Muller trascorse tre settimane ad assimilare tutto quello che c’era da sapere sui giganteschi esseri extra-galattici. L’avevano alloggiato in un fortino sulla Luna, vicino a Copernico, e lui ci viveva tranquillamente, muovendosi come un robot lungo interminabili corridoi di acciaio grigio, illuminati da forti lampade. Gli mostrarono tutti i cibi disponibili e gli fecero sperimentare ricostruzioni sensorie di ogni genere. Muller ascoltava e non diceva niente.
Tutti si tenevano il più possibile lontani da lui, come avevano fatto durante il viaggio di ritorno da Lemnos. Passavano giornate intere senza che Muller vedesse anima viva. E quando dovevano comunicargli qualcosa, si tenevano a una distanza di dieci metri e più.
Boardman, però, andava da lui puntualmente tre volte alla settimana, e si faceva un dovere di rimanere sempre entro la portata delle radiazioni. Muller trovava quel comportamento assurdo e condannabile. Sembrava che Charles volesse trattarlo con superiorità, sottoponendosi volontariamente e senza alcuna necessità a quella sofferenza. «Se ve ne state lontano mi fate un vero piacere» gli disse alla quinta visita. «Possiamo comunicare per mezzo dello schermo, oppure potreste starvene vicino alla porta.»
«Non m’importa di starvi vicino.»
«Importa a me, però» disse Muller. «Non vi siete mai accorto che il genere umano mi è diventato odioso quanto io sono odioso a lui? Il fetore del vostro corpo grasso, Charles, mi ferisce le narici. Non soltanto voi, Charles, ma anche tutti gli altri. Siete nauseanti. Disgustosi. Non posso neanche guardarvi in faccia. Quei pori, e quelle bocche semiaperte. E le orecchie! Avete mai visto niente di più ripugnante di quella cavità rosea e piena di pieghe? Siete tutti disgustosi!»
«Mi dispiace che la pensiate così.»
Le istruzioni continuarono. Dopo una settimana, Muller era già pronto per partire, ma prima vollero che considerasse tutti i dati immagazzinati nel cervello elettronico. Lui ascoltava, impaziente. Una sfumatura della sua antica personalità era ancora viva, e Muller riusciva a provare per quel viaggio il gusto di un’avventura affascinante.
Voleva andare. Voleva sentirsi utile come un tempo. Voleva farsi onore.
Finalmente gli diedero il permesso di partire.
Dalla Luna lo trasportarono, con una navetta a propulsione ionica, fino a un punto esterno all’orbita di Marte, dove lo trasbordarono su una nave già programmata per lanciarlo al limite della galassia. Solo. Assolutamente solo.
Dalla cabina della sua nave, vide i tecnici fluttuare nello spazio e prepararsi a recidere i cavi. Poi tornarono alla loro nave, e sentì la voce di Boardman che inviava l’ultimo messaggio, un discorso nobile e ispirato, che lo esortava a compiere coraggiosamente il suo dovere per il bene dell’umanità, eccetera, eccetera.
Muller ringraziò urbanamente, poi la linea di comunicazione fu interrotta.
Pochi minuti dopo, Muller entrò in iperpropulsione.
Le creature sconosciute si erano impossessate di tre sistemi solari alla periferia della galassia, e in ciascuno di questi c’erano due pianeti che erano stati colonizzati dai Terrestri.
La nave di Muller era diretta verso una stella verde-oro i cui mondi erano colonizzati da soli quarant’anni. Il quinto pianeta, secco come un blocco di ferro, apparteneva a una società colonizzatrice asiatica, che stava cercando d’instaurarvi una civiltà di pastori nomadi. Il sesto, che offriva una varietà climatica e ambientale simile a quella terrestre, era occupato da una mezza dozzina di rappresentanti di società colonizzatrici, dislocati sui vari continenti. Ma i rapporti tra i diversi gruppi, spesso complessi e molto tesi, da alcuni mesi non preoccupavano più la Terra, perché entrambi i pianeti erano ormai sotto il controllo dei sovrintendenti extra-galattici.
Quando fu a venti secondi-luce dal sesto pianeta, la nave entrò in un’orbita di osservazione e gli strumenti di bordo cominciarono a registrare informazioni. Gli schermi mostravano l’immagine della superficie, permettendo a Muller di confrontare la configurazione attuale degli avamposti sottostanti con la carta su cui essi apparivano com’erano prima della conquista straniera. Le immagini ingrandite erano interessantissime. Le colonie originali comparivano sullo schermo colorate in violetto e le estensioni recenti, in rosso. Muller osservò che intorno a quasi tutte le città si era sviluppata una rete di strade a zig-zag e di viali dal corso tortuoso, ad angoli acuti. Caratteristiche assolutamente non terrestri.
A settemila chilometri sopra il sesto pianeta c’era in orbita una capsula lucente, leggermente allungata a una estremità, e che aveva pressappoco le dimensioni di una grande nave da trasporto infrastellare. Un’altra, identica, orbitava sopra il quinto mondo. Là c’erano i sovrintendenti.
Comunicare con quelle capsule o col pianeta sottostante era impossibile. Tutti i canali erano bloccati. Muller manovrò convulsamente manopole e leve per oltre un’ora, ignorando i consigli irritati del cervello elettronico della nave, che continuava a ripetergli di rinunciare all’idea.
Infine si decise, e accostò il satellite alieno orbitante più vicino. Con sua grande sorpresa, non successe proprio niente. Fino a quel momento, tutti i missili, lanciati contro i satelliti dei sovrintendenti, erano stati neutralizzati, ma la sua astronave rispondeva perfettamente ai comandi. Era un buon segno? Forse l’essere misterioso stava scrutando, ed era in grado di distinguere una nave da un’arma ostile? Oppure si limitava a ignorarlo?
Quando fu a un milione di chilometri, adeguò la sua velocità a quella del satellite alieno, e si mise in orbita intorno ad esso. Poi entrò nella capsula d’atterraggio, che fu proiettata all’esterno, nel buio.
L’alieno l’aveva afferrato. Non c’erano dubbi. La sua capsula di atterraggio era programmata in modo da descrivere un’orbita che nel momento previsto l’avrebbe portata vicinissima al satellite. Ma Muller si accorse che deviava già da quell’orbita. E le deviazioni non sono mai accidentali. La sua capsula accelerava più del previsto e questo significava che qualcosa l’aveva afferrata e l’attirava a sé. Si rassegnò. In fondo, anche questo era previsto. Si sentiva calmissimo. Si aspettava tutto, ed era pronto a tutto. La velocità della capsula, infine, diminuì, e lui vide avvicinarsi la sagoma lucente del satellite.
Metallo contro metallo, i due veicoli spaziali si accostarono, si toccarono e si congiunsero.
Si aprì un portello e la capsula venne risucchiata in quell’apertura.
Il veicolo spaziale di Muller si fermò su una piattaforma, in un enorme locale buio, lungo, largo e alto centinaia di metri. Muller ne uscì chiuso nella sua tuta. Mise in funzione il dispositivo gravitazionale perché immaginava che lì dentro la gravità fosse pressoché inesistente. L’immenso locale era rischiarato soltanto da una tenue luce rossastra, e nel silenzio innaturale si udiva una specie di rombo, come un respiro amplificato, che permeava di sé le strutture del satellite. Muller provò un senso di vertigine. Il pavimento gli rollava sotto i piedi, e lui avvertiva nella mente una sensazione strana, simile al pulsare di un oceano le cui onde spazzassero le spiagge frastagliate, il suono di una massa d’acqua che si agita e mugghia in una cavità sotterranea, mentre il mondo trema sotto un fardello troppo greve… Un gelo, che nemmeno lo scafandro termico riusciva ad attenuare, lo attanagliò. Era attratto da una forza irresistibile, e si mosse, esitante, sorpreso nell’accorgersi che braccia e gambe gli ubbidivano ancora, anche se non ne era più completamente padrone. Sentiva di avere vicino, attorno, qualcosa che viveva, respirava, pulsava, sospirava.
Percorse un passaggio avvolto nelle tenebre, e si avvicinò a una ringhiera bassa, una scura linea rossa contro l’oscurità profonda. La sfiorò col fianco, continuando a camminare. A un tratto scivolò e ci batté contro il gomito. Sentì il risuonare del metallo lungo tutta la struttura. Echi soffocati si persero alle sue spalle. Come se fosse ancora nel labirinto, percorse corridoi, attraversò portelli, scompartimenti, ponti gettati sopra abissi profondi, sboccando poi in locali dal soffitto altissimo. Avanzava alla cieca, affidandosi alla sorte. Non temeva niente, anche se intravvedeva appena quello che gli stava vicino. Non riusciva a farsi un’idea della forma generale del satellite, e neanche indovinava il significato di quelle suddivisioni interne.
Dalla gigantesca presenza invisibile continuavano a giungere onde silenziose sempre più intense, una pressione sempre più forte. Muller tremava, in quella stretta misteriosa. Tuttavia continuò ad avanzare, finché arrivò in una galleria centrale. Nella tenue luce azzurra riuscì a distinguere una serie di terrazzi digradanti, molto più sotto da dove si trovava lui, un serbatoio. Dentro c’era qualcosa di traslucido e immensamente grande.
«Eccomi» disse. «Sono Richard Muller e vengo dalla Terra.»
Si aggrappò alla ringhiera e si sporse a guardare. Forse l’essere enorme si muoveva? Brontolava? Lo chiamava in una lingua sconosciuta? Non udiva niente. Ma «sentiva» qualcosa d’inspiegabile.
Sentiva l’anima sfuggirgli, risucchiata da… Da cosa? Da chi?
Giù, nella voragine, il mostro gli strappava lo spirito, apriva ogni nodulo di energia, aspirava avidamente, esigeva sempre di più, voleva tutto.
«Avanti» disse Muller, e la sua voce echeggiò tutt’attorno. «Bevi. Che gusto ha? Amaro? Bevi!»
Le ginocchia gli si piegarono. Si curvò in avanti, e appoggiò la fronte alla ringhiera fredda. Offriva se stesso, come sciogliendosi in mille gocce iridescenti. Da lui uscirono il primo amore e la prima delusione, la pioggia d’aprile, la febbre e il dolore, l’orgoglio e la speranza, l’odore della sofferenza e il contatto carnale, il caldo e il freddo, le onde della musica e la musica del tuono. E poi morbidi capelli, attorcigliati attorno a un dito, linee impresse in un terreno morbido, stalloni sbuffanti, e branchi di piccoli pesci iridescenti, i palazzi della Nuova Chicago, e i bordelli di Nuova Orleans Sotterranea. E ancora: neve, latte, vino, fame, fuoco, pena, sonno, sofferenza, mele, alba, lagrime, Bach, grasso sfrigolante, la risata dei vecchi, il Sole all’orizzonte, la Luna sul mare, estasi, tristezza, sale, campi verdi, la luce di altre stelle, gambe ben tornite, danzatrici volteggianti, cubi di proiezione, spazio-tassì, gin ghiacciato, libri sfogliati, gas di scarico dei razzi, fiori d’estate ai margini di un ghiacciaio, e molte, molte altre cose. Riversò tutto quello che aveva dentro. Poi aspettò una risposta che non venne, e quando ebbe dato proprio tutto, rimase lì, la testa reclinata sul petto, svuotato, inaridito.
Fissava l’abisso senza vederlo.