12

Cazaril aprì a fatica le palpebre, che parevano incollate, e si guardò intorno, senza capire cosa fosse quella grigia fenditura nel cielo, incorniciata nell’oscurità. Umettandosi le labbra aride, deglutì, e, a poco a poco, si rese conto di essere disteso supino su alcune travi… Era la struttura di sostegno della Torre di Fonsa. I ricordi della notte precedente riaffiorarono.

Sono vivo, pensò. Quindi ho fallito.

Annaspando alla cieca intorno a sé, incontrò con la mano destra un inerte mucchietto di penne fredde e si ritrasse di scatto. Rimase disteso, rammentando il terrore provato e col ventre ancora contratto da un dolore sordo. Si sentiva gelido come un cadavere. Ma respirava, dunque non era morto. Perciò anche Dondo dy Jironal era ancora vivo. E quella era la mattina delle sue nozze.

A mano a mano che lo sguardo gli si abituava alla penombra, Cazaril si rese conto di non essere solo: sulla rozza ringhiera che delimitava la piattaforma, c’era appollaiata una dozzina di corvi, assolutamente silenziosi e quasi immobili. Sembravano fissarlo.

D’impulso, Cazaril si portò una mano al volto. Ma non era ferito. Nessuno di quegli uccelli aveva ancora provato a beccarlo. «No», sussurrò, con voce tremante. «Non sono la vostra colazione, mi dispiace.»

Nel sentire la sua voce, uno dei corvi arruffò le ali, ma nessuno accennò a volare via. E anche quando lui si sollevò a sedere, i volatili si agitarono, ma non si mossero.

Non tutto era stato fagocitato dall’oscurità: la sua memoria conservava ancora qualche frammento di un sogno. Aveva sognato di essere Dondo dy Jironal, seduto a una tavola scintillante di boccali d’argento, con le mani massicce adorne di anelli. Intorno a lui, in una sala rischiarata da torce e candele, la solita compagnia di amici e di prostitute. Mentre beveva all’imminente sacrificio della verginità di Iselle, accompagnando il brindisi con gesti osceni, era stato assalito da una tosse improvvisa, un fastidio in gola che si era rapidamente trasformato in dolore. A poco a poco, la gola gli si era gonfiata, come se qualcosa lo stesse strangolando dall’interno. I volti arrossati dei compagni si erano girati verso di lui e le loro risate si erano trasformate in grida di panico, giacché il suo viso, ormai livido, aveva convinto tutti che non si trattava di uno scherzo. C’erano stati strilli allarmati, coppe di vino rovesciate, esclamazioni sconvolte, in cui ricorreva la parola «veleno». Lui, invece, non era più riuscito a parlare, per via della gola sempre più contratta e della lingua che si andava gonfiando. Niente ultime parole, quindi, solo silenziose convulsioni, il cuore affaticato che martellava, un dolore simile a una morsa che gli attanagliava il petto e la testa, nubi nere venate di rosso che salivano a oscurargli la vista…

È stato solo un sogno, si disse Cazaril. Se io sono vivo, anche lui lo è.

Per mezzo giro di clessidra rimase ancora sdraiato sulla piattaforma, piegato in due per il dolore al ventre, in preda allo sfinimento e alla disperazione, mentre la fila di corvi continuava a vegliarlo, immersa in uno snervante silenzio.

D’un tratto, Cazaril si rese conto che doveva rientrare. Ma come? Non ci aveva pensato. Poteva calarsi lungo le travi di rinforzo, ma in tal modo si sarebbe trovato sul fondo di una torre murata, in cima al mucchio di detriti e di escrementi accumulatisi negli anni. L’unico modo per farsi tirare fuori sarebbe stato gridare… Ma qualcuno l’avrebbe sentito, attraverso quelle spesse pareti di pietra? E la sua voce non sarebbe stata scambiata per un’eco del gracchiare dei corvi, o per il lamento di qualche fantasma?

No, l’unica via a sua disposizione era quella verso l’alto, la stessa da cui era entrato.

Cazaril si alzò lentamente, aggrappandosi alla ringhiera, cercando di distendere i muscoli contratti e doloranti. I corvi non accennarono a spostarsi e lui ne dovette spingere via un paio, che si allontanarono svolazzando, ma continuarono a mantenere uno spettrale silenzio. Sollevata la veste marrone, Cazaril ne infilò il bordo nella cintura, poi salì sulla ringhiera, in equilibrio precario, e scoprì di poter raggiungere da lì il bordo del tetto. Afferrandosi a esso, si sollevò, confidando nella forza delle braccia e nel suo corpo snello e muscoloso. Per un momento, avvertì la spaventosa sensazione di essere sospeso nel vuoto, quindi i suoi piedi trovarono un appiglio sulle pietre e lui riuscì ad arrivare sulle tegole di ardesia. La nebbia era tanto densa da permettergli di distinguere appena il cortile sottostante, segno che l’alba era prossima, o che il sole era appena sorto. Gli abitanti più umili del castello erano senza dubbio già svegli e intenti ai loro compiti, in quella mattina di fine autunno. Seguito dai corvi, che uscirono a uno a uno dal foro nel tetto, andando ad appollaiarsi sulle tegole o sulla pietra e continuando a seguire i suoi spostamenti, Cazaril avanzò fino a portarsi sul lato opposto della torre.

Gli venne in mente soltanto allora che forse i corvi intendevano scagliarsi addosso a lui per fargli mancare il salto dalla torre al corpo principale del castello, vendicando così il compagno da lui ucciso. E, nello spiccare il salto, immaginò altresì di non trovare un appiglio per i piedi e, abbandonata la presa delle mani tremanti, di precipitare nel vuoto, schiantandosi sulle pietre sottostanti. Nello stesso istante, un nuovo, acutissimo crampo gli assalì il ventre, togliendogli il respiro e strappandogli un sussulto. Fu quasi sul punto di abbandonare davvero la presa, ma venne trattenuto dall’improvviso timore di poter sopravvivere alla caduta e di ritrovarsi storpio, con le gambe devastate. Soltanto sull’onda di quell’idea terribile riuscì a trovare la forza e la volontà necessarie per issarsi al di sopra delle grondaie e delle tegole, ignorando i muscoli che protestavano e le mani sanguinanti per lo sforzo di mantenere la presa.

In quella fitta nebbia, inoltre, gli era difficile capire da quale abbaino fosse uscito la notte precedente. Ce n’erano almeno una dozzina… E cosa avrebbe fatto, se avesse scoperto che, nel frattempo, qualcuno era passato di lì e lo aveva chiuso? Lentamente, strisciando, si avvicinò a un abbaino e provò ad aprire i vetri, ma invano. I corvi continuavano a seguirlo lungo le grondaie, sbattendo le ali e facendo piccoli balzi, con gli artigli che scivolavano sulle tegole bagnate, scintillanti di gocce di condensa che si erano formate anche sulle loro penne nere, sulla barba e sui capelli di Cazaril e sulla sua sopravveste nera. La quarta finestra si spalancò sotto la pressione delle sue dita: era proprio quella della legnaia in disuso da cui lui era passato la notte precedente. Sollevato, Cazaril entrò e richiuse i vetri appena in tempo, giacché la sua scorta di volatili neri stava per seguirlo all’interno. La sua mossa fu tanto repentina che un corvo rimbalzò contro il vetro con un tonfo.

A fatica, scese quindi le scale fino al suo piano, senza incontrare nessun servitore, rientrò incespicando nella sua camera e si richiuse la porta alle spalle. Sentendo il ventre che si contraeva dolorosamente, usò poi il pitale, che si riempì di spaventosi grumi di sangue. Tremando, si lavò le mani nella bacinella e, quando aprì la finestra per gettar via l’acqua sporca di sangue, costrinse un paio di corvi a sloggiare dal suo davanzale.

Bloccata col chiavistello la finestra, si diresse verso il letto, abbandonandosi poi su di esso e avvolgendosi nel copriletto. Continuava a tremare. In lontananza, sentiva i servitori del castello, ormai svegli, che passavano nei corridoi per consegnare acqua, lenzuola o pitali, salendo e scendendo le scale e chiamandosi a bassa voce. Forse Iselle, al piano di sopra, era già sveglia… Probabilmente la stavano lavando e vestendo. La legavano con fili di perle e la incatenavano coi gioielli in modo che fosse pronta per il suo spaventoso appuntamento con Dondo. La Royesse era riuscita a dormire un poco, oppure aveva pianto per tutta la notte, pregando quegli Dei che sembravano ignorare le sue suppliche? E Betriz… Si era forse procurata un altro pugnale? Cazaril sapeva che sarebbe stato suo dovere andare da Iselle, per darle almeno un po’ di conforto, ma, alla luce del suo fallimento, non se la sentiva di affrontare né lei né Betriz. Raggomitolandosi su se stesso, serrò gli occhi, in preda al dolore.

Era ancora disteso a letto, col respiro che usciva in una serie di ansiti, quando nel corridoio echeggiò un rumore di piedi calzati di stivali, poi la porta della sua stanza si spalancò con violenza e il Cancelliere dy Jironal apparve sulla soglia. «So che è stato lui!» ringhiò. «Dev’essere stato lui!»

I passi avanzarono sul pavimento di legno. Il copriletto venne tirato via di scatto. Girandosi, Cazaril fissò con sorpresa il volto arrossato di dy Jironal, che lo guardò a sua volta, stupefatto e disse, in tono indignato: «Siete vivo!»

Una mezza dozzina di cortigiani, tra cui Cazaril riconobbe anche un paio dei bravacci di Dondo, si accalcarono intorno a dy Jironal, guardando con pari meraviglia lo sconcertato Castillar e tenendo la mano sull’impugnatura della spada, quasi fossero pronti a ucciderlo a un minimo cenno del Cancelliere. Il Roya Orico, più arretrato rispetto al minaccioso gruppetto, stava immobile, in camicia da notte e con un trasandato mantello chiuso al collo dalle dita grassocce. Spostando lo sguardo su di lui, Cazaril si accorse che Orico aveva un aspetto… strano. Sempre più perplesso, sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi, eppure continuò a vedere una sorta di aura, fatta non di luce, bensì di oscurità, intorno alla figura del Roya. Lo vedeva con chiarezza, quindi non poteva paragonare quell’oscurità a una nebbia, perché essa non velava minimamente i suoi tratti… Tuttavia lo avvolgeva come un indumento, muovendosi insieme con lui.

Mordendosi un labbro per il disappunto, dy Jironal fissò Cazaril con occhi penetranti. «Se non sei stato tu… chi, allora? Dev’essere stato qualcuno… qualcuno vicino a… a quella ragazza! Quell’immonda, piccola assassina!» esclamò, poi si volse di scatto e uscì a precipizio, segnalando con un gesto secco ai suoi uomini di seguirlo.

«Che succede?» domandò Cazaril a Orico, che si era girato a sua volta per uscire dietro agli altri.

«Il matrimonio è annullato», rispose Orico, lanciandogli un’occhiata da sopra la spalla e allargando le mani in un gesto di sconcertata impotenza. «La scorsa notte, verso mezzanotte, Dondo dy Jironal è stato assassinato… tramite una magia di morte.»

Cazaril aprì la bocca per replicare, ma riuscì a emettere soltanto un flebile «Oh!» Poi si accasciò sul letto, stordito, mentre Orico s’incamminava per seguire il suo Cancelliere. Non capisco, rifletté Cazaril, sempre più confuso. Se Dondo è morto e io sono vivo, non mi può essere stato concesso un miracolo di morte. D’altro canto, Dondo è morto. Come può essere accaduto?

L’unica spiegazione era che qualcuno aveva celebrato lo stesso rito prima di lui. Betriz… Il suo cervello arrivò infine alla stessa conclusione cui dy Jironal era già giunto. Possibile che si trattasse di Betriz?

Con un gemito interiore, Cazaril si alzò di scatto dal letto, cadde pesantemente sul pavimento e si rialzò, incamminandosi con passo barcollante per seguire la piccola folla di cortigiani infuriati e arrivando nell’anticamera, intasata di gente, in tempo per sentire le richieste di dy Jironal.

«Allora falla uscire, in modo che la possa vedere!» stava tuonando il Cancelliere, rivolto all’arruffata Nan dy Vrit che, per quanto spaventata, stava bloccando la porta di accesso alle stanze interne col proprio corpo, come se intendesse difendere un ponte levatoio. Quando Betriz apparve alle spalle di Nan, fissando gli invasori con aria accigliata, Cazaril quasi svenne per il sollievo. Mentre la dama di compagnia era in camicia da notte, Betriz indossava ancora lo stesso abito di lana verde della notte precedente e, a giudicare dall’aria stanca e scomposta, non aveva chiuso occhio. A ogni buon conto era viva!

«Perché state facendo tutto questo chiasso, mio signore?» domandò Betriz, gelida. «È una cosa sconveniente e poco consona all’ora.»

Sconcertato, dy Jironal socchiuse le labbra, e, dopo un momento, tuonò: «Dov’è la Royesse? Devo vederla!»

«Sta dormendo per la prima volta da giorni, e non intendo disturbarla, considerato che i suoi sogni ben presto si tramuteranno in incubi», dichiarò Betriz.

«Non volete disturbarla?» sibilò dy Jironal. «Vi sto chiedendo se potete svegliarla!»

Per gli Dei, possibile che Iselle abbia… pensò Cazaril, atterrito. Ma non ebbe il tempo di abbandonarsi al panico, perché Iselle sopraggiunse alle spalle delle due dame, si fece largo tra loro e avanzò nell’anticamera, fronteggiando dy Jironal. «Non sto dormendo, mio signore. Che cosa volete?» domandò, sfiorando con lo sguardo Orico, che si teneva ai margini della folla. Ma gli occhi della giovane tornarono subito su dy Jironal. Non c’erano dubbi su chi la stesse forzando a contrarre quel matrimonio.

Dy Jironal spostò lo sguardo dall’una all’altra donna, entrambe innegabilmente vive, poi si girò di scatto a fissare ancora Cazaril, che stava guardando Iselle con aria interdetta, giacché aveva scorto intorno a lei un’aura simile a quella di Orico. Nel caso di Iselle, però, essa appariva più disturbata, un ribollire di oscurità mista a un luminoso azzurro. Si rammentò di un’aurora che gli era capitato di contemplare nei lontani cieli del sud…

«Chiunque sia stato e ovunque lo abbia fatto, troverò il cadavere di quell’ignobile vigliacco, a costo di passare al setaccio tutta Chalion», ringhiò dy Jironal.

«Poi cosa farai?» domandò Orico, accarezzandosi le grasse guance non rasate. «Lo impiccherai?» E inarcò un sopracciglio con fare ironico.

Per tutta risposta, dy Jironal gli rivolse un’occhiata furente e, momentaneamente sconfitto, uscì a grandi passi dalla stanza.

Nello spostarsi di lato per far passare lui e il suo seguito, Cazaril continuò a osservare Orico e Iselle, confrontando quelle due… Che cos’erano? Allucinazioni, forse? Non sapeva come altro definirle: intorno a lui, nessun altro pulsava di oscurità in quel modo. Forse sono malato, si disse. O magari sto impazzendo.

Non appena i cortigiani se ne furono andati e Nan ebbe chiuso la porta alle loro spalle, Iselle si rivolse al Castillar e, con voce tremante, chiese: «Cazaril… Cos’è successo?»

«La scorsa notte, qualcuno ha ucciso Dondo dy Jironal con la magia di morte.»

Iselle socchiuse le labbra e si serrò le mani sul cuore, come una bambina cui fosse appena stata promessa la realizzazione del suo più grande desiderio. «Oh! Oh! Oh, questa sì, che è una notizia gradita!» esclamò. «Oh, sia ringraziata la Signora, sia ringraziato il Bastardo… Manderò splendidi doni per il suo altare… Oh, Cazaril, chi…?»

Nel cogliere l’occhiata di Betriz, Cazaril fece una smorfia. «Non sono stato io, questo è ovvio», dichiarò. Anche se non si può dire che non ci abbia provato, rifletté.

«Avete…» cominciò Betriz, poi s’interruppe.

Cazaril le rivolse un cenno del capo quasi impercettibile. La giovane comprese: non poteva chiedergli, davanti a due testimoni, se lui aveva premeditato un crimine che comportava la pena capitale. D’altro canto, era possibile leggere nello sguardo della giovane una tale ridda d’ipotesi…

«Credo di averlo avvertito», riprese Iselle, meravigliata, camminando avanti e indietro con passo reso leggero dal sollievo. «In ogni caso, ho avvertito qualcosa… A mezzanotte… Avete detto che è successo verso mezzanotte, vero?»

Cazaril evitò di precisare che, in presenza della Royesse, nessuno aveva parlato di un’ora precisa.

«A quell’ora, il mio cuore si è rasserenato, come se qualcosa, dentro di me, avesse appreso che le mie preghiere erano state ascoltate. Tuttavia non mi sarei mai aspettata questo», proseguì Iselle. «Io avevo chiesto alla Signora che permettesse a me di morire… o che si compisse la sua volontà.» Si portò una mano alla fronte e chiese, con voce d’un tratto esitante «Cazaril… È possibile che… Potrei essere stata io a fare questo? È così che la Dea ha scelto di rispondermi?»

«Io… non credo proprio, Royesse. Avete rivolto le vostre preghiere alla Signora della Primavera, giusto?»

«Sì, a lei e alla Madre dell’Estate, ma soprattutto alla Signora della Primavera.»

«Ed entrambe concedono miracoli di vita e di risanamento, non di morte», le ricordò Cazaril. In effetti, quella era la norma. D’altro canto, però, tutti i miracoli erano rari e imprevedibili, perché nessuno poteva conoscere i limiti e gli scopi degli Dei.

«Non ho avuto una sensazione di morte», ammise Iselle. «Tuttavia ho provato sollievo, al punto che sono riuscita a mangiare qualcosa senza vomitare e che ho perfino dormito per un po’.»

«Cosa di cui sono stata lieta, mia signora», interloquì Nan dy Vrit, annuendo.

«Sono certo che dy Jironal risolverà questo mistero per conto di tutti noi», tagliò corto Cazaril, traendo un profondo respiro. «Senza dubbio, individuerà coloro che, la scorsa notte, sono morti all’interno di Cardegoss — anzi in tutta Chalion — e finirà per trovare l’assassino di suo fratello.»

«Sia benedetta quella povera anima che ha sventato in questo modo i suoi ignobili piani e che ha pagato un simile prezzo», esclamò Iselle, toccandosi formalmente la fronte, le labbra, il ventre, l’inguine e il cuore, con le dita allargate. «Che i demoni del Bastardo gli concedano tutta la misericordia possibile.»

«Così sia», commentò Cazaril. «Speriamo solo che dy Jironal non trovi amici o parenti del colpevole su cui vendicarsi.» Poi venne colto da un crampo e si serrò le braccia intorno al ventre.

Subito Betriz gli si avvicinò e lo scrutò in volto, protendendo la mano verso di lui, ma lasciandola subito ricadere. «Avete un aspetto spaventoso, Lord Caz… La vostra pelle ha il colore del porridge freddo.»

«Sto… male. Probabilmente è colpa di qualcosa che ho mangiato», ansimò Cazaril, traendo un faticoso respiro. «Dunque oggi non ci prepareremo per uno sgradito matrimonio ma per un gioioso funerale. Posso confidare che voi signore riuscirete a contenere in pubblico la vostra soddisfazione?»

Nan dy Vrit reagì a quelle parole con uno sbuffo, ma Iselle bloccò con un cenno la sua reazione. «Vi prometto che avremo un atteggiamento compassato e solenne», garantì. «Se nel mio cuore ci saranno gioia e rendimento di grazie, non dolore, questo lo sapranno soltanto gli Dei.»

Cazaril annuì, massaggiandosi il collo dolorante. «Di solito, una vittima della magia di morte viene bruciata prima di notte, in modo da impedire l’accesso al corpo a cose ultraterrene che cerchino di penetrarvi… o almeno così asseriscono i Divini», mormorò. «A quanto pare, questo genere di morte invita ogni sorta di creature spettrali. Dovendo approntare ogni cosa prima che faccia buio, sarà un funerale terribilmente affrettato per un nobile di rango così elevato.» Nel parlare, dovette distogliere lo sguardo da Iselle, perché la sua aura corrusca e vibrante cominciava quasi a dargli la nausea.

«In tal caso, Cazaril, sarà meglio che, fino ad allora, andiate a sdraiarvi», suggerì Betriz. «Per quanto si tratti di una cosa inattesa, adesso siamo salve, e non c’è bisogno che voi facciate altro.» Strinse per un istante le mani gelide del Castillar nelle sue e gli rivolse un sorriso pieno di preoccupazione, che lui riuscì a stento a ricambiare, prima di ritirarsi.


Rientrato nella propria camera, Cazaril si stese di nuovo sul letto. Era là da circa un’ora, ancora sconcertato e tremante, quando la porta si spalancò. Betriz entrò in punta di piedi e gli posò una mano sulla fronte. «Temevo che aveste la febbre… Invece siete gelido», disse.

«Ho… Sì, ho preso freddo. Devo essermi scoperto durante la notte.»

«I vostri vestiti sono fradici di umidità», continuò lei, toccandogli la spalla. «Quand’è stata l’ultima volta che avete mangiato?»

«Ieri mattina, credo», rispose Cazaril.

«Capisco», commentò Betriz, indugiando ancora a fissarlo con espressione accigliata, poi si girò di scatto e lasciò la stanza.

Dieci minuti più tardi, arrivò una cameriera con uno scaldino pieno di carboni ardenti e una trapunta di piume d’oca. Poi fu la volta di un servitore con un secchio d’acqua calda. L’uomo aveva ricevuto l’ordine di lavare Cazaril e di rimetterlo a letto con indosso una camicia da notte pulita… Due incarichi che contrastavano alquanto con la frenetica atmosfera del castello, giacché i nobili e le dame erano tutti impegnati a prepararsi per una cerimonia formale. Il servitore aveva appena finito di sistemarlo a letto, avvolto nelle lenzuola calde e asciutte, quando Betriz riapparve sulla soglia, reggendo su un vassoio una tazza di terracotta; puntellata la porta perché rimanesse aperta, la ragazza si sedette sul bordo del letto.

«Cercate di mangiare», disse, procedendo a imboccarlo.

Cazaril accettò il primo cucchiaio di pane, latte e miele con aria sorpresa, poi si sforzò di sollevarsi a sedere. «Non sono malato fino a questo punto», protestò. Nel tentativo di recuperare un po’ di dignità, prese la tazza dalle mani di Betriz, la quale gli rimase accanto per essere sicura che continuasse a mangiare. Ma non ce n’era bisogno: Cazaril scoprì di essere davvero affamato e, una volta finito di mangiare, si rese conto che non tremava più.

«Ah, il vostro colorito è molto migliorato», approvò Betriz, con un sorriso soddisfatto. «Bene.»

«Come sta la Royesse?»

«Molto meglio. Dovrei dire che è crollata, ma non bisogna interpretare questo termine in senso negativo, bensì immaginando quel gradevole rilassamento che subentra allorché si dissolve una tensione intollerabile. Guardarla è una gioia per gli occhi»

«Sì, lo capisco.»

«Adesso sta riposando, in attesa che arrivi l’ora di prepararsi», continuò Betriz, prendendo la tazza vuota e posandola di lato. Poi abbassò la voce e aggiunse: «Cazaril, che cosa avete fatto, la notte scorsa?»

«Nulla, è evidente.»

La giovane serrò le labbra, esasperata. Lui però non voleva gettarle addosso il fardello del suo segreto. Una confessione avrebbe dato sollievo alla sua anima, certo, però avrebbe anche messo in pericolo quella di Betriz. Se fosse stata aperta un’inchiesta e lei avesse dovuto testimoniare sotto giuramento… No, non poteva parlare.

«Lord dy Rinal ha saputo che la scorsa notte voi avete pagato un paggio perché vi procurasse un ratto… È stato questo che ha spinto dy Jironal a precipitarsi nella vostra stanza, almeno a quanto sostiene dy Rinal. Il paggio, dal canto suo, ha affermato che voi volevate mangiare il ratto…»

«Infatti. Mangiare un ratto non è un crimine. Era un piccolo banchetto commemorativo, in ricordo dell’assedio di Gotorget.»

«Davvero? Eppure mi avete appena detto di non aver più mangiato nulla da ieri mattina», obiettò Betriz. «Inoltre, la cameriera addetta alla vostra camera ha detto di aver trovato del sangue nel vostro pitale, stamattina, quando lo ha svuotato.»

«Per i demoni del Bastardo!» imprecò Cazaril. «I pettegolezzi di corte non rispettano proprio nulla? Qui un uomo non può definire suo neppure il proprio pitale?»

«Non scherzate, Lord Caz», lo ammonì Lady Betriz, sollevando una mano. «Ditemi piuttosto… state davvero così male?»

«Ho avuto dei dolori al ventre, ma adesso si stanno placando… Una cosa passeggera», rispose Cazaril, con una smorfia, decidendo di non far cenno alle allucinazioni. «Ovviamente, il sangue nel pitale era quello del ratto macellato, e i dolori al ventre sono l’inevitabile conseguenza dell’aver mangiato una creatura tanto disgustosa.»

«È una storia plausibile, in cui tutto combacia», annuì Betriz.

«Infatti.»

«Ma, Caz… La gente penserà che siete strano.»

«E quella gente si unirà a coloro che mi considerano un violentatore. Suppongo che mi serva una terza forma di perversione, per equilibrare le altre due, eh?» In realtà, potrei essere sospettato di aver messo in atto la magia di morte, e finire sulla forca… pensò.

«D’accordo, non intendo insistere», si arrese Betriz, con aria accigliata, fissandolo. «Però mi stavo chiedendo una cosa… Se due persone tentassero la magia di morte sulla stessa vittima e agissero nello stesso momento, potrebbe ciascuna delle due risultare… morta a metà

Cazaril la guardò, vide con sollievo che non appariva disgustata, e scosse il capo. «Non credo», rispose. «Considerati i numerosi, e vani, tentativi compiuti per forzare gli Dei con la magia di morte, senza dubbio una cosa del genere si sarebbe già verificata in passato. Nelle incisioni dei Templi, il demone della morte del Bastardo viene sempre raffigurato con un giogo sulle spalle e due secchi identici, uno per ciascuna anima. Non credo che il demone possa fare una scelta diversa…» D’un tratto rammentò le parole di Umegat: Soltanto perché una cosa è un trucco, non è detto che il Dio non c’entri. Temo che così funzionino le cose… «Dubito che perfino gli Dei possano fare una scelta diversa», concluse.

«Mi avete detto che, se stamattina non foste tornato, non avrei dovuto preoccuparmi per voi o cercarvi, che quello sarebbe stato il segno che andava tutto bene. E avete anche sostenuto che, se i corpi non vengono adeguatamente bruciati, possono accadere cose spettrali e terribili», gli ricordò Betriz.

«Avevo adottato misure di sicurezza», garantì Cazaril, a disagio.

«Quali misure? Siete sgusciato via, senza che coloro cui state a cuore sapessero dove cercarvi o se pregare per voi…»

«I corvi di Fonsa… La scorsa notte, ho scalato la Torre di Fonsa per… Ah, ecco… per pregare», mormorò Cazaril. «Ho pensato che se le cose fossero andate… in maniera diversa, i corvi avrebbero provveduto a fare pulizia, come fanno i loro confratelli sui campi di battaglia, o con una pecora caduta in un burrone.»

«Cazaril!» gridò Betriz, indignata, poi si affrettò ad abbassare la voce, riducendola quasi a un sussurro. «Caz, questo è… Mi state dicendo che siete strisciato via da solo per morire in preda alla disperazione, con la prospettiva di lasciare che il vostro corpo venisse divorato dai… Ma è orribile!»

«No, aspettate!» protestò Cazaril, sorpreso di vedere gli occhi di lei velarsi di lacrime. «Non è poi così terribile, e mi è parsa una cosa degna di un soldato.» Allungò la mano per asciugare le lacrime sulla guancia di lei, ma poi la lasciò ricadere con esitazione sul copriletto.

«Se mai farete di nuovo una cosa del genere senza dirmelo… senza dirlo a qualcuno… io… vi prenderò a schiaffi!» s’infuriò Betriz, serrando i pugni in grembo, poi si sfregò gli occhi, si passò le mani sul volto e si sedette più eretta, riportando bruscamente la voce a un tono colloquiale. «Il funerale dovrebbe tenersi nel Tempio, un’ora prima del tramonto. Intendete presenziarvi, oppure rimarrete a letto?»

«Se riuscirò a camminare, intendo essere presente sino in fondo», replicò Cazaril. «Ogni nemico di Dondo presenzierà al rito, se non altro per dimostrare di non essere lui il colpevole, quindi si tratterà di un evento notevole, cui varrà la pena di assistere.»


Le persone che assistettero al rito funebre per Dondo dy Jironal nel Tempio di Cardegoss furono molto più numerose di quelle che avevano partecipato al funerale del povero, solitario dy Sanda. Il Roya Orico in persona, abbigliato in colori adeguati alla circostanza, si mise alla testa del gruppo dei dolenti che, usciti dallo Zangre, scesero a piedi la collina in una lenta processione. Su una portantina c’era anche la Royina Sara. Sebbene inespressiva in volto quanto una statua intagliata in un blocco di ghiaccio, la Royina aveva scelto abiti dai colori vivaci, mescolando le tinte proprie di tre diverse festività, il tutto corredato da una vera profusione di gioielli. Pareva che Sara avesse indosso almeno la metà dei preziosi in suo possesso.

Naturalmente tutti finsero di non notare la cosa.

Cazaril continuò invece a osservare di nascosto la Royina per tutto il tragitto, ma non per quel suo abbigliamento bizzarro. Lui scrutava quel mantello d’ombra, simile a una nebbia e gemello di quello di Orico, che stuzzicava tormentosamente il suo occhio mentale. Anche Teidez possedeva un’analoga aura scura, che si spostava insieme con lui sull’acciottolato, segno che quella sorta di nero miraggio, qualsiasi cosa fosse, si estendeva a tutta la famiglia. Sempre più perplesso, Cazaril non poté fare a meno di chièdersi che cosa avrebbe visto se avesse posato lo sguardo sulla Royina Ista.

Il numero dei presenti risultò così elevato che la cerimonia, condotta dall’Arcidivino di Cardegoss in persona, avvolto nelle sue vesti a cinque colori, venne tenuta nel cortile principale del Tempio. La processione giunta dal palazzo dei dy Jironal depose il feretro contenente il corpo di Dondo a pochi passi dal focolare degli Dei, una rotonda piattaforma di pietra al di sopra della quale una tenda di rame con un foro centrale, retta da cinque sottili colonne, si levava a proteggere dagli elementi il fuoco sacro. Il crepuscolo di quel cupo giorno di pioggia tingeva l’aria di una caliginosa sfumatura violetta e diffondeva ovunque un’opaca luce grigiastra, pervasa dal sentore della miriade di incensi bruciati in preghiera e nei riti di purificazione.

Il cadavere di Dondo, composto nella bara e circondato da fiori ed erbe di buon augurio e di protezione simbolica — una precauzione che Cazaril giudicò un po’ tardiva — era stato abbigliato con le vesti azzurre e bianche proprie della sua carica di Santo Generale dell’Ordine militare della Figlia, e la spada che simboleggiava il suo rango era stata deposta sul suo petto, le mani chiuse intorno all’elsa. Sottovoce, dy Rinal aveva diffuso la diceria secondo cui il corpo era stato avvolto strettamente in fasce di lino prima di essere vestito, eppure esso non sembrava particolarmente gonfio o deformato. Anche il volto non era più gonfio di quanto lo fosse stato nelle mattine in cui Dondo si era trovato a smaltire i postumi di qualche sbornia. D’altro canto, il cadavere sarebbe stato arso con gli anelli ancora infilati nelle dita grassocce: per sfilarli, sarebbe stato necessario ricorrere a un coltello da macellaio.

Cazaril era riuscito a camminare dallo Zangre fino al Tempio senza incespicare, ma i crampi stavano tornando ad aggredirgli lo stomaco, che sembrava persino tendere la cintura. A disagio, il Castillar si mise in un posto abbastanza appartato, cioè alle spalle di Betriz e di Nan. Quanto a Iselle, venne accompagnata accanto a Orico e al Cancelliere: il suo breve fidanzamento rendeva infatti il suo lutto, almeno formalmente, più doloroso. Sotto il manto dell’aura scintillante nera e azzurra, che, agli occhi di Cazaril, la rendeva simile a un’aurora, la Royesse appariva cupa e pallida in volto. Il cadavere di Dondo sembrava aver smorzato in lei qualsiasi impulso a sconvenienti manifestazioni di gioia.

Due cortigiani si fecero avanti per pronunciare un sentito e sincero elogio funebre per Dondo, anche se Cazaril non riconobbe nelle loro parole l’effettivo carattere del defunto né la descrizione del suo stile di vita. Il Cancelliere dy Jironal sembrava troppo sopraffatto dall’emozione per parlare a lungo, sebbene fosse difficile stabilire se il suo stato d’animo dominante fosse il dolore o l’ira. Si limitò ad annunciare una ricompensa di mille reali d’oro per chi avesse fornito informazioni atte a identificare l’assassino del fratello. E quello fu l’unico riferimento a ciò che aveva causato l’improvvisa dipartita di Dondo.

Un’altra cifra non indifferente era stata di certo deposta sull’altare del Tempio. Poi tutti i Devoti, gli Accoliti e i Divini di Cardegoss presero a cantare le preghiere con tale slancio da far supporre che il semplice volume di quel coro potesse garantire al defunto una maggiore santità. Uno dei cantori, che faceva parte del gruppo dei contralto, attirò l’attenzione dell’occhio interiore di Cazaril. Si trattava di una donna di mezz’età dall’aria triste, abbigliata con una veste verde, che pareva risplendere come una candela osservata attraverso un vetro color smeraldo. Mentre cantava, la donna guardò a sua volta Cazaril, ma si affrettò subito a riportare gli occhi sul Divino incaricato di dirigere il coro.

«Conoscete quell’Accolita in coda alla seconda fila dei cantori della Madre?» sussurrò Cazaril a Nan.

«È una delle levatrici al servizio della Madre», rispose la dama, dopo aver guardato nella direzione indicata. «Ho sentito dire che è molto brava.»

«Capisco.»

Giunse poi il momento della scelta da parte degli animali sacri. La folla si fece attenta, giacché non era assolutamente chiaro o prevedibile quale Dio avrebbe preso con sé l’anima di Dondo dy Jironal. Il suo predecessore nella carica di generale della Figlia, pur essendo padre e nonno, era stato immediatamente reclamato dalla Signora della Primavera, che lui aveva servito a lungo, fino alla morte. Dondo, dal canto suo, in gioventù aveva prestato servizio nell’Ordine militare del Figlio, spargendo in giro più di un bastardo. Dalla defunta moglie aveva anche avuto due figlie, che lui disprezzava e che aveva affidato ad alcuni parenti di campagna perché le allevassero. Ma il pensiero di tutti i presenti era un altro: se l’anima di Dondo era stata portata via dal demone della morte del Bastardo, allora adesso si trovava nelle mani di quel Dio, quindi era possibile che esso decidesse di appropriarsene.

In risposta a un gesto dell’Arcidivino Mendenal, l’Accolita cui era affidata la ghiandaia della Figlia si fece avanti e sollevò il polso, ma la ghiandaia oscillò su di esso senza abbandonare la presa sulla manica. L’Accolita guardò allora l’Arcidivino, che si accigliò, accennando impercettibilmente con la testa al feretro. Allora l’Accolita, pur riluttante, avanzò e chiuse entrambe le mani intorno alla ghiandaia, deponendola con decisione sul petto del cadavere.

Nel momento stesso in cui ritrasse le mani, la ghiandaia sollevò la coda, scaricò una chiazza di guano e spiccò il volo, trascinandosi dietro i lacci di seta ricamata e lanciando strida acute. Almeno tre uomini accanto a Cazaril emisero suoni soffocati, ma l’espressione furente del Cancelliere dy Jironal fu sufficiente a trattenere chiunque dallo scoppiare a ridere. Accanto al Cancelliere, Iselle abbassò gli occhi azzurri, che ardevano come fuochi cerulei, e la sua aura si fece ancor più ribollente, mentre l’Accolita indietreggiava e piegava indietro il capo per seguire con ansia il volo della ghiandaia, che infine si appollaiò sulla sommità di una delle elaborate colonne di porfido che circondavano il cortile, continuando a stridere. L’Accolita scoccò quindi un’occhiata all’Arcidivino, che si affrettò a congedarla con un cenno. Con un inchino, la donna si diresse verso la colonna e cercò di convincere la ghiandaia a tornare sul suo polso.

Anche l’uccello verde, sacro alla Madre, rifiutò di lasciare il braccio dell’Accolita cui era affidato. Stavolta, tuttavia, l’Arcidivino Mendenal si limitò a segnalare con un cenno del capo all’Accolita di tornare al proprio posto.

L’Accolita del Figlio si servì del guinzaglio di rame per trascinare la volpe fino alla cassa, ma l’animale prese a uggiolare e a mordere, cercando di far presa sul pavimento coi suoi artigli neri. All’Arcidivino non rimase altro che indicare all’Accolita di tirarsi indietro.

Seduto sulle zampe posteriori, con la lunga lingua rosea che pendeva dalle fauci socchiuse, il robusto lupo grigio emise un cupo ringhio quando la sua custode dalle vesti grigie accennò a sollevare il guinzaglio d’argento. Tuttavia, mentre quel suono sordo echeggiava ancora nel cortile di pietra, il lupo si adagiò sul ventre e protese le zampe davanti a sé. Accanto a lui, l’Accolita riabbassò con cautela le mani e s’immobilizzò, rivolgendo all’Arcidivino uno sguardo in cui si leggeva la sua determinazione a non insistere. E Mendenal accettò quella resa.

Lo sguardo di tutti, carico di aspettativa, si appuntò allora sulla figura vestita di bianco dell’Accolita del Bastardo, che aveva con sé i suoi ratti candidi. Il Cancelliere dy Jironal, accanto al feretro, aveva le labbra serrate e quasi bianche a causa della furia impotente che lo divorava. Tratto un profondo respiro, l’Accolita avanzò verso il cadavere e depose le sue creature sacre sul petto di Dondo, indicando così che il Dio accettava quell’anima scartata dalle altre divinità.

Nel momento in cui le sue mani abbandonarono la presa sui bianchi corpi setosi, però, entrambi i ratti saettarono lontano dal feretro, in direzioni opposte, così rapidi da sembrare scagliati da una catapulta. Colta alla sprovvista, l’Accolita oscillò, come se non riuscisse a decidere quale delle sacre bestiole a lei affidate inseguire per prima, e sollevò le mani in un gesto di disperazione. Nel frattempo, uno dei ratti si diresse verso il rifugio sicuro offerto dalle colonne, e l’altro si allontanò in mezzo alla folla, che si agitò al suo passaggio, accompagnato dagli strilli nervosi di un paio di donne e da uno sgomento mormorio d’incredulità che si diffuse tra i cortigiani e le dame, mutandosi ben presto in un coro di sconvolti sussurri.

Betriz si avvicinò a Cazaril per sussurrargli all’orecchio: «Ma cosa significa tutto questo? Il Bastardo prende sempre gli scarti degli altri Dei, sempre. È il suo… lavoro, e non può rifiutare di accogliere un’anima respinta… Anche se credevo che se ne fosse già impossessato».

«Se nessun Dio ha preso con sé l’anima di Lord Dondo… allora essa è ancora nel mondo», rispose Cazaril, altrettanto sgomento. «Se l’anima non è , allora dev’essere qui, da qualche parte…» Uno spettro inquieto, uno spirito senza riposo, reciso e dannato.

La cerimonia s’interruppe, e l’Arcidivino e il Cancelliere dy Jironal si appartarono dietro il focolare per conferire a bassa voce, anche se di tanto in tanto il loro tono di voce si alzava, attizzando la curiosità della folla in attesa. Facendo capolino da dietro il focolare, l’Arcidivino chiamò poi a sé un giovane Accolita del Bastardo che, dopo aver scambiato con lui poche, sommesse parole, si allontanò di corsa.

Mentre il cielo grigio si scuriva sempre di più, un Divino di rango inferiore, di sua iniziativa, guidò i cantori in un inno non previsto, inteso a riempire quella pausa forzata. Sulle ultime note di quel canto, dy Jironal e Mendenal tornarono a unirsi agli altri, ma l’attesa si protrasse, inducendo il coro ad avviare un altro inno.

Cazaril si sorprese a desiderare di aver utilizzato l’opera di Ordol, Il quintuplice sentiero dell’anima, in maniera più proficua che come semplice paravento per i propri sonnellini e si rammaricò di aver lasciato quel testo a Valenda, perché di colpo si sentiva assillato da una quantità d’interrogativi. Dov’era finita l’anima di Dondo, se il suo spirito non era stato riportato dal demone al suo padrone? Dov’era l’anima recisa dell’ignoto assassino di Dondo, se davvero il demone poteva tornare indietro soltanto col suo doppio bagaglio di anime? E che fine aveva fatto il demone stesso? La teologia non l’aveva mai interessato granché: gli era sempre sembrato un soggetto dagli scarsi risvolti pratici, adatto ai sognatori, a quelli che vivevano fuori del mondo… Adesso, però, si pentiva di non averlo approfondito.

Uno stridio proveniente da un punto vicino al suo stivale lo indusse ad abbassare lo sguardo: il sacro ratto bianco si stava aggrappando alla sua gamba, col minuscolo naso rosato che vibrava intensamente nello strusciarsi contro il suo stinco. Chinatosi, Cazaril raccolse la bestiola con l’intenzione di restituirla all’Accolita, ma il ratto prese subito a rotolarsi con fare estatico tra le sue mani, leccandogli il pollice. In quel momento, l’Accolita affannata rientrò nel cortile insieme con Umegat, che indossava la livrea dello Zangre. E fu proprio la visione dello stalliere a sconvolgere Cazaril.

Il roknari risplendeva infatti di un’aura di un candore assoluto, come se fosse davanti a una finestra di vetro trasparente, investita dalla luce di un’alba che sorgesse sul mare. Quel bagliore era così intenso che Cazaril serrò le palpebre, pur sapendo che non si trattava di un fenomeno fisico. E infatti quel chiarore incandescente continuò a muoversi davanti a lui nonostante gli occhi chiusi, insieme con tre chiazze di oscurità, che non era precisamente tale, un’aurora ribollente e, di lato, una fievole scintilla verde.

Riaprendo gli occhi di scatto, sorprese Umegat che lo fissava con tale intensità da dargli l’impressione che lo stesse sezionando. Dopo un secondo, tuttavia, lo stalliere passò oltre e andò a fermarsi davanti all’Arcidivino con un inchino un po’ teso, appartandosi con lui per scambiare qualche rapida parola in tono sommesso.

Subito dopo l’Arcidivino chiamò a sé l’Accolita del Bastardo, che nel frattempo era riuscita a recuperare l’altro ratto, e consegnò l’animale a Umegat. Tenendo la bestiola nell’incavo del braccio, lo stalliere si diresse verso Cazaril, facendosi largo con umiltà ossequiosa tra i cortigiani, i quali non lo degnarono neppure di un’occhiata. La cosa lasciò Cazaril assai perplesso, giacché gli sembrava impossibile che la folla non si aprisse di fronte all’aura incandescente dello stalliere proprio come le onde del mare si aprivano davanti alla prua di una nave. Arrestandosi di fronte a lui, Umegat protese la mano aperta. Per un momento, Cazaril rimase a fissarla con aria ottusa.

«Il ratto sacro, mio signore», mormorò allora Umegat.

«Ah, sì», annuì Cazaril, abbassando lo sguardo sulla creatura, ancora intenta a succhiargli le dita.

Umegat procedette a staccare la riluttante bestiola dalla sua manica, quasi stesse rimuovendo una zecca, e nel contempo impedì alla sua compagna di spiccare un balzo per prenderne il posto. Tenendo sotto controllo entrambi i ratti, tornò quindi con calma verso la bara, dov’era in attesa l’Arcidivino, che quasi sembrò volersi chinare davanti allo stalliere. Almeno così parve a Cazaril, talmente stupito da dubitare di essere in possesso delle proprie facoltà. I cortigiani dello Zangre, invece, non sembravano trovare strano il fatto che l’Arcidivino avesse convocato il più esperto addestratore di animali del Roya per far fronte a quell’imbarazzante crisi: l’attenzione generale dunque era concentrata sui ratti, piuttosto che su Umegat. Cazaril si convinse di essere il solo a vedere quei fenomeni assurdi.

Tenendo le creature tra le braccia, Umegat parlò loro in tono sommesso e si avvicinò al corpo di Dondo, indugiando per un lungo istante. I ratti rimasero tranquilli, ma non accennarono a muoversi per reclamare l’anima del defunto per il loro Dio. Alla fine, Umegat si decise a indietreggiare e, scuotendo il capo in direzione dell’Arcidivino, riconsegnò i ratti all’ansiosa fanciulla che li aveva in custodia.

Prostratosi tra il focolare e la cassa, Mendenal mormorò una preghiera, ma si rialzò quasi subito. Il tempo cominciava a scarseggiare, come indicava il fatto che alcuni Devoti stavano già accendendo le lanterne nel cortile ormai quasi buio. L’Arcidivino si affrettò quindi a convocare i portatori perché trasportassero la cassa fino al rogo, e i cantori si accodarono al feretro in una lunga processione.

Tornando accanto a Betriz e a Cazaril, la Royesse si passò il dorso della mano sugli occhi affaticati. «Non credo di poter sopportare oltre questa cerimonia», disse. «Dy Jironal può anche presenziare da solo al rogo del fratello. Accompagnatemi a casa, Cazaril.»

Il piccolo gruppo formato dalla Royesse e dal suo seguito si staccò quindi dalla folla, che si era già un poco ridotta, e oltrepassò il portico frontale del Tempio, avviandosi nell’umido crepuscolo di quel giorno d’autunno.

Non appena usciti, Umegat, che evidentemente li aveva aspettati, andò loro incontro. «Mio signore dy Cazaril… Potrei scambiare qualche parola con voi?» chiese, con un inchino.

Sorpreso che il chiarore della sua aura non si riflettesse sulla pavimentazione bagnata, Cazaril si scusò con Iselle e rientrò nel Tempio col roknari, lasciando le tre donne ad attenderlo al limitare del portico, Iselle appoggiata al braccio di Betriz.

«Mio signore, vi supplico di concedermi un’udienza privata, non appena vi sarà possibile», disse Umegat.

«Vi raggiungerò al serraglio dopo aver riaccompagnato a casa Iselle», replicò Cazaril. Poi, con voce esitante, aggiunse: «Siete consapevole di brillare quanto una torcia accesa?»

«Mi è già stato detto dai pochi che hanno occhi per scorgere queste cose», rispose lo stalliere, con un cenno di assenso. «Purtroppo, una persona non può vederlo da sé, perché nessuno specchio può riflettere questo fenomeno, visibile soltanto agli occhi dell’anima.»

«Nel Tempio c’era una donna che brillava come una candela verde.»

«Madre Clara? Sì, mi ha appena parlato di voi. È un’eccellente levatrice.»

«Ma cos’è dunque quella sorta di anti-luce?» chiese ancora Cazaril, lanciando un’occhiata alle donne in attesa.

«Per favore, mio signore, non qui», lo pregò Umegat, portandosi un dito alle labbra.

Sebbene un po’ stupito, Cazaril annuì.

Dopo un profondo inchino, lo stalliere si voltò e fece per avviarsi nel crepuscolo sempre più fitto. D’un tratto, però, girandosi verso Cazaril, disse: «A proposito, voi risplendete come una città in fiamme».

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