Lois McMaster Bujold L’ombra della maledizione

1

Cazaril sentì i cavalieri avvicinarsi e si voltò per dare un’occhiata. Il sentiero dietro di lui descriveva una serie di curve intorno a uno di quei rilievi arrotondati che, in quelle pianure ventose, passavano per colline, per poi tornare a scendere verso il pianeggiante suolo della Baocia, molle e fangoso a causa del clima invernale. Più a valle, la strada era attraversata da un ruscello verdognolo, troppo insignificante per meritare un ponticello tutto suo.

Cazaril constatò che il tonfo degli zoccoli, unito al tintinnare dei finimenti, allo scricchiolare delle selle e all’eco di voci noncuranti di eventuali pericoli, si stava avvicinando troppo in fretta perché potesse appartenere a qualche cauto contadino alla guida dei suoi buoi o a un convoglio di muli.

Alla fine, la colonna oltrepassò al trotto la svolta che seguiva il fianco dell’altura, e risultò composta di una dozzina di cavalieri che procedevano a coppie, sfoggiando la divisa completa del loro Ordine. Visto che non si trattava di banditi, Cazaril trasse un sospiro di sollievo, sebbene, a ben vedere, non avrebbe avuto nulla da offrire a un gruppetto di malviventi, se non un po’ di divertimento a sue spese. Lentamente si fece da parte e si fermò per assistere al passaggio della colonna.

Le argentate cotte di maglia dei cavalieri scintillavano nell’incerta luce del mattino. Erano armature da parata, coi tabarri azzurri, di una tonalità quasi uniforme, che recavano in bianco l’insegna della Signora della Primavera, mentre i mantelli grigi erano gettati all’indietro e fissati con spille d’argento perfettamente lucidate. Quei soldati-fratelli erano certamente diretti a qualche cerimonia, ed era improbabile che desiderassero sporcare la loro livrea col sangue di un umile viandante come Cazaril.

Inaspettatamente, però, giunto alla sua altezza, il capitano del contingente sollevò una mano, costringendo la colonna ad arrestarsi. La manovra fu compiuta con una certa goffaggine, e venne accompagnata da una serie di risucchi degli zoccoli nel fango, una cosa che avrebbe indotto il vecchio capostalliere del padre di Cazaril a imprecare sonoramente contro quella banda di ragazzi inesperti. Tuttavia ormai cose del genere non avevano più importanza.

«Ehi, tu, vecchio villico», chiamò il capitano, protendendosi oltre la sella del portabandiera per attirare l’attenzione di Cazaril.

Pur sapendo di essere l’unico sulla strada, Cazaril si trattenne a stento dal girare la testa per vedere a chi si stesse rivolgendo. Poi però si rese conto che i soldati dovevano averlo scambiato per qualche contadino locale, diretto al mercato o impegnato ad assolvere qualche incarico, e dovette ammettere che, in effetti, il suo aspetto era tale da avvallare una supposizione del genere. I logori stivali coperti di fango, l’assortimento di abiti spaiati, frutto di elemosina, che lo proteggevano dal gelido vento di sud-ovest — e per i quali lui era profondamente grato a tutti gli Dei — e la barba di due settimane che gli faceva prudere il mento potevano giustificare l’appellativo «villico». Anzi il capitano avrebbe potuto usare termini anche più rozzi… ma perché «vecchio»?

Il capitano del drappello indicò un punto più avanti, lungo la strada, dove un altro sentiero incrociava quello su cui si trovavano. «È quella la strada per Valenda?» chiese.

Erano trascorsi… Cazaril fu costretto a concentrarsi per contare gli anni, e il risultato lo lasciò sgomento. Diciassette anni se n’erano andati dal giorno in cui aveva percorso per l’ultima volta quella strada, diretto non verso una cerimonia, bensì verso la guerra, al seguito del Provincar della Baocia. Benché seccato che la sua cavalcatura fosse un semplice castrato e non un più appariscente destriero da guerra, a quel tempo lui era giovane, arrogante, vanesio e accurato nel vestire quanto quei giovani che lo stavano squadrando dall’alto in basso. Oggi sarei già contento di avere un asino, anche se dovrei piegare le gambe per non far strisciare i piedi nel fango, pensò.

Si concesse un sorriso nel sollevare lo sguardo sui soldati-fratelli, ben sapendo che troppo spesso quelle facciate tirate a lucido erano solo un modo per nascondere borse vergognosamente vuote.

I soldati continuarono a squadrarlo con alterigia, quasi potessero avvertire il suo odore. Del resto lui non era qualcuno su cui desiderassero fare buona impressione: non era un nobile che poteva rivelarsi generoso nei loro confronti, ma un soggetto su cui esercitarsi ad assumere un’aria sdegnosa e aristocratica. Senza dubbio, quei ragazzi stavano scambiando l’espressione con cui lui li osservava per ammirazione, o forse addirittura per stupidità.

Cazaril represse la tentazione d’indicare alla colonna la direzione sbagliata, indirizzandola verso qualche pascolo per le pecore, od ovunque andasse a finire quel bivio dall’aspetto ingannevolmente ampio: non era il caso di giocare uno scherzo del genere ad alcune guardie al servizio della Figlia. Proprio alla vigilia del Giorno della Figlia, poi. Inoltre, gli uomini che entravano a far parte dei sacri ordini militari non erano particolarmente famosi per il loro senso dell’umorismo, e lui avrebbe potato incontrarli ancora, siccome era diretto a Valenda.

«No, capitano», rispose quindi, dopo essersi schiarito la gola, perché era dal giorno prima che non rivolgeva parola ad anima viva. «La strada per Valenda è indicata da una pietra miliare del Roya che si trova qualche miglio più avanti. Non vi potete sbagliare», aggiunse, tirando fuori una mano dalle calde pieghe del cappotto per indicare. Le dita contorte però non si raddrizzarono del tutto e lui si trovò ad accennare alla strada con una mano che sembrava un artiglio. L’aria gelida gli aggredì le articolazioni gonfie, inducendolo a ritrarre in fretta l’arto nel suo nido di stoffa calda.

Il capitano rivolse allora un cenno al suo portabandiera, un individuo dalle spalle massicce, che insinuò l’asta della bandiera nell’incavo del gomito per armeggiare con la propria borsa, frugando per trovarvi una moneta di valore adeguatamente basso. Ne scelse un paio, e le stava tirando fuori per esaminarle alla luce, quando il suo cavallo ebbe un lieve scarto e una delle monete — un reale d’oro e non un vaida di rame — gli sfuggì e cadde nel fango. Sgomento, il soldato seguì con lo sguardo la traiettoria della preziosa moneta, ma subito dopo cercò di controllare la propria espressione e si trattenne dallo smontare davanti ai compagni per frugare nel fango alla ricerca del reale d’oro. Il contadino che credeva di avere davanti si sarebbe comportato così, non lui. A testa alta, l’uomo sfoggiò un sorriso acido e lo fissò, in attesa di vederlo lanciarsi alla frenetica ricerca di quella manna inattesa.

Invece Cazaril s’inchinò e disse: «La benedizione della Signora della Primavera scenda sul vostro capo, giovane signore, con lo stesso spirito con cui voi avete elargito tanta ricchezza a un povero vagabondo e con lo stesso generoso altruismo».

Se fosse stato più intelligente, forse il giovane soldato-fratello si sarebbe reso conto dell’ironia di quelle parole, e Cazaril, nei suoi presunti panni di contadino, si sarebbe guadagnato una meritata frustata in pieno volto. Ma l’espressione vacua del fratello rivelò che non c’era motivo di preoccuparsi, anche se il capitano contrasse le labbra in un’espressione esasperata, limitandosi comunque a scuotere il capo e a segnalare alla colonna di riprendere la marcia.

Se il portabandiera era stato troppo orgoglioso per inginocchiarsi nel fango, Cazaril era troppo stanco per farlo, quindi attese che anche il convoglio dei bagagli — un assortimento di servitori e di muli — fosse passato oltre, prima di accoccolarsi faticosamente per recuperare quella piccola scintilla dorata in mezzo all’acqua fredda, che cominciava già a filtrare nell’impronta lasciata da un cavallo. Per quanto si fosse mosso con cautela, le vecchie ferite sulla schiena gli causarono un intenso dolore. Per gli Dei, mi muovo come un vecchio, si disse, mentre cercava di riprendere fiato e si rimetteva in piedi, sentendosi come un centenario o come una zolla di fango sotto il tacco dello stivale del Padre dell’Inverno, pronto a lasciare il mondo.

Ripulita la piccola moneta d’oro, Cazaril tirò fuori la sacca, che era vuota, lasciò cadere il sottile disco di metallo nella sua bocca di cuoio e indugiò a contemplarne il solitario bagliore, prima di riporre la borsa con un sospiro. Adesso poteva essere derubato dai banditi: aveva di nuovo un motivo per aver paura.

Nell’avviarsi con passo incespicante lungo la strada, indugiò a meditare su quel nuovo fardello, tanto opprimente rispetto al suo peso insignificante, quasi al punto di non valere il rischio. L’oro, la tentazione dei deboli, la stanchezza dei saggi… Cosa rappresentava per quel soldato dallo sguardo ottuso, che aveva mostrato tanto imbarazzo per la propria involontaria generosità?

Cazaril lasciò vagare lo sguardo sullo spoglio panorama circostante. Soltanto sulle rive del lontano corso d’acqua crescevano alberi spogli e cespugli spinosi, scuri come il carbone nella debole luce mattutina. L’unico possibile riparo nelle vicinanze era un mulino abbandonato che sorgeva su un’altura alla sua sinistra, col tetto crollato e con le pale fatiscenti. Tuttavia, giusto per non rischiare…

Allontanatosi dalla strada, iniziò a risalire la collina. Confrontata coi passi montani che lui aveva attraversato appena una settimana prima era soltanto una collinetta, però la salita gli tolse il fiato al punto d’indurlo quasi a tornare indietro. Lassù il vento era più forte, con folate improvvise che agitavano i ciuffi dorati di secca erba invernale. Spostatosi in modo che il mulino lo proteggesse dal vento, Cazaril entrò nell’edificio e salì una scala pericolante che seguiva una parete, sbirciando poi all’esterno attraverso la finestra priva d’imposte.

Sulla strada sottostante, un uomo stava conducendo un cavallo marrone lungo il sentiero: non sembrava uno dei soldati-fratelli, bensì un servitore. Teneva le redini in una mano e un solido randello nell’altra. Possibile che fosse stato mandato dal suo padrone per recuperare la moneta d’oro a spese del vagabondo incontrato lungo la strada? L’uomo superò la curva, scomparendo al di là di essa soltanto per riapparire dopo pochi minuti. Si fermò a fissare il ruscelletto fangoso, girandosi sulla sella per scrutare i pendii deserti, prima di scuotere il capo con aria disgustata e di spronare il cavallo per raggiungere la colonna.

D’un tratto, si rese conto che stava ridendo. Era una cosa che gli pareva strana e poco familiare, un tremito impresso alle sue spalle che non derivava dal freddo o dalla paura. E notò anche un vuoto dentro di sé, una totale assenza di… cosa? D’invidia lacerante? Di ardente desiderio? Sapeva soltanto che non aveva nessuna voglia di seguire i soldati-fratelli, che non voleva più essere uno di loro. Li aveva guardati passare con assoluta indifferenza, come se stesse assistendo a uno spettacolo sulla piazza del mercato.

Per gli Dei, devo proprio essere stanco, pensò, consapevole di essere anche affamato. Mancava però ancora un buon tratto di strada, un quarto di giornata di marcia, prima di arrivare a Valenda, là dove un cambiavalute avrebbe potuto convertire il suo reale d’oro in un gruzzolo di vaida di rame, certamente più facili da spendere. Quella notte, con la benedizione della Signora, forse sarebbe riuscito a dormire in una locanda e non in una stalla, avrebbe potuto comprarsi un pasto caldo, concedersi una rasatura, e soprattutto un bagno…

Cazaril si girò verso l’interno del mulino. Dato che i suoi occhi si erano ormai abituati alla penombra, notò subito la figura che giaceva distesa sul pavimento cosparso di macerie.

Per un momento s’irrigidì, in preda al panico, ma poi si tranquillizzò, constatando che il corpo non si muoveva. Nessun uomo ancora in vita poteva rimanere immobile così a lungo, in quella strana posizione, con la schiena incurvata. A ogni buon conto, lui non aveva paura dei morti. Quanto alla causa di quella morte, però…

Nonostante l’immobilità assoluta dell’uomo, Cazaril raccolse un sasso dal pavimento prima di avvicinarsi. Era un uomo grassoccio, di mezz’età, almeno a giudicare dal grigio misto al bruno della barba curata, sotto la quale il volto appariva tumefatto e violaceo. Che fosse stato strangolato? Ipotesi da scartare, dato che sulla gola non si vedevano segni. I suoi abiti erano sobri e di buona fattura, ma sembravano troppo stretti per lui. La veste di fine lana marrone e la nera e ampia sopravveste senza maniche, bordata d’argento, indicavano che quell’uomo era un ricco mercante oppure un piccolo nobile dai gusti austeri o magari uno studioso pieno di ambizione. Di certo non era un artigiano o un contadino e neppure un soldato, perché le mani, gonfie e chiazzate di porpora e di giallo, non avevano né calli né cicatrici né, soprattutto, mutilazioni di sorta, come pensò Cazaril, lanciando un’occhiata alla propria mano sinistra, cui mancavano due dita, a testimonianza di quanto fosse stolto afferrare una corda da scalata in tensione. L’uomo inoltre non portava ornamenti: nessuna catena, nessun anello o sigillo. Possibile che qualcun altro avesse trovato il corpo prima di lui?

Serrando i denti, si chinò per esaminare meglio il cadavere, un movimento che gli provocò fitte dolorose in tutto il corpo. Le vesti non gli parvero più così strette e l’uomo non era affatto grasso… No, si era gonfiato in maniera innaturale, com’era successo al volto e alle mani. D’altro canto, un corpo in stato di decomposizione tanto avanzato avrebbe dovuto riempire quel mulino di un fetore tale da togliergli il respiro, mentre in quel fatiscente rifugio non si avvertiva nessun puzzo, tranne un sentore di profumo, o d’incenso, misto a fumo di candela e all’odore di sudore stantio.

Spostando lo sguardo sul pavimento di terra battuta, sgombro da rottami, che circondava il cadavere, Cazaril scartò la possibilità che quel poveretto fosse stato assassinato sulla strada e poi trascinato lassù, al riparo da occhi indiscreti. Scorse i mozziconi di cinque candele — blu, rossa, verde, nera e bianca — totalmente consumate, piccoli mucchietti di erbe e di cenere, sparsi un po’ ovunque, e uno scuro ammasso di penne: un corvo morto, col collo spezzato. Una breve ricerca gli permise di trovare anche il ratto morto, con la gola tagliata, che in quel rituale si accompagnava al corvo. Il Ratto e il Corvo, gli animali sacri al Bastardo, il Dio di tutti i disastri fuori stagione: tornadi, terremoti, siccità, inondazioni, aborti e assassini… Hai cercato di farti ubbidire dagli Dei, vero? rifletté. Quello stolto aveva tentato di operare la magia di morte, pagandone poi il prezzo. Ma aveva agito da solo?

Senza toccare nulla, si alzò e fece un rapido giro dentro il mulino e fuori di esso, senza però trovare borse, mantelli o altri oggetti abbandonati. Almeno un cavallo era stato legato all’esterno, sul lato opposto rispetto alla strada, come testimoniavano i mucchietti di sterco ancora freschi.

Sospirando, cercò di convincersi che tutta quella faccenda non lo riguardava. Sarebbe però stato empio abbandonare un morto a marcire senza un’adeguata cerimonia funebre, e soltanto gli Dei sapevano quanto tempo sarebbe passato prima che qualcun altro lo trovasse. Certo, considerato che si trattava di un individuo benestante, prima o poi qualcuno sarebbe venuto a cercarlo: non era il genere di uomo che potesse svanire nel nulla, senza che qualcuno ne sentisse la mancanza, come nel caso di un lacero vagabondo.

Resistendo alla tentazione di tornare sulla strada, ignorando il cadavere, Cazaril si avviò lungo il sentiero che partiva dal retro del mulino, pensando che portasse a una fattoria o comunque a un centro abitato. Stava camminando da pochi minuti quando s’imbatté in un uomo che conduceva per la cavezza un asino carico di fascine di legna, e che stava risalendo il sentiero in direzione opposta alla sua. Arrestandosi, l’uomo lo scrutò con fare sospettoso.

«La Signora della Primavera vi conceda una buona mattinata, signore», lo salutò cortesemente Cazaril, pensando che non c’era nulla di male a usare un onorifico «signore» con un semplice contadino. Non dopo aver baciato i piedi a uomini ben peggiori, nel suo terrificante periodo di schiavitù sulle galee.

Dopo averlo scrutato, l’uomo gli rivolse un cenno di saluto. «La Signora sia con te», borbottò.

«Vivete nelle vicinanze?» chiese Cazaril.

«Già», rispose l’uomo, un individuo di mezz’età, ben nutrito, il cui cappotto dotato di cappuccio, simile a quello più liso di Cazaril, appariva semplice ma pratico. A giudicare dal suo atteggiamento, doveva essere il proprietario della terra su cui si trovava, anche se senza dubbio le sue ricchezze si fermavano lì.

«Io… ecco…» cominciò Cazaril, indicando il sentiero. «Mi sono allontanato dalla strada, per ripararmi in quel mulino lassù e ho trovato un cadavere», spiegò. Non fece tuttavia cenno al perché avesse cercato un riparo.

«Già», ripeté il contadino.

Lui rimpianse di essersi liberato del sasso raccolto in precedenza. «Sapete di lui?» chiese, cauto.

«Ho visto il suo cavallo legato lassù, stamattina.»

«Ah», commentò. Poteva proseguire per la sua strada con la coscienza tranquilla, dunque. «Sapete per caso chi fosse quel poveretto?»

«So soltanto che non è di queste parti», ribatté il contadino, scrollando le spalle e sputando per terra. «Non appena mi sono reso conto del genere di cose malvagie successe qui la scorsa notte, ho mandato a chiamare la Divina del nostro Tempio, che ha portato via tutti i beni di quel tizio, per trattenerli finché non verranno richiesti. Il suo cavallo sta nel mio granaio, ed è uno scambio equo, considerata la legna e l’olio che dovrò consumare a causa sua. La Divina però ha detto che non possiamo lasciarlo così fino al tramonto.» Indicando le fascine legate sul dorso dell’asino, assestò uno strattone alla cavezza e riprese a risalire il sentiero.

«Avete idea di cosa stesse facendo quel tizio?» chiese Cazaril, affiancandosi al contadino.

«Quello che stava facendo è evidente», sbuffò l’uomo. «E ha avuto quello che si meritava.»

«Hmm… Sapete anche a chi lo stesse facendo?»

«Non ne ho idea e lascerò che se ne occupino al Tempio. Vorrei soltanto che non lo avesse fatto sulla mia terra, spargendo la malasorte… È probabile che torni a infestare questo posto, quindi lo purificherò col fuoco e brucerò anche quel rudere fatiscente di un mulino. È inutile lasciarlo così vicino alla strada. Serve soltanto ad attirare… guai.» E gli scoccò un’occhiata.

L’altro avanzò in silenzio per qualche istante, poi, con una certa esitazione, chiese: «Intendete bruciarlo con gli abiti indosso?»

Prima di rispondere, il contadino gli scoccò un’altra occhiata, notando la povertà del suo aspetto. «Io non intendo toccare nulla di suo. Non avrei preso neppure il cavallo, ma non sarebbe stato un atto di carità lasciar morire di fame quella povera bestia.»

«In tal caso, vi dispiacerebbe se prendessi io quei vestiti?» domandò Cazaril, ancor più esitante.

«Non è a me che lo devi chiedere, giusto? Veditela con lui, se ne hai il coraggio. Io di certo non ti fermerò.»

«Se volete… vi aiuterò a prepararlo per il rito funebre.»

«Questa sarebbe una cosa gradita», replicò il contadino, fissandolo con aria un po’ sorpresa.

Cazaril ebbe l’impressione che l’uomo fosse più che contento di affidare a lui il compito di occuparsi del cadavere. A causa delle sue condizioni fisiche, fu però costretto a lasciare al contadino il compito di ammucchiare i ceppi più grossi per il rogo, preparato all’interno del mulino, anche se diede una mano a trasportare le fascine più leggere. Avanzò anche qualche pacato suggerimento su come posizionare il tutto per garantire una migliore circolazione dell’aria e avere la certezza di distruggere l’edificio.

Il contadino rimase a guardare, a distanza di sicurezza, mentre Cazaril procedeva a spogliare il cadavere, sfilando a fatica i diversi strati d’indumenti dal corpo irrigidito, che appariva ancora più gonfio di quanto non fosse sembrato a prima vista. Quando riuscì a rimuovere l’elegante camiciola di cotone ricamato, l’addome risultò sporgente in modo quasi osceno. In effetti, il cadavere costituiva uno spettacolo spaventoso, ma qualsiasi cosa avesse prodotto quel gonfiore non poteva essere contagiosa, considerata l’assenza di qualunque odore di morte. Cazaril si chiese cosa sarebbe successo se il cadavere non fosse stato bruciato prima del tramonto: forse sarebbe esploso o magari si sarebbe aperto e, in quel caso, chissà cosa ne sarebbe uscito… o vi sarebbe entrato. Ripiegò i vestiti, quasi privi di macchie, più in fretta che poté, tralasciando le scarpe, troppo piccole per lui. Poi aiutò il contadino a issare il corpo sul rogo.

Quando tutto fu pronto, si lasciò cadere in ginocchio, chiuse gli occhi e recitò la preghiera per i morti. Non sapendo quale Dio avesse preso con sé l’anima del defunto — benché lui ne avesse un’idea piuttosto precisa — si rivolse a tutti e cinque i membri della Sacra Famiglia, parlando in termini semplici e chiari: dopotutto, le offerte dovevano consistere in ciò che si aveva di meglio, anche se l’unica cosa da offrire erano le parole. «Misericordia dal Padre e dalla Madre, misericordia dalla Sorella e dal Fratello, misericordia dal Bastardo, cinque volte misericordia, o Altìssimi, noi vi imploriamo», recitò. Quell’infelice aveva comunque già pagato per i peccati commessi, per cui la cosa più giusta era chiedere la misericordia degli Altissimi. Non la laro giustìzia… Oh, no, nessuna giustizia. Sarebbe da stolti pregare per avere giustizia.

Quando terminò, si rialzò con mosse rigide e si guardò intorno, procedendo quindi a raccogliere le carcasse del ratto e dei corvo e deponendole sul rogo, accanto alla testa e ai piedi dell’uomo.

A quanto pareva, quel giorno gli Dei avevano deciso di elargirgli un po’ di fortuna, ma lui non poté fare a meno di chiedersi sotto quale forma essa si sarebbe presentata, la volta seguente.


Mentre dal mulino in fiamme cominciava a levarsi una colonna di fumo oleoso, Cazaril tornò a incamminarsi sulla strada di Valenda, coi vestiti del morto legati in un fagotto. Sebbene fossero meno sporchi di quelli che aveva indosso, era comunque intenzionato a trovare una lavandaia per farli pulire. I vaida di rame di cui disponeva parevano ridursi sempre più a ogni conto mentale delle spese da affrontare, però a quello non avrebbe rinunciato.

La notte precedente aveva dormito in un granaio, tremando in mezzo alla paglia, dopo aver cenato con mezza pagnotta di pane stantio, usando poi l’altra metà per la colazione. La distanza che separava Zagosur, sulla mite costa di Ibra, dal cuore della Baocia, la provincia più centrale di Chalion, era di quasi trecento miglia, e lui non era riuscito a percorrerla abbastanza in fretta. Gli Accoliti del Tempio Ospedale della Madre Misericordiosa, un’istituzione di Zagosur votata al soccorso di tutti gli sciagurati restituiti dal mare, gli avevano dato a titolo di elemosina una piccola somma, che però si era esaurita quando, secondo i suoi calcoli, ormai gli rimaneva soltanto un giorno di viaggio, forse anche meno. Se fosse riuscito a camminare ancora per un po’, forse avrebbe potuto raggiungere il suo rifugio e strisciare infine al riparo.

Quand’era partito da Ibra, si era arrovellato sul modo in cui chiedere alla Provincara un posto presso di lei, nella sua casa, in nome dei tempi passati… Qualcosa, qualsiasi cosa — anche sedere ai piedi della sua tavola — purché non comportasse un lavoro troppo faticoso. Le sue ambizioni erano però andate scemando a mano a mano che procedeva verso est, valicando i passi montani per addentrarsi nel più freddo pianoro centrale. Forse il siniscalco o il capo stalliere gli avrebbero concesso un posto nelle scuderie, o magari in cucina, evitandogli così d’infastidire la grande dama. Se fosse riuscito a ottenere un incarico come sguattero, infatti, non sarebbe neppure stato obbligato a dare il suo vero nome… Del resto dubitava che, nella dimora della Provincara, ci fosse ancora qualcuno che si ricordasse di lui, all’epoca in cui aveva servito il defunto Provincar della Baocia in veste di paggio.

Il sogno di un silenzioso e appartato posto accanto al fuoco delle cucine, affrontando creature di certo non pericolose, come i cuochi, e incarichi più impegnativi dell’attingere acqua o trasportare legna da ardere, lo aveva aiutato a continuare la marcia, a testa bassa contro gli ultimi venti invernali. Quell’immagine di quiete lo aveva sospinto come un’ossessione, unita alla consapevolezza che ogni nuovo passo aumentava di una iarda la distanza da quell’incubo che era il mare. Lungo la strada solitaria aveva riflettuto per ore, valutando nomi adeguatamente servili da adottare per quella sua nuova identità anonima, ma adesso sembrava proprio che non sarebbe stato costretto a presentarsi davanti agli sguardi attoniti dei membri della corte della Provincara vestito di stracci, come un mendicante.

Invece Cazaril implora un contadino per avere il permesso d’impadronirsi degli abiti di un cadavere, ed è grato per il favore fattogli da entrambi. Oh, sì, umilmente grato, molto umilmente grato.


La città di Valenda pareva riversarsi lungo il pendio di una bassa collina come una ricca trapunta intessuta in rosso e oro, grazie alle tegole rosse e alla dorata pietra locale, che scintillavano sotto il sole. Abbagliato, Cazaril dovette sbattere le palpebre per contemplare le familiari tonalità della sua terra natale. Le case di Ibra erano tutte imbiancate a calce, troppo luminose e addirittura accecanti sotto i caldi raggi del sole settentrionale, mentre quell’arenaria ocra costituiva il colore ideale per una casa, una città o anche una nazione… Era una carezza per gli occhi. In cima alla collina, simile a una corona d’oro, il castello della Provincara si dispiegava in tutto il suo splendore, con le mura che sembravano tremolare sotto il suo sguardo un po’ appannato. Per qualche momento rimase a contemplarlo, vagamente intimidito, poi riprese a camminare, assumendo un’andatura in qualche modo più veloce di quella che era riuscito a tenere durante tutto il suo lungo viaggio, sebbene le gambe dolenti gli tremassero per la stanchezza.

L’ora del mercato era ormai trascorsa, quindi le strade erano silenziose e tranquille quando lui le percorse, diretto alla piazza principale. Vicino alle porte del Tempio, si accostò a una donna anziana, che difficilmente lo avrebbe seguito per derubarlo, e le chiese dove poteva trovare un cambiavalute. Questi gli diede una soddisfacente quantità di vaida di rame in cambio del suo minuscolo reale d’oro, e gli fornì le indicazioni necessarie per raggiungere la bottega di una lavandaia e i bagni pubblici. Lungo la strada, Cazaril si fermò soltanto il tempo necessario ad acquistare da un venditore ambulante una focaccia all’olio e divorarla.

Entrato nella bottega della lavandaia, depose una manciata di vaida sul bancone e trattò l’affitto di un paio di calzoni, di una tunica di lino e di un paio di sandali di paglia, in modo da poter percorrere il breve tratto di strada che lo separava dai bagni pubblici, affidando quindi il suo vestiario sporco e gli stivali infangati alle mani arrossate della donna.

Ai bagni, il barbiere gli tagliò i capelli e la barba, mentre lui sedeva su una vera sedia — cosa meravigliosa — sorseggiando il tè servitogli dal garzone di bottega. Una volta che il barbiere ebbe finito, Cazaril passò nel cortile dei bagni, dove s’insaponò da capo a piedi con sapone profumato e attese che lo sguattero gli versasse sulla testa una secchiata di acqua calda. Con grande soddisfazione adocchiò l’enorme tinozza di legno dal fondo in rame costruita per ospitare, a giorni alterni, sei uomini o sei donne, ma che lui, per una felice coincidenza dovuta all’ora tarda, poteva avere tutta per sé. Dal momento che sotto la tinozza era acceso un braciere che manteneva sempre calda l’acqua, sarebbe potuto restare piacevolmente a mollo per tutto il pomeriggio, in attesa che la lavandaia avesse finito di ripulire le sue vesti.

Di lì a poco lo sguattero salì su uno sgabello e gli versò l’acqua sulla testa, costringendolo ad annaspare sotto quel getto caldo; quando riaprì gli occhi, scoprì che il ragazzo lo stava fissando a bocca aperta.

«Sei… un disertore?» chiese infine lo sguattero, con un filo di voce.

A sconvolgerlo era stata la sua schiena, un rosso ammasso di cicatrici rigonfie, sovrapposte in maniera tale da non lasciare neppure un lembo di pelle intatta. Era il retaggio dell’ultima fustigazione inflittagli sulle galee dei roknari. Nella royacy di Chalion, quella era una pena inflitta soltanto a poche categorie di criminali, tra cui appunto i disertori.

«No», rispose Cazaril, in tono deciso. «Non sono un disertore.»

Senza dubbio poteva definirsi abbandonato, forse anche tradito, però non aveva mai lasciato il proprio posto, neppure nelle situazioni più pericolose.

Richiusa la bocca, il ragazzino lasciò cadere rumorosamente il secchio e si allontanò in tutta fretta, mentre Cazaril, sospirando, si dirigeva verso la tinozza.

Si era appena adagiato nell’acqua calda, immergendosi fino al mento, quando il proprietario dei bagni entrò a grandi passi nel piccolo cortile. «Fuori!» ruggì. «Fuori di qui, razza di…»

Cazaril si ritrasse in preda al terrore quando l’uomo lo afferrò per i capelli, issandolo fuori dell’acqua.

«Che ti prende?» cercò di protestare, mentre l’altro, infuriato, gli metteva in mano i vestiti e i sandali, prendendolo poi per un braccio e trascinandolo fuori del cortile. «Un momento, aspetta, cosa stai facendo? Non posso certo uscire in strada nudo!»

Il proprietario dei bagni lo fece girare su se stesso e allentò la presa. «Allora vestiti e vattene. La mia è una bottega rispettabile, non un posto per quelli come te! Va’ al postribolo oppure, meglio ancora, va’ ad annegarti nel fiume!»

Sconcertato e grondante, Cazaril s’infilò la tunica e i calzoni, tentando poi di mettersi i sandali, mentre sorreggeva con una sola mano i pantaloni non ancora allacciati e veniva sospinto di peso verso l’uscita. Quando infine il battente gli venne sbattuto in faccia, proprio nel momento in cui si girava di nuovo verso la porta, comprese la natura di quell’equivoco: l’altro crimine che nella royacy di Chalion veniva punito con una fustigazione di quell’entità era la violenza ai danni di una vergine o di un ragazzo.

«Ma non è stato… Io non ho fatto… Sono stato venduto ai corsari di Roknar…» protestò, col volto rosso di vergogna.

Tremando, pensò di picchiare contro la porta, insistendo perché chi si trovava all’interno ascoltasse le sue spiegazioni, i giuramenti che era pronto a fare, sul suo povero onore. Gli venne in mente che il proprietario dei bagni doveva essere il padre del ragazzo e, d’un tratto, scoppiò a ridere e a piangere insieme, barcollando sull’orlo di… qualcosa che lo spaventò più della furia di quell’uomo indignato. Ansimò, sforzandosi di recuperare la calma, consapevole di non avere le forze per sostenere una discussione, e che comunque quella gente non avrebbe avuto nessun motivo per credergli, ammesso che fosse riuscito a farsi ascoltare. Lentamente, si passò sugli occhi umidi la morbida manica di lino e, respirando l’intenso profumo lasciato dal passaggio di un ferro caldo, venne travolto dai ricordi di una giovinezza trascorsa in case degne di quel nome, e non dormendo nei fossi. Sembravano passati mille anni.

Sconfitto, si voltò e ripercorse la strada fino alla bottega della lavandaia e alla sua porta dipinta di verde, cui era attaccata una campanella che trillò non appena lui spinse timidamente il battente.

«C’è un angolo dove mi possa sedere, signora?» chiese, quando la lavandaia fece capolino nella bottega in risposta al suono del campanello. «Io… ho finito prima del previsto…»

Soffocato dalla vergogna, non riuscì a concludere la frase, ma la donna si limitò a scrollare le spalle robuste. «Ah, sì, certo, venite con me. Ah, un momento», aggiunse, chinandosi dietro il bancone e mostrando un libretto grande quanto la mano di Cazaril, rilegato in cuoio grezzo. «Ecco il vostro libro. Siete fortunato che abbia controllato le tasche, altrimenti adesso sarebbe ridotto in poltiglia, ve lo garantisco.»

Sorpreso, Cazaril prese il volumetto. Probabilmente era nascosto nelle spesse pieghe della sopravveste del morto, e ciò gli aveva impedito di scoprirlo quando aveva frettolosamente arrotolato gli abiti, al mulino. Naturalmente avrebbe dovuto essere consegnato alla Divina del Tempio, per essere aggiunto al resto degli averi del defunto. Per questa natte non tornerò di certo fin là, si disse, decidendo che avrebbe consegnato il libro non appena possibile.

«Vi ringrazio, signora», si limitò quindi a rispondere alla lavandaia, seguendola poi nel cortile centrale, simile a quello dei bagni vicini e dotato di un profondo pozzo, accanto al quale bolliva un calderone pieno d’acqua. Quattro giovani donne erano impegnate su altrettante tinozze, in una miriade di spruzzi. La proprietaria della bottega gli indicò una panca addossata al muro, e lui si sedette fuori della portata degli schizzi, rimanendo per qualche tempo a fissare in uno stato di astratta beatitudine quella pacifica scena. Un tempo, non si sarebbe mai degnato di volgere lo sguardo su un gruppo di contadine dal volto arrossato, riservando la propria attenzione soltanto per le dame eleganti. Come aveva fatto in precedenza a non rendersi conto di quanto potessero essere belle le lavandaie? Forti e ridenti, si muovevano come per una danza, ed erano gentili, così gentili…

Dopo qualche tempo, la sua curiosità si risvegliò e lo indusse a riprendere in mano il libro, pensando che forse avrebbe trovato il nome del morto, risolvendo così il mistero della sua identità. Ma, quando lo aprì, scoprì che le sue pagine erano coperte da una selva di annotazioni, intervallate da diagrammi, e scritte interamente in codice.

Sbattendo le palpebre, si concentrò maggiormente sullo scritto e il suo sguardo, agendo quasi di propria volontà, cominciò a decifrare la chiave del codice. Si trattava di una scrittura speculare, abbinata a un sistema di sostituzione di lettere, un sistema che poteva essere faticoso da interpretare. Ma una breve parola era ripetuta tre volte nella stessa pagina e gli fornì la chiave che stava cercando. Il mercante aveva scelto un metodo di codifica quanto mai elementare, limitandosi a spostare ciascuna lettera di una posizione, senza neppure prendersi la briga di modificare a tratti quella sequenza. D’altro canto, però, quella non era la lingua ibrana, parlata nei suoi diversi dialetti nelle royacy di Ibra, Chalion e Brajar, bensì la lingua darthacana, parlata nelle province più meridionali di Ibra e nella grande Darthaca, al di là delle montagne. Inoltre la calligrafia del morto era orribile, l’ortografia era ancora peggiore e la padronanza della grammatica darthacana sembrava quasi inesistente. Decifrare quel testo poteva rivelarsi più difficile di quanto aveva pensato; avrebbe avuto bisogno di carta e penna, di un posto tranquillo, di tempo e di una buona illuminazione. Ma le cose avrebbero potuto essere anche peggiori, per esempio se si fosse trattato di un roknari sgrammaticato…

Era comunque evidente che quel libretto conteneva le annotazioni sugli esperimenti magici del morto. Se non fosse stato già defunto, sarebbe stato più che sufficiente a condannarlo e a mandarlo sulla forca. La punizione per coloro che praticavano — anzi che tentavano di praticare — la magia di morte era spietata. La condanna per chi fosse riuscito nel suo intento in genere veniva considerata superflua perché non si conosceva nessun caso di assassinio mediante magia di morte che non fosse costato la vita anche a colui che aveva praticato il rito. Quale che fosse il vincolo mediante il quale l’esecutore del rito costringeva il Bastardo a inviare nel mondo uno dei suoi demoni, la cosa certa era che esso tornava sempre indietro con due anime, mai con una sola.

Stando così le cose, pareva evidente che la notte precedente qualcun altro dovesse essere morto nella Baocia. Per sua natura, quindi, la magia di morte non era molto popolare, in quanto non permetteva di ricorrere a simulacri o a un sostituto che venisse ucciso al posto dell’officiante del rito: uccidere voleva dire essere ucciso. Il coltello, la spada, il veleno, un randello… qualsiasi altro mezzo era preferibile, se l’autore del crimine voleva sopravvivere; talvolta, però, qualcuno ci provava, forse con l’illusione di cavarsela o per semplice disperazione. Quel libro andava assolutamente consegnato alla Divina del Tempio rurale, che a sua volta l’avrebbe dato al responsabile delle indagini incaricato dal Roya. Raddrizzandosi sulla panca, Cazaril aggrottò la fronte con preoccupazione e si decise infine a chiudere quel pericoloso volumetto.

Il caldo del vapore, il ritmo del lavoro, delle voci delle donne e il suo stesso sfinimento lo indussero a sdraiarsi su un fianco e a raggomitolarsi sulla panca, col libro sotto la guancia come cuscino, dicendosi che avrebbe chiuso gli occhi solo per un momento…

Si svegliò in un sussulto che gli provocò una contrazione al collo, le dita serrate intorno a qualcosa di sconosciuto, che risultò fatto di lana… Una delle lavandaie gli aveva gettato addosso una coperta, un gesto di gentilezza così spontaneo che gli fece sfuggire dalle labbra un involontario sospiro di gratitudine. Sollevatosi a sedere, constatò che ormai il cortile era quasi tutto in ombra, segno che doveva aver dormito per la maggior parte del pomeriggio. Il suono che lo aveva svegliato era stato il tonfo prodotto dai suoi stivali, lucidati il più possibile, che la lavandaia gli aveva lasciato cadere davanti prima di deporre accanto a lui, sulla panca, tutti i suoi abiti puliti e ripiegati, sia quelli eleganti che quelli da mendicante.

«Signora, avete una stanza dove mi possa vestire?» chiese Cazaril, con fare timido, ricordando la reazione del ragazzo dei bagni alla vista della sua schiena.

Annuendo con aria cordiale, la donna lo accompagnò in una modesta camera da letto in fondo alla casa e lo lasciò solo. Alla luce del tramonto, che trapelava dalla piccola finestra, Cazaril passò al vaglio i propri indumenti puliti, adocchiando con repulsione gli squallidi abiti da mendicante che aveva avuto indosso per settimane. Infine, la vista di uno specchio ovale, l’oggetto più prezioso della camera, appoggiato in un angolo su un piedistallo, lo decise nella scelta.

Con esitazione, e recitando un’ennesima preghiera di ringraziamento allo spirito del defunto da cui aveva inaspettatamente ereditato quegli abiti, indossò i pantaloni di cotone, la fine camicia ricamata, la veste di lana marrone e infine la sopravveste nera, che gli ricadde all’intorno in una ricca profusione di stoffa scura, scintillante d’argento intorno alle caviglie. Gli abiti del morto erano della lunghezza giusta, anche se un po’ ampi per il suo corpo smagrito. Sedette sul letto e s’infilò gli stivali, che avevano i tacchi parzialmente consumati e la suola tanto logora da essere ormai sottile quasi quanto la pergamena. Quindi si avvicinò allo specchio, pensando che non si era più riflesso in nulla di più grande o di migliore di un pezzo di acciaio lucido da… Quanto? Da tre anni? Adesso, invece, lo specchio che aveva davanti era di vetro, ed era inclinato in maniera tale da permettergli di vedere la propria figura da capo a piedi, prima la metà superiore e poi quella inferiore.

Il volto che lo fissò dallo specchio era quello di uno sconosciuto. Per i cinque Dei, ma da quando la mia barba è diventata grigia? si chiese, sollevando una mano tremante a sfiorare la barba corta e curata che gli incorniciava i lineamenti. Se non altro, i capelli, anch’essi tagliati di fresco, non accennavano ancora ad assottigliarsi sulla fronte. Dovendo scegliere se definirsi un mercante, un nobile o uno studioso, sulla base degli abiti che indossava, avrebbe senza dubbio optato per l’ultima possibilità. Uno studioso un po’ fanatico, con gli occhi incavati e l’espressione vagamente folle… Non aveva catene d’oro o d’argento, un sigillo, un’elegante cintura di metallo prezioso o adorna di gemme, né anelli che proclamassero la sua appartenenza a una classe più elevata. D’altro canto, gli parve che la linea fluente di quella veste gli si addicesse e, d’istinto, cercò di raddrizzare un po’ la schiena.

Comunque stessero le cose, ormai il lacero vagabondo era svanito, e l’uomo che aveva davanti non era certo tale da implorare un posto da sguattero presso il cuoco di un castello.

All’inizio aveva pensato di spendere gli ultimi vaida per affittare una camera e presentarsi alla Provincara l’indomani mattina, ma in quel momento si chiese, con disagio, se il gestore dei bagni non avesse messo in giro qualche pettegolezzo sul suo conto, col risultato di vedersi negare l’accesso a qualsiasi locanda rispettabile.

Devo andare adesso, stanotte, si disse. Avrebbe raggiunto subito il castello, prima che fosse troppo buio, per scoprire se riusciva a ottenere un aiuto. Non potrei trascorrere un’altra notte nell’incertezza. Devo andare ora, prima che il coraggio mi venga meno.

Riposto il libretto nella tasca interna della sopravveste in cui, a quanto pareva, era già stato nascosto in precedenza, lasciò gli abiti da vagabondo ammucchiati sul Ietto e uscì a grandi falcate dalla stanza.

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