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Mentre saliva l’ultimo pendio che conduceva al portone del castello, Cazaril rimpianse di non aver potuto procurarsi una spada. Le due guardie, abbigliate con la livrea verde e nera del Provincar della Baocia, lo stavano infatti osservando: non sembravano allarmate, proprio perché lui non portava armi, tuttavia non manifestavano neppure quell’interesse che di solito apriva la strada al rispetto. Cazaril salutò la guardia che portava sul cappello i gradi di sergente, limitandosi a un misurato, austero cenno del capo. L’atteggiamento servile che aveva pensato di assumere sarebbe andato bene per qualche porta secondaria, non per quella principale; aspettandosi di ottenere qualcosa di più, doveva agire di conseguenza. Se non altro, grazie alla gentile disponibilità della lavandaia, sapeva di chi doveva chiedere.

«Buonasera, sergente. Sono qui per vedere il siniscalco del castello, Ser dy Ferrej. Sono Lupe dy Cazaril», disse, lasciando che il sergente supponesse, sbagliando, che lui era stato convocato.

«Per quale motivo, signore?» ribatté il sergente, in tono cortese, ma senza particolare sollecitudine.

Cazaril squadrò le spalle. Chissà da quale inutilizzato magazzino della sua mente giunse un tono di voce secco e imperioso. «Il motivo riguarda soltanto lui, sergente», replicò.

«Sì, signore», rispose il sergente, salutandolo automaticamente e avvertendo con un cenno del capo il suo compagno di fare altrettanto. Poi indicò a Cazaril di oltrepassare il portone, aggiungendo: «Da questa parte, signore. Vado a chiedere al siniscalco se vi può ricevere».

Lasciando vagare lo sguardo sull’ampio cortile coperto di acciottolato, Cazaril si sentì stringere il cuore. Quante scarpe aveva consumato, correndo avanti e indietro su quelle pietre per assolvere gli incarichi affidatigli da membri della famiglia del Provincar… Il maestro dei paggi si era persino lamentato per i troppi investimenti in partite di cuoio, ma la Provincara, ridendo, gli aveva domandato se avrebbe davvero preferito un paggio pigro, che consumasse invece la stoffa del fondo dei pantaloni, aggiungendo che, se così era, avrebbe provveduto lei a procurargliene qualcuno.

A quanto pareva, la Provincara gestiva ancora il castello con occhio acuto e mano decisa, dato che le livree delle guardie erano in condizioni eccellenti, l’acciottolato del cortile sembrava ben spazzato e i piccoli alberi ancora spogli che crescevano nei vasi, accanto alle porte principali, erano attorniati da fiori, sbocciati con perfetto tempismo per la celebrazione del Giorno della Figlia, prevista per il giorno dopo.

La guardia fece capire a Cazaril di rimanere in attesa, e lui sedette su una panca addossata al muro, ancora gradevolmente calda di sole. Il sergente oltrepassò una porta laterale, che dava accesso alle stanze di lavoro, e parlò con un servitore, affidandogli l’incarico di verificare se il siniscalco intendeva ricevere quello sconosciuto. Non aveva ancora superato metà della distanza che lo separava dalla sua postazione, quando il suo compagno si sporse oltre il portone, affacciandosi nel cortile e gridando: «Il Royse ritorna!»

Girando la testa verso gli alloggi dei servi, il sergente si affrettò a ripetere quel grido. «Il Royse ritorna! Tenetevi pronti!» E accelerò il passo.

Scudieri e servitori uscirono da diverse porte che si affacciavano sul cortile, proprio mentre un martellare di zoccoli e alcune voci echeggiavano fuori del portone. Ad attraversare l’arcata di pietra, accompagnate da una fanfara di poco signorili ululati di trionfo, furono anzitutto due giovani donne in sella a cavalli ansimanti e chiazzati di fango.

«Abbiamo vinto noi, Teidez!» gridò la prima, da sopra la spalla. Indossava una giacca da equitazione di velluto azzurro, abbinata a una lunga gonna pantalone di lana dello stesso colore; i suoi capelli, che sfuggivano dal cappellino di pizzo un po’ di traverso, erano una massa di riccioli né biondi né rossi, ma piuttosto di un intenso colore ambrato, che splendeva sotto i raggi del sole al tramonto. Quella massa dorata incorniciava un volto dalla bocca generosa e dalla pelle chiara, illuminato da occhi dalle palpebre stranamente pesanti, semichiusi in un’espressione ridente. La sua compagna, di statura più alta, era un’ansimante brunetta vestita di rosso; si girò sulla sella con un sogghigno per osservare il resto del gruppo che stava affluendo nel cortile.

Sopraggiunse un gentiluomo, ancora più giovane delle due dame, abbigliato con una corta giacca scarlatta decorata da animali eseguiti in filo argentato. Stava in sella a un impressionante cavallo nero, dal pelo lucido e dalla lunga coda setosa. Il giovane era affiancato da due scudieri dal volto del tutto inespressivo e seguito da un altro gentiluomo dall’aria accigliata, i cui capelli ricciuti erano identici a quelli della… sorella? — Sì, senza dubbio è la sorella… — però avevano una tonalità più rossa. La bocca appariva altrettanto generosa, anche se contratta in un’espressione imbronciata. «La gara è finita in fondo alla collina, Iselle. Hai barato», protestò.

La giovane donna rivolse al fratello uno sguardo di finta commiserazione. Poi, prima ancora che l’agitato stalliere potesse posizionare i gradini per aiutarla a smontare, scese di sella, rimbalzando sui piedi calzati di stivali.

Anche la giovane bruna anticipò lo stalliere e, una volta a terra, gli consegnò le redini. «Fa’ camminare queste povere bestie finché non si saranno raffreddate, Demi», disse. «Le abbiamo maltrattate in maniera orribile.» Quasi a smentire quelle parole, depose un bacio sulla macchia bianca che spiccava sul muso della cavalcatura e, non appena l’animale le assestò una lieve spinta, con la sicurezza nata dall’abitudine, lei gli diede un boccone prelevato da una tasca.

Ultima a varcare il portone, con un paio di minuti di ritardo rispetto ai giovani, fu una donna più anziana, dal volto arrossato. «Iselle, Betriz, rallentate! Nel nome della Madre e della Figlia, voi ragazze non potete galoppare per tutta la campagna di Valenda come un paio di folli scatenate!»

«Abbiamo rallentato… Anzi ci siamo fermate», replicò la ragazza bruna, con logica incontrovertibile. «Per quanto ci proviamo, brava donna, non possiamo sfuggire alla vostra lingua. È troppo veloce, anche per il cavallo più rapido di tutta la Baocia.»

Con una smorfia di esasperazione, la dama anziana attese che lo stalliere posizionasse i gradini per smontare di sella. «Vostra nonna vi ha comprato quell’adorabile mulo bianco, Royesse Iselle, quindi perché non lo montate mai? Sarebbe una cavalcatura molto più adatta a voi.»

«E molto più lenta», ribatté la ragazza dai capelli color ambra, ridendo. «In ogni caso, il povero Fiocco di Neve è stato lavato e preparato per la processione di domani: se lo avessi portato fuori, costringendolo a correre nel fango, agli stallieri sarebbe venuto il crepacuore. A quanto pare, hanno intenzione di tenerlo al sicuro e al pulito per tutta la notte.»

Ansimando, l’anziana dama permise allo stalliere di aiutarla a scendere di sella e, una volta a terra, scosse le gambe avvolte nella gonna pantalone e si stiracchiò la schiena dolorante. Quando il ragazzo si fu allontanato, circondato da uno stuolo di servitori ansiosi, le due giovani donne, per nulla intimorite dalla continua pioggia di rimproveri della loro dama di compagnia, si misero a correre, gareggiando verso la rocca principale. All’anziana dama non rimase che seguirle a passo più lento, scuotendo il capo.

Nel momento in cui le ragazze si avvicinavano alla porta, sulla soglia apparve un uomo robusto, di mezz’età, vestito sobriamente di lana nera, che le apostrofò con voce pacata ma decisa. «Betriz, se farai di nuovo galoppare il tuo cavallo su per la collina in quel modo, te lo toglierò, così potrai usare le tue energie in eccesso per correre dietro alla Royesse a piedi.»

«Sì, padre», mormorò la brunetta, in tono intimidito, accennando una riverenza.

Accanto a lei, la ragazza dai capelli color ambra si fermò immediatamente. «Per favore, Ser dy Ferrej, perdonate Betriz. La colpa è stata mia, e lei non ha avuto altra scelta se non quella di seguirmi.»

«In tal caso, Royesse», ribatté l’uomo, inchinandosi con aria aggrondata, «forse dovreste chiedervi quale onore può mai avere un capitano che conduce i suoi seguaci verso la colpa, ben sapendo di poter sfuggire a qualsiasi punizione.»

La ragazza dai capelli ambrati contrasse leggermente le labbra, scoccò al suo interlocutore una lunga occhiata in tralice e accennò una riverenza. Le due giovani superarono la soglia, sottraendosi a ulteriori rimproveri. Rimasto solo, l’uomo esalò un lungo sospiro e la dama di compagnia, che stava ancora arrancando sulla scia delle due ragazze, gli rivolse un cenno di ringraziamento.

Anche senza quelle frasi rivelatrici, Cazaril non avrebbe avuto difficoltà a identificare in quell’uomo il siniscalco del castello: lo rivelavano le chiavi tintinnanti, appese alla cintura tempestata d’argento, e la catena, simbolo della sua carica, che gli pendeva dal collo. Quando dy Ferrej gli si avvicinò, si affrettò quindi ad alzarsi e poi a inchinarsi, un gesto troncato a mezzo dalle cicatrici che gli tormentavano la schiena. «Ser dy Ferrej, mi chiamo Lupe dy Cazaril», si presentò. «Imploro la Provincara di concedermi udienza, se… così le aggrada», concluse, con la voce che gli si spegneva in gola di fronte all’espressione corrucciata del siniscalco.

«Io non vi conosco, signore», obiettò dy Ferrej.

«Per grazia degli Dei, è possibile che la Provincara si ricordi di me. Un tempo, sono stato un paggio, qui in questa casa, all’epoca in cui il vecchio Provincar era ancora vivo», spiegò Cazaril, abbracciando il cortile con un gesto della mano. Quella era la cosa più vicina a una casa che avesse mai lasciato, ed era terribilmente stanco di essere uno straniero ovunque andasse.

«Domanderò alla Provincara se intende ricevervi», annuì dy Ferrej, inarcando le sopracciglia grigie.

«È tutto quello che chiedo», replicò Cazaril. Era tutto quello che osava chiedere. Accasciatosi di nuovo a sedere sulla panca, intrecciò le dita e rimase a guardare il siniscalco che tornava verso la rocca principale.

Dopo molti, angosciosi minuti di attesa permeata di tensione, durante i quali era stato fissato in tralice da tutti i servitori di passaggio, Cazaril sollevò lo sguardo e vide il siniscalco che si avvicinava, adocchiandolo con aria perplessa.

«Sua Grazia la Provincara acconsente a ricevervi», disse soltanto. «Seguitemi.»

Essendo rimasto seduto nell’aria sempre più fredda della sera, Cazaril si era irrigidito e incespicò leggermente nel muoversi, maledicendo la propria goffaggine mentre seguiva il siniscalco. Ma non aveva bisogno di una guida. La disposizione degli ambienti gli tornò subito alla memoria, affiorando a ogni svolta. Attraversarono l’atrio, con le sue piastrelle blu e gialle, salirono le scale, oltrepassarono una camera imbiancata a calce e raggiunsero la stanza esposta a ovest che la Provincara aveva sempre preferito in quel momento della giornata, dato che offriva la luce migliore alle sue cucitrici o a lei stessa, se voleva leggere qualche libro. Cazaril dovette chinarsi un poco nell’oltrepassare la bassa porta d’ingresso, cosa che non aveva fatto in passato. Questo è l’unico cambiamento, pensò. Ma non è la porta a essere cambiata…

«Ecco l’uomo che Vostra Grazia stava aspettando», annunciò il siniscalco in tono neutro, a dimostrare che non intendeva né avvallare né confutare le credenziali da lui offerte.

La Provincara era seduta su un ampio seggio di legno, coperto di cuscini per rispetto alle sue ossa anziane, e indossava un sobrio abito verde scuro, adatto a una vedova di alto rango, cui si era però rifiutata di abbinare la cuffia vedovile, scegliendo invece d’intrecciare i lunghi capelli grigi intorno alla testa in due nodi, adorni di nastri verdi e trattenuti da fermagli ingioiellati. Al suo fianco era seduta una dama di compagnia, anziana quasi quanto lei e anch’ella vedova, a giudicare dall’abbigliamento, tipico di una Devota laica del Tempio. La dama stringeva fra le mani un lavoro di ricamo, fissando Cazaril con aria accigliata e piena di diffidenza.

Pregando che il suo corpo non lo tradisse proprio in quel momento, facendolo incespicare o barcollare, Cazaril posò al suolo un ginocchio davanti al seggio, chinando il capo in segno di rispetto. Avvertì il sentore di lavanda e di età avanzata che emanava dalla Provincara. Poi tornò a sollevare la testa e scrutò il volto della donna, alla ricerca di qualche segno che gli facesse capire di essere stato riconosciuto. In caso contrario, sarebbe stato davvero un vagabondo senza patria.

La Provincara incontrò il suo sguardo e si morse un labbro, assumendo un’aria meravigliata. «Per i cinque Dei, siete davvero voi! Mio signore dy Cazaril, siete il benvenuto nella mia casa», mormorò, offrendogli la mano da baciare.

Deglutendo a fatica, quasi annaspando, Cazaril chinò il capo su quella mano, un tempo bianca e fine, con le unghie perfette, e adesso invece chiazzata di marrone e dalle nocche gonfie. Le unghie tuttavia erano ben curate, come se la Provincara fosse stata ancora nel fiore degli anni. La donna non reagì in nessun modo, neppure con un minimo sussulto, quando un paio di lacrime, che lui non era riuscito a trattenere, le caddero sul dorso della mano, ma un angolo della sua bocca s’incurvò in un accenno di sorriso; poi la mano si sfilò dalla sua stretta e si sollevò a sfiorargli la barba, seguendo una delle strisce grigie che l’attraversavano.

«Povera me… Sono dunque così invecchiata?» domandò.

Deciso a non mettersi a piangere come un bambino, Cazaril sbatté rapidamente le palpebre poi alzò lo sguardo. «È passato molto tempo, Vostra Grazia…» rispose.

La mano di lei si girò, e le dita ossute gli batterono leggermente su una guancia. «Vi avevo dato la possibilità di sostenere che non ero minimamente cambiata. Non vi ho forse insegnato come mentire a una dama? Non mi pareva di essere stata così trascurata nell’educarvi!» Con assoluta compostezza, la Provincara ritrasse la mano e rivolse un cenno alla dama di compagnia, aggiungendo: «Lasciate che vi presenti mia cugina, Lady dy Hueltar. Tessa, ti presento il Castillar dy Cazaril».

Sempre in ginocchio, Cazaril eseguì un goffo inchino in direzione della donna e, con la coda dell’occhio, vide che il siniscalco, ancora fermo in un angolo, esalava un sospiro di sollievo e assumeva una posa più rilassata, incrociando le braccia e appoggiandosi allo stipite della porta.

«Vostra Grazia è molto gentile, ma non possiedo più Cazaril, né la sua fortezza o le terre di mio padre, quindi non posso reclamare neppure il suo titolo.»

«Non siate sciocco, Castillar», ribatté la Provincara in tono scherzoso, ma anche tagliente. «Il mio caro Provincar è morto ormai da dieci anni, ma il primo che osasse sostenere che io sono qualcosa di meno della Provincara sarà divorato dai demoni del Bastardo. Abbiamo ciò che possiamo tenere in pugno, mio caro ragazzo, e non dovete mai permettere agli altri di vedervi sussultare o esitare.»

Accanto a lei, la Devota dama di compagnia s’irrigidì con aria di disapprovazione, dovuta a quelle parole così brusche, se non al sentimento cui erano improntate. Cazaril ritenne imprudente sottolineare che, al momento, il titolo apparteneva alla nuora della Provincara, proprio come suo figlio era l’attuale Provincar. Del resto, era probabile che anche l’attuale Provincar e la moglie ritenessero poco saggio far notare una cosa del genere all’anziana e autorevole dama. «Per me, Vostra Grazia sarà sempre una grande dama, che tutti noi adoravamo a debita distanza», dichiarò.

«Così va meglio, molto meglio», approvò la Provincara. «Mi piacciono gli uomini che sanno usare il cervello. Dy Ferrej… Porta una sedia per il Castillar e una anche per te: fermo lì, incombi come un corvo», aggiunse, rivolgendo un cenno al siniscalco.

Forse abituato a essere apostrofato in quel modo, il siniscalco si limitò ad assentire con un sorriso, poi accostò un seggio intagliato per Cazaril, accompagnando il gesto con un sommesso e gratificante: «Il mio signore vorrebbe accomodarsi?» Andò quindi a prendere un’altra sedia nella stanza accanto, sistemandosi a una certa distanza dalle due dame e dal loro ospite.

Rialzatosi, lui si abbandonò con sollievo all’accogliente abbraccio della sedia. «Quelli che ho visto sopraggiungere a cavallo al momento del mio arrivo erano il Royse e la Royesse, Vostra Grazia?» chiese, esitante. «Non vi avrei mai disturbato con la mia presenza, se avessi saputo che avevate simili visitatori…» In realtà, non avrebbe osato farlo.

«Non sono in visita, Castillar. Attualmente vivono qui, presso di me, perché Valenda è una città pulita e tranquilla e… mia figlia non sta molto bene. Il suo ritiro qui, dopo la vita frenetica della corte, le sta portando giovamento.»

Per i cinque Dei, anche Lady Ista è qui? Anzi, per essere precisi, la Royina Vedova Ista,pensò Cazaril. Era entrato al servizio del Provincar della Baocia all’epoca in cui era poco più di un ragazzino — come del resto lo erano tutti i paggi -, ma la figlia minore della Provincara, Ista, sembrava già un’adulta, benché fosse poco più vecchia di lui. Per sua fortuna, e nonostante la giovane età, non era stato così avventato da confidare a qualcuno la propria infatuazione senza speranza per quella giovane dama. E il matrimonio di Ista col Roya Ias — il primo per lei, il secondo per lui — avvenuto qualche tempo dopo, era sembrato il giusto destino per una donna così bella, benché tra i due ci fosse una notevole differenza d’età. Aveva ovviamente pensato che Ista sarebbe rimasta vedova, ma forse ciò non era accaduto tanto presto.

La Provincara sembrò accantonare la propria stanchezza con un gesto impaziente. «Cosa mi dite di voi?» chiese. «L’ultima volta che ho avuto vostre notizie, facevate il corriere per conto del Provincar della Guarida.»

«Questo è stato… alcuni anni fa, Vostra Grazia.»

«Come siete giunto qui? E dov’è la vostra spada?» insistette lei, squadrandolo da capo a piedi.

«Ah, quella», replicò lui, abbassando distrattamente la mano verso il fianco, dove non c’erano né cintura né spada. «L’ho persa a… Ecco, quando ha condotto le forze del Roya Orico verso la costa settentrionale per la campagna invernale, tre anni fa, il Marqess dy Jironal mi ha nominato castellano della fortezza di Gotorget. Poi dy Jironal ha subito quella sconfitta… e noi abbiamo tenuto la fortezza per nove mesi contro le forze dei roknari. Sapete come vanno queste cose. Quando ci è giunta notizia che dy Jironal aveva stipulato un nuovo trattato, il quale ci obbligava a deporre le armi, uscire dalla fortezza e consegnarla ai nostri nemici… be’, ormai, in tutta Gotorget non c’era più neanche un topo che non fosse stato arrostito», proseguì, con un sorrisetto tirato, mentre la mano sinistra gli si contraeva in grembo. «Per mia consolazione, mi è stato detto che, stando a quel trattato, la nostra fortezza era costata al principe dei roknari ben trecentomila reali in più. Senza considerare le considerevoli perdite da luì subite sul campo nei nove mesi della nostra resistenza.» Magra consolazione, considerati gli uomini morti a Gotorget, pensò. «Il generale dei roknari ha requisito la spada di mio padre, affermando che l’avrebbe appesa nella sua tenda, per ricordarsi di me, e quella è stata l’ultima volta in cui l’ho vista. E dopo…» La voce, che si era fatta sempre più decisa con l’affiorare dei ricordi, d’un tratto gli si spense. «Dopo, c’è stato un errore, una confusione di qualche tipo», riprese. «Quand’è arrivato l’elenco degli uomini da riscattare, insieme con le casse piene di reali, ho scoperto che il mio nome non era nell’elenco. Il quartiermastro roknari ha giurato che non c’era stato nessun errore, perché le cifre corrispondevano ai nomi, però un errore c’è stato. Tutti i miei ufficiali sono stati riscattati, mentre io… sono stato messo con gli uomini per cui non era stato pagato nessun riscatto e condotto a Visping. Lì siamo stati tutti venduti come schiavi da galea ai corsari roknari.»

La Provincara reagì con un sonoro sussulto, mentre il siniscalco, che si era proteso sempre più in avanti mentre il racconto si dipanava, esclamò: «Di certo avrete protestato!»

«Oh, per i cinque Dei, ho protestato, eccome. L’ho fatto per tutta la strada fino a Visping, e stavo ancora protestando quando mi hanno trascinato lungo la passerella e incatenato al mio remo. Ho continuato a protestare finché non abbiamo preso il largo, ma poi… ho imparato che era meglio non farlo.» Cazaril sorrise di nuovo, ma in modo ancor più tirato, quasi avesse indosso una maschera. «Sono rimasto imbarcato su questa o quella nave per… molto tempo.» L’aveva calcolato: diciannove mesi e otto giorni. A quell’epoca, però, non era neppure in grado di distinguere un giorno dal successivo. «Poi la nave corsara su cui ero si è imbattuta nella flotta reale di Ibra, che si trovava al largo per effettuare delle manovre. Si è trattato di un colpo di fortuna del tutto insperato. I rematori volontari di Ibra hanno manovrato i remi meglio di noi, e ben presto ci hanno raggiunti.»

Quel giorno, i roknari, sempre più disperati, avevano decapitato due uomini, colpevoli di aver sbagliato — volontariamente o accidentalmente — a manovrare i loro remi. Uno di essi era stato seduto accanto a Cazaril, anzi era stato il suo compagno di voga per mesi. Quando lo avevano decapitato, un po’ del suo sangue era schizzato in bocca a Cazaril, tanto che ancora adesso, se commetteva l’errore di ripensare a quell’episodio, gli pareva di sentirne il sapore.

Una volta sconfitta la nave corsara, gli ibrani avevano trascinato i roknari, alcuni ancora agonizzanti, dietro la nave, legandoli poi a corde fatte dei loro stessi intestini, finché i pesci non li avevano divorati. Alcuni degli schiavi liberati avevano aiutato con entusiasmo a remare, ma non Cazaril: quell’ultima fustigazione lo aveva ridotto talmente male che, entro poche ore, i roknari lo avrebbero di certo gettato in mare, ritenendolo ormai un peso inutile. Era rimasto seduto sul ponte, piangendo come un bambino, coi muscoli che si contraevano in maniera incontrollabile.

«Quei bravi ibrani mi hanno sbarcato a Zagosur. E lì sono rimasto a lungo malato. Quando si è sottoposti per mesi a uno stato intollerabile di tensione, e tale stato di colpo viene a cessare, capita di comportarsi in maniera… alquanto infantile», spiegò, fissando i presenti con un sorriso di scusa. Prima aveva avuto un collasso, accompagnato da una violenta febbre; poi, mentre la sua schiena cominciava a guarire, erano subentrate la dissenteria e la febbre malarica. Per tutto quel tempo, era stato assalito a tratti da incontrollabili crisi di pianto. Gli capitava di piangere quando un’Accolita del Tempio gli portava la cena o quando vedeva sorgere o tramontare il sole, ma anche se un gatto lo spaventava o se lo accompagnavano a letto. Talvolta scoppiava in lacrime senza nessun motivo. «Il Tempio Ospedale della Misericordia della Madre mi ha accolto e curato. Dopo qualche tempo, mi sono sentito meglio…» — le crisi di pianto erano quasi cessate e gli Accoliti avevano deciso che non era pazzo, ma soltanto esaurito — «… e allora mi hanno dato un po’ di denaro e sono venuto fin qui a piedi, un viaggio che mi ha richiesto tre settimane.»

Cazaril tacque e sulla stanza scese un silenzio assoluto.

Sollevando lo sguardo, lui vide che la Provincara aveva le labbra serrate in un’espressione d’ira, e si sentì contrarre lo stomaco per il terrore. «Questo è l’unico posto cui sono riuscito a pensare!» si affrettò a giustificarsi. «Mi dispiace, mi dispiace davvero…»

Il siniscalco esalò un sonoro respiro e si appoggiò allo schienale della sedia, fissandolo con sconcerto, e la dama di compagnia sgranò gli occhi per la sorpresa.

«Voi siete il Castillar dy Cazaril», dichiarò la Provincara, con voce vibrante. «Avrebbero dovuto darvi un cavallo e anche una scorta.»

«No, no, mia signora. Hanno… fatto abbastanza», replicò CazariI, agitando le mani in un gesto di diniego. Soltanto allora comprese che l’ira della dama non era diretta contro di lui, e sentì un nodo formarglisi in gola e la vista che si offuscava. No, non può succedermi anche qui… Controllandosi a fatica, aggiunse: «Mia signora, desidero soltanto servirvi, posto che voi troviate qualcosa di cui posso occuparmi… Anche se, per adesso, non sono in grado di fare granché».

La Provincara si adagiò contro lo schienale del seggio e appoggiò con delicatezza il mento alla mano, scrutandolo con attenzione per un momento. «Quand’eravate un paggio, sapevate suonare il liuto in maniera molto gradevole», osservò.

«Uh…» balbettò CazariI, cercando istintivamente di nascondere le mani distorte e coperte di calli. Poi, con un sorriso contrito, le appoggiò sulle ginocchia, bene in vista. «Ora non credo di poterlo più fare, mia signora.»

Protendendosi in avanti, la Provincara lasciò indugiare lo sguardo sulla mano sinistra, vistosamente mutilata. «Capisco», mormorò, ritraendosi con aria pensosa. Poi disse: «Ricordo che eravate solito leggere tutti i libri della biblioteca di mio marito, al punto che il maestro dei paggi si lamentava sempre di voi e io dovevo ordinargli di lasciarvi in pace. Se ben ricordo, aspiravate a diventare un poeta».

«Credo che a Chalion sia stata risparmiata una notevole quantità di brutte poesie, quando sono partito per la guerra», replicò CazariI che, al momento, non era neppure certo di riuscire a tenere una penna in mano.

«Suvvia, Castillar, mi state rendendo le cose difficili, con l’offerta dei vostri servigi», replicò la Provincara, scrollando le spalle. «Non credo che nella povera Valenda ci siano posti disponibili a sufficienza per trovarvi un’occupazione. Voi siete stato un cortigiano, un capitano, un castellano, un corriere…»

«Non sono più stato un cortigiano da quand’è morto il Roya Ias, mia signora. In veste di capitano… ho contribuito alla sconfitta di Dalus», replicò CazariI, rammentando bene quella battaglia, in seguito alla quale era finito a marcire per quasi un anno nelle segrete della royacy di Brajar. «Quanto a fare il castellano, l’assedio si è concluso con la nostra sconfitta e, come corriere, per ben due volte per poco non mi hanno impiccato come spia.» Per non parlare delle tre volte in cui mi hanno torturato, in aperta violazione alla tregua in corso. «E adesso… so remare e conosco cinque modi diversi per cucinare i ratti.» In effetti, ho così fame che non mi dispiacerebbe un bel ratto arrostito.

La Provincara continuò a scrutarlo, puntandogli addosso i suoi occhi acuti, ma lui non riuscì a capire che cosa stesse scorgendo nei suoi lineamenti… Magari la sua estrema stanchezza… o forse aveva intuito che era affamato. Sì, doveva averlo capito, perché, con un sorrisetto, gli disse: «In tal caso, Castillar, venite a cena con noi… Anche se dubito che il nostro cuoco vi possa offrire dei ratti, perché non è un piatto di moda nella pacifica Valenda. Nel frattempo, rifletterò sulla vostra richiesta».

Cazaril fece un muto cenno di ringraziamento, esitando a parlare per timore che la voce gli s’incrinasse.


Essendo ancora inverno, il pasto principale della famiglia veniva consumato a mezzogiorno, formalmente, nella grande sala. La cena, più leggera, era costituita prevalentemente dal pane e dalle carni avanzati a mezzogiorno. Ciò dipendeva dalla mentalità economa della Provincara, il cui orgoglio tuttavia esigeva altresì che si trattasse di cibo della migliore qualità, accompagnato da dosi generose di vini eccellenti. Quando invece imperversava l’intenso calore estivo, accadeva l’inverso: il pasto di mezzogiorno non era che uno spuntino, mentre la cena si teneva dopo il calare della notte, quando i baociani di ogni classe sociale si sedevano a mangiare nella frescura dei loro cortili, alla luce delle lanterne.

Quella sera, a tavola, erano soltanto in otto e si accomodarono in una camera privata del nuovo edificio, adiacente alle cucine. La Provincara prese posto a centro tavola, concedendo il posto d’onore alla sua destra a Cazaril, che rimase alquanto intimidito nel trovarsi accanto la Royesse Iselle, seduta di fronte al fratello, il Royse Teidez. Ma si rincuorò un poco quando, per far passare il tempo in attesa che tutti i commensali fossero arrivati, Teidez si mise a scagliare palline di mollica di pane contro la sorella maggiore, manovra immediatamente stroncata da un’occhiata severa della nonna. Negli occhi della Royesse Iselle era però affiorato un bagliore che faceva presagire una rappresaglia nei confronti del fratello. La rappresaglia fu sventata soltanto da un tempestivo intervento di Betriz, seduta dalla parte opposta del tavolo e un po’ spostata di lato rispetto a Cazaril.

Dal suo posto, Betriz gli lanciò un sorriso amichevole e venato di curiosità, che rivelò un’affascinante fossetta su una guancia. Sembrò addirittura sul punto di rivolgergli la parola, quando un servitore si accostò al tavolo e offrì a ciascuno una bacinella per lavarsi le mani, piena di acqua calda profumata di verbena. Le dita di Cazaril presero a tremare vistosamente mentre lui le immergeva nell’acqua, asciugandole poi in un fine asciugamano di lino. Provvide a nascondere il più in fretta possibile quel tremore abbassando le mani in grembo.

Notando che la sedia di fronte a lui era ancora vuota, dopo un momento accennò a essa con la testa e, in tono un po’ diffidente, chiese alla Provincara: «La Royina Vedova non si unirà a noi per cena, Vostra Grazia?»

«Purtroppo, stasera Ista non sta abbastanza bene», replicò lei, con espressione tesa. «Lei… consuma la maggior parte dei pasti nella sua camera.»

Reprimendo a fatica il disagio, Cazaril decise di chiedere in seguito, a qualcun altro, quale fosse l’esatta natura del male che opprimeva la madre del Royse e della Royesse. L’espressione della Provincara lasciava comunque intuire che si trattasse di qualcosa di cronico, di una malattia prolungata o di una cosa troppo dolorosa perché lei desiderasse discuterne. La prematura vedovanza aveva risparmiato a Ista il pericolo connesso ad altre gravidanze, che costituivano il rischio maggiore per la salute delle giovani donne, però esistevano molte altre spaventose malattie che affliggevano le donne di mezz’età… In qualità di seconda moglie del Roya Ias, Ista si era trovata sposata con un uomo di mezz’età, il cui figlio primogenito ed Erede, Orico, a quel tempo era già adulto. Nel breve tempo in cui era rimasto alla corte di Chalion, e pur mantenendo sempre le adeguate distanze, Cazaril aveva osservato la Royina, ricavandone l’impressione che fosse felice e che il Roya adorasse lei, ma anche la pìccola Iselle e il neonato Teidez.

Quella felicità era poi stata oscurata dalla tragedia connessa al tradimento di Lord dy Lutez, una tragedia che, come aveva sostenuto la maggior parte degli osservatori, aveva addolorato il Roya Ias a tal punto di affrettarne la morte prematura. Cazaril non poté fare a meno di chiedersi se la malattia che aveva indotto la Royina Ista a lasciare la corte del figlio adottivo non avesse qualche spiacevole risvolto politico… A detta di tutti, comunque, il Roya Orico si era sempre dimostrato rispettoso nei confronti della matrigna e gentile verso Teidez e Iselle.

Schiarendosi la gola per nascondere il brontolio dello stomaco vuoto, Cazaril osservò il gentiluomo, seduto in fondo alla tavola, oltre Lady Betriz, che faceva da tutore al Royse. In risposta a un regale cenno del capo della Provincara, l’uomo guidò la preghiera alla Santa Famiglia, perché benedicesse il pasto imminente, che Cazaril si augurava essere davvero tale. E il mistero della sedia vuota trovò la sua spiegazione allorché il siniscalco, Ser dy Ferrej, sopraggiunse con aria trafelata, scusandosi per il ritardo prima di prendere posto con gli altri.

«Sono stato trattenuto dal Divino dell’Ordine del Bastardo», spiegò, mentre pane, carne e frutta venivano passati tra i presenti.

Cercando di non lanciarsi sul cibo come un cane affamato, Cazaril si rivolse al siniscalco con un suono interrogativo e cominciò a mangiare.

«Un giovane molto serio e decisamente logorroico», aggiunse dy Ferrej, a mo’ di spiegazione.

«Che voleva?» domandò la Provincara. «Altre donazioni per l’ospizio dei trovatelli? Abbiamo già mandato un carico la settimana scorsa, e i servi del castello rifiutano di rinunciare ad altri vestiti vecchi.»

«Chiede balie», rispose dy Ferrej, con la bocca piena.

«Non dalla mia casa», dichiarò la Provincara, sbuffando.

«No, però voleva che facessi sapere in giro che il Tempio è in cerca di balie, nella speranza che qualcuno abbia una parente decisa a fare un atto di carità. La scorsa settimana un altro neonato è stato depositato davanti alle loro porte e si aspettano di vederne affluire altri. A quanto pare, è il periodo dell’anno in cui questo fenomeno è più frequente.»

Secondo la logica della teologia da cui era animato, l’Ordine del Bastardo classificava le nascite indesiderate fra le cose fuori stagione che ricadevano sotto la giurisdizione del suo Dio, inclusi naturalmente i bastardi e i bambini rimasti orfani di entrambi i genitori quand’erano ancora troppo piccoli. Gli ospedali per i trovatelli e gli orfanotrofi del Tempio erano una delle cose più importanti di cui l’Ordine si occupava; Cazaril non poté fare a meno di pensare che, per un Dio che comandava legioni di demoni, non doveva essere difficile ottenere donazioni per le sue opere buone.

Benché lo considerasse un crimine, dato che si trattava di un’annata eccellente, Cazaril annacquò il proprio vino, temendo che gli andasse alla testa. Accorgendosene, la Provincara gli rivolse un cenno di approvazione, ma nel contempo si lanciò in una discussione relativa proprio all’annacquamento del vino con la sua dama di compagnia, emergendone almeno in parte trionfante e con in mano mezzo bicchiere di vino non allungato.

«Il Divino mi ha però raccontato anche una storia interessante», continuò dy Ferrej, dopo un momento. «Indovinate chi è morto la scorsa notte…»

«Chi, padre?» fu pronta a chiedere Lady Betriz.

«Ser dy Naoza, il famoso spadaccino.»

Quel nome risultò del tutto nuovo a Cazaril, ma non alla Provincara, che sbuffò. «Era ora», disse. «Un uomo orribile. Io non ho mai voluto riceverlo, anche se suppongo che ci siano stati alcuni stolti che lo hanno fatto. Ha finalmente sottovalutato la sua vittima di turno… voglio dire, il suo avversario?»

«È a questo punto che la storia si fa interessante: a quanto pare, è stato assassinato mediante la magia di morte», replicò dy Ferrej, sorseggiando quindi il vino in attesa che il mormorio di sorpresa dei suoi ascoltatori si spegnesse. Di fronte a lui, Cazaril smise di colpo di masticare.

«Il Tempio ha intenzione di risolvere questo mistero?» chiese infine la Royesse Iselle.

«Non esiste nessun mistero in questa che, a quanto ho capito, è una vera e propria tragedia. Circa un anno fa, dy Naoza è stato spinto per strada dal figlio di un mercante di lana di provincia, col solito risultato. Naturalmente, dy Naoza ha sostenuto che si è trattato di un duello, ma chi ha assistito alla scena sostiene che sia stato un vero e proprio omicidio a sangue freddo. Chissà come, però, quando il padre del ragazzo ha cercato di far processare Naoza, nessuno di quei testimoni è più stato reperibile. Sono addirittura corse voci sulla probità del giudice.»

La Provincara accolse quelle affermazioni con un verso di disgusto.

«Continuate», si azzardò a dire Cazaril, sempre più interessato.

«Quel mercante era vedovo, e quello era il suo unico figlio», riprese il siniscalco, incoraggiato dal suo interessamento. «Ad aggravare le cose, il ragazzo era prossimo a sposarsi. Certo, la magia di morte è una cosa decisamente spiacevole, ma non posso fare a meno di nutrire una certa comprensione per quel povero mercante… Ecco, almeno suppongo che fosse ricco, ma di certo era troppo vecchio per usare la spada con un’abilità pari a quella di dy Naoza. Probabilmente la magia nera gli è parsa la sua unica alternativa, e ha dedicato tutto l’anno successivo a studiarla… Al Tempio, badate bene, non hanno idea di come abbia appreso quelle cognizioni. Il mercante, tuttavia, aveva smesso di seguire i propri affari, almeno a quanto mi hanno detto. La scorsa notte, quel mercante si è recato in un mulino abbandonato, a una decina di chilometri da Valenda, ha cercato di evocare un demone… e ci è riuscito! Il suo corpo è stato trovato nel mulino, stamattina.»

Il Padre dell’Inverno era il Dio di tutte le morti che si verificavano a tempo debito, nonché il Dio della giustizia, mentre il Bastardo, oltre a occuparsi di varie calamità, era anche il Dio dei boia ed era preposto a svariati lavori sporchi. Pare che il mercante si sia rivolto alla persona giusta, per ottenere il suo miracolo, pensò Cazaril, mentre il libriccino che aveva in tasca gli sembrava di colpo pesantissimo e a rischio di prendere fuoco da un momento all’altro.

«Io non nutro nessuna compassione per lui», dichiarò il Royse Teidez. «Ha agito da vigliacco.»

«Certo, ma cosa ci si può aspettare da un mercante?» ribatté il suo tutore, seduto dall’altra parte del tavolo. «Gli uomini di quella classe non vengono allevati nell’osservanza del genere di codice d’onore che viene invece insegnato a un gentiluomo.»

«È una storia così triste», interloquì Iselle. «Mi riferisco al fatto che quel ragazzo stava per sposarsi.»

«Ragazze!» sbuffò Teidez. «Tutto quello cui riuscite a pensare è il matrimonio. Cosa costituisce però la perdita maggiore per il regno? Un mercante avido di denaro oppure uno spadaccino? Qualsiasi uomo tanto abile nell’usare la spada non può che essere un buon soldato per il Roya!»

«Non è quello che mi ha insegnato l’esperienza», commentò Cazaril, asciutto.

«Che intendete?» fu pronto a sfidarlo Teidez.

«Chiedo scusa», mormorò Cazaril, intimidito. «Ho parlato a sproposito.»

«Qual è la differenza?» insistette Teidez.

«Spiegatevi, Castillar», intervenne la Provincara, tamburellando con le dita sulla tovaglia e scoccando a Cazaril un’occhiata indecifrabile.

«La differenza, Royse, è che un abile soldato uccide i nemici, mentre un abile spadaccino uccide gli alleati», rispose Cazaril, scrollando le spalle e accennando un inchino in direzione del ragazzo. «Lascio a voi immaginare quale dei due un comandante saggio preferisca avere al suo fianco.»

«Oh», commentò Teidez, poi assunse un’espressione pensosa.

A quanto pareva, non c’era nessuna fretta di restituire il libriccino del mercante alle autorità, cosa che non avrebbe comunque comportato nessuna difficoltà. L’indomani, Cazaril poteva recarsi, con comodo, al Tempio della Sacra Famiglia, lì a Valenda, e consegnarlo, in modo che venisse inoltrato a chi di dovere. Bisognava decifrarlo, certo, un’operazione che alcuni trovavano noiosa o difficile, ma che a lui era sempre piaciuta. Si chiese persino se fosse il caso di offrirsi di provvedere alla decifrazione. Abbassò una mano ad accarezzare la morbida lana della veste, lieto ancora una volta di aver pregato per l’anima di quell’uomo, mentre il suo corpo veniva affrettatamente bruciato.

«Chi era il giudice, padre?» domandò Betriz, che aveva assunto un’espressione accigliata.

«L’Onorevole Vrese», rispose dy Ferrej, dopo una lieve esitazione, accantonata con una scrollata di spalle.

«Ah, lui», commentò la Provincara, arricciando il naso come se avesse sentito un odore sgradevole.

«Lo spadaccino lo ha forse minacciato?» chiese la Royesse Iselle. «In tal caso, non avrebbe dovuto… chiedere aiuto o far arrestare dy Naoza?»

«Dubito che perfino dy Naoza fosse tanto stupido da minacciare un Justiciar della provincia», replicò dy Ferrej. «Anche se è possibile che abbia intimidito i testimoni. Quanto a Vrese… È più probabile che sia stato gestito con metodi più pacifici.» S’infilò in bocca il pezzetto di pane che aveva in mano e sfregò l’indice e il pollice, a indicare che il mezzo utilizzato era stato il denaro.

«Se il giudice avesse fatto il suo mestiere con onore e con coraggio, quel mercante non sarebbe mai stato spinto a ricorrere alla magia di morte», dichiarò Iselle, scandendo le parole. «Due uomini sono ormai morti e dannati, mentre questa sorte sarebbe dovuta toccare a uno soltanto… Senza contare che, se fosse stato giustiziato, dy Naoza avrebbe avuto modo di purificare la propria anima prima di affrontare gli Dei. Se queste cose sono risapute, come mai quell’uomo è ancora un giudice? Nonna, non puoi fare qualcosa al riguardo?»

«La nomina dei Justiciar provinciali non dipende da me, mia cara, e neppure la loro rimozione…» rispose la Provincara con espressione contrariata. «Il loro dipartimento sarebbe gestito in maniera più ordinata, te lo garantisco.» Bevve un sorso di vino; poi, nel notare l’espressione accigliata della nipote, aggiunse: «Qui, nella Baocia, ho grandi privilegi, bambina, ma non ho grandi poteri».

Iselle lanciò un’occhiata a Teidez, poi una a Cazaril, ripetendo la stessa domanda posta poco prima dal fratello, ma con voce molto seria. «Qual è la differenza?»

«Una cosa è il diritto a governare… e a elargire protezione; un’altra è il diritto a ricevere protezione», spiegò la Provincara. «Purtroppo, fra un Provincar e una Provincara esiste una differenza che va ben oltre una semplice lettera in più o in meno nel titolo.»

«Come la differenza tra un Royse e una Royesse?» sogghignò Teidez.

«Davvero?» ribatté Iselle, girandosi a fissarlo con le sopracciglia inarcate. «In tal caso, ragazzo privilegiato, posso sapere come ti proponi di rimuovere quel giudice corrotto?»

«Ora basta, voi due», intervenne la Provincara, nel tipico tono di una nonna abituata a essere obbedita. Cazaril sorrise. All’interno di quelle mura, lei era senza dubbio la sovrana assoluta, in virtù di un codice più antico di quello di Chalion, e quel piccolo Stato le era più che sufficiente.

La conversazione si spostò quindi su argomenti più leggeri, mentre i servi provvedevano a portare formaggio, dolci e un vino di Brajar. Cazaril si era rimpinzato per bene, anche se sperava che nessuno se ne fosse accorto, e sapeva di dover smettere se non voleva correre il rischio di sentirsi male. Ma la vista di quel vino da dessert di colore dorato gli fece quasi salire le lacrime agli occhi e lui non seppe trattenersi dal gustarlo senza allungarlo con l’acqua, anche se si limitò a un bicchiere soltanto.

Il pasto fu concluso da altre preghiere di ringraziamento, poi il Royse Teidez venne trascinato via dal suo tutore per riprendere gli studi; subito dopo, anche Iselle e Betriz si allontanarono a passo spedito, seguite con più calma da dy Ferrej, per andare a dedicarsi al cucito.

«Riusciranno davvero a starsene sedute a cucire?» chiese Cazaril alla Provincara, osservando quel vortice di sottane che svanivano in lontananza.

«Spettegolano e ridacchiano finché non riesco più a sopportarle, ma sono molto brave a cucire», replicò la Provincara, il cui tono di disapprovazione era smentito dalla luce dello sguardo.

«Vostra nipote è una deliziosa giovane dama.»

«Cazaril, quando un uomo raggiunge una certa età, tutte le giovani dame cominciano ad apparirgli deliziose. È il primo sintomo di senilità.»

«È vero, mia signora», convenne Cazaril, con un accenno di sorriso.

«Iselle ha già logorato due governanti, e pare ben avviata a distruggerne una terza, almeno a giudicare dalle sue lamentele, e tuttavia… dev’essere forte», affermò la Provincara, con una nota cauta nella voce tagliente. «Un giorno, inevitabilmente, verrà mandata lontano da me, e non sarò più in grado di aiutarla… di proteggerla…»

Nella politica di Chalion, una giovane e attraente Royesse era una pedina e non un giocatore. Senza dubbio, il prezzo che avrebbero richiesto per darla in sposa sarebbe stato elevato, eppure un matrimonio politicamente e finanziariamente fortunato poteva non essere tale da un punto di vista più intimo e personale. Da quel punto di vista, il destino era stato benigno con la Provincara, ma, nel corso della sua vita, lei di certo aveva visto numerose dame di nobile nascita andare incontro a una sorte molto meno favorevole della sua. Iselle sarebbe stata inviata nella lontana Darthaca? Oppure sarebbe andata in sposa a qualche cugino anche troppo prossimo della royacy di Brajar? Oppure, che gli Dei non volessero, sarebbe stata contrattata la sua unione con qualche principe roknari in cambio di una pace temporanea, e lei avrebbe finito per trovarsi esiliata nell’Arcipelago?

«Quanti anni avete adesso, Castillar?» chiese la Provincara, scoccandogli un’occhiata in tralice alla luce dei grandi candelabri che le erano sempre piaciuti molto. «Mi pare di ricordare che ne avevate tredici, quando vostro padre vi ha inviato al servizio del mio caro Provincar.»

«Sì. Vostra Grazia. Adesso ne ho trentacinque.»

«Ah. Sapete, dovreste radervi quel cespuglio che vi cresce sulla faccia, perché vi fa sembrare quindici anni più vecchio.»

Cazaril pensò di ribattere che una lunga permanenza sulle galee dei roknari poteva invecchiare notevolmente un uomo, ma quella era una cosa su cui non si sentiva di scherzare. «Spero di non aver irritato il Royse con le mie divagazioni, Vostra Grazia», disse invece.

«Credo invece che voi abbiate indotto il giovane Teidez a soffermarsi a riflettere, il che è un evento raro. Vorrei che il suo tutore riuscisse a fare altrettanto con maggiore frequenza.» La Provincara tamburellò per un momento sulla tovaglia con le dita sottili, poi finì il vino che aveva nel bicchiere e aggiunse: «Non so in quale pulciosa locanda voi abbiate preso alloggio, giù in città, Castillar, ma adesso manderò un paggio a prendere le vostre cose. Stanotte vi fermerete qui».

«Ringrazio Vostra Grazia e accetto con gratitudine», rispose Cazaril, rivolgendo una silenziosa preghiera agli Dei per quell’ospitalità. Poi, con fare imbarazzato, proseguì: «Però… ecco… non sarà necessario disturbare il vostro paggio».

«Come forse ricorderete, i paggi esistono proprio per questo», ribatté la dama, inarcando un sopracciglio.

«Sì, però… le mie cose sono tutte qui», confessò Cazaril, indicando se stesso e, nel notare l’espressione d’un tratto addolorata della Provincara, si affrettò a continuare: «Possedevo anche meno, quando sono sbarcato dalla galea ibrana, a Zagosur». Era coperto di croste e aveva addosso soltanto un paio di luridi calzoni, che gli Accoliti poi avevano bruciato.

«In tal caso, il mio paggio vi accompagnerà nella vostra stanza», replicò la Provincara, continuando a fissarlo intensamente. «Buonanotte, mio signore dy Cazaril», si congedò quindi, accennando ad alzarsi, assistita dalla dama di compagnia. «Parleremo ancora domani.»


La camera era una di quelle della vecchia fortezza, riservate agli ospiti di riguardo, più per il fatto che in esse avevano dormito numerosi Roya d’importanza storica che non per la loro effettiva comodità. All’epoca in cui era un paggio, Cazaril aveva servito in centinaia di occasioni coloro che vi avevano alloggiato. Il letto aveva tre materassi — di paglia, di penne e di piume ed era coperto da morbide lenzuola di lino e da un copriletto ricamato dalle dame della famiglia.

Il paggio non si era ancora congedato allorché sopraggiunsero due cameriere, portando acqua da bere e per lavarsi, asciugamani, sapone e una camicia da notte ricamata, completa di papalina e di pantofole. Cazaril, che aveva pensato di dormire con la camicia presa al morto, venne quasi sopraffatto da quell’abbondanza e si sedette sul bordo del letto, con la camicia da notte fra le mani, scoppiando in un pianto violento. Scosso dai singhiozzi, con un cenno fece capire ai servitori, sconvolti, di lasciarlo solo.

«Che gli ha preso?» disse una delle cameriere, mentre i passi dei tre si allontanavano lungo il corridoio, e le lacrime continuavano a scendere.

«Probabilmente è pazzo», replicò il paggio, in tono disgustato.

La voce della cameriera, più fievole per la distanza, arrivò di nuovo all’orecchio di Cazaril. «In tal caso, qui si troverà nell’ambiente adatto a lui, non credi?»

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