Iain Banks La fabbrica degli orrori

1. I Pali Sacrificali

Stavo facendo il giro d’ispezione dei Pali Sacrificali il giorno in cui ci arrivò la notizia della fuga di mio fratello. Sapevo che sarebbe successo qualcosa. La Fabbrica mi aveva avvertito.

All’estremo confine settentrionale dell’isola, vicino ai resti disfatti del molo, dove l’argano arrugginito ancora cigola nel vento di levante, mi restavano due Pali da sistemare in fondo all’ultima duna. In cima a uno dei Pali c’era una testa di ratto con due libellule, sull’altro un gabbiano e due topi. Mentre infilzavo la testa di uno dei topi, gli uccelli si levarono nella sera con grida stridule, roteando sul sentiero che tra le dune si avvicinava al nido. Quando ebbi la sicurezza che la testa fosse ben fissa, mi arrampicai sulla sommità della duna per guardare con il binocolo.

L’agente Diggs, il poliziotto del paese, stava venendo giù per il sentiero in bicicletta, con la sua pedalata energica, abbassando la testa ogni volta che le ruote affondavano nella terra sabbiosa. Arrivato al limitare, scese dalla bici e l’appoggiò ai cavi di sospensione. Poi s’incamminò per il ponticello oscillante, fermandovisi circa a metà, in prossimità del cancello. Lo vidi suonare. Rimase fermo per un po’, volgendosi a guardare le dune tranquille e gli uccelli che vi si posavano. Non poteva vedermi, il posto in cui stavo mi nascondeva alla perfezione. Poi mio padre deve aver risposto, perché Diggs si curvò leggermente per parlare nella grata, quindi aprì il cancello con una spinta e proseguì per il ponte verso l’isola, prendendo il sentiero che porta a casa. Quando lo vidi scomparire dietro le dune mi misi a sedere per un attimo, grattandomi in mezzo alle gambe mentre il vento mi giocava tra i capelli e gli uccelli tornavano al nido.

Tirai fuori la mia fionda dalla cintura, afferrai un cuscinetto a sfere lungo poco più di un centimetro e, presa attentamente la mira, lo sparai. Raggiunse la terraferma dopo aver oltrepassato con traiettoria arcuata il fiume, i pali del telefono e il ponticello. Il tiro colpì il cartello “Proprietà privata” con un tonfo che a stento sentii, e mi sfuggì un sorriso. Era un buon segno. Alla Fabbrica come al solito non mi avevano detto niente di preciso, eppure avevo la sensazione che mi stessero mettendo in guardia per qualcosa di importante, di qualunque cosa si trattasse. Intuii anche che ci fosse sotto un che di malvagio, l’avevo capito al volo, ma ebbi il buonsenso di andarmene a controllare i Pali, e ora so di aver fatto bene; i fatti volgono ancora a mio favore.

Decisi di non tornare direttamente a casa. Mio padre non gradiva la mia presenza quando c’era Diggs, e comunque mi restavano ancora un paio di Pali da sistemare prima che calasse la sera. Feci un salto e scivolai giù per la duna fino a raggiungerne l’ombra, poi mi voltai indietro a guardare ancora quelle teste e quei corpicini che vegliavano sull’accesso settentrionale dell’isola. Ci stavano proprio bene quegli involucri vuoti sui rami nodosi. I nastri neri legati al legno dei pali si agitavano piano nel vento, quasi a volermi salutare. Pensai che nulla sarebbe andato poi tanto male, e che l’indomani avrei chiesto altre informazioni alla Fabbrica. Anche mio padre mi avrebbe detto qualcosa, forse. E nella migliore delle ipotesi si sarebbe potuto trattare addirittura della verità.


Quando il cielo cominciava a oscurarsi e già iniziavano ad apparire le stelle lasciai nel Bunker la sacca con le teste e i corpi. Gli uccelli mi avevano detto che Diggs se ne era appena andato, quindi mi diressi per la via più breve verso casa, dove le luci erano tutte accese come al solito. Vidi mio padre in cucina. «Diggs è stato qui proprio adesso. Immagino che tu lo sappia.» Mise sotto il rubinetto il mozzicone del grosso sigaro che aveva appena finito di fumare, aprì l’acqua fredda per un attimo mentre la cicca nerastra si estingueva sfrigolando, poi buttò i resti ormai fradici nella spazzatura. Appoggiai la mia roba sul tavolo e mi misi a sedere stringendomi nelle spalle. Mio padre girò la manopola del fornello per accendere sotto alla pentola, alzando il coperchio per dare un’occhiata all’intruglio che si scaldava, poi si voltò a guardarmi.

Nella stanza c’era una cappa di fumo azzurrino che restava sospeso a mezz’aria, con un’onda al centro, che forse proprio io avevo creato entrando dalla doppia porta del retro. L’onda si levò lentamente tra me e mio padre mentre lui mi fissava. Mi agitai nervosamente, poi abbassai lo sguardo, giocherellando col manico della fionda. Mi sembrò di scorgere un velo di preoccupazione sul volto di mio padre, ma era bravo a fingere, forse voleva proprio darmi quell’impressione, e la cosa mi procurò una certa perplessità.

«Forse farei meglio a dirtelo» disse. Mi voltò nuovamente le spalle e prese un cucchiaio di legno per mescolare la minestra. Rimasi in attesa per un attimo.

«Si tratta di Eric.»

Capii immediatamente. Non c’era bisogno che aggiungesse altro. Avrei potuto anche pensare, da quel poco che mi aveva detto, che il mio fratellastro fosse morto, o che stesse male, o che almeno gli fosse successo qualcosa. Invece sapevo che era stato lui, Eric, a combinare qualche guaio. E c’era soltanto una cosa che avrebbe potuto fare per far venire a mio padre quell’aria preoccupata. Era scappato. Comunque non dissi nulla.

«Eric è scappato dall’ospedale. Ecco cosa era venuto a dirmi Diggs. Pensano che potrebbe tornare qui. Togli quella roba dal tavolo, quante volte devo dirtelo.» Sorseggiò la minestra, sempre di spalle. Aspettai che si rigirasse, poi tolsi dal tavolo la fionda, il binocolo e il badile. Con lo stesso tono inespressivo mio padre continuò: «Non credo che arriverà fin qui. Entro un paio di giorni lo prenderanno, forse. Comunque ho deciso di dirtelo. Nel caso qualcun altro lo venisse a sapere e te ne volesse parlare. Prenditi un piatto».

Presi un piatto dalla credenza, poi tomai a sedere, una gamba incrociata sotto l’altra. Mio padre riprese a girare la minestra, cominciavo a sentirne l’odore che ora copriva quello del sigaro. Mi venne una sorta di agitazione allo stomaco, un fremito improvviso e crescente. E quindi Eric stava di nuovo tornando a casa: era un bene e allo stesso tempo un male. Sapevo che l’avrebbe fatto. È inutile parlarne con la Fabbrica, Eric verrà qui. Chissà quanto ci metterà. E chissà se adesso Diggs dovrà andarsene in giro per il paese ad avvisare tutti che il pazzo che dava fuoco ai cani è di nuovo in libertà. Mettete i cani al sicuro!

Mio padre mi versò la minestra nel piatto. Ci soffiai sopra. Pensavo ai Pali Sacrificali. Erano per me un sistema di primo avviso e allo stesso tempo uno strumento di prevenzione. C’era qualcosa di morboso in quegli oggetti imponenti che dall’isola si rivolgevano all’esterno per respingere chi vi volesse arrivare. Una specie di segnale d’allarme: chiunque avesse messo piede sull’isola avrebbe immediatamente capito cosa aspettarsi, dopo aver visto i totem. Eppure si sarebbero presentati non come un pugno serrato e minaccioso, ma come una mano aperta, invitante. Per Eric.

«Anche oggi ti sei lavato le mani» osservò mio padre con sarcasmo mentre sorbivo la minestra. Prese dalla dispensa la bottiglia di whisky e se ne versò un bicchiere. L’altro bicchiere, credo si trattasse di quello del poliziotto, lo posò nel lavandino. Si mise a sedere a capotavola.

Mio padre è alto e magro, anche se un po’ curvo. Ha i tratti delicati come quelli di una donna, e gli occhi scuri. Zoppica, ora; anzi, ha sempre zoppicato da che mi ricordo. La gamba sinistra è quasi completamente rigida, e di solito prende con sé un bastone quando esce. Ci sono certi giorni, quando è umido, che deve usare il bastone anche in casa, e io sento il suono secco che fa quando cammina per le stanze e i corridoi dove non ci sono tappeti, un rumore sordo, che si muove da un punto all’altro. Solo qui in cucina il bastone non si sente. Le lastre del pavimento ne attutiscono il rumore.

Quel bastone rappresenta una sicurezza per la Fabbrica. La gamba di mio padre, bloccata com’è, mi ha permesso infatti di farmi un rifugio su al caldo nel solaio, in cima alla casa, in mezzo alle cianfrusaglie e al ciarpame vario, con la polvere che aleggia e la luce del sole che si inclina e la Fabbrica che presenzia, muta, viva, immobile.

Mio padre non riesce ad arrampicarsi su per la scaletta che parte dall’ultimo piano, e, se anche ce la facesse, di sicuro non potrebbe piegarsi attorno ai mattoni del comignolo per passare dalla scala al solaio vero e proprio.

E così quel posto è mio.

Credo che mio padre abbia quarantacinque anni, anche se a volte ne dimostra molti di più e a volte pochi di meno. La sua vera età non me la dice, quarantacinque è quello che penso io, a giudicare dal suo aspetto.

«Quanto è alto questo tavolo?» disse tutt’a un tratto, mentre stavo per prendere una fetta di pane dal cesto per pulirmi il piatto. Mi voltai a guardarlo, chiedendomi come mai si preoccupasse di una cosa tanto stupida.

«Trenta pollici» risposi, prendendo una crosta dal cesto.

«Sbagliato» disse con un ghigno di entusiasmo. «Due piedi e sei pollici.»

Scossi la testa, aggrottando la fronte, e mi pulii il piatto, asciugando col pane il bordo scuro che la minestra vi aveva lasciato. Un tempo queste domande idiote mi spaventavano sul serio, ma ora, a parte il fatto che devo sapere altezza, lunghezza, larghezza, area e volume di ogni angolo della casa e di tutto ciò che c’è dentro, mi rendo conto che si tratta solo di una sua ossessione. Certe volte, quando ci sono ospiti, la cosa diventa imbarazzante, anche se è gente di famiglia e quindi dovrebbe sapere cosa aspettarsi. Si siedono lì, magari nel salotto, chiedendosi se mio padre offrirà loro da mangiare, o se farà una predica improvvisata sul cancro al colon o sui vermi intestinali. Allora lui si avvicina furtivamente a uno degli ospiti, assicurandosi che tutti lo stiano guardando, e sussurra con fare teatrale e cospirativo: «Vedete quella porta là in fondo? È larga ottantacinque pollici, da un angolo all’altro». Poi strizza l’occhio e se ne va, o scivola a sedersi al suo posto, come se niente fosse.

Da che mi ricordo, la casa è sempre stata ricoperta di adesivi bianchi con delle scritte a biro nera. Attaccati alle gambe delle sedie, ai bordi dei tappeti, al fondo dei boccali, all’antenna della radio, ai cassetti, alle testate dei letti, allo schermo dei televisori, ai manici di pentole e padelle, gli adesivi forniscono la dimensione corrispondente a quella parte dell’oggetto a cui si riferiscono, Ce ne sono anche certi scritti a matita attaccati sulle foglie delle piante. Una volta, parecchi anni fa, feci il giro della casa e li staccai uno per uno. Lui mi prese a cinghiate e mi spedì in camera mia per due giorni. In seguito mio padre decise che anche per me sarebbe stato utile ed edificante conoscere ogni misura, proprio come lui; e così dovetti passare ore e ore sul Libro delle Misure (un coso grossissimo fatto di fogli volanti su cui erano registrate accuratamente tutte le informazioni degli adesivi a seconda della stanza e del tipo di oggetto), o anche girare per casa a prendere appunti da me. Cosa che si aggiungeva alle solite lezioni di matematica, storia e altro che mio padre mi dava. Non rimaneva molto tempo per andare fuori a giocare, fatto di cui mi dispiacevo moltissimo. Avevo una guerra in corso, a quel tempo — credo che fosse quella delle Cozze contro le Mosche Morte — e mentre ero in biblioteca a sforzarmi di tenere gli occhi aperti sul Libro per assimilare quelle dannate stupide misure anglosassoni, il vento mi spazzava via gli eserciti di mosche spargendole per mezza isola e il mare mi affondava i gusci di cozza ricoprendoli poi di sabbia. Per fortuna mio padre si stancò di questo progetto grandioso e si accontentò di lanciarmi a sorpresa strane domande sulla capacità in pinte del portaombrelli o sull’area totale in sottomultipli di acro di tutte le tende che erano appese allora in casa.

«Non ne posso più di rispondere a queste domande» gli dissi mettendo il mio piatto nel lavabo. «Avremmo fatto meglio ad adottare il sistema metrico decimale!»

Mio padre sbuffò nel bicchiere che stava scolando. «Gli ettari e tutte quelle porcherie. Certo che no. Tutto si basa sulla misura del globo, si sa. Non devo essere io a dirti che sono tutte sciocchezze.»

Tirai un sospiro e presi una mela dal vaso poggiato sul davanzale della finestra. Una volta mio padre mi fece credere che la terra fosse un nastro di Moebius, non una sfera. E tuttora sostiene di crederci, e fa gran mostra di inviare un suo manoscritto a certi editori giù a Londra, cercando di convincerli a pubblicare un libro in cui sia esposta questa teoria, ma io lo so che lo fa con malizia, e che lo stupore incredulo e la giusta indignazione che la restituzione del manoscritto gli provoca sotto sotto gli fanno piacere. Questo succede circa ogni tre mesi, e io credo che la vita sarebbe per lui molto meno divertente se non ci fosse questa specie di rituale. Comunque, questa sarebbe una delle ragioni per cui non si converte al sistema metrico decimale per le sue stupide misurazioni, anche se in realtà è solo pigro.

«Che cosa hai combinato oggi?» Mi fissò al di là del tavolo, facendo rotolare il bicchiere vuoto sul piano di legno.

«In giro. A spasso, così.»

«Ancora a costruire dighe?» chiese in tono beffardo.

«No» dissi, e scossi la testa con sicurezza mentre addentavo la mela. «Non oggi.»

«Spero che tu non te ne sia andato in giro ad ammazzare creature di Dio.»

Scrollai le spalle di nuovo. Certo che l’ho fatto. Come diavolo potrei procurarmi teste e corpi per i Pali e il Bunker se non ammazzassi nessuno? La morte naturale non è poi così frequente. Ma questo alla gente non glielo puoi spiegare.

«A volte penso che sei tu quello che dovrebbe essere ricoverato, non Eric» disse guardandomi da sotto alle sopracciglia scure, con la voce bassa. Un tempo quel modo di parlare mi avrebbe fatto paura, ma non ora. Ho quasi diciassette anni, ormai sono grande. Già da un anno sono grande abbastanza, almeno qui in Scozia, per sposarmi senza il permesso dei genitori. Non è che mi interessi molto sposarmi, lo ammetto, ma il principio resta.

E poi, io non sono Eric, io sono io, e sono qui, ed è tutto ciò che conta. Non scoccio nessuno, e gli altri farebbero meglio a non scocciarmi, nel loro interesse. Io non me ne vado in giro a distribuire cani in fiamme, o a spaventare i mocciosi con manciate di insetti o di vermi. La gente in città potrà dire: «Oh, gli manca qualcosa lì» ma lo dicono tanto per divertirsi (e a volte, per spiegarsi meglio, non fanno certo segno alla testa), ma io non ci faccio caso. Ho imparato a convivere con la mia invalidità, e ho imparato a vivere senza gli altri, e quindi non me ne frega niente.

Comunque ebbi l’impressione che mio padre volesse irritarmi: di solito non mi parlava in questo modo. Le notizie riguardo a Eric dovevano averlo sconvolto. Credo che lui sapesse, come lo sapevo io, che Eric sarebbe tornato, e si preoccupava per quel che sarebbe successo. Non lo biasimavo, e non avevo dubbi che fosse preoccupato anche per me. Io sono l’incarnazione di un crimine, e se Eric fosse tornato a movimentare le cose forse sarebbe saltata fuori “la verità su Frank”.

Non ho mai avuto una registrazione all’anagrafe. Non ho né un certificato di nascita, né un numero della mutua, niente che attesti che vivo o che esisto. So che questo è illegale, e lo sa anche mio padre, e a volte penso che si sia pentito della decisione presa diciassette anni fa, al tempo dell’anarchia hippy o non so cosa.

Non che io ne abbia veramente sofferto. Anzi, la cosa mi ha fatto piacere, e neanche si capisce che non ho mai frequentato la scuola. Forse ne so più io, in fatto di materie scolastiche, di tanta altra gente della mia età. Potrei lamentarmi invece della attendibilità di certe nozioni che mi passava mio padre, questo sì. Ma da quando vado a Portneil senza di lui e mi cerco le cose in biblioteca, mio padre è costretto a comportarsi piuttosto correttamente nei miei confronti, mentre prima si prendeva sempre gioco di me, rispondendo con vere stronzate alle mie domande ingenue ma sincere. Per anni credetti che Pathos fosse uno dei tre moschettieri, che Fellatio fosse un personaggio dell’Amleto, che Vitreo fosse una città della Cina e che i contadini irlandesi dovessero pigiare la torba per fare la Guinness.

Ebbene, adesso sono in grado di arrivare fino agli scaffali più alti della biblioteca di casa, e posso andare anche a quella di Portneil, quindi posso controllare tutto ciò che mio padre mi dice, e lui mi deve dire la verità. La cosa lo infastidisce molto, credo, ma così vanno le cose. Chiamiamolo progresso.

Comunque, io ho una buona cultura. Mio padre non era capace di non indulgere al suo alquanto immaturo senso dell’umorismo, e mi propinava frottole, ma allo stesso tempo non tollerava l’idea di un figlio che in qualche modo non gli facesse onore. Visto che dal punto di vista fisico ero ormai una partita persa, non mi restava altro che il cervello. Ecco il perché di tutte quelle lezioni. Mio padre è un uomo istruito, e mi ha trasmesso molte delle cose che sapeva, e gli argomenti di cui non ne sapeva abbastanza se li studiava in modo tale da potermeli poi insegnare. Mio padre è laureato in chimica, o forse in biochimica, non so bene. Credo che in fatto di medicina generica — forse aveva anche i contatti professionali giusti — fosse informato abbastanza da assicurarmi vaccini e iniezioni secondo i tempi stabiliti, anche se per il servizio sanitario nazionale ufficialmente io non esistevo. Credo che mio padre abbia lavorato per qualche anno all’università subito dopo la laurea, e può darsi anche che abbia inventato qualcosa. Di tanto in tanto accenna a certi diritti che prenderebbe per un brevetto o una roba del genere, ma ho il sospetto che quel vecchio fricchettone campi con ciò che resta dei beni di famiglia dei Cauldhame.

Sono circa due secoli, o forse più, che la mia famiglia vive in questa zona della Scozia, da quel che ne so, e possedevamo molte terre qui attorno. Tutto quello che ci rimane, adesso, è l’isola, che è veramente piccola, e quasi non è un’isola quando c’è bassa marea. L’altro unico residuo del nostro passato glorioso è il nome del locale più movimentato di Portneil, un pub vecchio e lurido chiamato Cauldhame Arms dove vado qualche volta, anche se non sono ancora maggiorenne, a vedere certi giovani di qui che suonano musica punk, o almeno ci provano. È lì che ho incontrato e tuttora incontro l’unica persona che definirei mio amico, Jamie il nano, e lo faccio salire sulle mie spalle in modo che possa vedere anche lui i concerti.

«Mah, non credo che arriverà fin qui. Lo prenderanno» disse ancora mio padre dopo aver rimuginato a lungo in silenzio. Si alzò per sciacquare il bicchiere. Mi misi a mormorare tra me e me, cosa che abitualmente facevo quando mi veniva da ridere o da sorridere, ma pensai di comportarmi per il meglio. Mio padre mi guardò. «Vado nello studio. Non dimenticarti di chiudere a chiave, va bene?»

«Va bene» dissi annuendo.

«Buonanotte.»

Mio padre lasciò la cucina. Mi sedetti e guardai la cazzuola, Colpo Duro. C’erano dei granelli di sabbia attaccati sopra, li tirai via. Lo studio. Uno dei miei pochi desideri insoddisfatti è quello di entrare nello studio del vecchio. La cantina almeno l’ho vista, e qualche volta ci ho anche messo piede, conosco tutte le stanze del piano terra e del secondo piano, la soffitta è di mio intero dominio ed è lì che sta la Fabbrica della Vespa, ma quella stanza al primo piano non la conosco, non ci ho mai dato neanche una sbirciata.

Lo so che ci tiene delle robe chimiche là dentro, e credo che faccia esperimenti o non so che, ma di come sia fatta la stanza e di come realmente lui se ne serva non ne ho la più pallida idea. Tutto quello che ho potuto cavarci sono certi strani odori e il tap-tap del suo bastone.

Accarezzai il lungo manico della cazzuola, chiedendomi se mio padre avesse mai dato un nome al suo bastone. Ne dubitai. Lui non dà ai nomi la stessa importanza che ci do io. Io so che sono importanti.

Penso che lo studio racchiuda un segreto. Me lo ha fatto capire più di una volta, vagamente, ma abbastanza da attirare la mia curiosità e spingermi a volerglielo chiedere, quindi lui lo sa che glielo voglio chiedere. Ma non glielo chiedo, naturalmente, perché non ne ricaverei una risposta soddisfacente. Se mai mi dovesse raccontare qualcosa, sarebbero un mucchio di bugie, perché ovviamente il segreto non sarebbe più un segreto se mi dicesse la verità, e lui sa di aver bisogno di far presa su di me più che può man mano che cresco. Ormai sono grande. È solo che questi sprazzi di finto potere lo autorizzano a credere di poter controllare quello che lui vede come un corretto rapporto padre-figlio. Tutto questo è davvero patetico, ma con i suoi giochetti e con i suoi segreti e con i suoi rimproveri aspri lui cerca di mantenere intatta la sua sicurezza.

Mi appoggiai con la schiena alla sedia di legno e mi stiracchiai. Mi piace l’odore della cucina. D cibo, il fango sugli stivaloni di gomma, e certe volte il debole tanfo di cordite che sale dalla cantina, tutto questo mi dà una sensazione di buono, di solido, di emozionante quando ci penso. L’odore è diverso quando piove e abbiamo i vestiti bagnati. In inverno la grossa stufa nera emana un calore fragrante di legna marcia e torba, e tutto esala vapori, e la pioggia batte contro i vetri. In quei momenti ci si sente a proprio agio, come in un abbraccio, si prova un senso di intimità, come un bel gattone che arrotola la coda. A volte mi piacerebbe avere un gatto. Ne ho avuta solo una testa, una volta, e i gabbiani se la portarono via.

Andai in bagno, attraverso il corridoio davanti alla cucina, per farmi una cagata. Non avevo da pisciare perché avevo pisciato sui Pali durante il giorno, ammorbandoli col mio odore e con la mia forza.

Mi sedetti là e pensai a Eric, a cui era successa una cosa veramente spiacevole. Povero stronzo dalla mente contorta. Mi chiesi, cosa che ho sempre fatto, come avrei reagito io al suo posto. Ma non è successo a me. Io non ho mosso piede da qui ed Eric è quello che se n’è andato e tutto è successo da un’altra parte, e questo è quanto. Io sono io e questo posto è questo posto.

Mi misi in ascolto, chiedendomi se avrei sentito mio padre. Forse se n’era andato direttamente a letto. Dorme spesso nello studio invece che nella grande stanza da letto al secondo piano, dove c’è anche la mia camera. Forse quella stanza racchiude troppi ricordi spiacevoli (o piacevoli) per lui. In ogni caso, non sentivo russare.

Odio dovermi sempre sedere sul cesso. È il mio sfortunato handicap che mi costringe a farlo. Come una schifosissima femmina. Odio doverlo fare. Certe volte al Cauldhame Arms mi metto in piedi davanti all’orinatoio, ma la maggior parte me ne finisce tra le mani o mi scola giù per le gambe.

Mi sforzai. Plop splash. Un po’ d’acqua venne su e mi schizzò sul culo, e fu allora che squillò il telefono.

«Merda» dissi, e risi tra me. Mi pulii in fretta il culo e mi tirai su i calzoni, tirai anche la catena, poi mi avviai barcollando per il corridoio chiudendomi la lampo. Corsi su per lo scalone fino al pianerottolo del primo piano, dove sta il nostro unico telefono. Lo dico sempre a mio padre di far mettere altre spine, ma lui dice che non riceviamo abbastanza telefonate da aver bisogno di altri apparecchi. Arrivai al telefono prima che chiunque fosse stato a chiamare mettesse giù. Mio padre non s’era visto.

«Pronto» dissi. La chiamata veniva da una cabina.

«Skree-aak!» urlò una voce dall’altro capo. Allontanai la cornetta dall’orecchio e la guardai con un’espressione torva. Gridolini metallici continuavano a venir fuori dal ricevitore. Quando cessarono la riaccostai all’orecchio.

«Portneil 531» dissi freddamente.

«Frank! Frank! Sono io. Io! Ciao! Ciao!»

«C’è l’eco su questa linea oppure sei tu che ripeti due volte le stesse cose?» dissi. Avevo riconosciuto la voce di Eric.

«Tutt’e due! Ah ah ah ah ah!»

«Ciao, Eric. Dove sei?»

«Qui! E tu dove sei?»

«Qui.»

«Se siamo tutti e due qui perché ci affanniamo al telefono?»

«Dimmi dove sei prima che finiscano le monete.»

«Ma se sei qui dovresti saperlo. Non sai dove sei?» Cominciò a ridacchiare.

Dissi con calma: «Smettila di fare lo scemo, Eric».

«Non sto facendo lo scemo. Non te lo dico dove sono. Tu lo diresti ad Angus e lui lo direbbe alla Polizia e quelli mi riporterebbero in quel merdoso ospedale.»

«Smettila di dire sempre parole-di-quattro-lettere. Lo sai che non mi va. Certo che non lo dico al babbo.»

«M-e-r-d-o-s-o non è una parola-di-quattro-lettere. È di sette lettere. Non è il sette il tuo numero fortunato?»

«No. Insomma, mi vuoi dire dove sei? Voglio saperlo.»

«Ti dico dove sono se tu mi dici qual è il tuo numero fortunato.»

«Il mio numero fortunato è P.»

«Ma non è un numero. È una lettera.»

«Invece lo è. È un numero trascendentale: 2,718.»

«Mi stai fregando. Io intendevo un numero intero.»

«Dovevi spiegarti meglio» dissi io, e tirai un sospiro quando sentii il bip-bip, ma Eric mise dentro altri soldi. «Vuoi che ti richiami?»

«Oh, oh. Non me lo tirerai fuori tanto facilmente. In ogni caso, come stai?»

«Sto bene. E tu?»

«Sto bene da matti, naturalmente» disse sdegnato. Mi scappò un sorriso.

«Ascolta, suppongo che tu stia tornando qui. Se è vero, per favore non bruciare né cani né altro, va bene?»

«Ma di cosa stai parlando? Sono io. Eric. Io non brucio nessun cane!» Cominciò a urlare. «Non ne brucio di cani di merda! Ma per chi diavolo mi hai preso? Non accusarmi di bruciare cani di merda, bastardo che non sei altro! Bastardo!»

«Va bene, Eric, scusami, scusami» dissi io più in fretta che potevo. «Voglio solo che tu stia bene. Stai attento. Non fare nulla per inimicarti la gente, va bene? La gente sa essere molto sensibile…»

«Allora…» Lo sentii respirare, poi la sua voce cambiò. «Già, sto tornando a casa. Solo per un po’, per vedere come state voi due. Ci siete solo tu e il vecchio, vero?»

«Sì, solo noi due. Non vedo l’ora di incontrarti.»

«Oh, bene.» Ci fu una pausa. «Perché non venite mai a trovarmi?»

«Pensavo… Pensavo che nostro padre fosse venuto a trovarti a Natale.»

«Ah, sì? Sì, ma… tu perché non vieni mai?» chiese con tono lamentoso. Spostai il peso del corpo da una gamba all’altra, diedi un’occhiata attorno, al pianerottolo e su per le scale, aspettandomi quasi di vedere mio padre appoggiato alla ringhiera, o di vedere la sua ombra sul muro, al piano di sopra, dove si nascondeva di solito per origliare le mie telefonate.

«Non mi va di stare via dall’isola per tanto tempo, Eric. Mi spiace, ma provo una sensazione orrenda allo stomaco, come un nodo. Proprio non ci riesco ad allontanarmi, a stare via la notte… Non ce la faccio proprio. Ho voglia di vederti, ma tu stai così lontano.»

«Ma ora mi sto avvicinando.» Aveva ripreso un tono sicuro.

«Bene, quanto disti da qui?»

«Non te lo dico.»

«Io ti ho detto il mio numero fortunato.»

«Ti ho mentito. Non ho nessuna intenzione di dirti dove sono.»

«Ma non…»

«Senti, adesso riattacco.»

«Non vuoi parlare col babbo?»

«Non ancora. Gli parlerò più in là, quando sarò molto più vicino. Ora devo andare. Ci vediamo. Riguardati.»

«Sei tu che devi riguardarti.»

«Di che ti preoccupi? Andrà tutto bene. Cosa vuoi che mi succeda?»

«Non fare nulla che possa infastidire la gente. Mi hai capito. Cioè, quelli diventano furiosi. Soprattutto quando si tratta delle loro bestiole. Cioè, io non…»

«Cosa? Che cosa? Cos’è questa storia delle bestiole?» urlò.

«Niente! Stavo solo dicendo…»

«Sei una merda!» gridò. «Mi stai ancora accusando di dare fuoco ai cani, vero? E ficco anche vermi e larve in bocca ai mocciosi e ci piscio sopra, eh?»

«Adesso che lo dici…» dissi cautamente, giocherellando col filo.

«Bastardo! Bastardo! Sei una merda! Ti ucciderò! Sei…» La voce scomparve, e dovetti di nuovo allontanare il ricevitore dall’orecchio perché stava cominciando a sbattere la cornetta sulle pareti della cabina. Il suono ripetuto di quel rumore era così forte da coprire quello del bip-bip che indicava che le monete erano finite. Riattaccai.

Guardai in alto, ma di mio padre non c’era ombra. Strisciai su per le scale e infilai la testa nella ringhiera, ma il pianerottolo era vuoto. Tirai un sospiro e mi misi a sedere sugli scalini. Mi sembrava di non aver trattato Eric al telefono come avrei dovuto. Non mi viene tanto bene trattare con la gente, e, anche se Eric è mio fratello, sono più di due anni che non lo vedo, da quando è impazzito.

Mi alzai e tornai giù in cucina per chiudere a chiave e prendere il mio arnese, poi andai in bagno. Decisi di guardare la tv nella mia stanza, o di sentire la radio, e di andare a dormire presto in modo da poter essere in piedi subito dopo l’alba per catturare una vespa per la Fabbrica.


Mi sdraiai sul letto ad ascoltare John Peel alla radio e il rumore del vento intorno alla casa e quello della risacca sulla spiaggia. Da sotto il letto la mia birra fatta in casa faceva odore di fermentato.

Pensai ancora ai Pali Sacrificali. Più lentamente, questa volta, immaginandomeli uno per uno, cercando di ricordarmi la posizione e ogni singola componente, rivedendo con la mente ciò che quegli occhi senza vista stavano a sorvegliare. Scorrevo ogni immagine come fa un guardiano che passa da una telecamera all’altra su un monitor a circuito chiuso. Ebbi la sensazione che nulla andasse di traverso. Sembrava tutto a posto. Le sentinelle morte, quelle estensioni del mio corpo che cadevano in mio potere attraverso la resa semplice ma definitiva della morte, non avvertivano nulla che potesse far del male a me o all’isola.

Aprii gli occhi e riaccesi la lampada del comodino. Mi guardai nello specchio che sta sul tavolo dalla parte opposta della stanza. Stavo sopra alle coperte, in mutande.

Ho un po’ di ciccia di troppo. Niente di grave, e poi non è colpa mia, comunque non ho l’aspetto che mi piacerebbe avere. Pingue, ecco come sono. Forte e in buona salute, ma ancora un po’ in sovrappeso. Vorrei incutere cupo timore. L’aspetto che normalmente avrei avuto, che avrei dovuto avere, che avrei potuto avere se non avessi avuto quel piccolo incidente. A guardarmi non si direbbe che ho ucciso tre persone. E la cosa non mi piace.

Spensi di nuovo la luce. La stanza era immersa nel buio, non c’era neanche la luce delle stelle mentre gli occhi si abituavano all’oscurità. Forse dovrei procurarmi una di quelle radiosveglie a cristalli liquidi, anche se non mi separerei mai dalla mia vecchia sveglia di ottone. Una volta ho legato una vespa al piano di battuta delle campanelle color rame che stanno in cima alla sveglia, nel punto in cui, la mattina dopo, il martelletto le avrebbe colpite quando fosse scattata la suoneria.

Mi sveglio sempre prima che la sveglia suoni. E così ho potuto assistere alla scena.

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