali imitando il volo convenzionale.
Allora cominciamo la discesa, Janov, e vediamo un po’ cosa si può trovare su Sayshell.
Fissò pensoso il pianeta, mentre la nave cominciava a muoversi lungo la sua curva di potenziale gravitazionale perfettamente calcolata.
Trevize non era mai stato nell’Unione Sayshell, ma sapeva che nel corso dell’ultimo secolo essa era stata costantemente ostile alla Fondazione. Era sorpreso quindi che avessero passato così facilmente il controllo della dogana, e la cosa lo impensieriva un poco: gli pareva strana.
Il funzionario della dogana si chiamava Jogoroth Sobhaddartha ed aveva già passato metà della vita a fare quel lavoro, a periodi alterni.
Era un lavoro che non gli dispiaceva, perché un mese su tre gli dava la possibilità di leggersi i suoi libri, ascoltare la sua musica e stare lontano dalla moglie e dal figlio.
Naturalmente negli ultimi due anni il capo della dogana era stato un sognatore. Ed era tuttora in carica, il che era irritante: non c’è persona più insopportabile di quella che, per giustificare una particolare azione, non trova altra scusa che dire di essere stata ispirata da un sogno.
Personalmente Sobhaddartha non credeva affatto alla cosa, anche se stava bene attento a non esprimere la sua opinione ad alta voce, dato che la maggior parte della gente, su Sayshell, disapprovava abbastanza i dubbi antipsichici. Se si fosse fatto la fama di materialista avrebbe corso il rischio di perdere la futura pensione.
Si accarezzò i due ciuffi della barba, uno con la destra e l’altro con la sinistra, si schiarì rumorosamente la voce poi, con noncuranza forzata, disse: — Era quella la nave, capo?
Il capo, che si chiamava Namarath Godhisavatta (anche il suo era un nome tipicamente sayshelliano), era occupato a controllare alcuni dati del computer e non alzò gli occhi. — Che nave? — disse.
— La “Far Star”, La nave della Fondazione. Quella che ho appena fatto passare e che è stata olografata da tutte le parti. Era quella che avete visto in sogno?
Godhisavatta questa volta alzò gli occhi. Era un ometto con occhi scuri circondati da rughe che non erano state prodotte da una particolare propensione per il riso. — Perché me lo chiedete? — disse.
Sobhaddartha drizzò la schiena e unì le sopracciglia folte e scure. — Hanno detto di essere turisti, ma non avevo mai visto prima d’ora una nave di quel genere e sono convinto che siano agenti della Fondazione.
Godhisavatta si appoggiò allo schienale della poltrona. — Sentite, amico mio, nonostante i miei sforzi, non mi pare proprio di ricordare d’avere chiesto la vostra opinione.
— Ma capo, lo considero un dovere patriottico sottolineare che...
Godhisavatta incrociò le braccia sul petto e fissò duramente il suo sottoposto che (per quanto assai più imponente per statura e portamento) si curvò tutto e assunse un’aria da pulcino bagnato, sotto lo sguardo del superiore.
— Amico mio — disse, — farete bene a compiere il vostro dovere senza elargire giudizi, altrimenti procurerò che non vi spetti alcuna pensione quando vi ritirerete dal lavoro, il che avverrà presto se mi capiterà di sentire ancora da voi commenti su cose che non vi riguardino.
— Sissignore — disse Sobhaddartha a bassa voce. Poi, con una nota sospetta di servilismo nella voce, aggiunse: — Rientra nelle mie competenze riferire che i nostri schermi denunciano la presenza di un’altra nave, signore?
— Consideratelo già riferito — disse irritato Godhisavatta, tornando al lavoro.
— Una nave con caratteristiche molto simili a quelle della “Far Star” — disse Sobhaddartha con tono ancora più umile.
Godhisavatta poggiò le mani sulla scrivania e si alzò in piedi. — Una seconda nave della Fondazione?
Sobhaddartha in cuor suo sorrise. Quell’essere sanguinario nato da un’unione irregolare (si riferiva al capo, naturalmente) evidentemente non aveva sognato due navi. — Sembra proprio di sì, signore — disse. — Ora torno al mio posto di guardia ad aspettare ordini. E, signore, spero che...
— Sì?
Sobhaddartha non poté resistere, nonostante le minacce alla sua pensione. — Spero che non abbiamo fatto passare la nave sbagliata.
La “Far Star” si spostava rapidamente sorvolando la superficie del Pianeta Sayshell, e Pelorat ammirava affascinato lo spettacolo. Lo strato di nubi era più sottile e sparso di quello che c’era sopra Terminus, e, proprio come mostrava la mappa, le estensioni di terraferma erano più vaste e compatte. A giudicare dal color ruggine di buona parte delle masse continentali, anche le zone desertiche erano più estese che su Terminus.
Non c’erano segni di vita da alcuna parte: pareva un mondo di sterili deserti, di pianure grigie, di grinzosità senza fine che potevano essere aree montuose. E, naturalmente, di oceani.
— Sembra senza vita — mormorò Pelorat.
— Non potete notare segni di vita a quest’altitudine — disse Trevize. — Mano a mano che scenderemo, vedrete la terra diventare verde in certe zone, e prima ancora di questo vedrete il panorama scintillante dal lato notturno. Gli esseri umani hanno la mania di illuminare i loro mondi quando cadono le tenebre; non ho mai sentito di un pianeta che faccia eccezione a questa regola. In altre parole, i primi segni di vita che vedrete non saranno solo umani, ma anche tecnologici.
Pelorat disse, pensieroso: — In fin dei conti, gli esseri umani sono per natura diurni. Secondo me fra i primi compiti di una tecnologia in via di sviluppo dovrebbe esserci quello di convertire la notte in giorno. Anzi, se un mondo inizialmente privo di tecnologia ne sviluppasse una, si dovrebbe riuscire a seguire la sua evoluzione controllando l’aumento di illuminazione sul lato notturno. Quanto tempo occorre a vostro avviso per passare da uno stato di buio uniforme ad uno stato di illuminazione uniforme?
Trevize rise. — Che strane idee vi vengono in mente. Immagino che sia perché siate esperto in miti. Credo che un pianeta non possa mai raggiungere un’illuminazione uniforme. Le luci notturne sono più fitte là dove la popolazione sia più densa, sicché nei continenti la luce si concentra in nodi e stringhe. Anche Trantor, quando era al massimo della sua potenza, solo in rari punti sparsi non seguiva questo tipo di struttura.
La terra diventò verde, come Trevize aveva predetto. Durante l’ultimo giro intorno al pianeta, Trevize indicò alcuni segni caratteristici e disse che si trattava di città. — Non è un mondo molto urbano. Non sono mai stato prima nell’Unione Sayshell, ma secondo le informazioni datemi dal computer la popolazione tenderebbe ad un atteggiamento tradizionale, di legame col passato. Agli occhi di tutta la Galassia tecnologia significa principalmente Fondazione, e nei posti in cui la Fondazione è impopolare c’è la tendenza a restare attaccati al passato, salvo naturalmente per quanto riguarda le armi da guerra. Vi assicuro che il Pianeta Sayshell è modernissimo, sotto il profilo militare.
— Poveri noi. Non avremo mica delle brutte sorprese, Golan? Dopotutto siamo membri della Fondazione e ci troviamo in territorio nemico...
— Non è territorio nemico, Janov. Ci tratteranno coi guanti, non temete. La Fondazione, semplicemente, non è molto popolare, tutto qui. L’Unione Sayshell non è membro della Federazione e siccome è orgogliosa della sua indipendenza e non ama ricordare né di essere assai più debole della Fondazione, né che resta indipendente perché noi le concediamo di esserlo, si permette il lusso di snobbarci.
— Allora ho ragione a temere brutte sorprese — disse Pelorat scoraggiato.
— Ma no — disse Trevize. — Oh, via Janov, io parlo solo dell’atteggiamento ufficiale del governo sayshelliano. La popolazione è un’altra cosa; se saremo cortesi e se non ci comporteremo come se fossimo i padroni della Galassia la gente sarà cortese a sua volta. Non siamo venuti qua per affermare la supremazia della Fondazione. Siamo solo turisti, e faremo quelle domande che qualsiasi turista potrebbe fare.
— Possiamo anche permetterci un po’ di legittimo svago, se la situazione lo consente. Non c’è niente di male a stare qui qualche giorno per vedere cos’abbiano da offrirci. Potrebbero esserci varie cose interessanti su questo pianeta: la cultura, il paesaggio, il cibo, e magari, in mancanza del resto, le donne... Abbiamo soldi da spendere.
Pelorat aggrottò la fronte. — Oh, ma io, caro amico, non...
— Su, su — disse Trevize. — Non siete così vecchio da non potere: non v’interessano le donne e tutto il resto?
— Non dico che non ci sia stato un tempo in cui m’interessavano, ma adesso non è il momento di pensare a questo. Abbiamo una missione da compiere: dobbiamo raggiungere Gaia. Non ho niente contro il divertimento, credetemi, ma se ci invischiamo in un tal genere di cose forse ci riuscirà difficile poi liberarcene. — Scosse la testa ed aggiunse, in tono cortese: — Credo che temeste che, una volta su Trantor, restassi così affascinato dalla Biblioteca galattica da non avere più voglia di partire, vero? Be’, quello che per me è la Biblioteca, possono essere per voi una o più damigelle dagli occhi neri.
— Non sono un libertino, Janov — disse Trevize, — ma non ho nemmeno voglia di fare l’asceta. Benissimo, vi prometto che procederemo nella nostra missione, ma se dovesse farmisi incontro qualche persona particolarmente gradevole, non vedo proprio perché dovrei impedirmi di reagire come si convenga.
— L’importante è che diate la precedenza alla ricerca di Gaia...
— Gliela darò. Ricordatevi però di non dire mai a nessuno che siamo della Fondazione. Capiranno che lo siamo perché abbiamo carte di credito della Fondazione e parliamo con forte accento di Terminus, ma se non ci dichiareremo potranno fare finta di ritenerci stranieri qualsiasi e trattarci con cordialità. Se invece diremo esplicitamente di appartenere alla Fondazione, si rivolgeranno a noi con cortesia, ma non ci diranno niente, non ci mostreranno niente, non ci porteranno da nessuna parte e ci lasceranno completamente soli.
Pelorat sospirò. — Non capirò mai la gente.
— Non è difficile. Basta che diate un’occhiata attenta a voi stesso e capirete anche il vostro prossimo. Noi non siamo diversi dai nostri simili. Matematica o no, come avrebbe potuto Seldon elaborare il suo Piano se non avesse capito la gente? E come avrebbe potuto elaborarlo se la gente non fosse stata facile da capire? Mostratemi uno che non riesca a comprendere la gente e vi proverò che si tratti di una persona che si sia costruita una falsa immagine di sé. Sia detto senza offesa, naturalmente.
— Nessuna offesa. Sono pronto ad ammettere che non ho esperienza e che ho passato una vita piuttosto egocentrica, chiusa in un orizzonte limitato. Può darsi che non abbia mai dato un’occhiata da vicino a me stesso, per cui lascerò che siate voi a guidarmi e consigliarmi per quanto concerne la gente.
— Bene. Allora seguite subito il mio consiglio e guardate il panorama. Presto atterreremo e vi assicuro che non ve ne accorgerete nemmeno. Il computer ed io ci occupiamo di tutto.
— Golan, non siate arrabbiato con me. Se una giovane donna dovesse...
— Lasciate perdere, adesso devo occuparmi dell’atterraggio.
Pelorat si girò a guardare il pianeta sotto di loro. Sarebbe stato il primo mondo straniero sul quale avrebbe messo piede. In qualche modo quel fatto gli sembrava di cattivo auspicio, benché i molti milioni di pianeti abitati della Galassia fossero stati colonizzati da persone che venivano da lontano.
Sì, tutti quanti erano stati colonizzati da stranieri. Tutti tranne uno, pensò con un brivido di speranza e trepidazione.
Lo spazioporto non era grande, almeno secondo il metro della Fondazione, ma aveva l’aria efficiente. Trevize guardò la “Far Star” ormeggiata al suo posto e chiusa ermeticamente. Fu data loro una complicata contromarca in codice.
Pelorat disse, a bassa voce: — La lasciamo qui così?
Trevize annuì e posò una mano sulle spalle dell’altro, per rassicurarlo. — Non preoccupatevi — disse, anche lui a voce bassa.
Salirono sulla macchina di superficie che avevano noleggiato e Trevize attivò la mappa elettronica della città, le cui torri erano visibili all’orizzonte.
— Sayshell City — disse, — la capitale del pianeta. Città, pianeta e stella si chiamano tutti Sayshell.
— Sono preoccupato per la nave — insistette Pelorat.
— Non c’è motivo di preoccuparsi — disse Trevize. — Torniamo stasera, perché ci conviene dormire sulla nave, se restiamo più di qualche ora. Dovete anche capire, Janov, che esiste un codice etico interstellare negli spazioporti, un codice che, almeno a quanto ne sappia, non è mai stato violato, nemmeno in tempo di guerra. Le astronavi che vengono in pace non vengono toccate. Se così non fosse, nessuno sarebbe mai al sicuro ed il commercio sarebbe impossibile. Il mondo in cui tale codice fosse violato verrebbe boicottato dai piloti spaziali della Galassia. Vi assicuro che nessun pianeta sarà mai disposto a correre un simile rischio. Inoltre...
— Inoltre?
— Inoltre ho sistemato le cose col computer in modo che chiunque non abbia il nostro aspetto e la nostra voce venga ucciso, se tenta di salire a bordo. Mi sono preso la libertà di spiegare la faccenda al Comandante del porto. Gli ho detto molto gentilmente che avrei tanto voluto disinserire quel meccanismo di sicurezza dato che è noto in tutta la Galassia come lo spazioporto di Sayshell City offra una garanzia assoluta contro il pericolo di furto, ma che non potevo farlo in quanto la nave è un modello nuovo e non so come disattivarlo.
— Certo non ci avrà creduto.
— No, naturalmente, ma ha dovuto far finta di crederci, perché in caso contrario sapeva che avrei potuto insultarlo. E poiché ai miei insulti non avrebbe potuto opporre alcuna ragione valida, avrebbe dovuto incassare l’umiliazione. E dal momento che non aveva nessuna intenzione di venire umiliato, non ha potuto fare a meno di fingere di credermi.
— È un altro esempio di come sia la gente?
— Sì. Vi ci abituerete.
— Come fate a sapere che non ci siano microspie in questa macchina?
— Ho pensato che ce ne potesse essere una a bordo, così quando mi hanno offerto una macchina ne ho preso un’altra a caso. Se poi le microspie ci sono su tutte, be’, che cos’abbiamo detto in fondo di così terribile?
Pelorat aveva un’aria afflitta. — Non so come dirlo, Golan, mi sembra scortese protestare, ma... Non mi piace questo odore che si sente...
— Qui in macchina?
— Be’, l’ho sentito innanzitutto nello spazioporto. Immagino che tutti gli spazioporti puzzino così, ma l’odore continua a sentirsi anche qui in macchina. Non possiamo aprire i finestrini?
Trevize rise. — Immagino di poter trovare sul quadro comandi il bottone per aprire i finestrini, ma anche se li aprissimo non servirebbe a niente: è il pianeta che puzza. Non è però una cosa tanto grave, vi pare?
— Be’, l’odore non è molto forte, ma si sente ed è piuttosto disgustoso. Puzza così tutto quanto il pianeta?
— Continuo a dimenticarmi che non siete mai stato su un pianeta straniero prima d’ora. Tutti i mondi abitati hanno il loro odore caratteristico, dato per lo più dalla vegetazione, ma anche, immagino, dagli animali e dagli esseri umani. Per quanto ne sappia, a nessuno piace mai l’odore di un certo pianeta, la prima volta che ci atterra.
Ma vi ci abituerete, Janov. Fra qualche ora vi assicuro che non ci baderete più.
— Non vorrete dire che tutti i pianeti puzzino così?
— No. Come vi ho detto, ciascun mondo ha il suo puzzo, o profumo. Se prestassimo più attenzione a queste cose, o se il nostro odorato fosse più fino, tipo quello dei cani di Anacreon, probabilmente riusciremmo a distinguere i pianeti in base al loro odore. Nei primi tempi in cui ero in Marina non mangiavo mai il primo giorno che mi trovavo su un nuovo pianeta; poi imparai il trucco dei vecchi spaziali, i quali durante l’atterraggio annusano un fazzoletto impregnato dell’odore del pianeta, in modo che quando si trovano su di esso siano già abituati e non lo giudichino puzzolente. In ogni modo dopo un po’ di tempo si finisce per fare il callo a tutta la faccenda; si impara semplicemente a non badarci. Il peggio, anzi, diventa tornare a casa.
— Perché?
— Pensate che Terminus non puzzi?
— State per caso dicendomi che puzza?
— Esattamente. Una volta che uno si abitua all’odore di un altro mondo, come per esempio Sayshell, non avete idea di quanto possa giudicare fetido Terminus. Ai vecchi tempi, ogni volta che i portelli si aprivano su Terminus, dopo un periodo piuttosto lungo di soggiorno altrove, l’equipaggio gridava: «Eccoci tornati a casa, nella merda».
Pelorat aveva un’aria nauseata. Le torri della città adesso erano nettamente più vicine, ma lui continuava a tenere gli occhi fissi sull’ambiente intorno a loro. C’erano altre macchine di superficie che viaggiavano in tutt’e due le direzioni e ogni tanto, in alto, passava anche qualche aeromacchina. Pelorat però studiava gli alberi.
— Le piante mi sembrano strane — disse. — Pensate che ce ne siano di native del pianeta?
— Ne dubito — disse Trevize, distratto. Stava studiando la mappa e cercando di regolare il programma computer della macchina. — Non c’è molta vita indigena sui pianeti abitati dall’uomo. I colonizzatori hanno sempre importato piante e animali dal pianeta d’origine o all’epoca stessa della colonizzazione, o non molto tempo dopo.
— Mi sembra strano, però.
— Non dovete pensare che ci siano gli stessi esatti esemplari sui vari mondi, Janov. Mi è stato detto una volta che quando gli esperti dell’ Enciclopedia Galattica hanno compilato un atlante delle diverse specie vegetali, hanno messo insieme ottantasette grossi dischi di computer senza riuscire a esaurire l’argomento, o in ogni caso a garantirne la completezza.
La macchina continuò a procedere e ben presto fu inghiottita dalla periferia della città. Pelorat provò un lieve brivido e disse: — Non mi piace un granché la loro architettura.
— A ciascuno la sua — disse Trevize, con l’indifferenza del viaggiatore esperto.
— A proposito, dove siamo diretti?
— Sto tentando di indurre il computer a guidare questo aggeggio fino al centro turistico — disse Trevize, alquanto irritato. — Spero che il computer conosca i sensi unici e le regole del traffico, perché io non li conosco proprio.
— E là cosa facciamo, Golan?
— Innanzitutto, dato che siamo qui come turisti, quello è il posto dove è più logico andare se non vogliamo farci notare. In secondo luogo dove andreste voi a cercare informazioni su Gaia?
— In un’università — disse Pelorat, — oppure presso un istituto di antropologia, od in un museo. Non certo in un centro turistico.
— Be’, vi sbagliate. Al centro turistico noi saremo i tipi intellettuali ansiosi di vedere un elenco delle università, dei musei e degli altri istituti culturali della città.
Poi decideremo da quale posto cominciare e là potremo trovare gente esperta di storia antica, galattologia, mitologia, antropologia, che ci potrà aiutare. Ma tutta la faccenda deve cominciare al centro turistico.
Pelorat restò zitto, mentre la macchina avanzava in mezzo al traffico intenso.
Svoltarono per una strada secondaria, oltrepassando cartelli che forse indicavano direzioni e stabilivano regole di traffico, ma che essendo scritti in caratteri particolari erano praticamente illeggibili.
Per fortuna la macchina procedeva come se conoscesse la strada e quando si fermò, entrando in un parcheggio, lo fece davanti a un cartello che diceva, con i soliti caratteri “Ufficio Stranieri di Sayshell”. Sotto la scritta ce n’era un’altra perfettamente leggibile che con i caratteri del galattico standard annunciava il
“Centro Turistico di Sayshell”.
Entrarono nel palazzo, che non era così vasto come la facciata lasciasse supporre.
Dentro non fervevano particolari attività.
C’erano varie cabine di attesa, una delle quali era occupata da un uomo che leggeva le strisce-notiziario che spuntavano da un piccolo eiettore. In un’altra cabina due donne erano concentrate su un gioco complicato per il quale venivano usate carte e gettoni di varia misura. Dietro un banco troppo grande per lui, dove brillavano comandi di computer che parevano troppo complicati per lui, c’era un funzionario sayshelliano dall’aria annoiata. Indossava un vestito che sembrava una scacchiera multicolore.
Pelorat lo fissò e sussurrò: — È certo un mondo dove l’abbigliamento è vistoso.
— Sì — disse Trevize, — l’ho notato. Ma la moda cambia da mondo a mondo, e a volte, passando da una regione all’altra, è diversa persino sullo stesso pianeta. E cambia secondo le epoche. Cinquant’anni fa su Sayshell avrebbero potuto anche vestirsi tutti di nero, per quel che ne sappiamo noi: non stupitevi troppo, Janov.
— Dovrò abituarmi, certo — disse Pelorat, — ma preferisco la moda di Terminus.
Se non altro, non costituisce un attacco al nervo ottico.
— Perché tanti di noi si vestono di grigio? Alcuni criticano la cosa e lo definiscono un “vestire sporco”. D’altra parte, è forse proprio la mancanza di colori che caratterizza la moda della Fondazione ad indurre gli abitanti di Sayshell a vestirsi di abiti multicolori. Così hanno l’impressione di affermare maggiormente la loro indipendenza. È tutta una questione di abitudine, in ogni modo. Su, Janov, andiamo.
I due si diressero verso il banco e mentre lo facevano l’uomo dentro la cabina lasciò perdere il notiziario, si alzò e andò loro incontro sorridendo. I suoi vestiti avevano una tonalità grigia.
In un primo tempo Trevize non guardò nella sua direzione, ma quando lo fece si immobilizzò di colpo.
— Per la Galassia! — disse, traendo un respiro profondo. — Il mio amico, il traditore!