La nave proveniente dalla stazione spaziale impiegò ore per arrivare nelle vicinanze della “Far Star”, e furono ore assai lunghe, per Trevize.
Se la situazione fosse stata normale, Trevize avrebbe cercato di trasmettere un messaggio ed avrebbe poi aspettato la risposta. Se questa non ci fosse stata, avrebbe preso precauzioni per evitare ogni pericolo. Ma poiché il computer non rispondeva alle istruzioni che riguardavano tutto ciò che era esterno alla nave, comunicare era impossibile. Essendo tra l’altro la “Far Star” non armata, non restava che aspettare.
All’interno, se non altro, tutto funzionava bene. I sistemi di sopravvivenza erano perfettamente in ordine, sicché i due passeggeri non avevano alcun disagio fisico da sopportare. Per qualche strano motivo, però, questo non serviva a consolare Trevize.
Il tempo passava lentamente e lui si sentiva logorare dall’incertezza del futuro. Notò con irritazione che Pelorat appariva calmo. Come se non bastasse, mentre lui non sentiva lo stimolo dell’appetito, Pelorat si era messo a mangiare. Aveva aperto un piccolo contenitore pieno di carne di pollo che si era riscaldato automaticamente appena disiggillato.
— Per lo spazio, Janov! — disse Trevize. — Quella roba puzza!
Pelorat, sorpreso, annusò il contenitore. — Mi pare che l’odore sia buono, Golan.
Trevize scosse la testa. — Non badatemi, sono nervoso. Però usate la forchetta, almeno, sennò le dita vi puzzeranno di pollo per tutto il giorno.
Pelorat si guardò le dita, sorpreso. — Scusate, non ci ho fatto caso. Stavo pensando ad altro.
Trevize disse, ironico: — Perché non provate ad immaginare che tipo di creature non umane si stiano avvicinando a bordo di quella nave? — Si vergognava di essere meno calmo del suo compagno. Lui era un veterano della Marina (anche se naturalmente non aveva visto ombra di battaglie), mentre Pelorat era solo uno storico.
Eppure quello storico se ne stava seduto tranquillo, assai più tranquillo di lui.
— È impossibile indovinare quale direzione possa prendere l’evoluzione in condizioni differenti da quelle che c’erano a suo tempo sulla Terra — disse Pelorat.
— Le varie possibilità non saranno magari infinite, ma sono certo così numerose da sembrarlo. In ogni modo, posso assicurarvi che quegli esseri non ricorrano gratuitamente alla violenza e che ci tratteranno in maniera civile. Se le cose stessero diversamente, a quest’ora saremmo già morti.
— Se non altro voi siete ancora in grado di ragionare, Janov. Riuscite ancora a stare calmo. I miei nervi invece sembrano non essere più sensibili alla calma artificiale che in un primo tempo avevo sentito. Ho una gran voglia di alzarmi e mettermi a camminare. Perché non arriva, quella maledetta nave?
— Io sono un uomo abituato alla passività, Golan — disse Pelorat. — Ho trascorso la vita chino su documenti, ad aspettare di ricevere altri documenti: l’attesa è il mio mestiere. Voi invece siete un uomo d’azione e quando vi impediscono di agire state male.
Trevize si sentì un po’ sollevato. — Ho sottovalutato la vostra riserva di buon senso, Janov — mormorò.
— No — disse Pelorat, pacato, — ma persino un professore ingenuo riesce a volte a capire qualcosa della vita.
— E persino il più abile dei politici può a volte non riuscire a farlo.
— Non ho detto questo.
— No, l’ho detto io, però. Bene, cercherò di essere di nuovo attivo. Posso sempre osservare, no? La nave adesso è più vicina e sono nettamente in grado di dire che sembra primitiva.
— Sembra?
— Se è il prodotto di menti e mani non umane, ciò che appare primitivo potrebbe in realtà essere semplicemente non umano.
— Pensate allora che si tratti di un prodotto del genere? — disse Pelorat, arrossendo lievemente.
— Non so, non ne sono certo. Penso che i prodotti artificiali, benché provenienti dalle più svariate civiltà, non siano mai così plasmabili e quindi così diversi tra loro quanto i prodotti di differenze genetiche.
— È solo una vostra idea. Noi conosciamo soltanto civiltà diverse, non specie intelligenti diverse, per cui non abbiamo modo di valutare quanto il manufatto di una specie si differenzi da quello di un’altra.
— I pesci, i delfini, i pinguini, i calamari e persino gli ambiflessi, che non sono di origine terrestre (ammesso che gli altri lo siano), risolvono tutti il problema del moto attraverso un mezzo viscoso con la forma aerodinamica, sicché d’aspetto non sono così diversi quanto le loro caratteristiche genetiche potrebbero farci credere. La stessa cosa può forse valere per i manufatti.
— I tentacoli del calamaro ed i vibratori elicoidali dell’ambiflesso sono diversissimi tra loro, e sono diversissimi dalle pinne, dalle natatoie e dalle membra dei vertebrati — disse Pelorat. — Lo stesso potrebbe valere per i manufatti.
— In ogni modo mi sento meglio, adesso — disse Trevize. — Parlare di stupidaggini mi ha calmato i nervi. E penso anche che presto sapremo con chi abbiamo a che fare. La nave non è sicuramente fornita di congegno unidock, per cui chiunque ci verrà incontro lo farà servendosi di un antiquato cavo. O forse saremo invitati noi ad usarlo. A meno che i presunti non umani non adoperino un sistema completamente diverso.
— Quanto è grande la nave?
— Siccome non possiamo chiedere al computer di calcolare col radar la sua distanza, non possiamo sapere quanto sia grande.
Un cavo si protese verso la “Far Star”.
— Vedete? — disse Trevize. — Probabilmente in questi casi, umana o meno che sia la persona che deve attraversare lo spazio, si può usare soltanto un cavo.
— Non potrebbero usare un tubo? O una scala orizzontale?
— Sono oggetti meno flessibili, con i quali l’aggancio diventa difficile. Ci vuole una cosa che unisca resistenza e flessibilità.
Il cavo produsse un rumore sordo toccando la carena solida, che vibrò (come l’aria all’interno di essa). Ci fu il consueto momento di assestamento mentre l’altra nave regolava la velocità in modo da eguagliare quella della “Far Star”. Il cavo era fermo rispetto ad entrambe le navi.
Sulla carena dell’astronave sconosciuta apparve un punto nero che si allargò come la pupilla di un occhio.
— Un’apertura a diaframma, anziché un pannello scorrevole — borbottò Trevize.
— E non è da umani?
— Non è detto, ma è interessante.
Dal portello emerse una figura.
Pelorat strinse un attimo le labbra, poi disse, deluso: — Peccato: è umana.
— Non è detto — disse calmo Trevize. — Finora possiamo solo constatare che ci siano cinque protuberanze, le quali potrebbero essere una testa, due braccia e due gambe ma anche qualcos’altro. Ehi, un attimo!
— Cosa c’è?
— Si muove più rapidamente e facilmente di quanto mi aspettassi. Ah, ecco!
— Ecco cosa?
— C’è una sorta di propulsione. Non direi che sia un servorazzo, però sono sicuro che la persona, se di persona si tratta, non proceda con la sola forza delle mani.
L’attesa sembrò incredibilmente lunga, benché la figura si muovesse veloce lungo il cavo. Alla fine si sentì il rumore del contatto.
— Sta per entrare, chiunque sia — disse Trevize, e stringendo la mano a pugno aggiunse: — Ho una gran voglia di prenderlo per il collo.
— Credo sia meglio che ci teniamo calmi — disse Pelorat. — Potrebbe essere più forte di noi, ed è in grado di controllare la nostra mente. Poi sulla nave ha certamente dei compagni. Sarà prudente aspettare di vedere con chi abbiamo a che fare.
— Più passa il tempo, più diventate ragionevole, Janov — disse Trevize. — Io invece lo sono sempre meno.
Sentirono il rumore della camera di equilibrio in funzione e infine videro la figura entrare.
— La statura è normale — mormorò Pelorat. — La tuta spaziale potrebbe stare benissimo addosso a un essere umano.
— Mai visto un tipo di tuta così, però mi pare che il disegno non sia particolarmente non-umano — disse Trevize.
Lo sconosciuto portò uno degli arti anteriori al casco che, se anche era fatto di vetro, era trasparente solo dall’interno verso l’esterno. L’arto toccò qualche meccanismo che Trevize non riuscì a distinguere e di colpo il casco si staccò dal resto della tuta, sollevandosi.
E comparve la faccia di una donna, giovane ed innegabilmente carina.
Pelorat, che per natura era inespressivo, fece del suo meglio per manifestare il suo stupore. — Siete umana? — disse, esitante.
La donna inarcò le sopracciglia e sporse le labbra a broncio. Era difficile capire se quella reazione fosse dovuta al fatto che non comprendesse la lingua od al fatto che, pur comprendendola, giudicasse strana la domanda.
Toccò con la mano il lato sinistro della tuta, che si aprì completamente come se avesse avuto una cerniera automatica, e ne uscì. La tuta rimase un attimo ritta, benché non avesse più il suo contenuto, ed infine, con un sospiro quasi umano, si afflosciò in terra.
La donna, più giovane ancora di quanto non fosse sembrata in un primo momento, indossava un abito ampio e trasparente che, lungo fino alle ginocchia, lasciava intravedere in parte quel che c’era sotto: aveva seni piccoli e vita stretta, con fianchi tondi e pieni; le cosce, benché in ombra, si capiva che fossero generose, ma le gambe proseguivano snelle fino alle caviglie aggraziate; i capelli, lunghi fino alle spalle, erano neri, gli occhi grandi e scuri; le labbra, piene, erano lievemente asimmetriche.
La ragazza guardò il proprio corpo e disse: — Perché, non sembro umana?
Parlava il galattico standard con un lieve accenno di esitazione, come se compisse un piccolo sforzo per pronunciarlo in modo corretto.
Pelorat annuì e disse, con un sorriso: — Oh, lo sembrate, certo. Siete assolutamente umana. Deliziosamente umana.
La giovane allargò le braccia come invitando i due a esaminarla più attentamente.
— Direi proprio — osservò. — Ci sono uomini che sono morti di desiderio per questo corpo.
— È un desiderio che mi farebbe vivere, più che morire — disse Pelorat, sorpreso per la vena di galanteria che si era ritrovato all’improvviso.
— Giusto — disse la ragazza, con solennità. — Dopo che uno l’ha fatto suo, questo corpo, tutti i sospiri diventano sospiri d’estasi.
Rise, e Pelorat rise con lei.
Trevize, che aveva assistito alla conversazione con la fronte corrugata, disse d’un tratto: — Quanti anni avete?
— Ventitré, signore — rispose la donna, con una certa riluttanza.
— Perché siete venuta qui. Che cosa vi proponete?
— Sono venuta per accompagnarvi su Gaia. — La sua padronanza del galattico standard ebbe un momento di crisi, soprattutto nella pronuncia delle vocali.
— Ci hanno mandato una bambina — disse Trevize.
Lei drizzò la schiena, assumendo un’aria professionale. — Io valgo quanto un altro — disse. — Era il mio turno di lavoro, alla stazione.
— Il vostro turno? Volete dire che eravate l’unica a bordo?
— Bastavo — disse lei, orgogliosa.
— Ed adesso la stazione è vuota?
— Io non sono più a bordo, signore, ma non è vuota: c’è lei.
— Lei? A chi vi riferite?
— Alla stazione stessa. È Gaia, e non ha bisogno di me: controlla la vostra nave.
— E allora voi perché ci stavate sopra?
— È il mio turno di lavoro.
Pelorat prese Trevize per la manica, ma lui si liberò dalla stretta. Pelorat però provò ancora. — Golan — sussurrò, con ansia. — Non fate la voce grossa con lei. È solo una ragazzina. Lasciate che le parli io.
Trevize scosse la testa arrabbiato, ma Pelorat parlò lo stesso. — Signorina — disse, — come vi chiamate?
La ragazza sorrise felice, come gradendo il tono gentile di Pelorat. — Bliss — disse.
— Bliss? — disse Pelorat. — Un gran bel nome. Certo non vi chiamate solo Bliss, però.
— Oh, no. Sarebbe bello avere un nome di una sola sillaba, o nomi tutti uguali che non si potessero distinguere. Così gli uomini smanierebbero per una donna credendola un’altra. Il mio nome completo è Blissenobiarella.
— Caspita, che lungo!
— Lungo? Sei sillabe? Non è mica molto. Ho amici con nomi di quindici sillabe, che coniano abbreviazioni sempre diverse. Io ho adottato l’abbreviazione Bliss fin da quando ho compiuto quindici anni. Mia madre mi chiamava Nobby, pensate che roba!
— In galattico standard, “bliss” vuol dire estasi o grandissima felicità — disse Pelorat.
— Anche in gaiano. Non è una lingua tanto diversa dallo standard. Mi piace l’idea di comunicare, con la mia presenza, estasi alla gente...
— Io mi chiamo Janov Pelorat.
— Lo so. E quell’altro signore, quello che grida, si chiama Golan Trevize: ce l’ha comunicato Sayshell.
Trevize strinse gli occhi. — Come vi è giunta la comunicazione?
Bliss si girò a guardarlo e disse: — Non è giunta a me, ma a Gaia.
— Signorina Bliss — disse Pelorat, — il mio compagno e io possiamo parlare per un attimo in privato?
— Sì, certo, però ricordatevi che non dobbiamo perdere troppo tempo.
— Non ci vorrà molto. — Pelorat prese deciso Trevize per un gomito e lo trascinò nell’altra stanza.
Trevize disse, a voce bassa: — Cos’è questa storia? Tanto sono sicuro che ci può sentire anche qui. Probabilmente ci legge nel pensiero, quella maledetta.
— Che ci legga nel pensiero o no, abbiamo bisogno, psicologicamente, di isolarci un attimo. Sentite, vecchio mio, perché non la lasciate in pace? Noi non possiamo fare niente, è vero, ma che senso ha scaricare la nostra rabbia su di lei? Forse nemmeno lei può fare niente, è solo un messaggero. Anzi, finché è a bordo probabilmente siamo al sicuro; non l’avrebbero fatta venire qui se intendessero distruggere la nave. Ma se continuate a fare il prepotente, magari decideranno di distruggerla dopo avere messo al sicuro la ragazza.
— Non sopporto l’idea di essere inerme — disse Trevize, irritato.
— È un’idea che non piace a nessuno, ma facendo il gradasso non migliorate la situazione; diventate soltanto un gradasso inerme. Oh, amico mio, scusate, non intendevo fare a mia volta il gradasso con voi. Sono stato troppo critico, lo so, ma quella ragazza non va trattata così male.
— Janov, è giovane a sufficienza da poter essere la più piccola delle vostre figlie.
Pelorat drizzò la schiena. — Una ragione in più per trattarla gentilmente. D’altra parte non ho capito che cosa intendiate insinuare con questa vostra affermazione...
Trevize rifletté un attimo, poi si schiarì in viso. — Sì, avete ragione ed io ho torto.
È seccante però che abbiano mandato una ragazzina. Avrebbero potuto mandare un ufficiale, per darci un’impressione, per così dire, di autorità. Una ragazzetta, invece...
E poi, continua a scaricare la responsabilità su Gaia.
— Probabilmente si riferisce ad un governante cui è stato conferito il nome del pianeta come titolo onorifico. Oppure si riferirà al consiglio planetario, chissà. Lo scopriremo, ma non forse facendole delle domande dirette.
— E parla di uomini che avrebbero smaniato per il suo corpo! — disse Trevize. — Sarà. Per me ha il sedere troppo voluminoso.
— Nessuno vi impone di essere fra quegli uomini, Golan — disse Pelorat gentilmente. — Su, ammettete che almeno mostra una certa autoironia. Io l’autoironia la considero positiva e gradevole.
Trovarono Bliss china sul computer, ne fissava i componenti con le mani dietro la schiena, come se avesse paura di toccarli. Quando Pelorat e Trevize entrarono, alzò gli occhi e disse: — È una nave straordinaria. Riconosco solo metà delle cose che vedo, ma è molto bella, è come un regalo per l’ospite che arriva. Al confronto la mia fa schifo. — Di colpo assunse un’aria incuriosita e soggiunse: — Ma siete veramente della Fondazione, voi?
— Come fate a sapere della Fondazione? — chiese Pelorat.
— Ce ne parlano a scuola. Soprattutto per via del Mulo.
— Per via del Mulo? Come mai?
— Era uno di noi, signo... Che sillaba del vostro nome posso usare, signore?
— O Jan o Pel — disse Pelorat. — Quale preferite?
— Pel — disse Bliss, con un sorriso cameratesco. — Il Mulo era nato su Gaia, anche se nessuno sappia bene esattamente dove.
Trevize disse: — Immagino che sia un eroe per voi gaiani, eh, Bliss? — Sfoggiava adesso una cordialità forzata, quasi aggressiva. — Chiamatemi Trev — aggiunse, lanciando in direzione di Pelorat un’occhiata che volesse essere conciliante.
— Oh, no — disse lei, prontamente. — Era un criminale. Lasciò Gaia senza averne il permesso, e questo non lo dovrebbe fare nessuno. Non si sa come riuscì ad andarsene. Ma se ne andò, ed immagino sia per questo che fece una brutta fine. La Fondazione alla fine lo sconfisse.
— La Seconda Fondazione? — disse Trevize.
— Ce n’è più d’una? Immagino che se ci pensassi bene su dovrei sapere la risposta, ma a dir la verità la storia m’interessa poco. Vedete, credo che m’interessi quello che Gaia ritenga meglio per me. Se la storia ed io siamo così estranee, è perché o ci sono già troppi storici, o è una materia per la quale non sono portata.
Probabilmente diventerò tecnico spaziale. Continuano ad assegnarmi lavori come questo e mi pare che mi piacciano abbastanza, è evidente del resto che non mi piacerebbe se...
Parlava in fretta, quasi senza prendere il fiato, e Trevize riuscì a fatica a inserire in quel treno di parole, una domanda. — Chi è Gaia? — disse.
Bliss apparve interdetta. — È semplicemente Gaia. Bene, Pel e Trev, vediamo di procedere, se non vi spiace. Dobbiamo raggiungere la superficie.
— Non ci stiamo già dirigendo verso il pianeta?
— Sì, ma lentamente. Gaia ritiene che arriveremmo molto prima se usaste i motori della vostra nave. Potete farlo?
— Sì — disse Trevize, torvo. — Ma non avete paura che riprendendo il comando della nave me la fili nella direzione opposta?
Bliss si mise a ridere. — Siete comico, sapete? È ovvio che non potete andare in alcuna direzione che non sia stata stabilita da Gaia. Ma potete andare più in fretta nella direzione che ha scelto per voi. Capito?
— Capito — disse Trevize. — In futuro cercherò di suscitare meno ilarità. In che punto devo atterrare?
— Non importa. Voi pensate a pilotare, e vedrete che la nave atterrerà nel punto giusto: se ne occuperà Gaia.
— E voi, Bliss, starete con noi a sincerarvi che siamo trattati bene? — disse Pelorat.
— Penso di poterlo fare. Vediamo un po’, l’importo dovutomi per le mie prestazioni, per questo tipo di prestazioni intendo, lo si può registrare sulla mia carta di bilancio.
— E le prestazioni di altro tipo?
Bliss ridacchiò. — Siete proprio un simpatico vecchietto.
Pelorat provò un fremito dentro.
Bliss reagì con allegria infantile alla discesa velocissima della “Far Star”. — Non si sente affatto l’accelerazione! — disse.
— È a propulsione gravitazionale — disse Pelorat. — Tutto accelera contemporaneamente, noi compresi, per cui non sentiamo niente.
— Ma come funziona, Pel?
Pelorat alzò le spalle. — Lo sa Trev — disse, — ma credo che in questo momento non abbia molta voglia di parlarne.
Trevize si era lanciato giù per il pozzo gravitazionale di Gaia quasi con temerarietà. Come aveva detto Bliss, la nave rispondeva ai suoi comandi solo parzialmente. Il tentativo di attraversare le linee di forza gravitazionali in senso obliquo fu accettato, ma solo dopo una certa esitazione. Il tentativo di risalire fu invece completamente ignorato.
La “Far Star” era sempre sotto il controllo altrui.
— Non stiamo scendendo un po’ troppo velocemente, Golan? — disse Pelorat in tono calmo e gentile.
Cercando di non far trapelare la rabbia (più per rispetto a Pelorat che per altri), Trevize disse, piuttosto secco: — La signorina dice che Gaia avrà cura di noi.
— È vero, Pel — disse Bliss. — Gaia non permetterebbe mai che a questa nave succedesse qualcosa di brutto. C’è niente da mangiare, a bordo?
— Sì, certo — disse Pelorat. — Che cosa preferite?
— Niente carne, Pel — disse Bliss, col tono che avrebbe usato parlando di lavoro.
— Mi vanno bene invece pesce, uova e vegetali.
— Parte del cibo che abbiamo proviene da Sayshell — disse Pelorat. — Certi prodotti non ho ben capito che cosa siano, ma forse vi piaceranno.
— Be’, si può fare un assaggio — disse lei, un po’ incerta.
— Su Gaia siete vegetariani? — chiese Pelorat.
— Molti di noi lo sono — disse Bliss, annuendo con forza. — Dipende da che tipo di sostanza nutritiva è necessario al corpo. Voglio dire, in determinate circostanze si ha più bisogno di una cosa, in altre di un’altra. Ultimamente ad esempio io non ho sentito il desiderio di mangiare carne, per cui immagino che il mio corpo non ne abbia bisogno. E non è che sia morta dalla voglia di dolci. Ho consumato soprattutto formaggio e gamberetti. Suppongo mi farebbe bene perdere un po’ di peso. — Si diede una pacca sulla natica destra, producendo un sonoro schiocco. — Dovrei diminuire di due chili buoni qui.
— Non vedo perché — disse Pelorat. — Così avete qualcosa di comodo su cui sedervi...
Bliss girò il torso per guardarsi il sedere meglio che poteva. — Oh, be’, non importa. Il grasso va e viene, non dovrei preoccuparmi.
Trevize non partecipava alla conversazione perché stava lottando con la “Far Star”. Aveva esitato un po’ troppo per l’orbita, e adesso si sentiva l’urlo acuto dell’aria che faceva resistenza, ai confini inferiori dell’esosfera di Gaia. A poco a poco la nave stava sfuggendo completamente al controllo di Trevize. Era come se qualcun altro avesse imparato a governare i motori gravitazionali. La “Far Star”, procedendo apparentemente per conto suo, descrisse una curva verso l’alto, poi entrata nello strato di aria più rarefatta, rallentò prontamente. Scelse quindi una traiettoria che la portò verso il basso lungo una curva morbida.
Bliss non badò al fischio penetrante dell’aria e annusò il contenuto del barattolo aperto da Pelorat. — Dev’essere buono, Pel — disse, — perché se non lo fosse il suo odore mi disgusterebbe e non mi verrebbe voglia di mangiarlo. — Infilò un dito dentro e lo leccò. — Avevate ragione. Sono gamberetti, o qualcosa di simile. Buoni!
Con un gesto di irritazione, Trevize si allontanò dal computer.
— Signorina — disse, col tono di uno che vedesse Bliss per la prima volta.
— Mi chiamo Bliss — disse lei, sulle sue.
— E va bene, Bliss. Voi conoscevate già i nostri nomi, vero?
— Sì, Trev.
— Come mai?
— Era importante che li sapessi, altrimenti non avrei potuto compiere il mio lavoro. Così li ho imparati.
— E il nome di Munn Li Compor vi è noto?
— Lo sarebbe, se fosse importante che lo conoscessi. Poiché non so chi sia questa persona, è evidente che il signor Compor non stia venendo su Gaia. D’altra parte, gli unici che stiano venendo su Gaia siete voi.
— Vedremo se quanto dite corrisponda a verità.
Trevize guardò il pianeta. Lo circondava uno strato di nubi che pur non essendo compatto era distribuito in modo uniforme, sicché, anche se rotto a tratti, non consentiva di vedere la superficie planetaria.
Trevize premette il pulsante delle microonde e lo schermo radar s’illuminò. La superficie di Gaia rispecchiava quasi il cielo. Pareva un mondo di isole, come e più di Terminus. Nessun’isola era particolarmente grande e lontana dalle altre. Era un po’ come avvicinarsi ad un arcipelago planetario. L’orbita della nave era inclinata verso il piano equatoriale, ma non si vedevano tracce di cappe di ghiaccio. Non si vedevano nemmeno i segni inconfondibili della distribuzione non uniforme della popolazione; l’illuminazione del lato notturno, per esempio, non lasciava capire quali fossero le zone più abitate.
— Atterriamo vicino alla capitale, Bliss? — chiese Trevize.
— Gaia ci farà atterrare nel posto più adatto — disse la ragazza con aria indifferente.
— Io preferirei una metropoli.
— Intendete dire un posto dov’è raggruppata molta gente?
— Sì.
— Sta a Gaia decidere.
La nave continuò la sua discesa e Trevize cercò di divertirsi a pensare su quale isola sarebbe atterrata. Ma qualunque fosse stata la meta, probabilmente l’avrebbero raggiunta nel giro di un’ora.
La “Far Star” atterrò dolcemente, senza scosse, senza effetti gravitazionali anomali. I passeggeri uscirono ad uno ad uno: prima Bliss, poi Pelorat, poi Trevize.
Come clima si aveva l’impressione di essere nel periodo che su Terminus segnava l’inizio della stagione estiva. Soffiava una lieve brezza e nel cielo screziato splendeva un sole brillante. Sembrava mattina tardi; il terreno, sotto i piedi, era verde, e su un lato si vedevano filari fitti di alberi che facevano pensare ad un frutteto. Dalla parte opposta si scorgeva, in lontananza, la spiaggia.
In aria si sentiva un ronzio lieve, come di insetti, e lo sbatter d’ali di uccelli, o in ogni caso di creature volanti. Da una particolare direzione arrivava il rumore secco di qualcosa che poteva essere un attrezzo agricolo.
Pelorat fu il primo a parlare. Non badò né a ciò che vedeva, né a ciò che sentiva, ma inspirando aria disse: — Ah, che buon odore, come di torta di mele appena cotta!
Trevize disse: — Quegli alberi probabilmente sono meli e per quanto ne sappiamo noi in questo momento qualcuno potrebbe stare cuocendo una torta di mele.
— Sulla vostra nave invece c’era un odore di... Be’, insomma, un odoraccio tremendo — disse Bliss.
— Non vi siete lamentata, quando eravate a bordo — ringhiò Trevize.
— Per una questione di educazione: ero vostra ospite.
— E qui l’educazione non vale più?
— Qui sono sul mio mondo. Siete voi gli ospiti. Siete voi che vi dovete comportare come persone educate.
— Probabilmente ha ragione a proposito del puzzo, Golan — disse Pelorat. — Non c’è modo di dare aria alla nave?
— Sì — disse Trevize, irritato. — Si può fare, se questa piccoletta ci assicura che nessuno toccherà la “Far Star”. Ci ha già dimostrato di poter esercitare un controllo notevole sulla nave.
Bliss drizzò la schiena al massimo. — Non sono poi così piccola — disse, — e se per ripulire la nave avete bisogno che non sia toccata da nessuno, vi assicuro che sarà un piacere per me fare in modo che nessuno le si avvicini.
— E dopo ci potete accompagnare dalla persona che chiamate Gaia? — disse Trevize.
Bliss apparve divertita. — Non so se ci crederete, ma sono io Gaia.
Trevize la fissò. Aveva sentito ed usato innumerevoli volte l’espressione «raccogliere le idee», ma in quel momento, per la prima volta nella sua vita, ebbe la sensazione di stare raccogliendole letteralmente. Alla fine disse: — Voi?
— Sì, io. E la terra. E quegli alberi. E quel coniglio tra l’erba, laggiù. E l’uomo che si intravede fra gli alberi. L’intero pianeta e tutto quanto ci sia sopra è Gaia.
Siamo individui, siamo organismi separati, ma condividiamo tutti una coscienza globale. La materia inorganica del pianeta è meno di tutti partecipe di questa coscienza e gli esseri umani ne sono partecipi più di tutti, ma ognuno contribuisce all’insieme.
— Credo che intenda dire che Gaia sia una specie di coscienza collettiva, Trevize
— disse Pelorat.
Trevize annuì. — L’avevo capito. In tal caso, Bliss, chi governa questo mondo?
— Si governa da solo — disse lei. — Quei meli crescono in filari regolari di comune accordo. Si riproducono solo quel tanto che serva a riempire gli spazi vuoti lasciati dagli alberi che muoiono. Gli esseri umani raccolgono la quantità di mele di cui hanno bisogno; altri animati, compresi gli insetti, mangiano la loro parte, e solo quella.
— Non mi direte che gli insetti sappiano quale sia la loro parte? — disse Trevize.
— Sì, in certo modo lo sanno. Piove quando è necessario; a volte ci sono periodi di piogge più intense e prolungate, a volte periodi di siccità. Entrambi si verificano quando è necessario.
— Anche la pioggia sa cosa deve fare?
— Sì — disse Bliss, serissima. — Non è forse vero che nel vostro corpo tutte le varie cellule sappiano cosa debbano fare? Sanno quando moltiplicarsi e quando smettere di moltiplicarsi, quando creare certe sostanze e quando no, e quando le creano sanno perfettamente in che quantità vadano create. Ciascuna cellula è, fino a un certo grado, una fabbrica chimica indipendente, ma tutte quante attingono ad un fondo comune di materie prime che vengono portate loro attraverso un sistema di trasporto comune; tutte quante versano i rifiuti in canali comuni, tutte quante danno un contributo alla coscienza collettiva globale.
— Straordinario — disse Pelorat con entusiasmo. — State dicendo che il pianeta sia un superorganismo e che voi siate una cellula di questo superorganismo?
— Era solo un’analogia. Siamo come cellule, ma non siamo veramente cellule, capite?
— In che senso non siete cellule? — disse Trevize.
— Nel senso che esiste, come ho detto, una coscienza collettiva, ma ne esiste anche una individuale, la coscienza del singolo organismo, nel mio caso un essere umano...
— Per il cui corpo gli uomini smaniano.
— Esatto. Questa coscienza è enormemente più avanzata di quella di una singola cellula. Il fatto che ciascuno di noi faccia parte di un’entità ancora più grande che si trova su un livello più alto non ci riduce al rango di cellule. Io rimango un essere umano; al di sopra di noi però c’è questa consapevolezza collettiva che supera di molto la mia comprensione, tanto quanto la mia consapevolezza individuale supera quella, che so, di una cellula muscolare del mio braccio.
— Però qualcuno avrà pure ordinato di prendere il controllo della nostra nave — disse Trevize.
— No, non qualcuno. L’ha ordinato Gaia. L’abbiamo ordinato noi.
— Anche gli alberi e la terra, Bliss?
— Hanno contribuito in grado minimo, ma hanno contribuito. Sentite, quando un musicista compone una sinfonia voi gli chiedete quale cellula particolare del suo corpo abbia ordinato di comporre la sinfonia ed abbia sovrinteso alla sua creazione?
— A quanto ho capito — disse Pelorat, — la mente collettiva, chiamiamola così, della coscienza collettiva è molto più forte di una mente individuale, proprio come un muscolo è molto più forte di una singola cellula muscolare. Di conseguenza Gaia ha potuto impadronirsi a distanza della nostra nave assumendo il controllo del computer, cosa che nessuna mente individuale del pianeta avrebbe mai potuto fare, vero?
— Avete compreso perfettamente, Pel — disse Bliss.
— Anch’io ho compreso — disse Trevize. — Non è poi così difficile. Ma che cosa volete da noi? Non avevamo intenzione di attaccarvi. Eravamo venuti a cercare informazioni. Perché vi siete impadroniti della nave?
— Volevamo parlare con voi.
— Non potevamo parlare già a bordo della “Far Star”?
Bliss scosse la testa, con aria grave. — Non sono io che vi devo parlare.
— Ma non fate parte della mente collettiva?
— Sì, ma non so volare come un uccello, ronzare come un insetto o diventare alta come un albero. Faccio ciò che sono più adatta a fare, e non sono particolarmente adatta a darvi le informazioni che cercate. Se ne fossi stata incaricata, avrei potuto darvele tranquillamente.
— Chi ha deciso di non attribuirvi questo incarico?
— Noi tutti.
— Chi ci fornirà le informazioni, allora?
— Dom.
— E chi è Dom?
— Il suo nome per esteso è Endomandiovizamarondeyaso eccetera eccetera — disse Bliss. — Persone diverse lo chiamano con sillabe diverse usandone alcune in certi periodi ed altre in altri, ma io lo conosco come Dom e penso che anche voi ricorrerete a questa abbreviazione. Dom partecipa della coscienza collettiva forse più di qualsiasi altro abitante del pianeta, e vive in quest’isola. Ha chiesto di vedervi e gli è stato concesso.
— Chi gliel’ha concesso? — disse Trevize. Poi, rispondendosi da solo, aggiunse:
— Sì, lo so: voi tutti.
Bliss annuì.
— Quando andiamo da Dom? — chiese Pelorat.
— Subito. Se mi seguite, vi accompagno da lui adesso, Pel. Ed anche voi naturalmente, Trev.
— E dopo ve ne andrete? — disse Pelorat.
— Non volete che me ne vada, Pel?
— A dire la verità, no.
— Vedete? — disse Bliss, guidandoli lungo una strada dal fondo liscio che costeggiava il frutteto. — Gli uomini mi si affezionano in men che non si dica.
Persino anziani signori dignitosi si fanno prendere da ardori giovanili.
Pelorat rise. — Non farei troppo affidamento sui miei ardori giovanili, Bliss, ma se li avessi sul serio preferirei averli per causa vostra che per causa di qualcun’altra.
— Oh, non sottovalutate i vostri ardori — disse Bliss. — Io faccio miracoli, sapete?
Spazientito, Trevize disse: — Una volta che saremo arrivati per quanto tempo dovremo aspettare questo Dom?
— È lui che ha aspettato ed aspetta voi. Dopotutto Dom, attraverso Gaia, si è dato da fare per anni per avervi qui.
Trevize si fermò di colpo, mentre camminava, e lanciò un’occhiata a Pelorat, che sussurrò, con voce inudibile: — Avevate ragione.
Bliss, che guardava dritto davanti a sé, disse calma: — Lo so Trev che sospettavate che io/noi/Gaia fossimo interessati a voi.
— Io/noi/Gaia? — disse Pelorat, perplesso.
Lei si girò verso di lui e gli sorrise. — Usiamo una ricca serie di pronomi diversi per esprimere le sfumature di individualità che esistono su Gaia. Potrei illustrarveli, ma intanto io/noi/Gaia dà già un’idea. anche se approssimativa, di quello che voglio dire. Vi prego Trev, continuate a camminare. Dom sta aspettando e non desidero costringere le vostre gambe a muoversi contro la vostra volontà: è una sensazione spiacevole, per uno che non ci sia abituato.
Trevize si mosse, lanciando a Bliss un’occhiata carica di sospetto.
Dom era un uomo anziano. Snocciolò velocemente le duecentocinquantatré sillabe del suo nome con un impasto musicale pieno di espressività ed enfasi.
— In un certo senso — disse, — il mio nome è una breve biografia di me stesso.
Racconta a colui che ascolta, o legge, o percepisce coi sensi, chi io sia, che parte abbia avuto nel tutto, che cosa abbia realizzato. Da più di cinquant’anni però mi chiamano Dom, e ne sono soddisfatto. Quando c’è in giro qualche altro Dom mi si può chiamare Domandio, e nelle mie varie relazioni professionali lascio usare diverse altre abbreviazioni. Una volta ogni anno gaiano, il giorno del mio compleanno, il mio nome viene, per esteso, recitato-con-la-mente come l’ho appena recitato per voi con la voce. Fa molta impressione, ma personalmente è imbarazzante.
Era un uomo alto e così magro da sembrare quasi denutrito. Gli occhi infossati brillavano di una luce curiosamente giovanile, che contrastava con i movimenti piuttosto torpidi del corpo. Il naso prominente era lungo ed affilato, con narici larghe.
Le mani, benché avessero le vene in rilievo, non mostravano segni di deformazione artritica. Il vecchio indossava una tunica grigia come i suoi capelli, che gli arrivava alle caviglie. Calzava sandali che lasciavano le dita scoperte.
— Che età avete, signore? — chiese Trevize.
— Vi prego di chiamarmi Dom, Trev. Usare appellativi è troppo formale e frena il libero scambio di idee tra voi e me. In anni galattici standard ho appena compiuto i novantatré, ma la festa vera ci sarà fra alcuni mesi, quando arriverò al mio novantaseiesimo anno gaiano.
— Non vi davo più di settantacinque anni, sig... Dom — disse Trevize.
— Secondo il metro gaiano non sono eccezionale né per l’età che ho, né per l’età che dimostro, Trev. Bene, abbiamo finito tutti di mangiare?
Guardando il suo piatto, sul quale erano rimasti gli avanzi abbastanza consistenti di un pasto poco gustoso e preparato con poca cura, Pelorat disse con una certa titubanza: — Dom, vorrei farvi una domanda forse imbarazzante. Se vi suona offensiva vi prego di dirlo subito, e la ritirerò immediatamente.
— Dite pure — fece Dom, con un sorriso. — Sono ansioso di rispondere a tutte le vostre domande su Gaia.
— Come mai? — disse Trevize.
— Perché siete ospiti di riguardo. Allora, qual è la domanda, Pel?
Pelorat disse: — Poiché su Gaia tutte le cose sono partecipi della coscienza collettiva, come potete voi, che siete un elemento di tale coscienza, mangiare un altro elemento che partecipi di essa?
— L’osservazione è giusta, ma tutto segue un ciclo. Noi dobbiamo mangiare e le cose che si possono mangiare, siano esse vegetali od animali o condimenti privi di un’anima, fanno parte di Gaia. Però, vedete, niente viene ucciso per sfizio o per sport, e nessuna creatura viene fatta soffrire inutilmente prima di essere uccisa. E non ci preoccupiamo affatto di migliorare il sapore dei cibi con lunghe preparazioni, in quanto mangiamo soltanto perché dobbiamo farlo. Forse voi due non avete gustato questo pranzo; d’altra parte un pasto non dev’essere gustato, bensì solo consumato.
«E poi, ciò che è mangiato continua in fin dei conti ad esistere nella coscienza planetaria. Poiché parti di esso vengono incorporate dal nostro organismo, esso partecipa della coscienza totale in misura maggiore di prima. Quando moriamo, anche noi siamo mangiati a nostra volta, anche se solo dai batteri di putrefazione, e veniamo quindi a partecipare della coscienza globale in misura assai più piccola di prima. Si sa però che un giorno parti di noi diventeranno parti di altri esseri umani.
— Una specie di trasmigrazione delle anime — disse Pelorat.
— Una specie di cosa, Pel?
— Mi riferisco ad un antico mito di cui si parla su alcuni mondi.
— Ah, non ne so niente. Spero che troverete il tempo di parlarmene, una volta o l’altra.
— Però la vostra coscienza individuale non si ricostituirà mai più — disse Trevize. — Voi, come Dom, non esisterete più.
— No, naturalmente. Ma che importanza ha? Continuerò sempre a far parte di Gaia, ed è questo che conta. Alcuni mistici si chiedono se non potremmo fare in modo da sviluppare memorie collettive di esistenze passate, ma il giudizio-di-Gaia è che una cosa del genere sarebbe difficilmente realizzabile in pratica, e poi non servirebbe a niente. Renderebbe solo meno chiara la coscienza presente. Certo, poiché le condizioni cambiano, anche il giudizio-di-Gaia potrà cambiare, ma a mio avviso questo non avverrà in un futuro vicino.
— Che senso ha che moriate, Dom? — disse Trevize. — Guardate in che ottime condizioni siete, alla vostra venerabile età. La coscienza collettiva non potrebbe...
Per la prima volta, Dom aggrottò la fronte. — No — disse. — Il mio contributo deve arrivare solo fino ad un certo punto. Ogni nuovo individuo rappresenta un rimescolamento completo di molecole e di geni. Nuovi talenti e nuove capacità si aggiungono così alla coscienza globale; sono necessari, e l’unico modo per averli è fare loro spazio. Ho dato un contributo maggiore di quello di molti altri, ma anch’io ho il mio limite, ed esso si sta avvicinando. Desidero vivere il tempo assegnatomi, non oltre e non meno.
Come accorgendosi di avere introdotto una nota di tristezza nella conversazione, Dom si alzò e tese le mani verso i suoi ospiti. — Venite, Trev e Pel — disse. — Andiamo nel mio studio, dove voglio mostrarvi alcuni dei miei oggetti artistici. Spero perdonerete ad un vecchio le sue piccole vanità.
Li accompagnò in un’altra stanza dove, su un tavolino rotondo, erano posate varie coppie di lenti affumicate.
— Queste — disse Dom, — sono Partecipazioni realizzate da me. Non sono un maestro, ma mi sono specializzato in inanimati, che ai maestri in genere interessano poco.
— Posso esaminare un paio di lenti? — chiese Pelorat. — Sono fragili?
— No, no, potete anche farle rimbalzare sul pavimento, se volete. O anzi è meglio di no, perché il colpo potrebbe attenuare la nitidezza della visione.
— Come si usano, Dom?
— Mettete le lenti sugli occhi e vedrete che aderiranno. Non trasmettono la luce, fanno piuttosto il contrario. Oscurano quella luce che potrebbe distrarvi, anche se effettivamente le sensazioni raggiungono il vostro cervello attraverso il nervo ottico.
In sostanza la vostra coscienza si affina e riesce a cogliere altre sfaccettature di Gaia.
In altre parole, se proverete a guardare il muro sentirete come il muro appaia a se stesso.
— Affascinante — mormorò Pelorat. — Posso fare l’esperienza?
— Certo. Prendete pure un paio di lenti a caso. Ogni paio ha le sue peculiarità e vi mostra il muro, o qualsiasi altro oggetto inanimato che guardiate, in un aspetto diverso della sua coscienza.
Pelorat mise le lenti sugli occhi ed esse aderirono subito. Pelorat sussultò al contatto, poi rimase immobile per lungo tempo.
— Quando avete finito — disse Dom, — posate le mani su ciascun lato della Partecipazione e premete l’una verso l’altra. Le lenti verranno via subito.
Pelorat seguì le istruzioni. Batté gli occhi più volte, poi se li stropicciò.
— Che cosa avete provato? — chiese Dom.
— È difficile da descrivere — disse Pelorat. — Il muro sembrava brillare e luccicare, e a volte diventare fluido. Pareva avere nervature e simmetrie cangianti.
Mi... mi dispiace, Dom, ma non l’ho trovata un’esperienza affascinante.
Dom sospirò. — Voi non siete partecipe di Gaia e quindi non vedete quello che vediamo noi. Avevo temuto che potesse essere così. Peccato. Vi assicuro che queste Partecipazioni, anche se assolvono soprattutto una funzione estetica, hanno anche i loro usi concreti. Un muro felice è un muro pratico, utile, e che dura a lungo.
— Un muro felice? — disse Trevize, con un sorrisino.
— Abbiamo la vaga sensazione che i muri provino qualcosa di analogo a quello che definiamo felicità — disse Dom. — Un muro è felice quando è stato ben progettato, quando poggia solidamente sulle sue fondamenta, quando le sue parti sono simmetriche l’una rispetto all’altra e non ci sono spiacevoli tensioni. I princìpi matematici della meccanica consentono di elaborare sulla carta il progetto giusto, ma l’uso di una Partecipazione adatta ci permette di percepire il muro fin nelle sue dimensioni atomiche. Qui su Gaia nessuno scultore può produrre opere di prima qualità senza una Partecipazione di ottima fattura. Quelle che creo io, del tipo particolare che avete visto, sono considerate eccellenti, anche se non starebbe a me dirlo.
— Le Partecipazioni animate, che non rientrano nel mio campo — continuò Dom con l’entusiasmo di chi parla del suo hobby preferito, — ci procurano, analogamente, un’esperienza diretta dell’equilibrio ecologico. L’equilibrio ecologico su Gaia è abbastanza semplice, come su tutti gli altri mondi del resto. Qui però, se non altro, abbiamo la speranza di renderlo più complesso e di arricchire così enormemente la coscienza globale.
Trevize alzò una mano per prevenire Pelorat e impedirgli di parlare. — Come sapete che un pianeta può sostenere un equilibrio ecologico più complesso, se tutti quanti ce l’hanno semplice?
— Volete mettermi alla prova, eh? — disse Dom con una luce maliziosa negli occhi. — Sapete quanto me che il pianeta d’origine dell’umanità, la Terra, aveva un equilibrio ecologico straordinariamente complesso. Sono i mondi secondari, i mondi colonizzati in seguito, ad averlo elementare.
Benché poco prima fosse stato messo a tacere da Trevize, Pelorat non poté fare a meno d’intervenire. — Ma è proprio il problema che mi sono posto per tutta la vita!
Come mai solo la Terra aveva un’ecologia complessa? Che cosa la rendeva diversa dagli altri mondi? Perché milioni e milioni di altri pianeti abitabili hanno dato origine unicamente ad una vegetazione primitiva e a forme di vita animale non intelligenti?
— Da noi c’è una storia che cerca di spiegare questo mistero — disse Dom. — Una favola, probabilmente: non sarei pronto a giurare sulla sua veridicità. Anzi, tutto fa pensare che si tratti di un racconto inventato.
In quella Bliss, che non aveva partecipato al pranzo, entrò, sorridendo a Pelorat Indossava una camicetta intessuta d’argento, molto trasparente.
Pelorat si alzò subito. — Credevo che ve ne foste andata.
— No. Dovevo stendere alcuni rapporti, sbrigare del lavoro. Posso unirmi anch’io alla conversazione, Dom?
Dom si era alzato a sua volta (mentre Trevize era rimasto seduto). — Certo, sei la benvenuta. Tu incanti questi miei vecchi occhi.
— È per incantarli che ho messo questa camicetta. Pel è al di sopra di queste cose, e Trev le detesta.
— Voi dite che io sia al di sopra di queste cose, Bliss, ma un giorno potrei sorprendervi — disse Pelorat.
— Sarebbe una sorpresa meravigliosa — disse Bliss, sedendosi. — Vi prego, continuate pure il vostro discorso.
I due uomini si sedettero. Dom disse: — Stavo per raccontare ai nostri ospiti la storia dell’Eternità. Per capirla bisogna partire dal concetto che esistano molti universi differenti, anzi un numero praticamente infinito di universi. Ogni singolo evento può verificarsi o non verificarsi e, se si verifica, può verificarsi in un modo oppure in un altro. E ciascuna delle innumerevoli alternative porterà a svolgimenti futuri degli avvenimenti che saranno, almeno fino a un certo grado, diversi l’uno dall’altro.
«Bliss sarebbe potuta non entrare in questo momento. Sarebbe potuta entrare un po’ prima, o molto prima. Oppure, essendo entrata sempre in questo momento, avrebbe potuto indossare una camicetta diversa. Od ancora, pur avendo la stessa camicetta addosso avrebbe potuto non sorridere maliziosamente a noi anziani, come invece il suo cuore generoso l’ha indotta a fare. A ciascuna di queste alternative o a ciascuna delle innumerevoli altre alternative che si possono contemplare per questo singolo evento corrisponde un differente corso dell’universo, e lo stesso vale per tutte le altre variazioni di tutti gli altri eventi, per quanto piccoli siano.
Trevize si mosse sulla sedia. — Mi risulta che questa sia una teorizzazione comune in meccanica quantistica. Una teorizzazione, anzi, di antichissima data.
— Ah, ne avete sentito parlare. Ma procediamo col racconto. Immaginiamo che agli esseri umani sia consentito “congelare” tutti i vari universi, passare a proprio piacimento dall’uno all’altro e scegliere quale di essi vada reso “reale”, qualunque significato si decida di dare a tale parola in questo contesto.
— Capisco il vostro discorso e riesco anche a immaginarmi quanto teorizzate — disse Trevize. — ma non credo neppure lontanamente che una cosa del genere possa verificarsi sul serio.
— Nemmeno io, in linea di massima — disse Dom. — ed è per questo che dico che si tratti molto probabilmente di una leggenda. In ogni modo, la leggenda dice che esistevano persone le quali erano in grado effettivamente di uscire dal tempo e di esaminare le innumerevoli gugliate di realtà potenziale. Queste persone erano dette gli Eterni e quando erano fuori dal tempo si diceva fossero nell’Eternità.
«Loro compito era scegliere una Realtà che fosse particolarmente adatta agli esseri umani. Operarono infinite modifiche, descritte dettagliatamente dalla leggenda, che è in forma di interminabile poema epico. Alla fine trovarono un universo in cui la Terra fosse l’unico pianeta della Galassia ad avere un sistema ecologico complesso e ad ospitare una specie intelligente capace di evolversi e di sviluppare una tecnologia avanzata.
«Decisero che quella era la situazione più sicura per gli uomini. Congelarono quel particolare concatenamento di avvenimenti, definendolo Realtà, e poi sospesero ogni intervento. Oggi viviamo in una Galassia che è stata colonizzata soltanto dagli esseri umani e, fino ad un certo grado, dalle piante, dagli animali e dagli organismi microscopici che gli umani hanno portato volontariamente o involontariamente con sé nella loro odissea spaziale, e che in genere hanno avuto il sopravvento sulle forme di vita indigena.
«Da qualche parte tra le nebbie vaghe della probabilità ci sono altre Realtà in cui la Galassia ospita molte intelligenze, ma tali Realtà non sono raggiungibili. Noi, nella nostra, siamo soli. Da ogni azione e da ogni evento di questa Realtà si dipartono nuove diramazioni, fra le quali, in ciascun caso separato, solo una è la continuazione della Realtà stessa. Così, ci sono innumerevoli, forse addirittura infiniti universi potenziali che derivano dal nostro, ma tutti quanti probabilmente hanno, come noi, una Galassia dove domina un’unica intelligenza. O magari dovrei dire invece che solo una percentuale infinitesima di universi potenziali è accomunata dalla suddetta caratteristica, perché è pericoloso escludere ipotesi quando si è di fronte a un numero pressoché infinito di possibilità.
S’interruppe, si strinse lievemente nelle spalle, e aggiunse: — Ecco, questa è la storia, che risale a prima della fondazione di Gaia. Come vi ho detto, non sarei pronto a giurare sulla sua veridicità.
Gli altri tre avevano ascoltato con attenzione. Bliss fece un cenno di assenso con la testa, come se, avendo già sentito altre volte la storia, stesse controllando l’esattezza del racconto di Dom.
Pelorat rimase zitto per quasi un intero minuto, poi strinse la mano a pugno e la batté sul braccio della poltrona.
— Questa storia lascia le cose come stanno — disse, con voce roca. — Non c’è modo di dimostrare che sia vera né con osservazioni pratiche, né col ragionamento, per cui non può avere altro valore che quello di un speculazione teorica. Ma supponiamo che sia vera e partiamo dall’ipotesi che l’universo in cui ci troviamo sia un universo in cui solo la Terra abbia dato origine ad una specie intelligente. È evidente allora che, sia il nostro universo l’unico in assoluto o solo uno dei tanti possibili, la Terra dovrà avere qualcosa di particolare che la distingua da tutti gli altri pianeti. E il nostro desiderio di sapere che cosa sia questa particolarità resta immutato.
Dopo qualche attimo di silenzio, Trevize scosse la testa e disse: — No, Janov, non è così che stanno le cose. Poniamo che ci fosse una probabilità su un miliardo di trilioni, ovvero una probabilità su dieci alla ventunesima, che fra gli innumerevoli pianeti abitabili della Galassia unicamente la Terra, a opera del caso, sviluppasse un’ecologia complessa e ospitasse alla fine una specie intelligente. Allora solo uno su dieci alla ventunesima dei vari percorsi di Realtà potenziali corrisponderebbe a una Galassia del genere, e gli Eterni la sceglierebbero. Che cosa si deduce da questo? Che viviamo in un universo dove la Terra sia l’unico pianeta ad avere dato origine ad una specie intelligente non perché la Terra stessa abbia qualcosa di speciale, ma perché per puro caso la vita intelligente si sia sviluppata su essa e non altrove. Anzi, credo che ci siano percorsi di Realtà nei quali solo Gaia, o Sayshell, o Terminus abbiano dato origine ad una specie intelligente; solo pianeti, insomma, che in questa Realtà erano sterili. E tutti questi casi specialissimi sono una percentuale infinitesima del numero totale di Realtà in cui le specie intelligenti della Galassia sono diverse. Penso che esaminando più a lungo le varie possibilità gli Eterni avrebbero trovato un percorso potenziale di Realtà in cui ogni singolo pianeta abitabile avrebbe dato origine a una specie intelligente.
— Però si potrebbe anche sostenere questo — disse Pelorat, — che gli Eterni abbiano trovato una Realtà in cui la Terra non fosse come in altri percorsi, ma era per qualche motivo particolarmente adatta allo svilupparsi di una specie intelligente.
Anzi, si può andare più in là ed affermare che abbiano trovato una Realtà in cui la Galassia si trovasse ad uno stadio di sviluppo tale da permettere alla sola Terra di produrre l’intelligenza.
— Sì, questo si può sostenere — disse Trevize, — ma mi pare che la versione che ho dato io sia più plausibile.
— È un punto di vista del tutto soggettivo, ovviamente... — replicò Pelorat, piuttosto accalorato, ma Dom l’interruppe dicendo: — Sono disquisizioni logiche che lasciano il tempo che trovano. Su, non roviniamo quella che si sta rivelando, almeno per me, una piacevole serata.
Pelorat si sforzò di reprimere l’irritazione che il discorso di Trevize gli aveva procurato ed alla fine riuscì a sorridere. — Come volete voi, Dom — disse.
Trevize, che nel frattempo aveva lanciato ripetute occhiate a Bliss, la quale se ne stava seduta con le mani in grembo e con un’aria di tranquillo sfottò disse: — E questo vostro mondo com’è nato, Dom? Com’è nata Gaia, con la sua coscienza collettiva?
Dom buttò la testa indietro e proruppe in una risata lievemente stridula. Poi corrugò la fronte e disse: — Favole, ancora favole! Ogni tanto rifletto su questo fatto, quando leggo i documenti che parlano della storia umana. Per quanto il materiale sia tenuto con cura negli archivi, e computerizzato, col tempo i suoi contorni si fanno sempre più indistinti e non si riesce più a capire che cosa sia vero e che cosa falso.
Nuovi racconti si aggiungono in continuazione, come la polvere sui mobili. Più il tempo passa, più la storia diventa polverosa, finché degenera in favola.
— Noi storici conosciamo bene questo processo. Dom — disse Pelorat. — C’è come una preferenza per la favola. «Il suggestivo frutto d’immaginazione scaccia il monotono che risponde a realtà», disse Liebel Gennerat circa quindici secoli fa. Oggi la chiamano la Legge di Gennerat.
— Davvero? — disse Dom. — Ed io che credevo di essere l’unico a nutrire questa sfiducia nella storia. Bene, la Legge di Gennerat riempie il passato di Gaia di fascino e incertezza. Sapete che cosa sia un robot?
— L’abbiamo imparato su Sayshell — disse Trevize, secco.
— Ne avete visto uno?
— No. Ci è stata rivolta questa stessa domanda, e quando abbiamo risposto negativamente, ci sono state date spiegazioni.
— Capisco. Gli esseri umani un tempo vivevano con i robot, sapete, ma era una convivenza difficile.
— Così ci è stato detto.
— I robot seguivano strettamente le cosiddette Tre Leggi della Robotica, la cui formulazione risale addirittura alla preistoria. Ci sono giunte diverse versioni di queste Tre Leggi. Quella reputata esatta dice che, primo: il robot non può né fare del male agli esseri umani, né permettere che, a causa della propria colpevole inerzia, gli esseri umani subiscano un danno; secondo: il robot deve obbedire agli ordini ricevuti dagli esseri umani, tranne nel caso in cui tali ordini contravvengano alla Prima Legge; terzo: il robot deve difendere la propria esistenza, purché così facendo non contravvenga alla Prima od alla Seconda Legge.
«A mano a mano che i robot diventavano più intelligenti e versatili, interpretavano le Tre Leggi e soprattutto la Prima, che condiziona le altre, in senso sempre più lato; in una parola, finirono per considerarsi i protettori dell’umanità. La loro protettività diventò soffocante per la gente, od addirittura insopportabile. I robot erano di una gentilezza squisita. I loro servizi erano chiaramente dettati da spirito altruistico e volti a beneficare tutta la comunità umana, il che, per qualche motivo, li rendeva ancora più intollerabili.
«I miglioramenti tecnici che furono messi a punto nel campo della robotica peggiorarono la situazione. Furono costruiti robot con capacità telepatiche; ciò significava che anche il pensiero umano poteva essere sottoposto a controllo, sicché il comportamento degli uomini era sempre più soggetto alla supervisione dei robot.
Inoltre, i robot diventarono sempre più simili d’aspetto agli uomini, tuttavia nel comportamento erano inconfondibilmente robot, per cui il contrasto li rendeva ripugnanti. Era inevitabile, quindi, che si dovesse giungere a un epilogo amaro.
— Perché inevitabile? — chiese Pelorat, che aveva ascoltato con molta attenzione.
— Perché l’epilogo lo vuole la logica della vicenda — disse Dom. — I robot, ulteriormente perfezionati, diventarono abbastanza umani da capire perché gli uomini si seccassero moltissimo di essere privati di tutto ciò che fosse umano in nome del loro bene. A lungo andare essi finirono per pensare che l’umanità sarebbe stata meglio lasciata a se stessa, anche se questo l’avrebbe portata ad agire sconsideratamente ed inefficacemente. Furono quindi loro, secondo la leggenda, a fondare l’Eternità ed a diventare gli Eterni. Scelsero la Realtà che ritenevano più sicura per gli esseri umani, quella in cui l’uomo era l’unica creatura intelligente della Galassia. Poi, avendo fatto ciò che potevano per proteggerci, in ottemperanza totale alla Prima Legge decisero di comune accordo di smettere di funzionare. E da allora ci siamo stati soltanto noi uomini; abbiamo fatto progressi nei limiti delle nostre possibilità, ma sempre da soli.
Dom fece una pausa. Guardò prima Trevize, poi Pelorat, e disse: — Allora, credete a tutta questa storia?
Trevize scosse lentamente la testa. — No. Di queste vicende non si parla in nessun documento storico di cui abbia anche vaga conoscenza. E voi, Janov, che ne pensate?
— Ci sono miti che per certi versi sono simili a questo — disse Pelorat.
— Via, Janov, ci sono miti che possono somigliare a qualunque cosa uno di noi decida di inventare; basta essere abbastanza ingegnosi e tendenziosi nell’interpretazione. Io vi chiedo se i documenti storici degni di affidamento accennino ad avvenimenti del genere.
— No, che io sappia.
— Non mi sorprende — disse Dom. — Prima che i robot si ritirassero definitivamente, numerosi gruppi di esseri umani partirono alla volta di pianeti senza robot, da colonizzare; era il loro modo di affrancarsi e di riconquistare la libertà.
Questi gruppi provenivano soprattutto dalla sovrappopolata Terra, la quale aveva alle spalle una lunga storia di lotta contro gli automi. I nuovi mondi colonizzati preferirono dimenticare, non tenere alcuna documentazione di quanto fosse successo; i colonizzatori non avevano alcuna voglia di ricordare l’amara umiliazione subita da parte dei robot, i quali in pratica avevano fatto da bambinaia agli esseri umani.
— Lo ritengo assai improbabile — disse Trevize.
Pelorat si girò verso di lui. — No, Golan, non è affatto improbabile. Ciascuna società crea la sua propria storia e tende a cancellare le tracce delle sue origini poco gloriose o facendo finta che non ci siano mai state, o inventando storie completamente fittizie piene di imprese eroiche e incomparabili. Il governo imperiale cercò di sopprimere le notizie riguardanti il passato pre-imperiale per accreditare l’idea mistica che l’Impero esistesse da sempre. Poi, per esempio, non abbiamo quasi alcun documento che testimoni dell’epoca precedente il volo iperspaziale. E voi sapete che la maggior parte della gente, oggi, non sa nemmeno dell’esistenza della Terra.
— Il vostro discorso non è logico, Janov — disse Trevize. — Se tutta quanta la Galassia si è dimenticata dei robot, come mai Gaia se ne ricorda?
Bliss scoppiò d’un tratto in una risata argentina. — Perché noi siamo diversi — disse.
— Sì? — disse Trevize. — In che senso?
— Su, Bliss, questo argomento lascialo a me — disse Dom. — Noi siamo effettivamente diversi, uomini di Terminus. Fra tutti i profughi che cercavano di sfuggire alla dominazione dei robot, noi che raggiungemmo Gaia (seguendo l’itinerario di altri che raggiunsero Sayshell) eravamo gli unici ad avere imparato dai robot l’arte della telepatia. Perché è un’arte, sapete. È una facoltà innata nella mente umana, ma va coltivata con cura e meticolosità estreme. Perché raggiunga il suo potenziale massimo occorrono gli sforzi di molte generazioni, ma una volta che il meccanismo è avviato, si alimenta da solo. Noi pratichiamo quest’arte da più di ventimila anni e il giudizio-di-Gaia è che il potenziale massimo non sia stato ancora raggiunto. Fu tanto tempo fa che l’esercizio della facoltà telepatica ci portò a capire che esistesse una coscienza collettiva. Prima ci rendemmo conto soltanto dell’apporto degli esseri umani, poi di quello degli animali e delle piante, ed infine, non molti secoli fa, di quello della struttura inanimata del pianeta.
«Poiché sapevamo che l’arte ci era stata trasmessa dai robot, non ci dimenticammo di loro. Li consideravamo non già delle bambinaie, ma dei maestri, perché avevano aperto la nostra mente a qualcosa di prezioso cui non ci saremmo sentiti di rinunciare neanche un momento. Li ricordiamo con gratitudine.
— Però — disse Trevize, — proprio come una volta eravate dei bambini rispetto ai robot, adesso siete dei bambini rispetto alla coscienza collettiva. Non avete perso la vostra umanità, così come la perdeste allora?
— È diverso, Trev. Ciò che facciamo ora lo facciamo per nostra libera scelta, ed è questo che conta. Nessuno ci forza dall’esterno: è la nostra volontà che ci guida dall’interno. È un fatto importante, questo, che abbiamo sempre presente. E siamo diversi anche sotto un altro profilo: il nostro pianeta è unico, nella Galassia. Non ci sono altri mondi come Gaia.
— Come potete esserne sicuro?
— Perché se così non fosse lo sapremmo. Capteremmo una coscienza planetaria come la nostra anche se si trovasse all’altro capo della Galassia. Abbiamo ad esempio individuato i primi segni di una coscienza del genere nella Seconda Fondazione, circa due secoli fa.
— All’epoca del Mulo?
— Sì, uno di noi — disse Dom, torvo. — Era un criminale e se ne andò. Fummo abbastanza ingenui da pensare che non l’avrebbe mai fatto, così non intervenimmo in tempo per fermarlo. Poi, quando rivolgemmo la nostra attenzione verso i Mondi Esterni, ci accorgemmo di quella che chiamate la Seconda Fondazione e lo lasciammo nelle sue mani.
Trevize rimase con gli occhi fissi nel vuoto per qualche attimo, poi mormorò: — Ecco a che cosa servono i nostri libri di storia! — Scosse la testa e a voce più alta disse: — È stato un comportamento abbastanza vile da parte di Gaia, no? In fondo, la responsabilità era la vostra.
— Avete ragione. Ma quando finalmente ci mettemmo ad osservare la Galassia, vedemmo quello che sino allora non eravamo riusciti a vedere, per cui la tragedia del Mulo si rivelò salutare per la nostra esistenza. Fu infatti in quel momento che capimmo che un giorno avremmo attraversato una grave crisi. E infatti quella crisi è arrivata, non prima però che, grazie all’incidente del Mulo, prendessimo le dovute misure di difesa.
— Che genere di crisi è?
— Una crisi che ci minaccia di distruzione.
— Non posso crederci. Siete riusciti a rintuzzare l’Impero, il Mulo e Sayshell.
Avete una coscienza collettiva che può assumere il controllo di un’astronave distante milioni di chilometri. Che cosa mai vi può far paura? Guardate Bliss. Non sembra minimamente preoccupata. Lei non pensa sicuro che ci sia una crisi.
Bliss aveva messo una delle sue gambe snelle a cavalcioni del bracciolo e muoveva le dita dei piedi, stuzzicando Trevize.
— Certo che non sono preoccupata, Trev — disse. — Voi la fronteggerete.
— Io? — fece Trevize, incredulo.
Dom disse: — Gaia vi ha portato fin qui attraverso tante piccole manipolazioni: siete voi che dovrete affrontare e risolvere la crisi.
Trevize lo guardò fisso ed a poco a poco il suo stupore si trasformò in rabbia. — Io? Perché proprio io, di tutte le persone della Galassia? Non c’entro niente con questa faccenda.
— Eppure, Trev — disse Dom. con calma quasi ipnotica, — siete voi quello di cui abbiamo bisogno: di tutte le persone della Galassia, solo voi.