Muller li vedeva avvicinarsi sempre più, ed era stupito della propria calma. Aveva distrutto il ricognitore, e dopo non ne erano stati mandati altri, ma i suoi schermi mostravano gli uomini accampati nei settori periferici. Non riusciva a distinguere chiaramente le loro facce e neanche capiva che cosa stessero facendo, ma ne aveva contato una dozzina, più o meno. Alcuni si erano sistemati nella zona E, e un altro gruppo, più numeroso, in quella F. Ne aveva anche visti tre o quattro nelle zone pericolose.
Aveva la possibilità di attaccare in diversi modi. Per esempio, poteva inondare la zona E con l’aiuto dell’acquedotto: l’aveva già fatto una volta, inavvertitamente, e la città aveva speso un giorno intero per ripulirsi. Ricordava che, durante l’inondazione, la zona E era rimasta sigillata da paratie stagne per impedire che l’acqua ne uscisse. Se gli invasori non fossero annegati subito, certamente sarebbero finiti in qualche trabocchetto. Muller poteva fare molte altre cose per impedire agli intrusi di raggiungere il centro.
Ma non fece niente. Sapeva che alla base della sua inazione c’era il desiderio inconfessato di spezzare l’isolamento di quei lunghi anni. Per quanto li odiasse, per quanto li temesse, per quanto detestasse l’intrusione nella sua solitudine, permetteva loro di avanzare.
Muller aveva passato quasi un anno tra gli Hydrani, poi, vedendo che non concludeva niente, era rientrato nella sua capsula e aveva puntato verso il cielo, riprendendo possesso della nave rimasta in orbita. Se gli Hydrani possedevano una mitologia, certamente lui era entrato a farne parte.
Una volta a bordo, compì le manovre che l’avrebbero riportato sulla Terra. Mentre notificava la propria presenza al cervello elettronico della nave, si vide riflesso in una piastra di metallo brunito. Si spaventò. Gli Hydrani non possedevano specchi e Muller, per la prima volta, vide le rughe profonde incise sulla sua faccia. Ma non erano le rughe a preoccuparlo. Era piuttosto l’espressione curiosa, indefinibile, che scorgeva nei suoi occhi. Effetto della tensione pensò. Terminato di programmare il ritorno, se ne andò nella cabina medica e ordinò un abbassamento del tono nervoso, un bagno caldo e un massaggio. Quando uscì, i suoi occhi erano ancora strani, e aveva anche un tic facciale. Di questo si liberò facilmente, ma non poté fare niente per gli occhi.
L’astronave attinse energia dalla stella donatrice più vicina, e Muller, nel suo guscio di plastica e di metallo, intraprese il viaggio di ritorno.
Non aveva niente da fare. La nave uscì dall’iperspazio entro i limiti prescritti, vale a dire a centomila chilometri dalla Terra, e le luci colorate lampeggiarono sul quadro di comando, mentre la stazione spaziale più vicina segnalava i dati necessari all’accostamento.
«Adeguate la vostra velocità alla nostra, signor Muller, e vi manderemo a bordo un pilota che vi riporterà a Terra» disse il commissario di base.
La nave fece tutto da sé, e presto la cupola color rame della stazione fu in vista.
«Abbiamo un messaggio per voi dalla Terra» disse ancora la voce. «Charles Boardman vuole parlare con voi.»
«Passatemelo» disse Muller.
La faccia di Boardman comparve sullo schermo. Era rosea, ben curata e piena di salute. «Dick! Che piacere rivedervi!»
Muller azionò il tattile, e posò la mano sul polso di Boardman, attraverso lo schermo. «Salve, Charles. Una su sessantacinque, eh? Be’, eccomi qua.»
«Devo dirlo a Marta?»
«Marta?» Muller pensò un istante. Già. La ragazza coi capelli azzurri, i fianchi snelli e i tacchi a spillo. «Sì, avvertitela. Sarei contento se mi venisse incontro all’atterraggio.»
Boardman rise, poi chiese: «Com’è andata?»
«Male.»
«Avete stabilito dei contatti, però.»
«Ho trovato gli Hydrani. E loro non mi hanno ucciso.»
«Sì, ma…»
«Sono vivo, Charles.» Muller sentì il tic che ricominciava a pulsare. «Non ho imparato la loro lingua, e non posso dirvi se mi trovano simpatico o no. Sembravano alquanto interessati. Mi hanno osservato attentamente per molto tempo. Però non hanno mai detto una parola.»
«Sono telepatici?»
«Non sono in grado di dirvelo, Charles.»
Boardman tacque un istante, poi riprese: «Che cosa vi hanno fatto, Dick?»
«Niente.»
«Questo non è vero.»
«Sono soltanto stanco. In forma, ma con i nervi un po’ tesi. Ho voglia di respirare aria buona, di bere birra vera e di mangiare una bella bistecca. E vorrei un po’ di compagnia femminile. Poi tornerò come prima.»
«Che cos’avete fatto al vostro trasmettitore, Dick?»
«Perché?»
«La vostra voce è fortissima.»
«Sarà colpa della trasmittente. Ma cosa c’entra questo?»
«Non so. Sto soltanto cercando di capire perché urlate a quel modo.»
«Non sto urlando!» gridò Muller, esasperato.
Subito dopo la comunicazione fu interrotta e la stazione di collegamento avvertì Muller che erano pronti a mandargli un pilota. Lui aprì il portello e fece entrare l’uomo. Era un giovane biondo, la faccia che ricordava una civetta, e la pelle chiarissima. Appena si fu tolto il casco, disse: «Mi chiamo Les Christiansen, signor Muller, e voglio dirvi che considero un onore pilotare la nave del primo uomo che ha conosciuto una razza extra-terrestre. Spero di non essere indiscreto, ma vorrei pregarvi di raccontarmi qualcosa di quello che avete visto, mentre atterriamo. Questo è un momento storico: io sono il primo a venirvi incontro dopo il vostro ritorno e vi sarei grato se mi descriveste a grandi linee i momenti culminanti del vostro…»
«Credo di potervi raccontare qualcosa» disse Muller in tono cordiale. «Prima di tutto, avete visto il cubo degli Hydrani? So che ci si aspetta da me…»
«Vi dispiace se mi siedo un momento, signor Muller?»
«Fate pure.»
«Mi sento come ubriaco. Non capisco cosa mi sta succedendo.» La sua faccia era congestionata, e grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte. «Sto male.» Il pilota si gettò su una cuccetta di gommapiuma e si raggomitolò, tremando tutto, e coprendosi la testa con le mani. Muller esitò, sconcertato. Infine si chinò e prese l’uomo per un braccio per accompagnarlo nella cabina medica. Christiansen si ritrasse di scatto, come se l’avesse scottato. Quel movimento gli fece perdere l’equilibrio, e il ragazzo finì sul pavimento della cabina, come un mucchio di stracci. Poi si tirò su in ginocchio e si trasse faticosamente il più lontano possibile da Muller. Con voce soffocata domandò: «Dov’è?»
«Quella porta laggiù.»
Christiansen si precipitò nella direzione indicata, e chiuse in fretta e furia a chiave la porta della cabina medica, per essere certo che l’altro non lo seguisse. Muller, stupefatto, lo sentì singhiozzare. Stava per segnalare alla stazione che il pilota si sentiva male, quando la porta si riaprì, e il giovane disse con voce flebile: «Vi spiace darmi il mio casco, signor Muller?»
Lo accontentò.
«Devo tornare alla mia stazione, signore.»
«Sono spiacente di vedervi in questo stato. Spero di non essere portatore di qualche malattia contagiosa.»
«Non sono malato. Mi sento soltanto… disperato. Non so perché.» Christiansen si assicurò il casco. «Non ci capisco più niente. Ma ho una gran voglia di buttarmi su una cuccetta e di piangere. Vi prego, lasciatemi andare, signore! È… Io… cioè… È terribile quello che provo!» E così dicendo, scappò via dal portello. Muller, impietrito per lo stupore, lo vide attraversare velocemente lo spazio che lo separava dalla stazione.
Si precipitò alla radio. «È meglio che non mandiate subito un altro pilota» disse. «Christiansen si è sentito male subito, appena si è sfilato il casco. Può darsi che io sia portatore di qualche malattia contagiosa. Lasciatemi controllare.»
Il commissario di base, turbato, acconsentì. Poi pregò Muller di entrare nella sua cabina medica, di farsi rilasciare una diagnosi e di trasmettergliela immediatamente. Poco dopo, la faccia color cioccolato di un ufficiale medico apparve sullo schermo della nave e disse: «È molto strano, signor Muller. Ho letto il responso del vostro diagnosticatore e non ho rilevato alcun sintomo insolito. Ho anche messo Christiansen sotto osservazione senza scoprire niente. Si sente bene, ora. Mi ha detto che nel momento in cui vi ha visto si è sentito prendere da una crisi di depressione che si è aggravata rapidamente fino a trasformarsi in una specie di paralisi del metabolismo. Cioè, si sentiva così disperatamente depresso, che il suo organismo non riusciva più a funzionare.»
«Va soggetto ad attacchi del genere?»
«Mai avuti» rispose il medico. «Vorrei vedere con i miei occhi. Posso venire?»
Il medico non si comportò come Christiansen, ma neppure lui rimase a lungo, e quando si congedò, la sua faccia era bagnata di lacrime. Non era meno sconcertato di Muller. Venti minuti dopo, arrivò il nuovo pilota, che programmò la nave per l’atterraggio senza però togliersi lo scafandro. Sedette, rigido, davanti ai comandi, voltando le spalle all’astronauta e senza nemmeno rivolgergli la parola. Come richiesto dalla legge, fece abbassare la nave fino a che il suo sistema di propulsione fu sotto l’influenza di un regolatore per l’atterraggio, poi si alzò. Muller lo vide in faccia: teso, sudato, con le labbra serrate. Il pilota fece un cenno di saluto con la testa e uscì dal portello. Devo avere addosso una gran puzza pensò Muller, se riesce a sentirla chiuso com’è nello scafandro!
L’atterraggio si svolse regolarmente.
Appena arrivato, Muller si recò all’ufficio Immigrazione. Temeva che il diagnosticatore gigante dello spazioporto riuscisse a individuare qualche strana malattia che poteva essere sfuggita alle apparecchiature della nave e al medico della stazione di collegamento. Entrò nella macchina, che esplorò i reni ed estrasse alcune molecole dei vari fluidi corporei, e infine ne uscì senza che nessun campanello si mettesse a suonare e le luci di avvertimento si accendessero. Approvato. Poi si recò alla macchina della dogana. Da dove venite, viaggiatore? Dove siete diretto? Approvato. I suoi documenti erano in ordine. Allora una fessura appena visibile nella parete si allargò, diventando una porta, e lui uscì. Per la prima volta dopo l’atterraggio si sarebbe finalmente incontrato con un essere umano.
Boardman era venuto a prenderlo e con lui c’era Marta. Questa ora aveva i capelli corti e color verde-mare, si era argentata le palpebre e dorato il collo snello, e sembrava la statua di se stessa.
D’impeto, la mano di Boardman afferrò quella dell’astronauta in una stretta calorosa che però subito si allentò. La mano scivolò via, prima ancora che Muller avesse il tempo di ricambiare il saluto. «Sono felice di rivedervi, Dick!» disse Boardman senza convinzione, indietreggiando di due passi. Le sue guance si afflosciarono, strappate in giù come per effetto di una forte attrazione gravitazionale. Marta s’infilò tra i due uomini e si strinse a Muller, che però non ebbe il coraggio di baciarla. Gli occhi della ragazza erano splendidi, e lui ci si specchiò come in un lago limpido, ma le narici di lei fremevano, e si vedevano i muscoli irrigidirsi. Cercava di allontanarsi. «Dick» mormorò «ho pregato per te ogni sera. Non sai quanto mi sei mancato!» Muller sentiva che lei lottava duramente con se stessa e le sfiorò con la guancia l’orecchio delicato. «Dick» mormorò ancora Marta «mi sento così strana… così felice di vederti, che ne sono tutta sconvolta! Provo una sensazione indefinibile…»
Sì. Capiva. La lasciò.
Boardman, sudato e nervoso, si stava asciugando la faccia col fazzoletto e camminava su e giù tormentandosi le mani.
Dick non l’aveva mai visto in quello stato. «E se vi lasciassi un po’ soli, voi due?» propose, con voce stranamente forte. «Il tempo mi ha dato sui nervi, Dick. Parleremo domani. La stanza all’albergo è già prenotata.» E se ne andò quasi di corsa.
Muller si sentì prendere dal panico. «Dove andiamo?» chiese.
«C’è una taxicapsula, fuori. Alloggiamo allo Startport Inn.» Il labbro inferiore di Marta tremava leggermente, come se stesse masticando qualcosa. La prese per mano e salirono insieme sulla scala mobile che li portò fuori dalla sala d’aspetto, fino alla macchina in attesa. Avanti pensò, adesso dimmi che non ti senti bene. Che non capisci come mai da dieci minuti a questa parte ti senti terribilmente depressa!
«Perché ti sei tagliata i capelli?» chiese.
«È un mio diritto. Non ti piaccio, così?»
«Ti preferivo prima.» Entrarono nella capsula. «Lunghi, azzurri… come il mare in un giorno di vento.» La capsula partì.
Lei si teneva a una certa distanza, le spalle contro il portello. «Neanche il tuo trucco, mi piace. Scusami, cara. Vorrei poterti dire il contrario.»
«Mi ero fatta bella per il tuo ritorno!»
«Perché muovi così le labbra?»
«Muovo le labbra? Ma no…»
«Niente, lascia perdere» disse lui. «Eccoci arrivati. La stanza è già prenotata?»
«Sì, a tuo nome.»
Entrarono. Muller posò la mano sulla piastra di registrazione. Si accese una luce verde, e loro si avviarono all’ascensore. L’albergo si apriva al quinto livello sotterraneo dello spazioporto, e scendeva per quindici altri piani. La loro stanza era quasi in fondo. Hanno scelto bene pensò Muller. Forse è l’ala riservata agli appartamenti matrimoniali. Entrarono in una camera tappezzata di arazzi caleidoscopici, con un grande letto e tutti gli accessori necessari. La luce era discretamente abbassata. Muller pensò a tutti i mesi in cui aveva dovuto accontentarsi degli erotocubi, e le vene cominciarono a pulsargli. Lei gli passò davanti ed entrò nella stanza attigua, dove rimase a lungo.
Quando ne uscì, tutto il trucco se ne era andato e i capelli erano tornati azzurri…
«Come il mare» disse lei. «Mi spiace di non poterli far crescere, qui. La stanza non è programmata per questo.»
«Stai molto meglio, così!» Lui la guardò attentamente. «Gli Hydrani» disse «hanno quattro o cinque sessi, o forse nessuno. Non te lo saprei dire con certezza. Da questo potrai capire come sono riuscito a conoscerli nel tempo trascorso con loro. Comunque sia, sono certo che noi ci divertiamo di più. Perché te ne stai lì in piedi come una statua, Marta?»
Lei si avvicinò in silenzio. Tremava leggermente, come un animale spaventato. Muller appoggiò le labbra su quelle di lei, e le sentì aride, ferme, ostili. Sedettero uno accanto all’altro sulla sponda del letto, e vide che gli occhi le si riempivano di pena.
«Dimmi che cosa non va, Marta.»
«Non lo so.»
«Sembra quasi che tu ti senta male.»
«Sto male davvero.»
«E quando hai cominciato a sentirti così?»
«Oh… Dick! Perché mi fai tutte queste domande? È così doloroso… così terribilmente doloroso…»
«Ma che cosa?»
Non volle rispondere. Fece un gesto vago e cercò ancora di staccarsi da lui.
Muller scattò in piedi.
«Dick, te l’avevo detto di non andare, che avevo una premonizione e che ti potevano capitare cose peggiori della morte!»
«Dimmi che cosa ti fa soffrire.»
«Non posso. Non lo so.»
«Dimmi la verità. Quando è cominciato?»
«Stamattina. Quando mi sono svegliata.»
«Non è vero.»
«Oh, Dick, facciamo all’amore! Non posso più aspettare. Io…»
«Tu?»
«Non posso sopportare…»
«Che cosa non puoi sopportare?»
«Niente! Niente!» Si era alzata anche lei dal letto, ora, e gli si strofinava contro come una gatta. Ma rabbrividiva, tutti i muscoli si contraevano sulla sua faccia e gli occhi avevano un’espressione d’angoscia infinita.
Muller l’afferrò per i polsi e glieli strinse forte. «Dimmi che cosa non puoi sopportare, Marta!»
Lei trattenne il respiro, e l’uomo strinse ancora più forte.
«Dimmelo!» urlò. «Tu non puoi sopportare…»
«… di starti vicina» disse la ragazza.