Parte tredicesima L’Università

1

Pelorat arricciò il naso quando rientrò, assieme a Trevize, sulla “Far Star”.

Trevize alzò le spalle. — Il corpo umano emana forti odori. Il riciclaggio non funziona mai istantaneamente e gli odori artificiali si limitano a coprire quelli naturali, senza sostituirsi a essi.

— E immagino che tutte le navi abbiano un loro odore peculiare e irripetibile, una volta che siano state occupate per un certo tempo da determinate persone.

— Infatti, ma dopo un’ora di permanenza sul Pianeta Sayshell vi pareva ancora che questo puzzasse?

— No — ammise Pelorat.

— Bene, fra un po’ di tempo anche all’odore della nave non farete più caso. Anzi, se vivrete su di essa abbastanza a lungo, al vostro ritorno da fuori il suo odore vi riuscirà gradito, vi parrà l’odore di casa. A proposito Janov, vi avverto che se dopo quest’avventura deciderete di diventare un vagabondo della Galassia, dovrete ricordarvi che è scortese fare commenti sull’odore di una nave o anche di un pianeta con quelli che vivono su quella nave o quel pianeta. Tra noi, ovviamente, ogni confidenza è lecita.

— Vi dirò una cosa curiosa, Golan: io considero davvero la “Far Star” la mia casa.

Se non altro, è stata costruita dalla Fondazione. — Pelorat sorrise. — Sapete, non ho mai avuto molto spirito patriottico. Mi è sempre piaciuto pensare che il mio paese fosse l’umanità, ma devo confessare che adesso che sono così lontano dalla Fondazione sono pieno di nostalgia.

— Be’, non siete troppo lontano dalla Fondazione, sapete — disse Trevize, mentre si sistemava il letto. — L’Unione Sayshell è pressoché tutta circondata da territorio della Federazione. Abbiamo un ambasciatore e tantissime presenze nostre qui, a cominciare dai consoli. I sayshelliani amano criticarci a parole, ma in pratica stanno molto attenti a non fare niente che ci sia sgradito. Andate a letto ora, Janov. Oggi non abbiamo combinato niente. Bisognerà combinare di più domani.

Non era però difficile parlarsi da una stanza all’altra, e quando sulla nave tutte le luci furono spente Pelorat disse, dimenandosi senza requie nella sua cuccetta: — Golan?

— Sì.

— Dormite?

— Finché voi parlate, è escluso.

— Qualcosa abbiamo combinato, oggi. Il vostro amico, Compor...

— Ex amico — borbottò Trevize.

— Amico o ex amico che sia, ci ha parlato della Terra e di una cosa che non avevo mai conosciuto attraverso le mie ricerche: la radioattività.

Trevize sollevò il torso, puntellandosi su un gomito. — Sentite, Janov, se anche fosse vero che la Terra sia un pianeta morto, non torneremmo certo indietro per questo. Io ho ancora intenzione di trovare Gaia.

Pelorat sbuffò piano, come se stesse soffiando via delle piume. — Ma certo, amico mio. Anch’io voglio trovare Gaia. D’altra parte, non è che pensi che la Terra sia un pianeta morto: Compor potrà anche essere convinto di quello che ha detto, ma non c’è settore della Galassia in cui non si racconti che l’umanità abbia avuto origine su una qualche Terra locale.

«In antropologia chiamiamo questo fenomeno mondocentrismo. Ciascun pianeta tende a dare per scontato di essere superiore al pianeta vicino, a credere che la sua civiltà sia più antica e raffinata di quella altrui, a pensare che quanto di buono ci sia negli altri mondi sia stato importato da lui, e quanto ci sia di male sia stato inventato sugli stessi mondi estranei o sia dovuto a un cattivo uso del messaggio importato. E gli esseri umani hanno anche la tendenza a credere che la civiltà migliore sia la civiltà più antica. Perciò, se non possono sostenere motivatamente che il loro mondo sia la Terra, pianeta d’origine dell’umanità, quasi sempre fanno di tutto per dimostrare che essa si trovi nel loro settore, anche quando non sono in grado di localizzarla con precisione.

— Intendete dire, insomma, che Compor non ha fatto altro che seguire l’andazzo comune quando ha affermato che la Terra si trovi nel Settore Sirio — disse Trevize.

— Però il Settore Sirio ha davvero origini antichissime. Tutti i suoi mondi dovrebbero quindi essere noti, e penso non sarà difficile fare un controllo anche senza recarsi laggiù.

Pelorat ridacchiò. — Anche se riusciste a dimostrare che nessun mondo del Settore Sirio possa essere la Terra, non servirebbe a niente. Non avete idea di quanto il misticismo possa ottundere la razionalità, Golan. Ci sono almeno cinque o sei settori della Galassia dove studiosi rispettabili danno credito, con una solennità priva della benché minima traccia di umorismo, a leggende locali secondo cui la Terra si troverebbe nell’iperspazio e si potrebbe raggiungere solo per caso.

— E sostengono che la Terra sia stata raggiunta per caso qualche volta, o no?

— Ecco, si raccontano storie a questo riguardo, storie alle quali tutti, per patriottismo, decidono di credere, anche se sono assolutamente inattendibili ed anche se le persone non nate sul mondo in questione le rifiutano in blocco.

— Allora, Janov, rifiutiamole in blocco anche noi ed entriamo nell’iperspazio del sonno, il nostro iperspazio personale.

— Ma, Golan, è la faccenda della radioattività che m’interessa. Mi pare che sia abbastanza verosimile.

— In che senso?

— Ecco, un mondo radioattivo è un mondo in cui la radiazione dura sia presente in concentrazioni più alte delle solite. Su un tale mondo il ritmo delle mutazioni sarebbe maggiore e l’evoluzione sarebbe più rapida e più differenziata. Vi ho già detto, se ricordate, che su un punto le varie leggende concordano: sul fatto, cioè, che la Terra avrebbe ospitato milioni di specie diverse. Potrebbe essere proprio questa varietà di forme di vita, questa evoluzione esplosiva ad avere generato l’intelligenza umana e ad averla indotta poi ad allargare i propri orizzonti. Se per qualche ragione la Terra fosse stata radioattiva ovvero più radioattiva degli altri pianeti, si potrebbe spiegare perché essa sia diventata così unica e diversa.

Trevize rimase un attimo in silenzio. — In primo luogo — disse, — non abbiamo motivo di credere che Compor ci abbia detto la verità. E molto più probabile che ci abbia mentito per indurci ad andarcene di qui a setacciare come matti il Settore Sirio.

Secondo me è proprio questo che si proponeva. Ma ammettiamo pure che ci abbia detto la verità: non ha forse affermato che la radioattività sulla Terra sia così alta da avere reso impossibile la vita?

Pelorat sbuffò di nuovo. — La radioattività non ha impedito alla vita di evolversi sul pianeta ed è molto facile per un organismo sopravvivere una volta nato che riuscire a nascere. Se dunque la vita si è sviluppata e perpetuata, è evidente che il livello di radioattività debba essere stato compatibile con essa, all’inizio. In seguito, poi, tale livello non può che essersi abbassato: non c’è niente che possa farlo alzare.

— E le esplosioni nucleari? — suggerì Trevize.

— Che cosa c’entrano?

— Voglio dire, mettiamo che sulla Terra ci siano state molte esplosioni nucleari...

— Impossibile. In tutta la storia della Galassia non risulta che alcuna civiltà sia mai stata così sciocca da usare le esplosioni nucleari come armi belliche. Se così fosse stato, non saremmo mai sopravvissuti. Durante le insurrezioni trigelliane, quando entrambe le parti contendenti erano ridotte alla fame e alla disperazione, Jendippurus Khoratt propose di dare inizio a una reazione di fusione nel...

— E fu impiccato dai marinai della sua stessa flotta. Conosco molto bene la storia galattica. Io però pensavo a un incidente, a proposito della Terra.

— A quanto si sa, incidenti di questo tipo non possono portare ad un aumento molto significativo della radioattività di un pianeta — disse Pelorat con un sospiro.

— Immagino che quando troveremo il tempo di occuparci di questa faccenda ci toccherà andare nel Settore Sirio a condurre qualche ricerca.

— Un giorno forse lo faremo, ma per adesso...

— Sì, sì, ora smetto di parlare.

Pelorat mantenne la promessa e Trevize rimase per quasi un’ora sveglio al buio, a chiedersi se non si fosse già fatto notare troppo dai suoi avversari, e se non fosse il caso di partire subito per il Settore Sirio e di andare poi su Gaia quando l’attenzione di tutti fosse stata volta altrove.

Quando finalmente si addormentò non era ancora giunto ad una decisione. Fece sogni tormentosi.

2

Arrivarono in città solo a metà mattina. Trovarono il centro turistico affollato, a quell’ora, ma riuscirono lo stesso a farsi dire dove fosse una biblioteca di consultazione. Una volta in biblioteca, furono istruiti sull’uso dei modelli locali di computer di raccolta dati.

Visitarono con cura i musei e le università, cominciando da quelli più vicini, e controllarono tutte le informazioni disponibili sugli antropologi, gli archeologi e gli storici del luogo.

— Ah! — esclamò Pelorat ad un certo punto.

— Ah? — disse Trevize, brusco. — Ah cosa?

— Questo nome, Quintesetz: mi suona familiare.

— Lo conoscete di persona?

— No, naturalmente, ma forse ho letto qualcosa di suo. Sulla nave ho il mio indice generale...

— Non ho nessuna intenzione di tornare sulla nave, Janov. Il nome vi è familiare e questo è già un punto di partenza. Se Quintesetz non è in grado di aiutarci, potrà pur sempre fornirci ulteriori indicazioni. — Trevize si alzò. — Troviamo un mezzo per arrivare all’Università di Sayshell. E visto che all’ora di pranzo là non ci sarà nessuno, faremo meglio prima a mangiare.

Era già pomeriggio avanzato quando arrivarono all’università, si fecero strada in mezzo al suo labirinto di corridoi e finirono in una sala d’aspetto dove una giovane donna li lasciò per andare a cercare informazioni su Quintesetz.

— Mi chiedo quanto dovremo aspettare ancora — disse Pelorat, a disagio. — Ormai le lezioni saranno tutte finite.

Quasi avesse sentito quel commento, proprio allora la giovane donna allontanatasi qualche tempo prima tornò. Si diresse in fretta verso di loro producendo un rumore acuto e melodioso con le scarpe viola e rosse, luccicanti. Il rumore variava d’intensità secondo la rapidità e la pressione dei passi.

Pelorat fremette. Pensò che evidentemente ciascun pianeta avesse, oltre ad un suo particolare odore, un suo particolare modo di aggredire i sensi. Si disse che, come aveva imparato a non fare più caso al puzzo, forse avrebbe imparato anche ad accettare senza fastidio la cacofonia prodotta camminando dalle giovani donne che vestivano alla moda.

La ragazza si fermò davanti a lui. — Potete dirmi per esteso il vostro nome, professore?

— È Janov Pelorat, signorina.

— Qual è il vostro pianeta d’origine?

Trevize alzò una mano come per invitare il suo compagno al silenzio, ma Pelorat, non notando o non accogliendo il suggerimento, disse: — Terminus.

La ragazza, con aria compiaciuta, gli elargì un gran sorriso.

— Quando ho detto al professor Quintesetz che un certo professor Pelorat chiedeva di lui, mi ha risposto che avrebbe accettato di vedere soltanto lo Janov Pelorat di Terminus e nessun altro.

Pelorat batté ripetutamente le palpebre. — Vo-volete dire che ha sentito parlare di me?

— Pare proprio di sì.

Girandosi rigidamente verso Trevize, Pelorat abbozzò un sorriso. — Ha sentito parlare di me! Francamente, non credevo proprio... Voglio dire, ho scritto pochissime cose e non pensavo che qualcuno... — Scosse la testa. — Non sono cose importanti!

Trevize sorrise a sua volta. — Smettetela di crogiolarvi nell’estasi della falsa modestia ed andiamo — disse. Poi si rivolse alla donna. — Immagino che ci sia qualche mezzo di trasporto per andare dal professor Quintesetz, vero, signorina?

— Dal professore si può andare a piedi e io sarò lieta di accompagnarvi — rispose lei, incamminandosi. — Si trova qui, in questo stesso complesso universitario. Siete tutti e due di Terminus, voi?

I due la seguirono. Con una punta di fastidio. Trevize disse:

— Sì, perché, qualcosa che non va?

— Oh no, assolutamente. Sapete, su Sayshell ci sono persone che non amano la Fondazione, ma qui all’università abbiamo una mentalità più cosmopolita. Vivi e lascia vivere, dico sempre io. Insomma, anche i membri della Fondazione sono esseri umani. Capite cosa intendo dire?

— Sì, certo. Siamo in molti, nella Fondazione, a pensare che anche i sayshelliani siano esseri umani.

— Ecco, è così che la dovrebbero pensare tutti. Io non ho mai visto Terminus: dev’essere una vera metropoli.

— In realtà non lo è — disse Trevize col tono di chi facesse una semplice constatazione. — Credo che sia più piccola di Sayshell City.

— Mi stupisce questa vostra affermazione — disse lei. — Non è la capitale della Federazione della Fondazione? Voglio dire, non c’è mica per caso un’altra Terminus, vero?

— No, a quanto ne so io c’è una sola Terminus, la capitale della Federazione, appunto: è proprio da lì che veniamo noi.

— Ma allora dev’essere per forza una città tentacolare. Ed avete fatto un viaggio tanto lungo per vedere il professore! Qui siamo molto orgogliosi di lui, sapete. È considerato la maggiore autorità di tutta la Galassia.

— Ah sì? — fece Trevize. — E riguardo a cosa?

Lei sgranò gli occhi di nuovo. — Vi piace proprio stuzzicare la gente, eh? Il professor Quintesetz conosce la storia antica meglio di... meglio di quanto io conosca la mia stessa famiglia!

La ragazza continuò a camminare col suo passo melodico. Trevize pensò a quanto fosse facile venir giudicati degli importuni senza fare proprio niente per guadagnarsi quella fama. Sorrise e disse: — Il professore saprà anche tutto sulla Terra, immagino...

— La Terra? — disse lei fermandosi davanti alla porta di un ufficio e guardando Trevize senza capire.

— Ma sì, il mondo da cui ha tratto origine l’umanità.

— Oh, intendete il pianeta primevo. Penso di sì. Penso che sappia tutto anche su quello; in fin dei conti, si trova nel Settore Sayshell, come tutti sanno. Eccoci all’ufficio del professore. Ora vi annuncio.

— No, aspettate un attimo — disse Trevize. — Parlatemi della Terra.

— A dire la verità non mi risulta che nessuno la chiami Terra, qui. Sarà un termine in uso nella Fondazione: noi la chiamiamo Gaia.

Trevize diede un’occhiata a Pelorat. — Ah sì? E dove si trova?

— Da nessuna parte. Voglio dire, è nell’iperspazio e non è raggiungibile in alcun modo. Quando ero piccola, mia nonna mi diceva che Gaia un tempo si trovasse nello spazio reale, ma che poi la disgustarono talmente i...

— Crimini e la stupidità degli esseri umani — mormorò Pelorat, — che per vergogna, abbandonò lo spazio e da allora in poi si rifiutò di avere a che fare con l’umanità che da lei aveva tratto origine.

— Ah, allora conoscete la storia, voi! Una mia amica dice che siano solo superstizioni. Voglio proprio raccontarglielo: se queste superstizioni sono così importanti da essere note ai professori della Fondazione...

Sul vetro affumicato della porta era scritto, a lettere brillanti e coi difficili caratteri sayshelliani: “Sotayn Quintesetz Abt”. Sotto si leggeva, scritto nello stesso modo:

“Istituto di Storia Antica”.

La donna posò un dito su un tondo liscio, di metallo. Non si sentì alcun rumore, ma per un attimo il vetro affumicato diventò di un color bianco latte e una voce sommessa disse, con tono lievemente distratto: — Fatevi riconoscere, prego.

— Janov Pelorat di Terminus — disse Pelorat, — e Golan Trevize, sempre di Terminus.

La porta si aprì immediatamente.

3

L’uomo che venne loro incontro alzandosi dalla scrivania era alto e di mezza età.

Aveva la carnagione scura e i capelli crespi color grigio-ferro. Alzò una mano in segno di saluto e con voce bassa e pacata disse: — Sono S.Q. Piacere di conoscervi, professore.

— Non posseggo titoli accademici — disse Trevize. — Sono solo l’accompagnatore del professor Pelorat. Chiamatemi semplicemente Trevize. E, a proposito, il piacere è mio, professor Abt.

Quintesetz alzò la mano in un gesto di palese imbarazzo. — No, no. Abt è solo uno sciocco titolo che non ha alcun significato al di fuori di Sayshell. Non fateci caso, vi prego, e chiamatemi S.Q. Di solito qui si usano le iniziali nei rapporti quotidiani tra la gente. Sono davvero felice di fare la conoscenza di due persone mentre aspettavo di vederne solo una.

Parve esitare un secondo, poi tese la destra dopo essersela asciugata un attimo sui pantaloni. Trevize gliela strinse, chiedendosi quale fosse su Sayshell il modo giusto di salutare.

— Sedetevi, prego — disse Quintesetz. — Forse queste sedie vi sembreranno troppo inanimate, ma non mi piace la moda delle poltrone che stringono in un abbraccio: preferisco che un abbraccio significhi qualcosa, e voi?

— Anch’io — disse Trevize con un sorriso. — Scusate se faccio un’osservazione forse impertinente, ma il vostro nome sembra più dei Mondi del Margine che di Sayshell.

— Siete liberissimo di fare tutte le osservazioni che volete. In parte le mie origini risalgono ad Askone. Cinque generazioni fa, i miei antenati lasciarono Askone perché sentivano troppo il giogo del governo della Fondazione.

— E noi siamo membri della Fondazione — disse Pelorat. — Mi dispiace.

Quintesetz agitò un attimo la mano, come a voler sdrammatizzare. — Non si può serbare rancore per un arco di cinque generazioni. Se le cose sono andate così, bisogna metterci una pietra sopra. Ma, posso offrirvi qualcosa da mangiare o da bere?

Gradite un po’ di musica nel sottofondo?

— Se non vi spiace — disse Pelorat, — sarei ansioso di andare al nocciolo della questione, sempre che le formalità, su Sayshell, lo permettano.

— Le formalità d’uso qui da noi non impediscono affatto di andare subito al nocciolo del problema. Non avete idea di quanto abbia gradito sapere che eravate su Sayshell, dottor Pelorat. Proprio due settimane fa mi è capitato di leggere un vostro articolo sui miti dell’origine nella “Rivista di Archeologia”, e le vostre riflessioni mi sono parse interessantissime. Peccato solo che l’articolo fosse troppo breve.

Pelorat arrossì, lusingato. — Sono felicissimo che l’abbiate letto. Ho dovuto fare una sintesi, naturalmente, perché la rivista non mi avrebbe mai pubblicato il lavoro in versione integrale. Ho in progetto di scrivere un saggio sull’argomento.

— Sarebbe davvero auspicabile. Ma sapete che, appena letto il vostro articolo, ho provato il desiderio di incontrarvi e parlarvi? Ho persino pensato di venire su Terminus, pur essendo conscio delle difficoltà che avrei incontrato per realizzare il viaggio...

— Quali difficoltà? — chiese Trevize.

Quintesetz apparve imbarazzato. — Rincresce dirlo, ma Sayshell non desidera affatto unirsi alla Federazione della Fondazione, e tende a scoraggiare le comunicazioni e le relazioni con quest’ultima. Da noi c’è una tradizione di neutralismo, capite. Nemmeno il Mulo riuscì a darci fastidio; ci strappò solo una dichiarazione esplicita di neutralità. Per questo motivo chiunque richieda l’autorizzazione a visitare in generale il territorio della Fondazione, e Terminus in particolare, è visto con sospetto, anche se è probabile che gli studiosi come me, animati da interessi teorici, alla fine ottengano il passaporto. In ogni caso non mi sono dovuto sottoporre ad alcuna trafila burocratica, perché siete stato voi a venire da me. Stento ancora a crederci. A che cosa devo la vostra visita? Avete per caso sentito parlare di me come io ho sentito parlare di voi?

— Conosco i vostri lavori, S.Q. — disse Pelorat, — e ho molti riassunti di essi tra le mie carte. Sono venuto da voi perché mi sto interessando sia alla Terra, il presunto pianeta d’origine dell’umanità, sia al primo periodo di esplorazione e colonizzazione della Galassia. In particolare sono venuto per indagare sulla fondazione di Sayshell.

— Da quanto scrivete, mi sono fatto l’idea che oggetto dei vostri studi siano i miti e le leggende — disse Quintesetz.

— E ancora più la storia, i fatti reali, quando esistono. Altrimenti sì, i miti e le leggende.

Quintesetz si alzò, si mise a camminare su e giù per l’ufficio, si fermò a fissare Pelorat, poi ricominciò a passeggiare.

Spazientito, Trevize disse: — Ebbene, signore?

— Curioso — disse l’altro. — Curioso davvero! Solo ieri...

— Solo ieri cosa? — interruppe Pelorat.

— Come vi dicevo poco fa, dottor Pelorat... A proposito, posso chiamarvi J.P.? Mi riesce innaturale usare il cognome per esteso.

— Ma certo, fate pure.

— Come vi dicevo poco fa, J.P., avendo apprezzato il vostro articolo desideravo incontrarvi. La ragione per cui lo desiderassi era questa: avevo capito che eravate a conoscenza di numerosissime leggende sulle origini dei mondi, ma che non eravate a conoscenza della nostra: in altre parole, volevo vedervi per dirvi proprio quello che siete venuto a chiedermi.

— Che cosa c’entra questo con ieri, S.Q.? — chiese Trevize.

— Be’, c’è di mezzo una leggenda importante per la nostra società, una leggenda che è diventata il mistero principale per noi...

— Mistero?

— Non in senso di enigma o rompicapo, come s’intende, credo, in galattico standard. Qui alla parola mistero diamo il significato di qualcosa di segreto, qualcosa noto solo agli adepti e di cui non si deve parlare agli estranei: e ieri era appunto il giorno.

— Il giorno di cosa? — chiese Trevize, cercando di dominare l’impazienza.

— Il Giorno della Fuga.

— Ah — disse Trevize, — il giorno della quiete e della meditazione, quello in cui tutti dovrebbero rimanere a casa.

— In teoria sì, solo che nelle città grandi e nelle regioni di maggiore sviluppo si osservano poco queste vecchie regole. Ma a quanto vedo siete al corrente di questa consuetudine.

Pelorat, che stava sulle spine perché si era accorto che Trevize aveva un tono spazientito, intervenne e disse: — Ne abbiamo sentito parlare perché siamo arrivati ieri.

— Di tutti i giorni possibili siamo capitati proprio in quello — disse Trevize, sarcastico. — Sentite, S.Q., come ho detto, io non sono un professore, ma vorrei farvi una domanda. Avete parlato di un mistero noto agli adepti, ma che non va rivelato agli estranei. Ma non ne state parlando con noi, che siamo appunto estranei?

— Sì, certo, voi siete due estranei, ma io non sono osservante, e i miei timori superstiziosi, a questo riguardo, sono davvero minimi. In ogni caso l’articolo di J.P. mi ha confermato in un’idea che avevo da tempo: i miti e le leggende non nascono dal niente. Niente nasce dal niente, in un modo o nell’altro c’è sempre dietro essi qualcosa di vero, anche se magari distorto. E a me affascina la verità che potrebbe nascondersi dietro la nostra leggenda del Giorno della Fuga.

— Non correte pericolo a parlarne? — disse Trevize.

Quintesetz alzò le spalle. — No, non credo proprio. I conservatori, se lo sapessero, inorridirebbero, ma è da un secolo ormai che non sono più al governo. I laici sono forti e sarebbero ancora più forti se i conservatori non sfruttassero le nostre prevenzioni contro la Fondazione. Inoltre, siccome sto discutendo di questo argomento per via dei miei interessi professionali, la Lega degli Accademici mi sosterrebbe a spada tratta, in caso di bisogno.

— Allora — disse Pelorat, — vi spiace parlarci del mistero del Giorno della Fuga, S.Q.?

— Ve ne parlerò volentieri, ma lasciate prima che mi assicuri che non saremo interrotti, e anche che nessuno stia a origliare. Come dice il proverbio, va bene essere costretti a guardare il toro in faccia, ma dargli uno schiaffo sul muso, no!

Regolò un apparecchio che si trovava sulla sua scrivania e disse: — Ecco, ora nessuno ci può sentire.

— Siete sicuro che non ci siano microspie? — disse Trevize.

— Microspie?

— Microspie, congegni che permettono di tenere sotto osservazione, qualcuno acusticamente ed a volte anche visivamente.

Quintesetz apparve sbigottito. — No, non ci sono congegni del genere, qui su Sayshell.

Trevize alzò le spalle. — Se lo dite voi...

— Procedete, prego, S.Q. — disse Pelorat.

Quintesetz increspò le labbra, si appoggiò allo schienale della poltrona (che cedette un poco) e congiunse i polpastrelli con l’aria di uno che si chiedesse da dove cominciare.

— Sapete cosa sia un robot? — disse.

— Un robot? — disse Pelorat. — No.

Quintesetz guardò Trevize, che scosse la testa lentamente.

— Sapete però che cosa sia un computer, immagino.

— Naturalmente — disse Trevize, spazientito.

— Allora, una macchina mobile computerizzata...

— È semplicemente una macchina mobile computerizzata — disse Trevize, sempre con tono seccato. — Ce ne sono a bizzeffe ed a quanto mi consta sono chiamate esclusivamente così.

— ... con sembianze umane è un robot — disse S.Q., terminando il suo discorso come se Trevize non l’avesse interrotto. — Il robot si distingue dalle altre in quanto ha aspetto umano.

— Come mai ha aspetto umano? — chiese Pelorat, sinceramente sorpreso.

— Non lo so con certezza. Ammetto che per una macchina la forma umana è ben poco funzionale, ma sto solo ripetendo quello che dice la leggenda. Robot è parola antica, di una lingua sconosciuta ormai, ma i nostri storici sostengono che significhi qualcosa come lavoro.

— Non conosco nessuna parola che somigli anche solo vagamente a robot e che abbia pressappoco il significato del termine lavoro — disse Trevize, scettico.

— In galattico no, certo — disse Quintesetz, — ma questo è ciò che sostengono gli esperti.

— Potrebbe essere un’etimologia invertita — disse Pelorat. — Quelle macchine erano usate per il lavoro e così si finì col dire che la parola robot significasse lavoro.

In ogni modo, come mai avete introdotto quest’argomento?

— Perché qui su Sayshell si racconta che i robot furono inventati e costruiti per la prima volta quando la Terra era l’unico pianeta abitato e la Galassia le si stendesse davanti completamente deserta. A quell’epoca c’erano dunque due tipi di esseri dall’aspetto umano, gli uni naturali, gli altri costruiti, gli uni di carne, gli altri di metallo, gli uni biologici, gli altri meccanici, gli uni complessi, gli altri semplici...

Quintesetz fece una pausa e disse, con un sorriso mortificato: — Scusate, ma è quasi impossibile parlare di robot senza citare passi del Libro della Fuga. Gli abitanti della Terra inventarono i robot, dunque, fin qui tutto è chiaro, no?

— E perché inventarono i robot? — chiese Trevize.

Quintesetz alzò le spalle. — Chi può dirlo, adesso che è passato tanto tempo?

Forse erano troppo pochi e avevano bisogno di aiuto, specie in vista della grande impresa di esplorazione e colonizzazione della Galassia.

— È un’ipotesi plausibile — disse Trevize. — Una volta che la Galassia fu colonizzata, la funzione dei robot terminò. Certo non ci sono più macchine mobili computerizzate di aspetto umanoide, oggi.

— In ogni modo — disse Quintesetz, — vi racconterò a grandi linee la storia, tralasciando col vostro permesso numerosi orpelli poetici che francamente non accetto, anche se la gente di Sayshell li accetta o fa finta di accettarli. Vicino alla Terra diventarono sempre più numerosi i mondi colonizzati, mondi che giravano intorno ad altre stelle e che avevano molti più robot di quanti ne avesse la Terra stessa. Sui mondi inesplorati e selvaggi c’era più bisogno di essi. Anzi, la Terra ad un certo punto fece marcia indietro: non volle più saperne dei robot e si ribellò loro.

— Che cosa accadde? — chiese Pelorat.

— I Mondi Esterni erano più forti. Con l’aiuto dei robot, i figli sconfissero la loro Madre, la Terra, e ne assunsero il controllo. Scusatemi, ma non posso evitare ogni tanto di lasciarmi andare a qualche citazione. Però sulla Terra ci fu un gruppo che riuscì a fuggire perché disponeva di navi migliori e di tecniche iperspaziali più collaudate. Questo gruppo fuggì verso stelle e mondi lontani, molto più lontani di quelli colonizzati in precedenza. Furono fondate nuove colonie in cui gli esseri umani poterono vivere liberamente e senza robot. Fu quella la cosiddetta Era della Fuga ed il giorno in cui il primo terrestre raggiunse il Settore Sayshell, ed anzi proprio questo pianeta, è quel Giorno della Fuga che da molte migliaia d’anni noi festeggiamo regolarmente.

Pelorat disse: — Amico mio, state dicendo allora che Sayshell fu colonizzato da persone provenienti direttamente dalla Terra?

Quintesetz rifletté sulla cosa ed esitò un attimo. Poi disse:

— Questa è l’opinione corrente.

— E naturalmente voi non l’accettate — disse Trevize.

— Mi pare che... — cominciò Quintesetz, poi si lasciò andare ed esclamò: — Per tutte le stelle ed i pianeti, no che non l’accetto! È assolutamente inverosimile, ma è un dogma ufficiale e per quanto laico sia diventato il governo, un certo rispetto almeno formale è d’obbligo. Ma torniamo al punto. Nel vostro articolo, J.P., era assente qualsiasi riferimento a questa storia ed alle due fasi della colonizzazione, una minore con grande impiego di robot, e l’altra maggiore ma senza robot.

— Non c’erano riferimenti perché di questa leggenda sento parlare per la prima volta adesso, caro S.Q. — disse Pelorat. — Vi sono infinitamente grato per avermene dato notizia. Mi sbalordisce che non sia mai trapelato niente di ciò negli scritti...

— Questo dimostra quanto solido sia il nostro sistema sociale — disse Quintesetz.

— È il nostro grande “mistero”, il segreto del nostro mondo.

— Può darsi — disse Trevize, secco. — Però, durante la seconda fase di colonizzazione, quella senza i robot, gli esseri umani si saranno spinti in tutte le direzioni, immagino: come mai questo grande segreto esiste solo su Sayshell?

— Forse esiste anche altrove e non è noto agli estranei, proprio come qui — disse Quintesetz. — I conservatori, da noi, credono che solo Sayshell sia stato colonizzato dalla Terra e che tutto il resto della Galassia sia stato colonizzato da Sayshell, il che è probabilmente una sciocchezza.

— Questi problemi secondari si potranno risolvere a tempo debito — disse Pelorat. — Ora che ho un punto di partenza, posso cercare su altri mondi informazioni del genere di quelle che ho avuto qui. L’importante è che abbia trovato la domanda giusta da fare: com’è noto, da una domanda giusta si può ricavare un’infinità di risposte. Che fortuna che abbia...

— Sì, Janov — lo interruppe Trevize, — ma l’amico S.Q. non ci ha raccontato tutta la storia. Che cosa successe alle colonie di più antica fondazione e ai loro robot?

Lo dice, la leggenda?

— Non dettagliatamente, solo in sintesi — disse Quintesetz — A quanto pare, umani ed umanoidi non possono vivere insieme: sui mondi dove c’erano i robot, la vita si estinse.

— E la Terra?

— Gli esseri umani l’abbandonarono, si stabilirono qui e probabilmente anche su altri pianeti, checché ne dicano i conservatori.

— È da escludersi che tutti gli esseri umani abbiano lasciato la Terra: il pianeta non può essere rimasto deserto.

— Forse no, ma io di questo non so niente.

Trevize disse, inaspettatamente: — La Terra era diventata radioattiva?

— Radioattiva? — disse Quintesetz, sbalordito.

— Esattamente.

— No, ch’io sappia. È un’ipotesi di cui non ho mai sentito parlare.

Trevize resto un attimo in silenzio, a riflettere. Poi disse: — S.Q., si sta facendo tardi e probabilmente vi abbiamo già fatto perdere anche troppo tempo. — (Pelorat stava per protestare, ma Trevize gli posò una mano sul ginocchio e strinse forte, sicché l’altro, pur seccato, lasciò perdere).

— Sono felice di esservi stato utile — disse Quintesetz.

— Lo siete stato davvero e se possiamo ricambiare in qualche modo il piacere...

Quintesetz sorrise. — Se l’amico J.P. fosse così gentile da evitare di citarmi negli eventuali studi che pubblicherà sull’argomento del nostro “mistero”, la ricompensa sarà già sufficiente.

Pelorat disse, infervorato: — Se veniste su Terminus e rimaneste per un certo tempo presso la nostra università in qualità di professore ospite, i vostri meriti sarebbero forse maggiormente riconosciuti ed otterreste il credito che meritate. Si può riuscire a organizzare le cose in modo che questo succeda. Il governo di Sayshell non avrà molta simpatia per la Federazione, ma penso che non se la sentirà di rifiutarvi il permesso di venire su Terminus per tenere, che so, un seminario su determinati aspetti della storia antica.

Quintesetz per poco non fece un salto di gioia. — E voi sareste in grado di combinare questo scambio?

— Io non ci avevo pensato — disse Trevize, — ma J.P. ha ragione. Il tentativo ha buone probabilità di riuscita. E naturalmente più ci darete motivo di gratitudine, più tenteremo...

Quintesetz aggrottò la fronte. — Che cosa intendete dire, signore?

— Non dovete fare altro che parlarci di Gaia, S.Q. — disse Trevize.

Tutta la luce che c’era negli occhi di Quintesetz si spense.

4

Quintesetz fissò la scrivania carezzandosi con aria distratta i capelli corti e crespi.

Poi guardò Trevize e strinse forte le labbra come chi è ben deciso a non parlare.

Trevize inarcò le sopracciglia e attese una risposta. Alla fine Quintesetz disse, con voce quasi strozzata: — È proprio tardi, ormai. Sta atreggiando.

Fino allora aveva parlato in buon galattico, ma adesso aveva assunto una curiosa inflessione, come se il sayshelliano si fosse fatto strada attraverso il solido spessore della cultura.

— Atreggiando?

— Sì, voglio dire che è quasi sera.

Trevize annuì. — Che sbadato sono a non essermene accorto. E ho anche fame, tra l’altro. Possiamo invitarvi a cena. S.Q.? Si potrebbe continuare durante la cena la nostra discussione su... Gaia.

Quintesetz si alzò pesantemente dalla poltrona. Più alto dei suoi ospiti, era però più vecchio e tarchiato, e la sua statura non gli conferiva affatto un’aria imponente.

Appariva più stanco di quando Trevize e Pelorat erano arrivati.

Guardò i due di sottecchi e disse: — Ho dei doveri di ospitalità che stavo quasi per dimenticare. Voi arrivate da un altro pianeta e quindi tocca a me invitarvi a cena.

Perché non venite a casa mia? Non è lontana da qui, è nello stesso complesso universitario, e se vorremo continuare la conversazione lo potremo fare in un ambiente più disteso. Solo che... — e qui apparve per un attimo a disagio, — non posso offrirvi un gran pasto. Mia moglie ed io siamo vegetariani e se voi siete abituati a mangiare carne, non so come vi troverete...

— J.P. ed io saremo felicissimi di frenare per una volta la nostra natura carnivora

— disse Trevize. — Credo e spero che la vostra conversazione ci compenserà della rinuncia.

— Non so come sarà la conversazione, ma posso assicurarvi che la cena vi piacerà, se i vostri gusti non v’impediranno di apprezzare le spezie sayshelliane. Mia moglie ed io abbiamo condotto uno studio particolare su questo genere di cose.

— Sono ansioso di assaggiare qualsiasi pietanza esotica vorrete sottopormi, S.Q.

— disse tranquillo Trevize. Pelorat, invece, appariva piuttosto nervoso alla prospettiva di quegli assaggi.

Quintesetz fece loro strada. I tre uscirono dalla stanza e s’incamminarono per un lunghissimo corridoio. Lo storico sayshelliano ogni tanto salutava studenti e colleghi, ma non accennò mai a presentare a essi i suoi ospiti. Trevize constatò con un certo imbarazzo che la gente guardava incuriosita la sua fusciacca, che quel giorno era grigia. Evidentemente nell’ambiente universitario un colore neutro come il grigio non era considerato molto bene.

Alla fine arrivarono alla porta che dava sull’esterno. Era buio, come aveva detto Quintesetz, e faceva anche un po’ freddo. In lontananza si scorgeva il profilo degli alberi; ai lati della passerella pedonale si stendeva rigoglioso un tappeto d’erba.

Pelorat si fermò, voltando le spalle alle luci brillanti che provenivano dall’edificio e dai lampioni che fiancheggiavano le passerelle.

— Che bello! — disse, guardando in su. — C’è un verso famoso di uno dei nostri massimi poeti che parla del «sublime cielo di Sayshell, picchiettato di gemme».

Trevize contemplò lo spettacolo e disse, a bassa voce: — Noi siamo di Terminus, S.Q. dovete capire. Capire soprattutto il mio amico, che non aveva mai visto altri cieli. Da Terminus si vedono soltanto poche stelle appena distinguibili e la nebbiolina fioca della Galassia. Se foste vissuto per un certo tempo sul nostro pianeta, apprezzereste ancora di più il vostro cielo.

— Noi sayshelliani lo apprezziamo fino in fondo, v’assicuro — disse Quintesetz con solennità. — Abbiamo un cielo così perché ci troviamo in una zona della Galassia in cui le stelle sono distribuite con straordinaria omogeneità. Credo che da nessun’altra parte si trovino stelle di prima grandezza distribuite in questo modo. Ed hanno anche il vantaggio di non essere troppe. Ho visto il cielo di mondi che si trovavano nelle zone più esterne di ammassi globulari ed ho dovuto constatare che lì erano troppe: quando sono troppe, sciupano la grande bellezza del cielo notturno.

— Sono pienamente d’accordo con voi — disse Trevize.

— Vedete — continuò Quintesetz, — quel pentagono quasi regolare formato da cinque stelle di luminosità pressoché uguale? Noi le chiamiamo le Cinque Sorelle.

Sono là, proprio sopra il profilo degli alberi. Le vedete?

— Sì — disse Trevize. — Sono molto belle.

— Infatti — disse Quintesetz. — Secondo la tradizione simboleggiano il successo in amore. Su Sayshell non c’è lettera d’amore che non termini con un pentagono formato da puntini: significa desiderio di fare l’amore. A ciascuna stella corrisponde un preciso stadio del gioco amoroso e ci sono poesie famose che fanno a gara nel rendere il più erotico possibile ogni stadio. Quando ero giovane mi cimentai io stesso in questo genere di poesie; allora non avrei mai pensato che sarebbe venuto il momento in cui le Cinque Sorelle mi sarebbero state del tutto indifferenti, anche se penso che sia il destino di tutti. Vedete quella stella molto meno lucente, circa al centro del pentagono?

— Sì.

— Quella rappresenterebbe l’amore non corrisposto. La leggenda dice che un tempo era brillante come le altre, ma che la sua luce si affievolì a causa del dolore.

Dopo un attimo di contemplazione, il professore riprese il cammino assieme ai suoi ospiti.

5

Trevize dovette ammettere in cuor suo che la cena era stata ottima. Erano state servite innumerevoli pietanze arricchite da spezie ed aromi delicati, gradevoli al palato.

Disse: — Tutti questi vegetali, che è stato un vero piacere mangiare, fanno parte della vostra dieta quotidiana, S.Q.?

— Sì, certo — disse Quintesetz.

— Allora immagino che tra essi ci siano forme di vita indigene.

— Naturalmente. Quando arrivarono i primi colonizzatori, su Sayshell, trovarono un’atmosfera ricca di ossigeno ed adatta alla vita. Noi abbiamo preservato la natura originaria; abbiamo grandissimi parchi dove vivono tuttora sia la flora, sia la fauna di un tempo.

— In questo ci superate di parecchio — disse Pelorat con tristezza. — Su Terminus le forme di vita di terra erano poche quando arrivarono i primi colonizzatori, e questi per un pezzo non fecero niente per cercare di preservare gli organismi acquatici che avevano prodotto l’ossigeno grazie al quale Terminus era stato reso abitabile: Terminus adesso ha un’ecologia che è puramente galattica.

— Sayshell — disse Quintesetz con un orgoglio ben lontano dalla protervia, — ha sempre avuto grande rispetto per tutte le forme di vita.

Trevize scelse quel momento per cambiare discorso. — Quando abbiamo lasciato il vostro ufficio — disse — ho creduto che fosse vostra intenzione parlarci di Gaia dopo la cena, S.Q.

La moglie di Quintesetz, una donna bruna, grassa, cordiale che durante il pasto aveva parlato pochissimo, sollevò gli occhi sbalordita, poi si alzò da tavola e se ne andò senza proferir verbo.

— Mia moglie è molto conservatrice, purtroppo — disse Quintesetz. visibilmente a disagio, — e non gradisce che abbiate menzionato il... mondo. Vi prego di scusarla.

Ma perché mi avete fatto quella domanda?

— Perché quello che risponderete penso possa essere importante per il lavoro di J.P.

— Ma perché insistete proprio con me? Abbiamo parlato della Terra, dei robot, della colonizzazione di Sayshell. Che cosa c’entra questo con... con quanto mi avete chiesto or ora?

— Forse niente, ma ci sono ancora tanti punti oscuri. Perché vostra moglie si è turbata sentendo nominare Gaia? Perché voi, a vostra volta, siete turbato? C’è chi di questo argomento parla a cuor leggero. Proprio oggi ci è stato detto che Gaia è la stessa Terra, e che è scomparsa nell’iperspazio a causa del male provocato dagli uomini.

Quintesetz assunse un’espressione afflitta. — Chi vi ha detto queste sciocchezze?

— Una persona che ho conosciuto qui all’università.

— Sono solo superstizioni.

— Allora non è un’idea che fa parte integrante delle vostre leggende sull’Era della Fuga?

— No, no. È solo una favola che ha trovato credito fra la gente rozza e ignorante.

— Ne siete sicuro? — disse Trevize, brusco.

Quintesetz si appoggiò allo schienale della sedia e fissò i propri avanzi nel piatto.

— Venite in soggiorno — disse. — Mia moglie non può pulire e riordinare la stanza finché stiamo qui a discutere di... questo argomento.

— Siete certo che sia solo una favola? — ripeté Trevize, dopo che si furono seduti in un’altra stanza, davanti ad una finestra da cui si vedeva buona parte del cielo straordinario di Sayshell. Le luci del soggiorno vennero smorzate un poco perché fosse dato pieno risalto allo splendore delle stelle, e il viso di Quintesetz si confuse con l’oscurità dell’ambiente.

— E voi, non ne siete certo? — disse lo storico. — Credete che i pianeti si possano dissolvere nell’iperspazio? Dovete capire che l’uomo medio ha solo una vaga idea di che cosa sia l’iperspazio.

— A dire la verità anch’io ho solo una vaga idea di che cosa sia, benché ci abbia viaggiato attraverso innumerevoli volte — disse Trevize.

— Sarò concreto, allora. Vi assicuro che la Terra non si trovi dentro i confini dell’Unione Sayshell, e che il mondo da voi menzionato non sia la Terra.

— Però, anche se non sapete dove sia la Terra, dovreste sapere dove sia il mondo che ho menzionato, S.Q. Quello si trova sicuramente entro i confini dell’Unione Sayshell. Noi ne siamo certi, vero, Pelorat?

Pelorat, che fino allora aveva ascoltato senza partecipare, trasalì sentendosi chiamato in causa e disse: — Se è per quello, io so anche dove si trovi esattamente il pianeta in questione, Golan.

Trevize si girò a guardare il suo compagno. — Da quando, Janov?

— Da oggi, mio caro Golan. Mentre venivamo qui, voi ci avete mostrato le Cinque Sorelle, S.Q. Poi avete indicato la stella poco luminosa al centro del pentagono: sono sicuro che quella sia Gaia.

Quintesetz rimase zitto per qualche attimo. Nella penombra la sua faccia era indecifrabile. Alla fine disse: — Be’, i nostri astronomi sono di questo parere, anche se si guardano bene dal dirlo ufficialmente. Il pianeta Gaia girerebbe intorno a quella stella.

Trevize scrutò Pelorat, dal cui viso impassibile però non trapelava nulla. Poi si rivolse a Quintesetz. — Allora parlateci di quella stella. Avete le sue coordinate?

— Io? No — disse Quintesetz quasi con violenza. — Non ho coordinate stellari di sorta, qui. Potete averle dal nostro dipartimento di astronomia, anche se, come penso, non senza difficoltà: i viaggi verso quella stella non sono permessi.

— Come mai? Non rientra nel vostro territorio?

— Spaziograficamente sì; politicamente no, però.

Trevize aspettò che l’altro dicesse di più, poi, vedendo che se ne stava zitto, si alzò. — Professor Quintesetz — disse in tono solenne, — non sono né un poliziotto né un soldato, e nemmeno un diplomatico od un delinquente. Non son venuto qui per estorcervi informazioni. Poiché voi non me le date spontaneamente dovrò andare, mio malgrado, dal nostro ambasciatore. Capirete certo che non è per mio interesse personale che cerco queste informazioni. Si tratta di una faccenda che sta a cuore alla Fondazione e non vorrei proprio che da ciò nascesse un incidente interstellare. D’altra parte, credo che nemmeno l’Unione Sayshell lo vorrebbe.

— Che cos’è questa faccenda che sta a cuore alla Fondazione? — disse Quintesetz in tono incerto.

— Non è argomento che possa discutere con voi. Se Gaia non è argomento di cui potete parlare con me, bisognerà che rimettiamo la questione nelle mani dei rispettivi governi e, date le circostanze, potrebbe nascerne un grosso svantaggio per Sayshell. Il vostro pianeta si è mantenuto indipendente dalla Federazione, e a me sta benissimo.

Non ho motivi per augurargli alcun male e non ho alcuna voglia di mettermi in contatto col nostro ambasciatore. Anzi, facendolo mi danneggerò la carriera, in quanto ho avuto ordine di ottenere quelle informazioni senza fare intervenire il governo nella questione. Insomma, vorrei che mi spiegaste se ci sia una ragione precisa per cui non possiate parlarmi di Gaia. Se lo faceste verreste forse arrestato o comunque punito in qualche modo? Potete dirmi chiaramente se non abbai altra scelta che rivolgermi all’ambasciatore della Federazione?

— No, le punizioni, le pressioni governative non c’entrano — disse Quintesetz, assai confuso. — Non so niente di politica, io. Semplicemente, noi non parliamo mai di quel mondo.

— Si tratta di superstizione, allora?

— Ebbene sì, proprio di superstizione. Cieli di Sayshell, in fondo non sono molto meglio di quello stupido che vi ha detto che Gaia si trovi nell’iperspazio, o di mia moglie, che si rifiuta persino di stare in una stanza dove si nomini quel pianeta e che potrebbe essere addirittura uscita di casa per paura di essere colpita da...

— Dal fulmine?

— Da qualche cosa proveniente da lontano. Ed anch’io, come vedete, stento a pronunciare quel nome, Gaia. Gaia! Sembra impossibile che queste sillabe non debbano provocare un danno, eppure sono incolume, come potete notare. Nonostante ciò, continuo ad esitare. Vi prego però di credermi quando vi dico che non conosco le coordinate della stella di Gaia. Farò del mio meglio per aiutarvi a ottenerle, se questo può esservi di aiuto, ma sappiate comunque che qui nell’Unione Sayshell non si parla mai di quel pianeta. Lo teniamo lontano dagli occhi e dal cuore. Posso solo dirvi quel poco che si sappia su di esso, quello che si sappia veramente, a parte le leggende.

Dubito che, in ogni caso, possiate apprendere di più negli altri mondi dell’Unione.

«Si sa che Gaia sia un mondo antico; alcuni ritengono che sia il più antico di questo settore della Galassia, ma non se ne è certi. L’orgoglio patriottico ci induce a dire che il più antico sia Sayshell, la paura invece ci induce a attribuire questo merito a Gaia. L’unico modo per conciliare gli opposti è affermare che Gaia sia la Terra, dato che si sa che Sayshell fu colonizzata dai terrestri.

«La maggior parte degli storici ritengono che Gaia sia nata in modo indipendente, che cioè non fosse la colonia di alcun mondo dell’Unione, e che a sua volta l’Unione non sia stata colonizzata da essa. Non si sa bene se Gaia sia stata colonizzata prima di Sayshell o dopo.

— Finora quello che avete detto non ha alcun valore — disse Trevize, — perché avete parlato solo di congetture.

Quintesetz annuì con aria afflitta. — Questo perché nella nostra storia ci siamo accorti relativamente tardi dell’esistenza di Gaia. All’inizio eravamo troppo occupati a fondare l’Unione, poi dovemmo difenderci dall’Impero Galattico, ed infine cercammo di darci una fisionomia in qualità di provincia imperiale e di limitare il potere dei Viceré.

«Fu solo all’epoca della decadenza dell’Impero che uno degli ultimi Viceré, i quali ormai risentivano pochissimo del controllo centrale, si accorse che Gaia esistesse e sembrava mantenersi indipendente sia da Sayshell, sia dallo stesso Impero.

Il pianeta conservava intorno a sé un alone di segretezza, sicché di esso non si sapeva praticamente niente, proprio come ora. Il Viceré decise di conquistarlo. Non si sa nei particolari quello che successe, si sa soltanto che la spedizione fallì e che tornarono ben poche navi. A quei tempi naturalmente le navi erano tutt’altro che perfette e spesso non erano nemmeno pilotate bene.

«Sayshell si rallegrò per la sconfitta dei Viceré, che era considerato un oppressore, e la sua débâcle ci indusse quasi automaticamente a riconquistare la nostra indipendenza. Ci liberammo dal giogo dell’Impero ed ancora oggi celebriamo il Giorno dell’Unione, che ricorda quell’evento del passato. Quasi per un senso di gratitudine lasciammo in pace Gaia per circa un secolo, ma venne il momento in cui ci sentimmo abbastanza forti da coltivare anche noi un nostro piccolo imperialismo.

Perché non conquistare Gaia?, ci dicemmo. O, almeno, perché non fondare un Mercato Comune? Dapprima spedimmo là la nostra flotta, che fu prontamente sconfitta. Poi provammo a stabilire rapporti commerciali, ma tutti i tentativi furono infruttuosi. Gaia rimase sempre un pianeta isolato e, che si sappia, non cercò mai, neanche minimamente, di commerciare o comunicare con altri mondi. Non cercò però nemmeno di far loro la guerra o conquistarli. Poi...

Quintesetz intensificò la luce nella stanza toccando un comando incorporato nel bracciolo della poltrona, ed il suo viso illuminato rivelò un’espressione inequivocabilmente ironica. — Poiché siete cittadini della Fondazione — continuò,

— vi ricorderete probabilmente del Mulo.

Trevize arrossì. Nei suoi cinque secoli di vita, la Fondazione era stata sconfitta solo una volta. La sconfitta era stata solo temporanea e non aveva intralciato gravemente il cammino verso il Secondo Impero, ma certo chiunque serbasse rancore per la Fondazione e desiderasse ferire la vanità dei suoi membri non mancava mai di menzionare il Mulo, l’unico che fosse riuscito a sottomettere il colosso. Ed era probabile (pensò Trevize) che Quintesetz avesse illuminato maggiormente la camera per poter vedere i segni della vanità ferita.

— Sì — disse il consigliere, — ci ricordiamo del Mulo.

— Il Mulo — disse Quintesetz, — per un certo tempo governò un Impero grande quanto la Federazione che è attualmente sotto il controllo della Fondazione. Tuttavia non riuscì mai a governare noi. Ci lasciò in pace. Una volta però venne su Sayshell e noi firmammo una dichiarazione di neutralità e di amicizia: non ci chiese altro.

Fummo gli unici a cui non chiese altro, in quell’epoca in cui era ancora in salute.

Dopo, quando si ammalò, dovette per forza rinunciare alle sue mire espansionistiche e rassegnarsi all’idea di morire. Non era un uomo irragionevole, sapete. Non usava la forza se non ce n’era bisogno: non fu mai un sanguinario e governò con saggezza.

— Aveva solo il difetto di essere un imperialista — disse Trevize, ironico.

— Come la Fondazione — disse Quintesetz.

Non sapendo cosa ribattere, Trevize disse, irritato: — Avete nient’altro da dire su Gaia?

— Volevo solo riportare il commento che fece il Mulo quando firmò il trattato di amicizia col Presidente Kallo, dell’Unione Sayshell. A quanto risulta dalla documentazione storica, dopo avere firmalo con la sua sigla il Mulo avrebbe detto: «con questo documento dichiarate di essere neutrali anche nei confronti di Gaia, il che è una fortuna per noi: nemmeno io tenterò mai di molestare quel pianeta».

Trevize scosse la testa. — Perché avrebbe dovuto molestarlo? Sayshell era ansioso di affermare la propria neutralità e Gaia non aveva mai dato noia a nessuno. A quell’epoca il Mulo stava progettando di conquistare l’intera Galassia; non aveva senso per lui perdere tempo in questioni insignificanti. In seguito avrebbe potuto con tutto comodo attaccare sia Sayshell sia Gaia.

— Può essere — disse Quintesetz. — ma secondo un testimone dell’epoca a cui si può credere, dopo che il Mulo ebbe proferito la frase che vi ho detto sussurrò fra sé, in modo da non essere udito dagli altri, «mai più».

— In modo da non essere udito dagli altri? Come mai allora ci fu chi udì?

— Perché la penna che lui aveva posato un attimo prima sul tavolo rotolò giù e un sayshelliano si avvicinò macchinalmente e si chinò a raccoglierla. Si trovo così con l’orecchio vicino alla bocca del Mulo proprio mentre questi sussurrava «mai più». Il testimone ne parlò soltanto dopo la morte del Mulo.

— Come potete essere certo che non si tratti di una storia inventata?

— Il testimone non era tipo da inventare bugie del genere: la sua versione dei fatti è stata accettata.

— E se anche ammettessimo che il Mulo abbia dello quelle parole?

— Il Mulo visitò l’Unione Sayshell solo in quell’occasione, almeno dopo che ebbe fatto la sua comparsa sulla scena galattica. Se era dunque stato su Gaia doveva esserci stato prima di comparire sulla scena.

— E allora?

— Dov’era nato il Mulo?

— Credo che non lo sappia nessuno — disse Trevize.

— Nell’Unione Sayshell si ha la netta convinzione che fosse nato su Gaia.

— A causa dell’episodio narrato da quel testimone?

— Solo in parte per quello. Il Mulo non poteva essere sconfitto perché aveva forti poteri mentali: nemmeno Gaia può venire sconfitta...

— Diciamo che Gaia non sia stata ancora sconfitta: non significa che non lo possa essere in futuro.

— Nemmeno il Mulo ebbe il coraggio di avvicinarsi a quel pianeta. Esaminate i documenti che parlano del suo dominio. Vedrete che a nessun’altra regione dello spazio usò i riguardi che usò a noi. E sapete che di quelli recatisi su Gaia con l’intento pacifico di instaurare rapporti commerciali nessuno è mai tornato? Perché, secondo voi, sappiamo così poco di quel mondo?

— Mi pare che il vostro sia un atteggiamento superstizioso — disse Trevize.

— Definitelo pure come volete. In ogni caso, dall’epoca del Mulo in poi abbiamo cancellato Gaia dai nostri pensieri. Non vogliamo che quel pianeta cominci a un certo punto a interessarsi a noi e ci sentiamo sicuri solo se facciamo finta che non si trovi là dov’è. Può darsi che sotto sotto sia stato il governo stesso a mettere in giro la favola che Gaia sia scomparsa nell’iperspazio: forse sperava che la gente dimenticasse che esiste davvero una stella con quel nome.

— Allora secondo voi si tratta di un mondo popolato da persone come il Mulo?

— Potrebbe essere. Vi consiglio, per il vostro bene, di non andarci: se ci andrete non tornerete mai più. Se la Fondazione s’immischiasse negli affari di quel pianeta, dimostrerebbe meno criterio del Mulo. Ditelo al vostro ambasciatore.

— Datemi le coordinate — disse Trevize, — e partirò subito: raggiungerò Gaia e tornerò.

— Vi procurerò le coordinate — disse Quintesetz. — Il dipartimento di astronomia è attivo di notte, naturalmente, ed io se posso ve le procurerò adesso. Ma permettetemi di consigliarvi ancora una volta di rinunciare all’impresa.

— Voglio tentare — disse Trevize.

— Allora volete suicidarvi — disse Quintesetz, senza mezzi termini.

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