22

A Muller, in fondo, gli Hydrani non dispiacevano. Anzi, la caratteristica che più gli era rimasta impressa era la grazia dei loro movimenti.

Ricordava chiaramente quella sua impresa. Era atterrato in una zona umida e buia del pianeta, un po’ a nord dell’equatore, su un continente ameboide occupato da una dozzina di grandi pseudo-città, ciascuna delle quali occupavaun’area di parecchie migliaia di chilometri. Il dispositivo che gli permetteva di sopravvivere, progettato appositamente per quella spedizione, era poco più di un sottile foglio filtrante che gli aderiva al corpo come una seconda pelle, fornendogli aria attraverso migliaia di piastrine dializzatrici, e questo gli consentiva di muoversi facilmente, se non proprio comodamente.

Aveva dovuto camminare per un’ora nella foresta di alberi che parevano funghi giganteschi, prima d’imbattersi in qualche indigeno. Gli alberi raggiungevano altezze di centinaia di metri, forse per via della gravità, che lì era poco meno della metà di quella terrestre. I tronchi non parevano molto robusti; probabilmente il sottile strato esterno di legno ricopriva una polpa satura di umidità. Le «cappelle» si incontravano al di sopra della sua testa, formando un baldacchino ininterrotto, ed escludevano quasi completamente la luce dal suolo della foresta. Poiché lo strato di nubi da cui era avvolto il pianeta lasciava filtrare soltanto una luce color perla e anche questa veniva intercettata dalle piante, là sotto l’atmosfera era davvero cupa.

Quando Muller incontrò gli alieni, fu sorpreso di constatare che erano alti circa tre metri. Per un po’, rimase tranquillo, circondato dagli sconosciuti e torcendo il collo verso l’alto per incontrare il loro sguardo. Poi, con voce pacata, disse: «Mi chiamo Richard Muller. Vengo, ambasciatore di pace, dai popoli della Sfera Culturale Terrestre.»

Dopo di che s’inginocchiò e tracciò il Teorema di Pitagora sul terreno umido e molle.

Quando ebbe finito alzò gli occhi e sorrise. «È un concetto fondamentale della geometria. Uno schema universale di pensiero» disse.

Le narici verticali degli Hydrani tremarono leggermente, le teste si inclinarono. Muller pensò che stessero scambiandosi occhiate perplesse: dato che erano dotati di occhi disposti a corona, in realtà non avevano bisogno di cambiare posizione per osservare alcunché. Allora tracciò una linea, sempre sul terreno. Poco più in là, ne tracciò altre due. Ancora più distante, tre. Poi aggiunse i segni, nel modo seguente: I + II = III.

«Capito?» disse. «Noi la chiamiamo addizione.»

Le membra snodate ondeggiarono, e due degli spettatori si toccarono. Muller ricordò come avessero distrutto l’obiettivo del ricognitore, non appena scoperto, senza la minima esitazione: era pronto per affrontare una simile eventualità. Invece quelli ora ascoltavano, e la cosa gli parve di buon auspicio. Si alzò di nuovo e indicò i segni che spiccavano sul terreno.

«Tocca a voi, adesso» disse forte. Sorrise e soggiunse: «Mostratemi di avere capito, parlatemi nel linguaggio universale della matematica.»

Dopo una lunga pausa, uno degli Hydrani avanzò, ondeggiando, allungò una zampa e la tenne sospesa sopra il terreno. Il piede a forma di sfera si mosse senza scatti, e le linee scomparvero, l’una dopo l’altra, lasciando il suolo perfettamente liscio.

«Bene» disse Muller. «Adesso disegnate voi qualcosa.»

Ma l’Hydrano tornò al suo posto, in mezzo agli altri.

«Be’» disse ancora Muller «c’è un’altra lingua universale. Spero che questa non offenda le vostre orecchie.» Estrasse di tasca un flauto e lo portò alle labbra. Era difficile usarlo attraverso il foglio filtrante, comunque riuscì a suonare la scala diatonica. Le membra degli esseri sconosciuti ondeggiarono lievemente: evidentemente potevano udire o comunque percepire le vibrazioni.

«Mi sentite?» chiese.

Sembrò che quelli confabulassero tra loro. Poi se ne andarono.

Lui cercò di seguirli, ma non riuscì a tenergli dietro e presto li perse di vista nella foresta scura e nebbiosa. Tuttavia continuò a cercarli. E infine li trovò. Ma quando si avvicinava, quelli ricominciavano a muoversi; lo condussero, così, fino alla loro città.

Muller si nutriva di alimenti sintetici, perché l’analisi chimica aveva dimostrato che era pericoloso mangiare quello che il pianeta offriva.

Disegnò molte volte il Teorema di Pitagora, abbozzò un discreto numero di procedimenti matematici, suonò Schönberg e Bach, costruì triangoli equilateri, affrontò la geometria solida. Cantò e parlò in francese, russo e inglese per dimostrare la diversità delle varie lingue umane. Mostrò loro la tavola dei numeri periodici. Dopo sei mesi di permanenza sul pianeta, era ancora allo stesso punto di quando era atterrato. Gli abitanti tolleravano la sua presenza, ma non gli dicevano niente.

Alla fine gli Hydrani si stancarono dei suoi tentativi, e passarono all’azione.

Andarono da lui, ma lui dormiva.

Solo molto più tardi si accorse di quello che gli avevano fatto mentre stava dormendo.


Aveva avuto tempo nove anni per rinfrescarsi la memoria. Aveva riempito di ricordi alcuni mnemocubi; questo, però, all’inizio del suo esilio, quando temeva che il ricordo del suo passato gli sfuggisse. Ma poi aveva scoperto che, col trascorrere del tempo, i ricordi si facevano più vividi. Forse era l’allenamento. Poteva rievocare immagini, suoni, gusti, odori, ricostruire interi dialoghi. Riuscì perfino a citare i testi completi dei trattati che lui stesso aveva negoziato.

Era costretto ad ammettere che, se gliene avessero offerto la possibilità, ora sarebbe tornato sulla Terra. Tutto quello che aveva detto non lo pensava veramente. Non era riuscito a ingannare né Rawlins, né se stesso: provava davvero un profondo disprezzo per il genere umano, ma non desiderava prolungare l’isolamento. Aspettò avidamente il ritorno di Ned, e per ingannare l’attesa mandò giù parecchie coppe di liquore. Poi andò a caccia e uccise una gran quantità di animali, facendo così una provvista di carne che non sarebbe riuscito a smaltire neanche in un anno. E intanto ragionava concitatamente tra sé, sognando la Terra.

Rawlins arrivò correndo. Muller, in piedi dentro la zona C, lo vide attraversare l’entrata, ansante e congestionato.

«Non devi correre, qui dentro» disse Muller. «Neanche nelle zone più sicure. Non si può assolutamente…»

Rawlins si lasciò cadere accanto a una vasca di calcare e cercò di prendere fiato. «Datemi da bere» disse. «Quel vostro liquore…»

Muller andò a una fontana poco distante e riempì una fiaschetta del liquore che Ned desiderava. Poi si avvicinò per darglielo, e l’altro non si scompose: sembrava che non avvertisse più le emanazioni. Avidamente, convulsamente, vuotò la fiaschetta, incurante dei rivoletti di liquore che gli colavano lungo il mento e imbrattavano gli abiti. Poi chiuse gli occhi.

«Aspettate. Lasciatemi riprendere fiato. Ho corso sempre, dalla zona F.»

«Puoi dirti fortunato di essere ancora vivo, allora.»

Muller lo guardava, perplesso. Il cambiamento del ragazzo era stato troppo repentino e sconvolgente, non lo si poteva attribuire a stanchezza soltanto. Rawlins era sconvolto, congestionato, con la faccia contratta, lo sguardo che vagava sperduto in cerca di chissà cosa. Ubriaco? Malato? Drogato?

Dopo un po’, Muller disse: «Ho ripensato alla nostra ultima conversazione, sai, e mi sono convinto di avere agito in modo insensato.» S inginocchiò e cercò di scrutare negli occhi sfuggenti del giovane. «Ehi, Ned! Guardami. Ritiro tutto quello che ho detto. Sono disposto a tornare sulla Terra per farmi curare: anche se la cura è ancora in fase sperimentale, tenterò!»

«Non c’è nessuna cura» disse Rawlins, cupo.

«Nessuna…»

«No. È stata tutta un’invenzione.»

«Già… Naturalmente.»

«L’avevate capito anche voi» disse Rawlins. «Mi avevate detto che mentivo e vi siete chiesto che cosa ci guadagnassi. Mentivo, davvero, Dick.»

«Mentivi.»

«Sì.»

«Ma io avevo cambiato idea» mormorò Muller. «Ero pronto per tornare sulla Terra…»

«Non ci sono speranze di guarigione per voi.»

Rawlins si alzò lentamente e si passò le dita tra i capelli. Si rassettò gli abiti in disordine, raccolse la fiaschetta, si avvicinò alla fontana che gettava liquore e la riempì. Poi tornò indietro e porse la fiaschetta a Muller, che bevve.

Alla fine, Muller chiese: «Vuoi spiegarmi questa storia?»

«Non siamo archeologi. Siamo venuti qui appositamente per cercare voi. Non è stato un caso: sapevamo che eravate qui. Vi hanno spiato fin da quando avete lasciato la Terra, nove anni fa.»

«Avevo preso diverse precauzioni.»

«Non sono servite a niente. Boardman sapeva dov’eravate diretto e vi ha fatto seguire. Vi ha lasciato in pace soltanto perché non aveva bisogno di voi. Ma quando gli siete ridiventato utile, si è affrettato a scovarvi.»

«È stato Charles Boardman, dunque, che ti ha mandato?»

«Sì. Siamo venuti per prendervi. È l’unico scopo della nostra spedizione» disse Rawlins. «Sono stato scelto io per mettermi in contatto con voi, perché conoscevate mio padre e vi sareste fidato di me. Boardman mi ha guidato continuamente, suggerendomi quello che dovevo dire, consigliandomi perfino gli errori che dovevo fare per rendere più verosimile il mio racconto. È stato lui a dirmi di entrare nella gabbia, per esempio. Pensava che quel gesto avrebbe contribuito a guadagnarmi la vostra fiducia.»

«Boardman è qui? Qui su Lemnos?»

«Nella zona F. Ha stabilito là un campo.»

La faccia di Muller si era fatta di pietra. Dentro era il caos. «Perché l’ha fatto? Che cosa vuole da me?»

«Voi sapete che esiste una terza razza intelligente nell’Universo, oltre a noi e agli Hydrani?» disse Rawlins.

«Sì. Ne avevano appena scoperta l’esistenza quando sono partito. Per questo mi avevano mandato a prendere contatto con gli Hydrani. Dovevo stabilire un’alleanza difensiva con loro, prima che l’altro popolo, gli extra-galattici, venissero in contatto con noi. Non ce l’ho fatta, ma…»

«Che ne sapete di questi extra-galattici?»

«Pochissimo. Niente d’importante oltre quello che ti ho già detto. Ne avevo sentito parlare per la prima volta il giorno in cui ho accettato di andare su Beta Hydri IV. Me ne parlò lo stesso Boardman. Mi disse che erano esseri intelligentissimi, una specie superiore, e che vivevano in un ammasso stellare limitrofo; che possedevano una propulsione galattica e che avrebbero potuto farci visita, un giorno o l’altro.»

«Adesso ne sappiamo di più.»

«Prima dimmi che cosa vuole Boardman da me.»

«Lasciatemi spiegare con ordine, e sarà più facile.» Rawlins rise, forse un po’ ubriaco, e continuò: «Non che se ne sappia davvero molto su questi extra-galattici. Ci siamo limitati a lanciare un autoreattore e a inviarlo ad alcune migliaia di anni-luce dalla Terra, o forse miliardi. Comunque era un ricognitore equipaggiato con tutti i più moderni strumenti di rilevazione. L’apparecchio arrivò in una delle galassie a raggi-X, il nome è stato tenuto segreto, ma sembra che si tratti di Cigno A o Scorpione II. Così abbiamo scoperto che un pianeta di quel sistema galattico era abitato da creature stranissime, straordinariamente evolute.»

«Molto diverse da noi?»

«Vedono l’intero spettro» disse Rawlins. «Il loro campo visivo principale abbraccia la sfera delle alte frequenze. Distinguono gli oggetti alla luce dei raggi-X. Sembra inoltre che siano in grado di usare le frequenze radio per ottenere alcune informazioni sensoriali. E captano la maggior parte delle lunghezze d’onda, ma non s’interessano molto di ciò che sta tra l’infrarosso e l’ultravioletto, quello che noi chiamiamo lo spettro visibile.»

«Aspetta un minuto. Sono radiosensoriali, hai detto. Hai idea di cosa significhi? Se quelle creature captano le loro sensazioni da un’onda radio, devono avere occhi, ricettori, o qualunque altra cosa sia, di proporzioni gigantesche. Come sarebbero grandi questi esseri?»

«Potrebbero mangiarsi un elefante con la stessa facilità con cui noi mangiamo un panino.»

«Gli esseri intelligenti non raggiungono mai proporzioni simili.»

«E che cosa potrebbe limitarli? Quello è un gigantesco pianeta gassoso, senza oceani, e quasi completamente privo di gravità. Galleggiano. Non hanno problemi in quel senso.»

«Un gruppo di super-balene avrebbe sviluppato una civiltà tecnologica? Non vorrai farmi credere…»

«Eppure è così. Vi ho detto che sono esseri stranissimi. Non sono in grado di costruirsi le macchine da sé, ma hanno degli schiavi.»

«Ah! Così?» disse Muller.

«Di questo cominciamo soltanto adesso a rendercene conto, e io, naturalmente, non sono informato di tutto, ma sembra che questi esseri si servano di forme di vita inferiori, trasformandole in robot radio-controllati. Si servono di tutto ciò che possiede membra e capacità di muoversi. Hanno cominciato con alcuni animali del loro pianeta, piccole creature che somigliano a delfini, forse alle soglie dell’intelligenza, e per mezzo loro sono riusciti a realizzare la propulsione spaziale. Poi si sono spinti sui pianeti vicini, mondi di terra, e si sono assicurati il controllo di pseudo-primati, specie di proto-scimmie. Hanno bisogno di qualcuno che possieda mani e dita, capite? Danno molta importanza all’abilità manuale. Attualmente la loro sfera d’azione si estende per ottanta anni-luce, e sembra espandersi velocemente.»

Muller scosse la testa. «Sono sciocchezze anche più grosse di quelle che volevi darmi a intendere sulla mia guarigione! Senti, c’è una velocità limite per la trasmissione radio, no? Se controllano i loro lacchè da una distanza di ottanta anni-luce, ci vorranno otto anni perché ciascun comando giunga a destinazione. Ogni contrazione di muscolo, ogni movimento…»

«Possono abbandonare il loro mondo natale.»

«Ma se sono tanto grandi…»

«Hanno addestrato i loro schiavi a costruire serbatoi di gravità. Ora possiedono anche la propulsione stellare. Tutte le colonie sono controllate da sovrintendenti che se ne stanno in orbita, a una distanza di alcune migliaia di chilometri, e galleggiano in un ambiente simulato che ha le caratteristiche di quello natale. Basta un solo sovrintendente per governare un intero pianeta.»

Muller chiuse gli occhi per un attimo. Vide le creature enormi, inimmaginabili, diffondersi nella loro lontana galassia, obbligando ogni sorta di animali a servirle, forgiando una società di schiavi e fluttuando in orbita come immense balene spaziali per dirigere e coordinare le loro imprese grandiose. Li sentì parlarsi con impulsi di raggi-X, inviare ordini via radio… No pensò, no!

«E allora?» chiese infine. «A noi che cosa importa? Sono di un’altra galassia.»

«Purtroppo si sono insediati in alcune delle nostre colonie periferiche» disse Rawlins. «Sapete che cosa fanno quando trovano un mondo umano? Mettono in orbita un sovrintendente e si impadroniscono dei coloni. Hanno scoperto che gli uomini diventano ottimi schiavi, e si sono già impossessati di sei dei nostri pianeti. Ne avevano occupato un settimo, ma abbiamo eliminato il loro sovrintendente. Adesso, però, la cosa diventa molto più difficile: assumono il controllo dei nostri missili e li rilanciano indietro.»

«Se ancora stai inventando… ti uccido!»

«Dico la verità. Ve lo giuro.»

«Quando è cominciato tutto questo?»

«L’anno scorso.»

«E che cosa sta succedendo? Avanzano nella nostra galassia, decisi a trasformare tutti in robot?»

«Boardman è convinto che c’è un solo modo per impedire che questo avvenga.»

«Quale?»

«Sembra che queste creature non si siano rese conto che noi siamo esseri intelligenti. Non possiamo comunicare con loro, vedete. Vivono e agiscono a un livello assolutamente non-verbale, e abbiamo cercato in tutti i modi di raggiungerli, bombardandoli con messaggi su ogni lunghezza d’onda, senza ricevere mai il minimo segno di risposta. Boardman è convinto che, se riuscissimo a persuaderli che abbiamo un’intelligenza, ci lascerebbero in pace. Non so da che cosa derivi questa convinzione. Deve averlo predetto un calcolatore. È certo, comunque, che gli stranieri agiscono secondo norme morali, che sono decisi a impadronirsi di tutti gli animali che possono tornare loro utili, ma che non toccherebbero mai una specie che abbia varcato la frontiera dell’intelligenza, come l’hanno varcata loro. E se potessimo dimostrargli…»

«Ma lo vedono che abbiamo delle città e una propulsione stellare! Non è una dimostrazione sufficiente, questa?»

«Anche i castori costruiscono dighe» disse Rawlins.

«Però noi non firmiamo trattati con i castori. E non paghiamo loro danni quando distruggiamo le loro dighe. Quello che provano i castori, non conta.»

«Lo credi?»

«Non voglio intavolare una discussione filosofica con voi» disse Rawlins, rauco.

«Sto cercando di descrivervi la situazione. Boardman pensa che potremmo convincere questi radio-esseri a lasciare in pace la nostra galassia se riusciremo a dimostrargli che siamo più simili a loro, data la nostra intelligenza, che non ai loro schiavi. Se riusciremo a fargli capire che abbiamo emozioni, necessità, ambizioni, sogni.»

Muller sputò. «Ma come facciamo a dirglielo, se non sanno una sola parola della nostra lingua?»

«Non lo capite?»

«No. Io… Sì. Sì, Dio mio, sì!»

«C’è un solo uomo fra tanti miliardi di uomini, che può comunicare senza parole. Lui trasmette i suoi sentimenti, la sua anima. Non sappiamo che frequenza usi, ma forse loro potranno capire.»

«Sì. Sì…»

«E così Boardman voleva chiedervi di fare ancora qualcosa per l’umanità. Di andare da quegli esseri alieni.»

«E che cosa ti fa pensare che io sia disposto ad alzare anche un solo dito per impedire che tutti gli uomini del mondo vengano inghiottiti?»

«Non sarà necessario che il vostro aiuto sia volontario» disse Rawlins.

Adesso l’emanazione era fortissima. Un torrente impetuoso di odio, angoscia, gelosia, paura, tormento, ironia, disprezzo, disperazione, perfidia, ira, violenza, inquietudine, dolore, furore… Rawlins si ritrasse, investito da quel mare di desolazione. Inganni, inganni, sempre inganni! Era l’arma di Boardman. Muller lanciava fiamme dagli occhi. Pronunciò solo poche parole a voce alta: il resto gli uscì direttamente dal di dentro, si rovesciò fuori dalla diga aperta dell’animo come un torrente rabbioso.

Quando si fu un po’ calmato, Muller disse: «Boardman vorrebbe spedirmi tra quegli esseri, che io acconsenta o no?»

«Sì. Ha detto che si tratta di cosa troppo importante per offrirvi una possibilità di scelta. I vostri desideri non contano.»

Con calma, Muller disse: «Anche tu fai parte della congiura. Perché mi stai raccontando tutto questo?»

«Mi sono dimesso.»

«Capisco, capisco…»

«È vero, ve l’assicuro. Per un po’ sono stato al gioco. Ho obbedito a Boardman, vi ho mentito continuamente, ma non sapevo che non vi avrebbero dato possibilità di scelta. Allora sono venuto qui. Non potevo permettere che vi facessero una cosa simile.»

«Molto gentile da parte tua. Adesso ho due possibilità, vero, Ned? Lasciarmi trascinare fuori di qui e diventare ancora una volta una marionetta nelle mani di Boardman, o uccidermi tra un minuto, e lasciare che il genere umano vada all’inferno! Non è così?»

«Non parlate in questo modo.»

«Perché no? Non ho altre alternative. Tu sei stato tanto buono da spiegarmi la situazione reale, e adesso posso reagire come preferisco. Mi hai portato una condanna a morte, Ned.»

«Non è vero.»

«E che cos’altro, allora? Vuoi forse che consenta a Boardman di disporre di me un’altra volta?»

«Potreste… potreste collaborare» disse Rawlins. Aveva la gola arida.

«Questo mai.»

«Non vi comportate in modo ragionevole.»

«Non sono mai stato ragionevole e non ho intenzione di cominciare a esserlo adesso. Anche se accettando di diventare ambasciatore presso i radio-esseri potessi cambiare in qualche modo il destino dell’umanità, cosa di cui non sono affatto convinto, bada bene, sarebbe per me un vero piacere non compiere questo dovere! Ti sono grato per avermi avvertito. Adesso so che cosa sta succedendo e ho trovato la scusa che cercavo da tanto tempo: ci sono almeno mille trabocchetti qui, che danno una morte rapida e probabilmente indolore. Che Charles Boardman vada a parlare coi suoi alieni di persona. Io…»

«Vi consiglio di non muovervi, Dick» disse Boardman, comparendo a una trentina di metri da lui.

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