Nel raggiungere la base delle scale, Cazaril sentì un rumore di piedi femminili che scendevano in fretta i gradini. Era Lady Betriz che cercava di raggiungerlo, tra un frusciare di gonne color lavanda. «Lord Cazaril! Cosa sta succedendo? Abbiamo sentito gridare… Una delle cameriere afferma che il Royse Teidez è impazzito e ha cercato di uccidere gli animali del Roya!»
«Non è pazzo… Credo sia stato ingannato. E non ci ha provato… ci è riuscito», precisò Cazaril, riassumendo con quelle amare parole tutto l’orrore che si era scatenato nel serraglio.
«Ma perché?» sussurrò Betriz, con voce arrochita dallo sgomento.
«Da ciò che sono riuscito a stabilire, tutto è nato da una menzogna di Lord Dondo», replicò Cazaril, scuotendo il capo. «Ha convinto il Royse che Umegat era un mago roknari e che stava usando in qualche modo gli animali per avvelenare il Roya, mentre era esattamente il contrario: gli animali mantenevano in vita Orico, il quale ha avuto un collasso. Per i cinque Dei, non vi posso spiegare tutto qui sulle scale. Riferite alla Royesse Iselle che andrò da lei al più presto, ma che prima mi devo occupare degli stallieri feriti. E state lontane… Tenete Iselle lontana dal serraglio.» Poi pensò che sarebbe stato meglio assegnare qualche compito a Iselle e aggiunse: «Andate a tenere compagnia a Sara, tutte e due. Quella poveretta è sconvolta». Riprese a scendere le scale, oltrepassando il punto in cui in precedenza era stato — deliberatamente? — tenuto lontano dal serraglio dagli spasmi al ventre. A quanto pareva, lo spettro di Dondo non stava facendo nulla per bloccarlo, adesso.
Giunto al serraglio, vide che Palli e i suoi uomini avevano già provveduto a trasportare Umegat e gli altri stallieri feriti più gravemente all’ospedale della Madre. All’interno, l’unico inserviente rimasto stava cercando invano di catturare un isterico uccellino giallo e azzurro, che era in qualche modo sfuggito al capitano delle guardie baociane e si era rifugiato sulle travi del tetto; nel frattempo, alcuni servitori che lavoravano nelle stalle erano giunti lì per dare una mano, e uno di essi si era tolto il tabarro, con cui stava cercando di colpire e di far cadere il volatile.
«Smettila!» ingiunse Cazaril, reprimendo un’ondata di panico, dato che, per quanto ne sapeva, quella piccola creatura piumata poteva essere l’ultimo filo che teneva in vita Orico. Incaricò quegli aiutanti improvvisati di rimuovere le carcasse degli animali uccisi, adagiandole nel cortile delle stalle, e di ripulire il sangue che macchiava le piastrelle. Raccolta una manciata di chicchi di grano avanzati dall’ultimo, interrotto pasto dei velia, cercò di convincere l’uccellino a scendergli sulla mano, chiamandolo con gli stessi versi ciangottanti che aveva sentito usare a Umegat. Con sua sorpresa, il volatile scese subito da lui e si lasciò rimettere nella gabbia. «Proteggilo a prezzo della vita», ingiunse allora Cazaril allo stalliere e, accigliandosi per dare maggior enfasi alle proprie parole, aggiunse: «Se dovesse morire, morirai anche tu».
Si trattava di una minaccia alla quale il Castillar non avrebbe mai dato corso, però l’uomo sembrò piuttosto impressionato. Cazaril tuttavia non poté fare a meno di chiedersi se la morte dell’uccello avrebbe causato davvero anche quella di Orico. D’un tratto quella concatenazione gli sembrava spaventosamente plausibile.
Lasciata la voliera, Cazaril si diresse verso i garzoni che stavano trascinando fuori le pesanti carcasse dei due orsi.
«Dobbiamo scuoiarli, mio signore?» domandò uno dei giovani, fissando le vittime dell’infernale caccia organizzata da Teidez.
«No!» esclamò Cazaril, notando che i pochi corvi di Fonsa rimasti non accennavano ad avvicinarsi alle carcasse insanguinate, pur adocchiandole con evidente interesse. «Trattateli come fareste con soldati del Roya caduti in battaglia. Bruciateli o seppelliteli, ma ricordate che non devono essere scuoiati… e neppure mangiati, per amore degli Dei!» Deglutendo a fatica, si chinò per aggiungere alla fila dei corpi anche i due corvi morti, e aggiunse: «Per oggi sono già stati commessi fin troppi sacrilegi». Sempre sperando che Teidez non avesse ucciso anche un santo, oltre agli animali sacri.
Un martellare di zoccoli annunciò l’arrivo di Martou dy Jironal, che era stato probabilmente rintracciato a Palazzo Jironal. Era seguito da quattro servitori, affannati per via della corsa su per la collina. Sceso di sella, il Cancelliere affidò il cavallo, innervosito dall’odore del sangue, alle cure di uno stalliere e avanzò sino alla fila di animali morti. Per un momento, le sue labbra si mossero a vuoto, senza articolare parola. «Che follia è mai questa?» chiese infine, sollevando su Cazaril uno sguardo sconcertato e insospettito. «Siete stato voi a indurre Teidez a fare una cosa del genere?»
Osservandolo, Cazaril si convinse che dy Jironal non stava fingendo, e che era davvero sconvolto. «Io? No! Non ho nessun controllo su Teidez», ribatté. «E a quanto pare non ne avete neppure voi, considerato che lui è rimasto sempre in vostra compagnia per le ultime due settimane. Possibile che non abbia tradito in nessun modo le sue intenzioni?»
Dy Jironal scosse il capo.
«A sua difesa, Teidez ha addotto un’idea assai confusa, secondo la quale un simile atto era inteso ad aiutare il Roya. Che lui non abbia avuto maggiore buon senso è da mettere in relazione con la sua giovane età, però… Orico e voi non gli siete certo stati d’aiuto: se fosse stato messo al corrente della verità, non si sarebbe lasciato imbottire di menzogne. Ho fatto rinchiudere in cella le sue guardie baociane e l’ho confinato nel suo alloggio, in attesa… dei vostri ordini.» Cazaril sapeva che, dal Roya, non sarebbero più giunti ordini.
«Un momento», ribatté dy Jironal, abbozzando un gesto secco. «Ieri, il Royse è rimasto a lungo a colloquio con sua sorella, in privato. Non è possibile che sia stata lei a dargli questa idea?»
«Ci sono cinque testimoni che possono negarlo, incluso lo stesso Teidez, che comunque ieri non ha dimostrato in nessun modo di avere in mente una cosa del genere.» O, meglio, non lo ha dimostrato quasi in nessun modo, pensò Cazaril.
«Il controllo che esercitate sulla Royesse Iselle è troppo assoluto», scattò dy Jironal. «Credete che non sappia chi ha incoraggiato il suo atteggiamento di sfida? Non riesco a capire quale sia il motivo del suo pernicioso attaccamento nei vostri confronti, ma è un legame che ho intenzione di troncare.»
«Già», replicò Cazaril, a denti stretti. «La scorsa notte, dy Joal ha cercato di usare il coltello in vostra vece, ma adesso sa che la prossima volta dovrà chiedervi di più per i suoi servigi, perché si tratta di un lavoro rischioso.» Un bagliore di comprensione affiorò nello sguardo di dy Jironal e, nel notarlo, Cazaril si costrinse a trarre un profondo respiro per controllarsi. Quella situazione stava facendo affiorare in maniera troppo netta l’ostilità tra loro… e l’ultima cosa di cui lui aveva bisogno era trovarsi al centro dell’attenzione di dy Jironal. «In ogni caso, chi sia il responsabile non è un mistero: Teidez afferma che il vostro caro fratello Dondo aveva complottato questa follia con lui, prima di morire.»
Dy Jironal indietreggiò di un passo, sgranando gli occhi.
«E adesso, mi piacerebbe veramente sapere una cosa… E la chiedo a voi, dato che vi trovate nella posizione di conoscere la risposta… Dondo era al corrente di ciò che il serraglio faceva per Orico?» chiese Cazaril.
«Voi che ne sapete?» ribatté dy Jironal, fissandolo negli occhi.
«Ormai è una cosa di dominio pubblico, allo Zangre, dato che Orico è stato colpito da improvvisa cecità ed è crollato dalla sedia nel momento stesso in cui le sue creature morivano. Sara e le sue dame lo hanno messo a letto, mandando poi a chiamare i medici del Tempio», rispose Cazaril, eludendo la domanda. Dy Jironal impallidì e si girò di scatto, avviandosi verso i cancelli dello Zangre, senza soffermarsi a chiedere notizie di Umegat.
Cazaril rifletté che il Cancelliere doveva sapere qual era l’effetto del serraglio, ma si chiese altresì se avesse compreso come funzionava la cosa. Scuotendo il capo, perplesso, si avviò nella direzione opposta a quella presa dal Cancelliere, affrontando un altro stancante tragitto fino in città.
A Cardegoss, il Tempio Ospedale della Misericordia della Madre era stato ricavato in una vasta e antica dimora, lasciata in eredità all’Ordine da una pia vedova, e sorgeva nella strada retrostante la Piazza del Tempio, alle spalle della Casa della Madre. Addentratosi in quella sorta di labirinto, Cazaril rintracciò Palli e Umegat in una galleria del secondo piano, al di sopra di un cortile interno, individuando infine la camera grazie alla presenza dei fratelli dy Gura, di guardia davanti alla porta chiusa. Al suo arrivo, i due lo salutarono e lo lasciarono entrare.
Trovò Umegat ancora privo di sensi, disteso su un letto con accanto una donna dai capelli bianchi, che indossava le vesti verdi di un medico del Tempio, intenta a ricucire la lacerazione al cuoio capelluto. Era assistita dalla familiare Devota di mezz’età dall’aria triste, avvolta in un chiarore iridescente che non aveva nulla a che vedere col verde delle sue vestì, una luce che Cazaril era in grado di scorgere anche con gli occhi chiusi. L’Arcidivino di Cardegoss in persona, abbigliato con le consuete vesti a cinque colori, era fermo accanto al letto, mentre Palli se ne stava appoggiato alla parete con le braccia conserte. Quando vide Cazaril, il volto gli si rasserenò e lui si mosse per andargli incontro.
«Come sta?» mormorò Cazaril.
«Quel poveretto è ancora svenuto», rispose Palli. «Deve aver ricevuto un colpo davvero violento. Come vanno le cose, al castello?»
Mentre Cazaril gli riferiva la notizia dell’improvviso collasso di Orico, l’Arcidivino Mendenal si avvicinò per ascoltare, e il medico lanciò loro un’occhiata da sopra la spalla. «Siete stato informato di quanto è successo, Arcidivino?» chiese infine.
«Oh, sì. Raggiungerò i medici di Orico allo Zangre non appena mi sarà possibile», rispose Mendenal.
Se pure era incuriosito dal fatto che uno stalliere ferito meritasse l’interessamento dell’Arcidivino più del Roya, il medico non lo diede a vedere se non con un lieve inarcarsi delle sopracciglia. Applicato l’ultimo punto, immerse un panno in una bacinella per lavare via le incrostazioni di sangue dalla tempia rasata, poi si asciugò le mani, sollevò le palpebre di Umegat per controllare gli occhi, rovesciati all’indietro nelle orbite, e si raddrizzò, cedendo il posto alla levatrice della Madre, che provvide a raccogliere la treccia sinistra tagliata a Umegat e il resto delle attrezzature, ripulendo la stanza.
«Allora?» domandò l’Arcidivino Mendenal al medico, serrandosi le mani con fare ansioso.
«Il cranio non risulta fratturato al tatto e lascerò la ferita scoperta per meglio controllare eventuali emorragie o segni di gonfiore. Per il momento, non posso dire altro, finché non si sveglierà. Fino ad allora, possiamo solo tenerlo al caldo e sorvegliarlo.»
«Quando pensate che si riprenderà?»
Il medico si girò a fissare il paziente con aria dubbiosa, imitato da Cazaril. Curato e schizzinoso com’era abitualmente, Umegat avrebbe detestato vedersi arruffato, rasato a metà e del tutto inerte. La sua pelle aveva ancora un colore grigiastro che, a causa della sua dorata carnagione roknari, lo faceva somigliare a uno straccio sporco, e il respiro era affaticato, il che non era un buon segno. Sul campo, Cazaril aveva visto uomini nelle sue condizioni riprendersi e guarire, ma ne aveva anche visti molti altri morire.
«Non sono in grado di dirlo», replicò infine il medico, con una diagnosi che corrispondeva a quella di Cazaril.
«Allora lasciateci soli. Per ora, provvederà l’Accolita a vegliarlo.»
«Sì, Vostra Reverenza», annuì il medico, inchinandosi, poi prese i suoi strumenti e, rivolta alla levatrice, ordinò: «Mandami a chiamare immediatamente se dovesse svegliarsi, o se insorgesse la febbre, o nel caso sia assalito dalle convulsioni».
«Lord dy Palliar, vi ringrazio per il vostro aiuto», disse l’Arcidivino. «Lord Cazaril, per favore, trattenetevi ancora un momento.»
«Non c’è di che, Vostra Reverenza», replicò Palli. Dopo un momento, rendendosi conto che gli era stato chiesto di andarsene, aggiunse: «Ah… Caz, se non hai bisogno di altro…?»
«Per ora no.»
«In tal caso, forse è bene che faccia ritorno alla Casa della Figlia. Se avessi bisogno di qualcosa, mandami a chiamare là, o a Palazzo Yarrin, e ti raggiungerò subito. Inoltre, non dovresti andare in giro da solo», aggiunse, scoccandogli un’occhiata severa, per accertarsi che le sue parole venissero interpretate come un ordine e non come un mero suggerimento. Inchinatosi a sua volta, aprì la porta e lasciò uscire per primo il medico, avviandosi per seguirlo.
Non appena il battente si fu richiuso, Mendenal si girò verso Cazaril, le mani protese in un atteggiamento di supplica. «Lord Cazaril, cosa dobbiamo fare?»
«Per i cinque Dei, voi lo chiedete a me?» esclamò Cazaril.
«Lord Cazaril… Io sono Arcidivino di Cardegoss da appena due anni, e credo di essere stato scelto perché sono un buon amministratore, ma anche per compiacere la mia famiglia, considerato che mio padre e mio fratello sono stati potenti Provincar», replicò l’Arcidivino, con un sorriso contrito. «Sono stato votato all’Ordine del Bastardo quando avevo quattordici anni, con una sostanziosa dote elargita da mio padre per garantire il mio sostentamento e la mia carriera. Da allora, ho servito fedelmente gli Dei per tutta la mia vita, però… essi non mi parlano.» Spostò lo sguardo sulla levatrice dell’Ordine della Madre, con una strana espressione di disperata invidia, benché priva di qualsiasi ostilità. «Quando un uomo devoto ma comune si viene a trovare nella stessa stanza con tre santi, chiede istruzioni e non finge d’impartirne, se gli rimane un po’ di buon senso.»
«Io non sono…» cominciò Cazaril, ma si costrinse a soffocare quella protesta. La definizione teologica della sua condizione non era certo una priorità, in quel momento… Be’, una cosa, però, era certa: se il suo era uno stato di santità, allora gli Dei avevano superato loro stessi nell’inventare forme di dannazione. «Onorevole Accolita… Chiedo scusa, ma ho dimenticato come vi chiamate…»
«Io sono Clara, Lord Cazaril.»
«Accolita Clara», riprese Cazaril, con un accenno d’inchino, «riuscite a scorgere… il bagliore di Umegat? Io non ho mai avuto modo di vederlo quando… Voglio dire, il bagliore scompare se si dorme o si è svenuti?»
«Gli Dei sono con noi quando dormiamo e quando vegliamo, Lord Cazaril», replicò Clara, scuotendo il capo. «Senza dubbio non ho una vista potente quanto la vostra, ma… Sì, il Bastardo ha ritratto la sua presenza dall’Erudito Umegat.»
«Oh, no», sussurrò Mendenal.
«Ne siete certa?» insistette Cazaril. «Non potrebbe trattarsi di un difetto della mia, e della vostra, seconda vista?»
«No», ribatté lei, sussultando leggermente. «Riesco a vedere la vostra luce con la massima chiarezza. L’ho scorta prima ancora che voi varcaste la porta, e adesso mi riesce quasi doloroso restare nella stessa stanza con voi.»
«Questo significa che il miracolo del serraglio è stato infranto?» domandò Mendenal ansiosamente, indicando lo stalliere svenuto. «Che adesso non abbiamo più nessun argine con cui frenare la nera marea della maledizione?»
«Umegat non ospita più il miracolo», replicò Clara, in tono esitante. «Tuttavia non posso sapere se il Bastardo lo ha trasferito presso la volontà di qualcun altro.»
«La sua, magari?» insistette Mendenal, girandosi a fissare Cazaril con aria speranzosa.
L’Accolita fissò Cazaril con espressione accigliata, sollevando una mano verso la fronte come per schermarsi gli occhi.
«Se sono una santa, come mi ha classificata l’Erudito Umegat, sono soltanto una piccola santa domestica. Infatti, se, nel corso degli anni, la tutela di Umegat non avesse acuito le mie percezioni, avrei continuato a credere di essere semplicemente dotata di una fortuna insolita nell’esercizio della mia professione.»
Suo malgrado, Cazaril non poté fare a meno di pensare che, da quando si era venuto a trovare nel labirinto intessuto dagli Dei, la fortuna non era certo stata l’aspetto più saliente delle sue esperienze.
«Peraltro, la Madre si protende per mio tramite solo di tanto in tanto, per poi passare oltre, mentre Lord Cazaril… risplende, fin dalla prima volta che l’ho visto, al funerale di Lord Dondo. Si tratta della luce bianca del Bastardo e del limpido chiarore azzurro della Signora della Primavera, presenti in contemporanea… La costante, vivente presenza di due Dei, è mescolata a un’altra cosa oscura che non riesco a distinguere, ma che Umegat era in grado di vedere con maggiore chiarezza. Se il Bastardo ha aggiunto dell’altro a quanto già c’era, io non sono in grado di stabilirlo.»
L’Arcidivino si toccò la fronte, le labbra, il ventre, l’inguine e il cuore, allargando le dita e fissando Cazaril con espressione quasi avida. «Due Dei… contemporaneamente presenti, in questa stanza!» sussurrò.
Cazaril s’incurvò leggermente in avanti e serrò i pugni, orribilmente consapevole della pressione esercitata contro la sua cintura dal gonfiore che si trovava sotto di essa. «Umegat non vi ha spiegato che cosa ho fatto a Lord Dondo?» domandò. «Avete parlato con Rojeras?»
«Sì, certo, Umegat mi ha informato, e ho parlato anche con Rojeras: è un brav’uomo, ma naturalmente non ha potuto comprendere…»
«Capisce meglio di voi. Io porto nel ventre morte e assassinio, un abominio che, per quanto ne so, sta forse assumendo una forma fisica accanto a quella psichica, generata da un demone e dallo spirito dannato di Dondo dy Jironal. Tutte le notti, lo spettro mi inveisce contro, con la voce di Dondo, usando il suo vocabolario più infimo… e da vivo Dondo aveva un modo di parlare decisamente ignobile. E questo abominio non ha via d’uscita, se non sventrandomi. Non è una cosa santa, è disgustoso!»
Di fronte a quella veemenza, Mendenal indietreggiò di un passo, interdetto.
«Inoltre faccio sogni orribili», proseguì Cazaril, stringendosi la testa fra le mani. «Ho intollerabili fitte di dolore al ventre e sono soggetto a crisi d’ira incontrollabile, tanto che comincio a temere che Dondo mi stia contagiando.»
«Oh, povero me», gemette Mendenal. «Non ne avevo idea, Lord Cazaril. Umegat mi ha detto soltanto che voi eravate un po’ nervoso e spaventato, e che era meglio lasciarvi a lui.»
«Nervoso e spaventato», ripeté Cazaril, con voce opaca. «A proposito, ho accennato agli spettri?» aggiunse. Il fatto che essi gli sembrassero la minore delle sue preoccupazioni doveva certo essere indice di… qualcosa.
«Gli spettri?» gli fece eco Mendenal, perplesso.
«Tutti gli spettri presenti allo Zangre mi seguono in giro per il castello e si raccolgono di notte intorno al mio letto.»
«Oh», sussurrò Mendenal, d’un tratto preoccupato. «Ah.»
«Ah?»
«Umegat non vi ha messo in guardia, riguardo agli spettri?» domandò l’Arcidivino.
«No… ha detto che non potevano recarmi danno.»
«Ecco, sì e no. Non possono recarvi danno finché siete vivo. Tuttavia, da ciò che ha spiegato Umegat, il miracolo operato dalla Signora ha ritardato il realizzarsi del miracolo del Bastardo, non lo ha annullato. Ne consegue che se… Ecco, se la Signora aprisse la sua mano, e il demone volasse via con la vostra anima e con quella di Dondo, questo lascerebbe il vostro corpo in uno stato di… vuoto teologico, una condizione pericolosa che non corrisponde alla morte naturale. A quel punto, gli spettri degli esclusi e dei dannati cercherebbero di… insediarsi in esso.»
«E mai capitato che ci riuscissero?» domandò Cazaril, dopo una pausa carica di tensione.
«Può accadere. Quand’ero ancora un giovane Divino, ho assistito a un caso del genere. Questi spettri degradati sono creature stupide e apatiche, ma, una volta che s’impossessano di un corpo, scacciarle può essere alquanto difficile. Vedete, il corpo in questione dev’essere bruciato… vivo non è certo il termine adatto, però si tratta di una scena davvero spiacevole, soprattutto se i parenti del morto non capiscono cosa sta succedendo, perché, ovviamente, il cadavere urla con la voce del defunto… Se dovesse succedere, per voi non sarebbe un problema, giacché ormai sareste altrove. Tuttavia potreste risparmiare ad altri una serie di dolorosi fastidi se vi accertaste di avere sempre accanto qualcuno consapevole della necessità di bruciare il vostro corpo prima del tramonto…» Mendenal tacque, assumendo un’aria contrita.
«Ringrazio Vostra Reverenza», commentò Cazaril, con esagerata cortesia. «Qualora dovessi incorrere nel remoto pericolo di godere di una notte di sonno tranquillo, aggiungerò questa spiegazione alla teoria di Rojeras, secondo cui il demone si starebbe costruendo un nuovo corpo all’interno del mio tumore, preparandosi a sbranarmi dall’interno. Suppongo comunque che non ci sia motivo per cui non possano accadere entrambe le cose, l’una dopo l’altra.»
«Mi dispiace, mio signore, ma ho pensato che doveste saperlo», replicò Mendenal, schiarendosi la gola.
«Sì… suppongo di sì», sospirò Cazaril, poi sollevò la testa, ricordando d’un tratto la scena verificatasi la notte precedente con dy Joal, e aggiunse: «È possibile… Supponiamo che la presa della Signora si allenti appena un poco… In quel caso, è possibile che l’anima di Dondo filtri nella mia?»
«Io non… Umegat saprebbe dirvelo», replicò Mendenal, inarcando le sopracciglia. «Oh, quanto vorrei che si svegliasse. Suppongo comunque che, per Dondo, quello sarebbe un modo più rapido per procurarsi un corpo, piuttosto che generarne uno all’interno di un tumore, in quanto si tratterebbe di un contenitore troppo piccolo», proseguì, abbozzando un gesto incerto.
«Non secondo Rojeras», commentò seccamente Cazaril.
«Ah, povero Rojeras», mormorò Mendenal, passandosi una mano sulla fronte. «Quando gli ho chiesto di voi, ha creduto che stessi manifestando un improvviso interesse per la sua specializzazione; gli ho lasciato questa convinzione, ma ho temuto che continuasse a parlare per metà della notte. Alla fine, ho dovuto promettergli di sovvenzionare le sue ricerche, pur di sottrarmi a una visita alla sua collezione.»
«Anch’io sarei disposto a pagare per evitare una cosa del genere», convenne Cazaril. «Vostra Reverenza… come mai non sono stato arrestato per l’assassinio di Dondo? Come ha fatto Umegat a evitarmi una condanna?»
«Assassinio? Non c’è stato nessun assassinio.»
«Chiedo scusa, ma quell’uomo è morto per mia mano, mediante magia di morte, atto che costituisce un crimine passibile di pena capitale.»
«Ah, sì, ora capisco. Gli ignoranti hanno una lunga serie d’idee errate in merito alla magia di morte, considerato che perfino il suo nome è sbagliato. Si tratta di una sottile sfumatura teologica. Tentare la magia di morte costituisce un crimine di premeditazione, di cospirazione, mentre una magia di morte coronata da successo non è affatto una magia di morte, bensì un miracolo di giustizia. Di conseguenza, essa non può essere considerata un crimine, perché è la mano del Dio a portar via la vittima. Insomma, il Roya non può certo mandare le sue guardie ad arrestare il Bastardo, giusto?»
«E credete che l’attuale Cancelliere di Chalion capirebbe questa distinzione?»
«Ah… no. È stato per questo che Umegat ha suggerito che il Tempio gestisse con la massima discrezione questa… faccenda molto complicata», spiegò Mendenal, grattandosi una guancia con aria sempre più preoccupata. «Inoltre, prima d’ora non era mai capitato che chi implorava un simile atto di giustizia sopravvivesse al miracolo e la distinzione, rimanendo sul piano teorico, era molto più nitida. Due miracoli… Non ho mai pensato che si potessero verificare due miracoli, è una cosa senza precedenti. La Signora della Primavera deve amarvi molto.»
«Come un mercante ama il mulo che trasporta il suo bagaglio, frustandolo per pungolarlo a superare gli alti passi montani», ribatté Cazaril, con amarezza.
L’Arcidivino assunse un’aria sgomenta, ma Clara abbozzò un sorriso di apprezzamento. Umegat avrebbe riso apertamente. Cazaril stava cominciando a capire per quale motivo Umegat amasse conversare con lui della loro condizione: soltanto i santi parlavano in quel modo degli Dei, giacché, su quell’argomento, ci si poteva scherzare sopra oppure mettersi a gridare di terrore. Tanto gli Dei avrebbero accolto con la stessa indifferenza entrambe le reazioni.
«Tuttavia Umegat era d’accordo con me in merito al fatto che una situazione così straordinaria doveva avere uno scopo altrettanto straordinario», obiettò Mendenal. «Non avete idea di cosa possa essere?»
«Io non so nulla, Arcidivino», replicò Cazaril, con voce tremante. «E ho…»
«Sì?» lo incoraggiò Mendenal.
Se lo dico ad alta voce, mi cederanno definitivamente i nervi,pensò Cazaril. Umettandosi le labbra, deglutì a fatica e infine si costrinse a completare la frase, con voce ridotta a un sussurro roco. «Ho molta paura»,confessò.
«Oh», mormorò l’Arcidivino, dopo un lungo momento di silenzio. «Ah… Sì, capisco che debba essere… Oh, se solo Umegat si svegliasse!»
«Mio signore dy Cazaril?» chiamò in quel momento l’Accolita della Madre, schiarendosi la gola con aria diffidente.
«Sì, Clara?»
«Credo di avere un messaggio per voi.»
«Come?»
«La scorsa notte, la Madre mi ha parlato in sogno. Non ne ero certa, perché, quando dormo, il mio cervello elabora fantasie sulla base di ciò che maggiormente occupa i miei pensieri, e io penso prevalentemente a lei. Per questo motivo, oggi avevo intenzione di parlarne con Umegat, per farmi guidare dai suoi consigli. In ogni caso, lei mi ha detto…» Trasse un profondo respiro, poi il suo viso si rasserenò. «Ha detto: ’Avverti il fedele corriere di mia Figlia di guardarsi soprattutto dalla disperazione’.»
«Sì?» commentò Cazaril, dopo un momento. «E…?» Se proprio gli Dei volevano prendersi il disturbo di mandargli un messaggio tramite i sogni di altre persone, avrebbe preferito qualcosa di meno ermetico!
«Questo è tutto.»
«Ne siete certa?» chiese Mendenal.
«Ecco… Potrebbe aver detto il fedele ’cortigiano’ di mia Figlia, o ’siniscalco’ o ’capitano’ o anche tutte e quattro le cose… Quella parte è offuscata, nella mia memoria.»
«In tal caso, chi sono gli altri tre uomini?» insistette Mendenal, perplesso.
Le parole della donna riecheggiavano quelle che la Provincara gli aveva rivolto a Valenda ed ebbero l’effetto di generare un senso di gelo nel ventre dolente di Cazaril. «Io… Sono io, Arcidivino, si tratta di me», disse. Con un inchino all’Accolita e a fatica, aggiunse: «Vi ringrazio, Clara. Pregate la vostra Signora per me».
L’Accolita rispose con un silenzioso sorriso pieno di comprensione e con un lieve cenno del capo.
Lasciata Clara a vegliare su Umegat, l’Arcidivino annunciò la sua intenzione di recarsi presso il Roya Orico e, con timida diffidenza, invitò Cazaril ad accompagnarlo fino allo Zangre. Grato per l’offerta, Cazaril lo seguì, scoprendo che l’ira e il terrore si erano da tempo esauriti, lasciandolo spossato e debole, al punto che, nello scendere le scale della galleria, le ginocchia gli cedettero e lui riuscì a impedire una rovinosa caduta soltanto aggrappandosi alla ringhiera. Con suo estremo imbarazzo, Mendenal insistette allora per farlo trasportare in cima alla collina sulla propria portantina, retta da quattro robusti Devoti, procedendo a piedi accanto a lui. Per tutto il tragitto, Cazaril si sentì uno stupido, e gli parve di attirare l’attenzione generale, ma dovette ammettere di provare anche un immenso senso di gratitudine.
Il colloquio che Cazaril aveva maggiormente temuto ebbe luogo soltanto dopo cena. Convocato tramite un paggio, salì con riluttanza nel salotto della Royesse, dove Iselle lo attendeva con aria tesa, insieme con Betriz. Neppure tutte le candele che ardevano nei supporti a specchio appesi alle pareti riuscivano a dissipare l’ombra scura che la circondava.
«Come sta Orico?» chiese Cazaril alle due dame, in tono ansioso, nel prendere posto sullo sgabello indicatogli da Iselle. Sapeva che non erano scese a cenare nella sala dei banchetti, rimanendo in compagnia della Royina e del malato Roya.
«Stasera pareva più calmo, soprattutto quando ha scoperto di non essere del tutto cieco… con l’occhio destro riesce a vedere la fiamma di una candela», rispose Betriz. «Peraltro non sta urinando adeguatamente e il suo medico pensa che ci sia il rischio d’idropisia. Senza dubbio, appare terribilmente gonfio.»
«Siete riuscita a vedere Teidez?» domandò ancora Cazaril, accennando col capo in direzione della Royesse.
«Sì, dopo che il Cancelliere dy Jironal lo ha strigliato per bene», sospirò Iselle. «Teidez era troppo sconvolto per essere razionale… Se fosse più giovane lo avrei accusato di essere soltanto capriccioso. Mi dispiace che ormai sia troppo cresciuto per poterlo prendere a schiaffi. Rifiuta di mangiare, scaglia oggetti, contro i servitori e, ora che ha il permesso di lasciare le sue camere, rifiuta di uscire. Quando si comporta così, bisogna lasciarlo stare. Domattina sarà senza dubbio più calmo.» Fissò Cazaril con occhi socchiusi. «Ora ditemi, mio signore… Da quanto tempo sapete di questa nera maledizione che aleggia su Orico?»
«Sara ve ne ha parlato…»
«Sì.»
«Cosa vi ha detto, esattamente?»
Iselle narrò in modo abbastanza preciso la storia di Fonsa e del Generale Dorato e parlò dell’eredità di sfortuna causata da essa, un’eredità passata a Ias e poi a Orico. Tuttavia non accennò a se stessa o a Teidez.
«In tal caso, conoscete una metà dei fatti», commentò Cazaril.
«Questa faccenda della metà non mi piace. Il mondo si aspetta che io prenda decisioni valide senza avere informazioni, salvo poi attribuire gli errori che commetto alla mia verginità, come se essa fosse la causa della mia ignoranza. L’ignoranza non è stupidità, ma può benissimo diventarlo, e a me non piace sentirmi stupida», dichiarò risolutamente Iselle.
Cazaril chinò il capo in un silenzioso gesto di scusa. Al pensiero di ciò che stava per perdere, gli salirono le lacrime agli occhi. Se aveva taciuto tanto a lungo non era stato per proteggere la verginale innocenza di Iselle o di Betriz, e neppure per timore di essere arrestato… No, lo aveva fatto per paura di perdere la beatitudine che gli derivava dalla loro stima, temendo l’orrore di apparire disgustoso ai loro occhi. Avanti, vigliacco, parla e falla finita, s’ingiunse. «Ho saputo per la prima volta dell’esistenza della maledizione la notte successiva alla morte di Dondo. A parlarmene è stato lo stalliere Umegat… che non è affatto uno stalliere, ma un Divino del Bastardo. Era altresì il santo che ospitava il miracolo del serraglio creato per Orico.»
«Oh…» mormorò Betriz, sgranando gli occhi. «Mi era simpatico. Come sta?»
«Male», rispose Cazaril, con un gesto che indicava un equilibrio precario. «È ancora privo di sensi, ma la cosa peggiore…» Esitando, deglutì, consapevole di essere arrivato al punto cruciale del discorso. «La cosa peggiore è che ha smesso di risplendere.»
«Ha smesso di risplendere?» ripeté Iselle, interdetta. «Non mi ero mai accorta che emanasse luce.»
«Sì, lo so, voi non potete vederlo. C’è una cosa che non vi ho detto, riguardo all’assassinio di Dondo… Sono stato io a sacrificare il corvo e il ratto, e a pregare il Bastardo per la morte di Dondo.»
«Ah! Lo avevo sospettato!» esclamò Betriz, sedendosi più eretta sulla sua sedia.
«Sì, ma… ciò che non sapete è che il miracolo mi è stato concesso. Quella notte, nella Torre di Fonsa, io dovevo morire, però sono intervenute le preghiere di qualcun altro… credo quelle di Iselle», precisò, accennando col capo in direzione della Royesse.
«Ho pregato la Figlia perché mi salvasse da Dondo», ammise Iselle, portandosi una mano al seno.
«Voi avete pregato… e la Figlia ha risparmiato me», ribatté Cazaril. «A quanto pare, però, non mi ha risparmiato da Dondo. Avete visto come, durante il funerale, tutti gli Dei abbiano rifiutato di prendere in consegna la sua anima?»
«Sì. In questo modo lui è stato escluso, condannato, intrappolato in questo mondo», annuì Iselle. «Metà della corte ha temuto che il suo spirito circolasse a Cardegoss, e si è munita di ogni sorta di talismani per proteggersi.»
«È a Cardegoss, certo… ma non è libero. La maggior parte degli spettri è vincolata al luogo della morte, mentre lui è vincolato alla persona che lo ha ucciso. Avete presente il mio tumore?» Cazaril chiuse gli occhi perché non sopportava di vedere l’espressione inorridita delle due dame. «Non è un tumore o, per meglio dire, non è soltanto un tumore: l’anima di Dondo è intrappolata dentro di me, pare insieme col demone della morte che, se non altro, è del tutto silenzioso. Dondo invece non vuole stare zitto, e di notte mi inveisce contro.» Riaprì gli occhi, senza però alzare lo sguardo. «Tutta questa… attività divina mi ha fornito una sorta di seconda vista. Umegat ne è dotato, come pure una piccola santa della Madre, che vive in città. E adesso la possiedo anch’io. Umegat risplende di un chiarore bianco, Madre Clara emette una tenue luce verde; quanto a me, entrambi mi hanno detto che la mia luce è prevalentemente bianca e azzurra, di un’intensità abbagliante.» Si costrinse a incontrare lo sguardo di Iselle. «Inoltre adesso posso vedere il manifestarsi della maledizione di Orico, che mi appare come un’ombra scura. Ascoltatemi bene, Iselle, perché ritengo che questa sia una cosa importante, ignorata perfino da Sara: l’ombra non grava soltanto su Orico, ma anche su di voi e su Teidez. A quanto pare, tutti i discendenti di Fonsa sono avvolti da questo miasma nero.»
«In un certo modo, ha senso che sia così», si limitò ad affermare Iselle, dopo una breve pausa di silenzio, rimanendo seduta.
Consapevole che Betriz lo stava guardando, Cazaril si sentì d’un tratto simile a un mostro, pur sapendo benissimo, a causa della tensione costante della sua cintura, che il tumore non era aumentato. Piegandosi leggermente su se stesso, le rivolse un incerto sorriso.
«Ma come potete liberarvi di questo… spettro?» domandò Betriz, scandendo le parole.
«Ecco… Da quello che ho capito, se dovessi essere ucciso, la mia anima perderebbe il suo ancoraggio all’interno del corpo e il demone della morte sarebbe libero di finire il suo compito… almeno credo. Ma ho paura che il demone possa ingannarmi o tradirmi per spingermi incontro alla morte, se gli sarà possibile, perché sembra alquanto determinato e vuole tornare a casa. D’altro canto, se la mano della Signora dovesse aprirsi, il demone sarà libero d’impossessarsi della mia anima e di portarla comunque via insieme con quella di Dondo», concluse, decidendo che non era il caso di affliggere le due dame anche con la teoria di Rojeras.
«No, Lord Caz, non avete capito. Io voglio sapere come potete liberarvi di questa cosa senza morire», precisò Betriz.
«Anche a me piacerebbe saperlo», sospirò Cazaril, costringendosi con uno sforzo a raddrizzare la schiena e a sfoggiare un sorriso più convincente. «Comunque non ha importanza. Ho ceduto spontaneamente la mia vita per ottenere la morte di Dondo, e ho ricevuto quello che avevo chiesto: il pagamento del mio debito è stato soltanto rinviato, non annullato. A quanto pare, la Signora mi sta tenendo in vita a causa di qualche servigio che devo rendere, ed è solo per questo che non mi sono ancora ucciso per il disgusto.»
«Io però non ho nessuna intenzione di licenziarvi dal mio servizio, Cazaril. Avete capito?» disse Iselle, protendendosi in avanti.
«Ah!» commentò soltanto Cazaril e il suo sorriso si fece più spontaneo.
«Già», rincarò Betriz. «E non potete nemmeno aspettarvi che si diventi schizzinose e ci si mostri disgustate soltanto perché siete… abitato. Voglio dire, noi tutti ci aspettiamo di condividere un giorno il nostro corpo, e questo non ci rende orribili, giusto?» S’interruppe, accorgendosi di dove la stava portando quella metafora.
«Sì, ma condividerlo con Dondo?» ribatté in tono mite Cazaril, la cui mente già da tempo si stava ritraendo proprio da un’analogia di quel genere. «Voi due lo avete entrambe escluso dalla vostra capacità di tolleranza.» In realtà, rifletté, ogni uomo che aveva ucciso era rimasto impresso nella sua memoria e, in qualche modo, era ancora dentro di lui.
«Cazaril… lui non può uscire, vero?» esclamò Iselle, allarmata, sollevando una mano alle labbra.
«Prego costantemente la Signora perché non possa farlo», rispose Cazaril. «L’idea che si possa infiltrare nella mia mente è… È l’aspetto peggiore di questa situazione, peggiore perfino di… No, non importa. Un momento, questo mi ricorda che devo mettervi in guardia dagli spettri.» E ripeté ciò che l’Arcidivino gli aveva detto in merito alla necessità che il suo corpo venisse bruciato prima del tramonto, e perché lo si dovesse fare. Fu una confidenza che gli diede uno strano senso di sollievo. Le due donne si mostrarono atterrite ma attente. Cazaril comprese che si poteva fidare di loro a quel riguardo e si sentì assalire dalla vergogna al pensiero di essersi fidato del loro coraggio soltanto in quel frangente. «Ascoltatemi bene, Royesse», continuò. «La maledizione del Generale Dorato ha seguito la progenie di Fonsa, ma anche Sara è oppressa dall’ombra, e io e Umegat siamo entrambi convinti che ne sia stata contagiata col matrimonio.»
«Senza dubbio esso ha reso la sua vita piuttosto infelice», convenne Iselle.
«Di conseguenza, anche voi potreste sottrarvi alla maledizione col matrimonio. Non è una certezza… Tuttavia è una speranza, una grande speranza. Credo perciò che dovremmo concentrarci su questo problema… Dovreste andarvene da Cardegoss, allontanarvi dalla maledizione e anche da Chalion il più in fretta possibile.»
«Con la corte così in fermento, qualsiasi accordo matrimoniale è fuori…» cominciò Iselle, poi si arrestò per chiedere: «Ma che ne sarà di Teidez? E di Orico? E di Chalion? Dovrò dunque abbandonarli, come un generale in fuga di fronte a una battaglia persa?»
«I comandanti di grado più elevato hanno responsabilità che vanno al di là della singola battaglia. Se la vittoria è impossibile, se un generale non può rovesciare le sorti di uno scontro, con una ritirata può almeno riservarsi la possibilità di riprendere il conflitto in futuro.»
Iselle rifletté, dubbiosa. «Cazaril… Credete che mia madre e mia nonna sapessero di questa cosa oscura che grava su di noi?»
«Ignoro se vostra nonna lo sappia. Quanto a vostra madre…» Se aveva visto gli spettri dello Zangre, allora per qualche tempo Ista doveva aver avuto il dono della seconda vista, ma ciò cosa significava? Non potendo rispondere a quella domanda, si limitò a dire: «Vostra madre sapeva qualcosa, ma non ho idea di quanto avesse appreso… Comunque era abbastanza da essere terrorizzata allorché siete stati convocati a Cardegoss».
«E io ho pensato che si preoccupasse troppo», mormorò Iselle. «Ho creduto che fosse davvero pazza, come sussurravano i servi. Ho molte cose su cui riflettere», mormorò, sempre più accigliata.
Nella lunga pausa che seguì, Cazaril si alzò e augurò cortesemente la buonanotte a entrambe le dame, ottenendo in risposta un distratto cenno del capo da parte della Royesse, mentre Betriz, portandosi una mano al seno, lo fissò con intensità, accennando poi una riverenza.
«Aspettate!» esclamò d’un tratto Iselle, quando lui era ormai alla porta. La giovane si alzò, lo raggiunse e gli strinse le mani. «Siete troppo alto. Chinate la testa», mormorò.
Cazaril obbedì e sussultò per la sorpresa quando Iselle si alzò in punta di piedi e gli depose un bacio formale sulla fronte e su entrambe le mani, lasciandosi poi cadere in ginocchio con un frusciare di sete profumate per deporre un bacio su ciascuno stivale, ignorando le proteste dell’uomo.
«Ecco fatto», dichiarò la giovane, alzandosi. «Adesso potete andare.»
Betriz, accanto a lei, aveva il volto solcato di lacrime.
Troppo scosso per parlare, Cazaril fece un profondo inchino, poi fuggì verso la propria camera, preparandosi a un’altra notte tormentata.