29

Con una mossa previdente, mentre Cazaril si attardava a parlare con la Royina Sara, Palli aveva mandato avanti Ferda, al galoppo. Così, quando finalmente entrò nel cortile dello Zangre, il gruppo proveniente da Taryoon trovò ad attenderlo il siniscalco e un vero spiegamento di servitori. Dopo che uno stalliere lo ebbe aiutato a scendere di sella e il siniscalco lo ebbe salutato con un inchino, Cazaril si stiracchiò con cautela e pose subito la domanda che gli stava più a cuore. «La Royina Iselle e il Royse Bergon sono qui?»

«No, mio signore. Si sono appena recati al Tempio, per la cerimonia d’investitura di Lord dy Yarrin e del Royse Bergon.»

Com’era prevedibile, la Royina aveva scelto dy Yarrin come nuovo Santo Generale dell’Ordine della Figlia, mentre la nomina di Bergon alla carica di Santo Generale dell’Ordine del Figlio era, secondo Cazaril, una mossa davvero felice per recuperare il controllo diretto di quella forza militare tanto importante per la royacy nonché per evitare contese tra i più importanti nobili di Chalion. Lui sapeva che era stata Iselle ad avere quell’idea, anche perché ne avevano discusso prima che lei e Bergon lasciassero Taryoon. Cazaril le aveva fatto notare che l’onore la obbligava a ricompensare la fedeltà dimostrata da dy Yarrin, concedendogli quella nomina che tanto desiderava, ma le aveva ricordato anche che dy Yarrin non era più giovanissimo e che, col tempo, anche la carica di generale dell’Ordine della Figlia sarebbe tornata in possesso della royacy.

«Ah!» esclamò Palli. «Allora era fissato per oggi? E la cerimonia è ancora in corso?»

«Credo di sì, signore», rispose il siniscalco.

«Se mi affretto, forse riuscirò a vederne una parte. Cazaril, posso lasciarti alle buone cure di questo gentiluomo? Lord siniscalco, provvedete perché si riposi… Cercherà di farvi credere che è guarito dalle sue ferite recenti, ma non credetegli», lo ammonì Palli, poi fece girare il cavallo e rivolse a Cazaril un allegro saluto. «A cose finite, tornerò per raccontarti tutto», promise, oltrepassando al trotto il portone con la sua piccola scorta.

Stallieri e servitori presero subito in consegna cavalli e bagaglio, poi, sperando di apparire dignitoso, Cazaril rifiutò il braccio offertogli dal siniscalco, almeno sinché non fossero arrivati alle scale; quando però si diresse verso il corpo principale del castello, il siniscalco lo richiamò.

«Per ordine della Royina, il vostro alloggio è stato trasferito nella Torre di Ias», spiegò. «In tal modo, sarete più vicino a lei e al Royse.»

Compiaciuto di quella sistemazione, Cazaril seguì il siniscalco fino al terzo piano della torre, dove si erano insediati il Royse Bergon e il suo seguito di nobili ibrani. Bergon aveva scelto per sé una camera da letto diversa da quella in cui era recentemente morto Orico, ma era evidente che non aveva l’abitudine di dormirci. Quanto a Iselle, si era sistemata nell’appartamento della Royina, al piano superiore. La stanza di Cazaril era adiacente a quella di Bergon, e qualcuno vi aveva già trasferito il suo baule e le poche cose che lui possedeva, insieme con un intero, nuovo cambio di vestiario per il banchetto di quella sera. Dopo aver atteso che i servitori gli portassero l’acqua per lavarsi, Cazaril li congedò e si sdraiò sul letto, intenzionato a riposare, come gli era stato suggerito da Palli.

Dopo soltanto dieci minuti, tuttavia, Cazaril si alzò, dirigendosi al piano superiore per vedere com’era organizzato il suo nuovo studio. Riconoscendolo, una serva gli permise di entrare, salutandolo con una riverenza, e lui andò subito a curiosare nella camera che Sara aveva riservato al suo segretario. Come si era aspettato, essa era occupata dai registri e dai libri contabili originali della Royina, cui ne erano stati aggiunti molti altri. Ma, seduto all’ampia scrivania c’era un uomo dai capelli scuri, sui trent’anni, abbigliato con una veste grigia che aveva su una spalla la treccia color carminio propria di un Divino del Padre. L’uomo era intento a segnare cifre su uno dei libri contabili che erano responsabilità di Cazaril; un mucchio di corrispondenza aperta era allargato a ventaglio vicino alla sua mano sinistra e, sulla destra, c’era una pila ancora più grossa di lettere ultimate e da firmare.

«Posso esservi utile, signore?» domandò l’uomo, in tono cortese ma freddo, sollevando infine lo sguardo su Cazaril.

«Io… chiedo scusa, ma non credo che ci conosciamo. Chi siete?»

«Sono l’Erudito Bonneret, il segretario personale della Royina Iselle.»

Cazaril aprì la bocca e la richiuse senza aver emesso suono, anche se avrebbe voluto gridare: Ma sono io il segretario personale della Royina Iselle! «Si tratta di una nomina temporanea, vero?» chiese, infine.

«Confido che sia permanente», ribatté Bonneret, inarcando di scatto le sopracciglia.

«Come siete stato scelto per questo incarico?»

«L’Arcidivino Mendenal è stato tanto generoso da raccomandarmi presso la Royina.»

«Di recente?»

«Come?»

«Siete stato nominato di recente?»

«Da due settimane, signore», precisò Bonneret, poi si accigliò, con aria lievemente irritata, e aggiunse: «Signore, posso sapere chi siete?»

«La Royina… non mi ha detto…» balbettò Cazaril, chiedendosi se davvero era stato allontanato da quella posizione di fiducia. Era chiaro che la valanga di lavoro seguita all’ascesa al trono di Iselle non poteva essere tenuta in sospeso in attesa della sua lenta guarigione e che dunque qualcuno doveva occuparsene. E poi, a giudicare dalle lettere pronte per essere inviate, Bonneret aveva una calligrafia davvero splendida… «Mi chiamo Cazaril», rispose, infine, accorgendosi che il Divino lo stava fissando con. aria sempre più accigliata.

Il cipiglio di Bonneret venne immediatamente sostituto da un sorriso così radioso da essere quasi più allarmante. Lui lasciò cadere la penna, schizzando inchiostro ovunque, e scattò in piedi. «Mio signore dy Cazaril! Sono onorato di conoscervi!» esclamò, con un profondo inchino, e ripeté, in tono molto più ossequioso: «Come posso esservi utile, mio signore?»

Quell’impazienza di compiacerlo sgomentò Cazaril anche più dell’arroganza dimostrata in precedenza da Bonneret. Borbottando qualche scusa incoerente per giustificare la propria intrusione, e sostenendo di essere stanco per il viaggio, lui si affrettò a cercare rifugio al piano di sotto.

Una volta nella propria camera, tentò di occupare il tempo facendo un inventario degli abiti e dei libri che possedeva, disponendo ogni cosa con ordine e constatando con stupore che non sembrava mancare nulla. Quando ebbe finito, si avvicinò alla finestrella, che dava sulla città, l’aprì e si affacciò. Ma nessun corvo sacro venne a fargli visita, cosa che lo indusse a chiedersi se quegli uccelli si annidassero ancora nella Torre di Fonsa, ora che la maledizione era infranta e che il serraglio non c’era più. Indugiò poi a contemplare le cupole del Tempio, e decise di andare a cercare Umegat alla prima opportunità. Infine si sedette e, non avendo altro da fare, si abbandonò allo sconcerto.

Sapeva bene che disponeva di poche energie e, se si sentiva scosso, ciò dipendeva almeno in parte dalla stanchezza. La ferita al ventre, in via di guarigione, gli doleva per la cavalcata, benché assai meno di quando Dondo lo artigliava dall’interno. Sì, era finalmente, gloriosamente libero da inquilini interiori, e quel pensiero aveva suscitato in lui una felicità estatica durata parecchi giorni. Eppure quel pomeriggio non era sufficiente a rasserenarlo. Il periodo di riposo che, a detta di tutti, lui doveva concedersi, stava facendo crescere in lui la sensazione di essere stato abbandonato. Incupendosi, gli venne in mente che, forse, a Chalion-Ibra, non c’era più posto per lui e che per la gestione dei suoi affari, ora infinitamente più vasti e complessi, Iselle avrebbe avuto bisogno di uomini più eruditi e raffinati di un malconcio e strambo ex soldato con aspirazioni da poeta. La cosa peggiore, però, era un’altra: essere rimosso dal servizio presso Iselle significava essere messo al bando dalla presenza quotidiana di Betriz. Ormai nessuno, al tramonto, gli avrebbe acceso le candele; nessuno gli avrebbe procurato un cappello di pelliccia; nessuno avrebbe chiamato un medico se lui fosse stato male; nessuno avrebbe pregato per lui quando si fosse allontanato da casa…

Dal cortile giunse un rumore di zoccoli e di voci. Cazaril pensò che Iselle e Bergon fossero tornati col loro seguito dalle cerimonie del Tempio, ma non poté verificarlo perché, dalla sua finestra, era impossibile vedere il cortile. Pur sapendo che si sarebbe dovuto precipitare a salutarli, decise che non si sarebbe mosso, perché stava riposando… una scusa che suonò ottusa e scortese perfino alle sue stesse orecchie. D’altro canto, una spaventosa spossatezza lo tenne suo malgrado incollato alla sedia.

Prima che riuscisse ad avere la meglio su quell’ondata di malinconia, Bergon fece irruzione nella sua camera. Il Royse era ancora abbigliato con le vesti marrone, arancione e gialle proprie del Santo Generale dell’Ordine del Figlio, complete di una larga cintura per la spada decorata con tutti i simboli dell’autunno. Quella tenuta faceva su di lui un effetto assai migliore di quello che aveva fatto sul vecchio e grigio dy Jironal: se Bergon non costituiva una gioia per gli occhi del Dio, allora voleva dire che compiacerlo era davvero impossibile. Quando Cazaril si alzò per salutarlo, Bergon lo abbracciò e gli chiese come fosse andato il viaggio da Taryoon e come procedesse la sua convalescenza, poi, senza attendere risposta, si lanciò a dirgli contemporaneamente otto cose diverse, finendo per ridere di se stesso. «Fra breve ci sarà tempo per tutte queste cose», esclamò infine. «Sono stato incaricato di una missione dalla mia regale consorte, la Royina di Chalion. Prima però, Lord Caz, dimmi una cosa, in privato… Ami Lady Betriz?»

«Io… lei… molto, Royse», balbettò Cazaril, sconcertato.

«Bene. Io ne ero sicuro, ma Iselle ha insistito perché, prima, te lo chiedessi. Adesso c’è un’altra cosa molto importante… Sei disposto a lasciarti radere la barba?»

«Io… come?» esclamò Cazaril, portandosi una mano alla barba, che non era più irsuta come un tempo, si era infoltita gradevolmente ed era sempre ben regolata. «C’è un motivo per cui me lo chiedi? Non che abbia molta importanza… Dopotutto, la barba ricresce.»

«Ma non sei affezionato a essa, o qualcosa del genere, vero?»

«No. Dopo le galee, per qualche tempo, le mani mi tremavano al punto che non volevo rischiare di affettarmi la faccia, ma non potevo permettermi di andare da un barbiere. Col tempo, ho finito per abituarmici.»

«Bene», approvò Bergon, poi tornò alla porta, si affacciò nel corridoio e chiamò: «D’accordo, venite pure».

Nella stanza entrarono un barbiere e un servitore che reggeva una bacinella di acqua calda. Fatto sedere Cazaril, il barbiere gli passò un asciugamano intorno al collo e gli coprì la faccia di sapone prima che lui avesse il tempo di pronunciare una parola; mentre il servitore gli teneva la bacinella sotto il mento, poi, il barbiere si mise all’opera col rasoio, canticchiando sottovoce. Incrociando quasi gli occhi per guardare al di sopra del proprio naso, Cazaril osservò i ciuffi insaponati di peli neri e grigi cadere nella bacinella e cercò d’ignorare gli strani suoni quasi ciangottanti emessi dal barbiere.

«Ecco fatto, mio signore!» esclamò infine questi, con un sorriso soddisfatto, indicando al servitore di rimuovere la bacinella. Un impacco con un asciugamano caldo e l’applicazione di una soluzione aromatizzata alla lavanda completarono l’opera. Quindi il Royse gli mise in mano una moneta e il barbiere s’inchinò profondamente, mormorando un saluto e indietreggiando fino a lasciare la stanza.

Dal corridoio, giunsero allora alcune risate femminili.

«Hai visto, Iselle?» commentò una voce, in un sussurro peraltro non abbastanza sommesso. «Anche lui ha un mento. Te lo avevo detto!»

«Sì, avevi ragione, ed è anche un bel mento.»

Iselle fece il suo ingresso nella stanza, sforzandosi di apparire quanto mai regale nelle elaborate vesti indossate per la cerimonia d’investitura, ma non riuscì a mantenere a lungo quell’atteggiamento serio, perché le bastò guardare Cazaril per scoppiare a ridere. Alle sue spalle, Betriz, vestita quasi con la stessa eleganza, era tutta fossette e scintillanti occhi marroni sotto una complessa acconciatura, composta di una miriade di riccioli neri che le incorniciavano il volto, sussultando in maniera affascinante a ogni movimento.

«Per i cinque Dei, Cazaril!» esclamò Iselle, sollevando una mano alle labbra. «Non siete poi così vecchio, adesso che siete emerso da dietro quella siepe grigia!»

«Non è affatto vecchio», precisò con determinazione Betriz.

Cazaril, che all’ingresso delle dame si era alzato, fece un profondo inchino, ma, nel rialzarsi, portò suo malgrado la mano al mento, freddo e nudo, e pensò che nessuno gli aveva offerto uno specchio per verificare la causa di tutta quella ilarità.

«È tutto pronto», affermò Bergon, con fare misterioso.

Sorridendo, Iselle prese la mano di Betriz e prontamente Bergon afferrò quella di Cazaril, poi Iselle assunse una posa solenne e, con un tono da annuncio ufficiale, scandì: «La mia amatissima e fedelissima dama Betriz dy Ferrej mi ha fatto una richiesta, cui acconsento con tutta la gioia del mio cuore. Dal momento che voi non avete più un padre, Lord Cazaril, io e Bergon ne faremo le veci, in qualità di vostri signori. Betriz ha chiesto la vostra mano, e ci rallegra immensamente che i nostri due più amati servitori si amino a vicenda, per cui consideratevi fidanzati, con tutta la nostra approvazione».

Bergon girò verso l’alto il palmo di Cazaril e quello di Betriz si appoggiò su di esso, sovrastato dalle dita di Iselle. Congiunte le mani dei due promessi, il Royse e la Royina si trassero infine indietro con un ampio sorriso sulle labbra.

«Ma… ma… ma…» balbettò Cazaril, senza peraltro lasciar andare la mano di Betriz. «Tutto questo è terribilmente sbagliato… Iselle, Bergon… Non potete sacrificare questa fanciulla per ricompensare i miei capelli grigi. È una cosa ripugnante!»

«Ci siamo appena liberati di quanto avevate di grigio, cioè la barba», commentò Iselle, poi lo squadrò e aggiunse: «E devo ammettere che si è trattato di un enorme miglioramento».

«Inoltre non mi pare che lei ti trovi ripugnante», aggiunse Bergon.

Le fossette di Betriz erano profonde come Cazaril non le aveva mai viste e gli occhi scuri lo fissavano, scintillanti, da sotto le ciglia abbassate.

«Ma… ma…»

«In ogni caso, non la sto sacrificando per ricompensare la vostra… la tua fedeltà», continuò Iselle, in tono deciso. «Ti sto fidanzando a lei come ricompensa per la sua fedeltà.»

«Oh. Ah. Ecco, così va meglio…» farfugliò Cazaril, lottando per riportare un po’ di ordine nella propria mente sconvolta. «Però… Di certo ci sono per lei nobili più importanti, più ricchi, più giovani e avvenenti, più degni…»

«Sì, certo, ma Betriz non ha chiesto uno di loro, ha chiesto te. I gusti sono proprio una cosa personale, vero?» ribatté Bergon.

«Inoltre, devo obiettare ad almeno una parte della tua valutazione, Cazaril», aggiunse Betriz, con un filo di voce, accentuando la stretta della mano. «In tutto Chalion, non c’è nobile più degno di te.»

«Un momento!» protestò Cazaril, che aveva l’impressione di scivolare lungo un pendio innevato. «Non ho terre né denaro… Come farò a mantenere una moglie?»

«Ho intenzione di trasformare la carica di Cancelliere in una posizione che preveda un salario», replicò Iselle.

«Come la Volpe ha fatto a Ibra? Una mossa molto saggia, Royina… In tal modo, la fedeltà dei tuoi più importanti servitori andrà anzitutto alla royacy e non sarà divisa tra la corona e il proprio gruppo di sostenitori, come nel caso di dy Jironal. Chi intendete nominare per sostituirlo? Io avrei qualche idea…»

«Cazaril!» esclamò Iselle, con la familiare nota di esasperazione nella voce. «È ovvio che si tratta di te! Chi credi che avrei potuto nominare? Era implicito che la carica spettasse a te!»

Continuando a tenere stretta la mano di Betriz, Cazaril si accasciò pesantemente sulla sedia. «Da subito?» chiese, con un filo di voce.

«No, naturalmente no», rispose Iselle, sollevando il mento con fare deciso. «Per stanotte festeggeremo. Potrai cominciare domani.»

«Se per allora ti sentirai abbastanza in forze», si affrettò a interloquire Bergon.

«È un compito immenso…» cominciò Cazaril. Aveva chiesto solo un po’ di pane e gli avevano dato un intero banchetto. Tra quelli che cercavano di proteggerlo a ogni costo e quelli che sacrificavano spietatamente le sue esigenze per i loro fini, cominciava a preferire la seconda categoria… Cancelliere dy Cazaril… Lord Cancelliere… si sorprese poi a sillabare in silenzio, quasi suo malgrado, e a poco a poco si rinfrancò.

«Stanotte, dopo cena, lo annunceremo», lo avvertì Iselle. «Vestiti in maniera adeguata, Cazaril, perché Bergon e io ti offriremo la catena, simbolo della tua carica, al cospetto di tutta la corte. Betriz, ti aspetto nelle mie stanze… tra un po’», aggiunse, con un sorriso. Infilò la mano sotto il braccio di Bergon e lo trascinò con sé nel corridoio, chiudendosi la porta alle spalle.

Il braccio di Cazaril scivolò intorno alla vita di Betriz e lui, senza la minima timidezza, la fece sedere sulle sue ginocchia, con un movimento così repentino da strapparle uno strillo di sorpresa. «Le labbra, eh?» mormorò, baciandola.

Dopo qualche tempo, quasi senza fiato, Betriz si tirò indietro e passò una mano sul proprio mento e su quello di lui. «Adesso la tua barba non mi punge più», commentò.


La mattina successiva, a tarda ora, Cazaril riuscì finalmente a rintracciare Umegat presso la Casa del Bastardo, dove un rispettoso Accolita lo guidò fino al terzo piano. Lo stalliere muto, Daris, venne ad aprire la porta e, con un inchino, invitò Cazaril a entrare. L’ometto, che indossava le vesti bianche e ordinate di un Devoto laico dell’Ordine, si passò una mano sul mento e indicò il volto nudo di Cazaril, con un sorridente commento che, per una volta, lui fu lieto di non comprendere, poi lo precedette attraverso una stanza, arredata come un salotto, e su una piccola balconata di legno che si affacciava sulla Piazza del Tempio ed era decorata da rampicanti e da vasi di gerani.

Umegat, anche lui vestito di bianco, sedeva a un tavolino, in una zona d’ombra, e Cazaril notò con gioia che aveva davanti a sé carta, penna e inchiostro; per evitare di farlo alzare, si affrettò a sedersi sulla sedia che Daris gli porgeva e accettò la sua offerta di una tazza di tè, interpretata per lui da Umegat.

«Cosa sono questi fogli?» domandò subito, con entusiasmo, mentre Daris andava a preparare la bevanda. «Hai recuperato la capacità di scrivere?»

«Per ora, sembro un bambino di cinque anni», rispose Umegat, con una smorfia, girando un foglio per mostrare una serie di lettere rozzamente tracciate. «Vorrei che anche il resto di me fosse ringiovanito altrettanto. Continuo a memorizzare le lettere, ma esse persistono a scivolarmi via dalla mente, e la mia mano ha perso ogni agilità nell’uso della penna… anche se sono ancora in grado di suonare il liuto nella mia solita maniera scadente! Il medico insiste nel sostenere che sto migliorando e suppongo che sia così, perché, appena un mese fa, non ero in grado di fare neppure questo. Le parole strisciano sulla pagina come granchi, però ogni tanto riesco ad afferrarne una. Ora però dimmi di te!» esclamò, sollevando lo sguardo. «Ho sentito che hai fatto grandi cose, a Taryoon! Mendenal sostiene che sei stato trafitto da una spada.»

«Da parte a parte», ammise Cazaril. «Però è servito a liberarmi di Dondo e del demone, il che mi ha ampiamente ripagato della sofferenza. Dopo, la Signora mi ha risparmiato dalla febbre e dalla morte.»

«Allora te la sei cavata bene», commentò Umegat, lanciando un’occhiata a Daris.

«Sì, in modo miracoloso.»

«Hmm», mormorò Umegat, protendendosi in avanti sul tavolo e scrutandolo viso. «Vedo che hai frequentato compagnie elevate.»

«Hai recuperato la seconda vista?» domandò Cazaril, stupito.

«No, si tratta solo di una particolare espressione che nasce da alcune esperienze, e che ho imparato a riconoscere.»

In effetti, anche Umegat aveva quell’aria particolare. A quanto pareva, se un uomo veniva toccato da un Dio e, in seguito a ciò, non perdeva del tutto il suo equilibrio interiore, allora riemergeva da quell’esperienza dotato di un nuovo, misterioso equilibrio interiore. «Anche tu hai visto il tuo Dio», osservò Cazaril.

«Un paio di volte», ammise Umegat.

«Quanto tempo ci vuole per riprendersi?»

«Non lo so ancora con certezza», mormorò Umegat, sfregandosi le labbra con aria pensosa. «Sei in grado di dirmi che cos’hai visto?»

Notando il bagliore apparso negli occhi grigi dell’altro, Cazaril ebbe un sussulto. Ho anch’io questo aspetto quando parlo della Signora? si chiese. Allora non mi meraviglia che la gente mi guardi in modo strano…

Con ordine, procedette a raccontare la sua storia, a cominciare dalla precipitosa partenza da Cardegoss per conto della Royesse. Nel frattempo venne servito il tè, ed entrambi ne bevvero due tazze prima che lui arrivasse in fondo alla narrazione; quando però cercò di descrivere l’esperienza con la Signora, si mise a balbettare, esitando, benché Umegat sembrasse voler assorbire ogni sua parola, per stentata che fosse. D’un tratto, Cazaril si rese conto che Daris si era soffermato sulla soglia ad ascoltare, ma ritenne superfluo chiedere rassicurazioni sulla sua discrezione. «La poesia… potrebbe essere lo strumento giusto», affermò, infine. «Mi servono parole che significhino più di quello che intendono dire, che non abbiano soltanto altezza e larghezza ma anche profondità e peso, oltre ad altre dimensioni cui non so neppure dare un nome.»

«Per qualche tempo, dopo la mia prima… esperienza, io ho cercato di ritrovare il Dio con la musica», replicò Umegat. «Purtroppo, non avevo il talento necessario.»

Cazaril si limitò ad annuire. «C’è qualcosa di cui hai bisogno e che io ti posso procurare?» chiese. «Ieri Iselle mi ha nominato Cancelliere di Chalion… Suppongo che ciò mi conferisca un certo potere.»

Umegat inarcò di scatto le sopracciglia grigie e gli rivolse un accenno d’inchino a titolo di congratulazione. «La giovane Royina ha agito bene», commentò.

«Io però continuo a pensare di avere indosso gli stivali di un morto», obiettò Cazaril, con una smorfia.

«Lo capisco», sorrise Umegat. «Quanto a noi, il Tempio si occupa piuttosto bene dei suoi ex santi e ci fornisce tutto ciò di cui possiamo aver bisogno. Mi piacciono queste stanze, questa città, quest’aria primaverile e… la compagnia di me stesso. Spero che il Dio mi conceda ancora un paio d’incarichi interessanti prima che la mia vita giunga al termine, anche se preferirei non avere più a che fare con animali o con sovrani.»

«Suppongo che tu conoscessi il povero Orico meglio di chiunque altro, tranne forse la Royina Sara», convenne Cazaril, annuendo.

«L’ho visto quasi tutti i giorni per sei anni e, verso la fine, aveva l’abitudine di parlarmi con estrema franchezza. Spero di essere stato per lui una consolazione.»

«Per quel che può valere, io lo ritengo una specie di eroe», osservò Cazaril, in tono esitante.

«Sono d’accordo», annuì Umegat. «Anche se la sua è stata una forma particolarmente frustrante di eroismo. Senza dubbio, Orico è stato una vittima sacrificale.» Sospirò. «In ogni caso, è un peccato consentire al dolore del passato di avvelenare la gioia per le benedizioni che ci rimangono.»

Daris si alzò dal suo angolo per portar via le tazze del tè.

«Grazie», gli disse Umegat, battendo un colpetto sulla mano che lui gli aveva posato sulla spalla.

Raccolte tazze e piatti, Daris si allontanò, seguito dallo sguardo incuriosito di Cazaril. «Lo conosci da molto tempo?» chiese poi.

«Da circa vent’anni.»

«Allora non era soltanto il tuo assistente nel serraglio… Quando lo hai conosciuto, era già stato…»

«No, non ancora.»

«Oh.»

«Non avere l’aria così cupa, Lord Cazaril», sorrise Umegat. «Si migliora sempre. Quello era ieri e questo è oggi. Prima o poi, gli chiederò il permesso di raccontarti la sua storia.»

«Sarei onorato di ricevere una simile confidenza.»

«Va tutto bene. E, anche quando così non è, ogni alba ci conduce un po’ più vicini al nostro Dio.»

«Lo avevo notato. Nei primi giorni dopo aver visto la Signora, ho avuto qualche problema a calcolare lo scorrere del tempo, perché tempo e proporzioni si sono alterati in maniera incalcolabile.»

In quel momento qualcuno bussò con mano leggera alla porta della camera, e Daris andò ad aprire, facendo entrare una giovane Devota vestita di bianco che reggeva un libro.

«Ah, ecco la mia lettrice!» esclamò Umegat, rasserenandosi in volto. «Devota, inchinati al Lord Cancelliere. Ogni giorno», proseguì, a titolo di spiegazione, «mandano un Devoto a leggermi qualcosa per un’ora, come punizione per qualche lieve infrazione alle regole della casa. Allora, ragazza, hai già deciso quale regola infrangerai domani?»

«Ci sto pensando, Erudito Umegat», rispose la Devota, con un timido sorriso.

«Se dovessi restare a corto d’idee, attingerò ai miei ricordi giovanili e vedrò di offrirti qualche suggerimento.»

«Credevo che sarei stata mandata a leggere al Divino qualche noioso testo di teologia», commentò la Devota, porgendo il libro a Cazaril, «ma lui ha preferito questo volume di racconti.»

Cazaril esaminò con interesse il volume che, a giudicare dal marchio dello stampatore, era di origine ibrana.

«È un’idea interessante», affermò Umegat. «L’autore segue un gruppo di viandanti in pellegrinaggio verso un santuario, e a turno ciascuno di essi narra la sua storia. È tutto molto… sacro.»

«A dire il vero, mio signore, alcune storie sono alquanto lascive», sussurrò la Devota.

«Dovrò rispolverare il sermone di Ordol relativo alle lezioni della carne. Ho promesso alla Devota di ridurre il tempo delle sue penitenze al Bastardo ogni volta che arrossirà, e temo che mi abbia creduto», sorrise Umegat.

«Io… ah… mi piacerebbe avere in prestito quel libro, quando avrai finito di leggerlo.»

«Te lo farò consegnare, mio signore.»

Congedatosi dal roknari, Cazaril riattraversò la Piazza del Tempio e si avviò per risalire la collina, ma deviò prima di giungere in vista dello Zangre e si diresse invece al palazzo cittadino del Provincar della Baocia. Quel massiccio, antico edificio di pietra somigliava a Palazzo Jironal, ma era molto più piccolo e privo di finestre al piano inferiore, mentre quelle al piano superiore erano protette da griglie di ferro battuto. L’edificio era stato riaperto non solo per il suo signore e la sua signora, ma anche per la vecchia Provincara e per Lady Ista, arrivate da Valenda. Pieno al massimo della sua capienza, quel palazzo, un tempo abitato soltanto da un cupo silenzio, si era trasformato in una specie di ronzante alveare. Giunto ai cancelli, Cazaril si presentò a un ossequioso portinaio e, dopo avergli comunicato il motivo della sua visita, venne accompagnato all’interno senza indugi.

In un’alta camera soleggiata, posta sul retro della casa, trovò la Royina Vedova Ista. Era seduta su una piccola balconata dalla ringhiera di ferro, affacciata su un giardinetto e sul recinto annesso alle stalle. Congedata la dama di compagnia, Ista indicò a Cazaril di occupare la sedia che la donna aveva lasciato libera, adiacente alla sua. Quel giorno, i capelli castani di Ista erano intrecciati intorno alla testa, e il suo volto e il suo abbigliamento apparivano così nitidi e definiti che Cazaril quasi se ne stupì.

«È un ambiente gradevole», osservò lui, sedendosi.

«Sì, mi piace questa stanza. È quella che occupavo da ragazza, quando mio padre ci portava con sé alla capitale, il che non accadeva spesso. Il vantaggio maggiore, però, è che da qui non posso vedere lo Zangre», aggiunse, abbassando lo sguardo sul sottostante giardino, delimitato e protetto.

«La scorsa notte, però, ci siete stata, al banchetto», obiettò Cazaril, rammentando che aveva potuto scambiare con lei soltanto poche parole formali. Lei si era limitata a congratularsi per la sua nomina a Cancelliere e per il suo fidanzamento, e se n’era andata abbastanza presto. «Devo dire che avevate un aspetto splendido e che Iselle è stata gratificata dalla vostra presenza.»

«Mangio a palazzo per farle piacere, ma non intendo dormirci», replicò Ista.

«Suppongo che gli spettri siano ancora in circolazione, solo che io non li posso più vedere… Con mio estremo sollievo, vorrei aggiungere.»

«Anch’io non riesco a vederli né con la vista fisica né con la seconda vista, ma li percepisco, quasi fossero un gelo che riveste le pareti. Ma forse è soltanto il loro ricordo a raggelarmi. Detesto lo Zangre», ammise Ista, sfregandosi le braccia come per scaldarle.

«Quei poveri spettri… Li comprendo molto meglio adesso che non quando mi terrorizzavano», osservò Cazaril. «In un primo tempo, ho creduto che l’esilio e il disfacimento fossero una sorta di rifiuto da parte degli Dei, una dannazione, ma adesso so che è un atto di misericordia. Quando vengono accolte presso gli Dei, le anime rammentano loro stesse… La mente può contemplare tutta la propria vita contemporaneamente, come fanno gli Dei, quasi con la stessa spaventosa chiarezza con cui la materia ricorda se stessa. Per alcuni, questa forma di paradiso può riuscire intollerabile, un vero inferno, ed è per questo che gli Dei concedono loro la liberazione dell’oblio.»

«L’oblio… Esso mi appare come un paradiso. Credo che pregherò di diventare anch’io uno spettro del genere.»

Temo si tratti di una misericordia che ti verrà negata, pensò Cazaril. «Sapete che la maledizione è stata rimossa da Iselle, da Bergon, da tutti quanti e da tutta Chalion?»

«Sì. Iselle me ne ha parlato, entro i limiti in cui è in grado di capire l’accaduto, ma io ho percepito la cosa mentre succedeva. Le mie dame mi stavano vestendo per andare alle preghiere del mattino del Giorno della Figlia e, sebbene non ci sia stato nulla da vedere, da sentire o da percepire, d’un tratto mi è sembrato che una nebbia si fosse dissolta dalla mia mente. Non mi ero resa conto di quanto la maledizione mi si fosse avviluppata intorno, come una nebbia umida che avvolgesse la pelle della mia anima, finché non è svanita. A quel punto, ho temuto che voi foste morto e ne ero dispiaciuta.»

«In effetti sono morto, ma la Signora mi ha rimandato nel mondo, nel mio corpo, cioè, anche se il mio amico Palli sostiene che non mi ha rimesso a posto nel modo giusto.»

«È strano… Il dissolversi della maledizione ha reso il mio dolore più nitido, e tuttavia più distante», mormorò Ista, distogliendo lo sguardo.

«Lady Ista, avevate ragione riguardo alla profezia», affermò Cazaril, schiarendosi la gola. «Ci volevano tre morti. E io, concentrandomi sul matrimonio, ho sbagliato volutamente, perché avevo paura e la vostra strada mi pareva troppo difficile. Tuttavia, alla fine, ogni cosa è andata per il meglio nonostante i miei errori e per grazia della Signora.»

«L’avrei fatto io stessa, se avessi potuto», disse Ista, con una nota di amarezza nella voce. «Evidentemente, il mio sacrificio non è stato giudicato accettabile.»

«Non si tratta di… Non è questo il motivo», protestò Cazaril. «Sì, insomma, lo è e tuttavia non lo è. È una cosa che riguarda la forma della vostra anima e non il fatto che essa sia degna oppure no. Bisogna trasformarsi in una coppa, per ricevere ciò che vi si riversa, mentre voi siete — e siete sempre stata — una spada, come vostra madre e vostra figlia… Le donne della vostra famiglia hanno tutte un carattere d’acciaio. Adesso capisco perché, prima d’ora, non avevo mai visto dei santi. Il mondo non si abbatte sulla loro volontà come l’onda su una roccia né si apre davanti a loro come acqua tagliata dalla prua di una nave. Essi sono agili e flessibili, e nuotano attraverso il mondo, silenziosi come pesci.»

Ista si limitò a inarcare le sopracciglia, ma Cazaril non riuscì a capire se quello era un gesto di assenso, di disaccordo o di semplice, garbata ironia.

«Ora che state meglio, dove andrete?» chiese, cambiando argomento.

«La salute di mia madre sta diventando sempre più precaria… Immagino che invertiremo i ruoli e che io la assisterò, nel castello di Valenda, come lei ha assistito me», rispose Ista, scrollando le spalle. «Preferirei tuttavia andare in qualche posto dove non sono mai stata, un posto che non sia né Valenda né Cardegoss, e che non ospiti ricordi.»

Cazaril non trovò nulla da obiettare, ma il suo pensiero corse a Umegat che, pur non essendo un superiore spirituale di Ista, s’intendeva di perdite e di dolori come pochi altri, tanto da aver reso quasi un’arte la capacità di riprendersi. Dal canto suo, Ista aveva almeno altri vent’anni per ritrovare un equilibrio. Quando Umegat, che all’epoca aveva più o meno l’età attuale di Ista, aveva recuperato il corpo devastato di Daris, forse si era infuriato e aveva pianto, proprio come lei, oppure aveva imprecato contro gli Dei con la stessa freddezza dei suoi gelidi silenzi.

«Mi piacerebbe che voi conosceste il mio amico Umegat», disse a Ista. «Era il santo incaricato di preservare Orico, ma adesso è un ex santo, proprio come voi e me. Credo che potreste avere qualche conversazione interessante.»

Ista allargò le mani in un gesto cauto, senza accettare né rifiutare l’idea, e Cazaril decise di rimandare quell’incontro a un futuro non troppo lontano. Tentò allora di volgere i pensieri di Ista ad argomenti più lieti e le chiese dell’incoronazione di Iselle, alla quale lei è la Provincara avevano partecipato. Aveva già chiesto a quattro o cinque persone di descrivergli la cerimonia, ma non si era ancora stancato di sentirla raccontare. Parlando, Ista si animò un poco, col volto che s’illuminava e si addolciva per la gioia della vittoria conseguita dalla figlia. Quanto a Teidez, la sua sorte fu un argomento che entrambi evitarono, di tacito accordo. Non era quello il momento più adatto per sondare ferite così fresche, col pericolo che riprendessero a sanguinare. In futuro, quando si fossero sentiti più forti, ci sarebbe stato tutto il tempo per parlare del ragazzo perduto.

Quando infine Cazaril s’inchinò e fece per accomiatarsi, Ista si protese in avanti e posò la mano su quella di lui. «Cazaril… Prima di andare, datemi la vostra benedizione», chiese.

«Signora, ormai non sono più santo di quanto lo siate voi, e di certo non sono un Dio. Non posso invocare benedizioni a mio piacimento», obiettò lui, sconcertato. D’altro canto, lui non era neppure una Royesse, eppure si era recato a Ibra per conto di Iselle e aveva stipulato un contratto di matrimonio in suo nome. Signora della Primavera, pregò allora, se ti ho servito bene, rendimi ora il debito che hai con me. «Ci proverò», disse, umettandosi le labbra, e si protese in avanti per toccare la fronte bianca di Ista.

Le parole gli salirono alle labbra, anche se non avrebbe saputo dire da dove provenissero. «Questa è una profezia vera quanto lo era quella da te ricevuta. Allorché le anime s’innalzeranno nella gloria, la tua non verrà ignorata o recisa, ma diventerà la perla dei giardini degli Dei. Allora perfino la tua oscurità sarà considerata un tesoro, e la tua sofferenza resa sacra.» Poi si ritrasse, assalito da un impeto di terrore e d’incertezza.

Gli occhi di Ista si velarono di lacrime, la mano che teneva posata sul ginocchio s’immobilizzò e lei chinò il capo in segno di accettazione, con l’imbarazzo di un bambino che muove i primi passi. «Per essere un principiante, ve la cavate molto bene, Cazaril», osservò.

Cazaril annuì, sorrise e si congedò in fretta, tornando in strada. Nell’avviarsi verso lo Zangre, e nonostante la salita, il suo passo si allungò, rinvigorito dalla consapevolezza che le sue dame lo stavano aspettando.

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