4. Il Cerchio della Bomba

Mi è capitato spesso di sentirmi come uno stato; una nazione, o forse una città. E i diversi sentimenti che certe volte ho provato nei confronti di idee, comportamenti e via dicendo, almeno così mi pareva, erano come le varie tendenze politiche che si alternano in un paese. Ho sempre creduto che la gente votasse per un nuovo governo non perché ne condividesse effettivamente la politica ma solo per la voglia di cambiare. Il passaggio al nuovo comporta in qualche modo un miglioramento, ecco quello che pensano. Ebbene, la gente è stupida, e tutto questo sembrerebbe avere a che vedere più con il capriccio, l’atmosfera e gli stati d’animo del momento che non con argomentazioni seriamente meditate. È così che mi girano le cose per la testa. Certe volte mi vengono in mente pensieri e sentimenti che si contraddicono l’un l’altro. È per questo che ho raggiunto la conclusione che nel mio cervello devono esserci un sacco di persone diverse.

Per esempio, c’è una parte di me che si è sentita in colpa per aver ucciso Blyth, Paul ed Esmeralda. Quella stessa parte di me si sente in colpa ora a vendicarsi dei conigli innocenti per via di quell’unica maledetta bestiaccia. Mi viene da paragonare tutto questo a un partito d’opposizione in parlamento, oppure a certa stampa alternativa. Vogliono rappresentare la coscienza, vogliono porre un freno, ma non ne hanno il potere, né c’è qualche probabilità che possano ottenerlo. Un’altra parte di me è razzista, forse perché ne ho vista poca di gente di colore, e tutto ciò che so di loro lo leggo sui giornali o lo vedo in televisione, dove si parla dei negri in termini di cifre e di presunta colpevolezza finché non ne sia provata l’innocenza. Questa parte di me è ancora piuttosto forte, anche se so bene che non c’è alcun motivo logico per l’odio razziale. Quando a Portneil vedo gente di colore che compra souvenir o si ferma a mangiare qualcosa, spero sempre che uno di loro mi faccia qualche domanda, in modo che io possa dimostrare tutta la cortesia di cui sono capace e provare che la mia razionalità supera gli istinti più bassi e anche le abitudini.

Per la stessa ragione, comunque, non c’era alcun bisogno di vendicarsi dei conigli. Non ce n’è mai bisogno, neanche nel mondo reale. Credo che le ritorsioni contro persone legate lontanamente o circostanzialmente a quelle che hanno commesso il torto servano solo a far stare bene chi si vendica. Come la pena di morte, la vuoi perché così ti senti meglio, non perché sia un deterrente o qualunque altra stupidaggine del genere.

Intanto i conigli non lo sapranno mai che la persona che ha fatto loro quello che ha fatto era Frank Cauldhame, mentre invece una comunità di individui sa che cosa commettono i cattivi ai loro danni, in modo tale che la vendetta finisce per avere l’effetto opposto, incita alla resistenza invece di stroncarla. Ma almeno io ammetto che tutto questo lo faccio per rinvigorire il mio ego, per ritrovare l’orgoglio e perché mi diverto, non per salvare il Paese o sostenere la giustizia o addirittura per onorare i morti.

Dunque c’erano alcune parti di me che guardavano alla cerimonia di nominazione della nuova fionda con un certo divertimento, o forse con disprezzo. Nella mia testa, in quel Paese che è la mia testa, la cosa equivaleva a ciò che fanno certi intellettuali, che si prendono gioco della religione e poi non sanno negarne gli effetti sulle masse. Durante la cerimonia mi misi a imbrattare il metallo, la gomma e la plastica del nuovo congegno con cerume, muco, sangue, urina, pappetta dell’ombelico e formaggio delle unghie dei piedi, e battezzai la nuova fionda sparando la cinghia vuota contro una vespa senza ali che strisciava sulla facciata della Fabbrica, e me la sparai anche sui piedi nudi, provocandomi una contusione.

Alcune parti di me pensavano che tutto questo fosse insensato, ma erano in netta minoranza. Le parti restanti sapevano che la cosa funzionava. Mi dava potere, mi faceva diventare tutt’uno con ciò che posseggo e con il luogo in cui mi trovo. Mi faceva sentire tutta la mia bontà.


* * *

Trovai una fotografia di Paul da piccolo in uno degli album che tenevo in soffitta, e dopo la cerimonia scrissi il nome della nuova fionda dietro alla foto, la accartocciai attorno a un pezzetto di metallo e fissai il tutto con un po’ di nastro adesivo, poi me ne andai, via dalla soffitta e dalla casa, nella pioggerella gelida del primo mattino.

Raggiunsi le rovine del vecchio attracco che sta al confine settentrionale dell’isola. Tirai la stringa di gomma al massimo e lanciai il proiettile con la fotografia, che si librò fischiando nell’aria verso il mare aperto e avvolgendosi su se stesso a spirale. Non vidi il tonfo nell’acqua.

Le mie fionde restano al sicuro finché nessuno ne conosce il nome, o almeno così dovrebbe essere. La cosa non ha funzionato per la Distruttrice Nera, certo, ma l’ho causata io la sua morte commettendo un errore, e il mio potere è talmente forte che quando sbaglio, cosa rara ma non impossibile, anche gli oggetti che avevo investito di una grandissima forza protettiva diventano vulnerabili. Ancora una volta, nella mia testa-Stato, provavo rabbia al pensiero di aver commesso un tale errore e nello stesso tempo alimentavo la determinazione a non ricaderci mai più. Mi sentivo come un generale che veniva punito o fucilato per aver perso una battaglia o un territorio importante.

Insomma, feci tutto il possibile perché la nuova fionda potesse considerarsi al sicuro, e anche se mi dispiaceva che l’episodio delle Terre del Coniglio mi fosse costato un’arma fidata con molte onorificenze belliche legate al suo nome (per non parlare della cospicua somma sottratta al budget della Difesa), pensai che forse era stato un bene che fosse andata così. Quella parte di me che aveva commesso l’errore con il coniglio, lasciandogli per un attimo avere la meglio, avrebbe potuto essere ancora qui in giro se non ci fosse stato quell’episodio decisivo a smascherarla. Il generale incompetente e scriteriato era stato destituito. Col ritorno di Eric, forse avrei avuto bisogno dei miei poteri e dei miei riflessi al massimo dell’efficienza.

Era ancora molto presto, e anche se avrei dovuto sentirmi un po’ giù per la bruma e la pioggia conservavo il buon umore che la cerimonia di nominazione mi aveva messo addosso.

Mi venne voglia di fare una corsa, e allora lasciai la giacca vicino al Palo che avevo sistemato il giorno che Diggs era arrivato con la notizia, e mi legai la fionda ben stretta tra la cintura e i pantaloni. Dopo aver controllato che i calzini fossero dritti e a posto, diedi una stretta agli scarponi per ottenere la giusta tensione per la corsa, poi cominciai a correre lentamente lungo la striscia di sabbia dura tra le alghe della riva. La pioggerella andava e veniva, e tra la foschia e la bruma si intravedeva ogni tanto il disco rosso sfumato del sole. Da nord arrivava un vento sottile, e io mi voltai da quella parte. Presi velocità gradualmente fino a raggiungere un’andatura stabile moderata, a passo lungo, che mi faceva funzionare correttamente i polmoni e costituiva un buon allenamento per le gambe. Le braccia, coi pugni serrati, si muovevano secondo un ritmo fluido, mandando avanti prima una spalla, poi l’altra. Respiravo profondamente, affondando i piedi nella sabbia. Mi diressi verso quella parte in cui il corso del fiume si fa più intricato e l’acqua va a sbattere avanti e indietro sulle sponde sabbiose, e regolai il passo in modo tale da poter oltrepassare facilmente i vari canaletti, un balzo alla volta. Raggiunto quel posto, abbassai la testa e aumentai la velocità. Sbattevo la testa e i pugni contro il vento, mentre i piedi si torcevano, schizzavano nell’aria, stringevano la presa del terreno e spingevano.

L’aria mi sferzava, mentre raffiche sottili e pungenti di pioggia mi colpivano man mano che ci andavo contro. I polmoni esplodevano, implodevano, esplodevano, implodevano; la sabbia bagnata mi schizzava a fiotti dalle scarpe e si alzava sempre di più man mano che acceleravo, disegnando piccole curve nell’aria, e più correvo più i grumi mi inzaccheravano le spalle. Alzai il viso e gettai la testa all’indietro, scoprendomi il collo e offrendolo al vento e alla pioggia come fosse un atto d’amore. Il fiato mi raschiava la gola, e quella sorta di debolezza che avevo provato un momento prima a causa dell’iperossigenazione svanì non appena l’eccesso di forza nel sangue fu riassorbito dai muscoli. Mi lanciai al massimo, aumentando ancora la velocità mentre la linea frastagliata di alghe morte, vecchi pezzi di legno, lattine e bottiglie mi guizzava velocemente accanto. Mi sentivo come una perla infilata che corre dritta sul suo filo, con le gambe, la gola e i polmoni che mi risucchiavano dall’interno e mi sospingevano con uno slancio inesauribile di fluida energia. Tirai a quella velocità finché mi fu possibile, poi, quando sentii che cominciavo a perdere colpi, cercai di rilassarmi, continuando per un po’ a correre veloce, ma senza esagerare.

Mi misi ad attraversare la spiaggia puntando dritto di fronte, e le dune sulla sinistra sembravano muoversi al mio passaggio, come le tribune attorno a un tracciato da corsa. Davanti si vedeva il Cerchio della Bomba, dove sarebbe terminata la mia corsa, o dove comunque avrei svoltato. Raggiunsi di nuovo la massima velocità, a testa bassa, urlando dentro di me, gridando mentalmente, e la mia voce era come un torchio che schiacciava sempre più forte e mi spremeva fino in fondo per ottenere dalle gambe lo sforzo finale. Attraversai la spiaggia quasi volando, col corpo assurdamente inclinato in avanti, i polmoni in fiamme, le gambe pulsanti.

Subito dopo rallentai quasi di scatto, lasciando che la corsa diventasse un trotterellare man mano che mi accostavo al Cerchio della Bomba. Ci arrivai quasi barcollando, poi mi gettai sulla sabbia del cratere e lì rimasi a terra ad ansimare, a rantolare, a respirare affannosamente, con lo sguardo fisso verso il cielo grigio e la bruma invisibile, con le gambe e le braccia spalancate e le rocce tutt’intorno. Il petto saliva e scendeva, il cuore batteva dentro alla sua gabbia. Nelle orecchie sentivo un rimbombo soffocato, e tutto il corpo fischiava e ronzava. I muscoli delle gambe sembravano inebetiti dal fremito. Lasciai cadere la testa da un lato, la guancia appoggiata alla sabbia fresca e umida.

Mi chiesi come fosse la morte.


Il Cerchio della Bomba, la gamba di mio padre, il suo bastone, la sua riluttanza a comprarmi una moto, le candele nel teschio, il mucchio di topi e criceti morti, tutto questo è colpa di Agnes, la seconda moglie di mio padre, mia madre.

Non me la ricordo, mia madre, perché se me la ricordassi la odierei. Odio il suo nome, odio il solo pensiero di lei. Fu lei a fare in modo che gli Stove si portassero Eric a Belfast, lontano dall’isola, lontano dalle cose che conosceva. Gli Stove pensavano che mio padre fosse un cattivo genitore perché metteva a Eric vestiti da femmina e gli faceva fare il comodo suo, e mia madre lasciò che se lo portassero via perché non le piacevano i bambini in generale, e in particolare non le piaceva Eric. Pensava che Eric in qualche modo potesse influire negativamente sul suo karma. Forse fu proprio l’avversione per i bambini che la spinse ad abbandonarmi immediatamente dopo la nascita, per tornare un’altra volta soltanto, in quella fatale occasione in cui si trovò a essere almeno in parte responsabile del mio piccolo incidente. In fondo credo di avere delle buone ragioni per odiarla. Me ne stavo là per terra nel Cerchio della Bomba, dove avevo ucciso l’altro suo figlio, e speravo che anche lei fosse morta.

Tornai indietro correndo lentamente, sprizzando energia da tutti i pori, e mi sentii ancora meglio di quando avevo iniziato la Corsa. Non vedevo l’ora di uscire, quella sera: qualcosa da bere, due chiacchiere con Jamie, il mio amico, e un po’ di musica sudata e frastornante al Cauldhame Arms. Accelerai per un breve tratto, giusto per scrollare la testa e togliermi un po’ di sabbia dai capelli, poi rallentai di nuovo.

Di solito le rocce del Cerchio della Bomba mi fanno venire in mente dei pensieri, e questa volta non facevano eccezione, soprattutto considerando il modo in cui il mio corpo era rimasto sdraiato a terra lì in mezzo, come quello di un Cristo o qualcosa del genere, come offrendosi al cielo, a sognare la morte. Insomma, Paul se ne era andato nel modo più veloce possibile; a quei tempi ero molto indulgente. Blyth aveva avuto un sacco di tempo per capire quello che gli stava accadendo, mentre urlava e saltava per tutto il Parco del Serpente, con la vipera rabbiosa e agitata che gli mordeva ripetutamente il moncone, e la piccola Esmeralda deve aver avuto qualche sentore di ciò che stava per capitarle quando il vento aveva cominciato a portarsela su lentamente.

Mio fratello Paul aveva cinque anni quando lo uccisi. Io ne avevo otto. Erano passati due anni da che avevo fatto fuori Blyth con la serpe, quando trovai un’occasione per sbarazzarmi di Paul. Non che ce l’avessi con lui personalmente, solo che sapevo che non sarebbe potuto restare qui. Sapevo che non avrei mai potuto liberarmi completamente del cane finché lui fosse rimasto in vita (il povero Eric, intelligente e buono, ma ignaro, credeva che ancora non avessi ritrovato la mia libertà, e io non potevo dirgli che si sbagliava, né potevo rivelargliene il motivo).

Io e Paul eravamo usciti a fare una passeggiata sulla spiaggia, in direzione nord, in una calma e splendente giornata d’autunno, dopo che la notte precedente una feroce bufera aveva divelto alcune tegole dal tetto, sradicato uno degli alberi vicino al vecchio recinto delle pecore e addirittura spezzato uno dei cavi del ponte sospeso. Mio padre chiese a Eric di aiutarlo con le riparazioni e i riassestamenti vari, mentre io e Paul ci levammo dai piedi.

Avevo sempre avuto un buon rapporto con Paul. Avevo sempre cercato di farlo vivere nel migliore dei modi, forse perché sapevo già da un pezzo che non sarebbe rimasto a lungo a questo mondo, e così finiva che lo trattavo molto meglio di come la maggior parte dei ragazzi tratta i propri fratelli minori.

Appena arrivati al fiume che segna il confine dell’isola ci accorgemmo subito dei numerosi cambiamenti che la tempesta aveva provocato: il fiume si era gonfiato enormemente, disegnando immensi canali nella sabbia, canali impetuosi di acqua brunastra che continuava, nel suo incessante fluire, a strappare zolle di terra dagli argini e a spazzarle via. Dovemmo arrivare quasi fino al mare, fino al limite massimo della bassa marea, per poter passare dall’altra parte. Continuammo a camminare, io tenevo Paul per la mano, senza malizia in cuore. Paul canticchiava tra sé e sé e faceva domande del tipo di quelle che fanno i bambini, chiedeva per esempio perché gli uccelli non fossero stati spazzati tutti via dalla bufera, o perché il mare non si riempisse mai completamente, col torrente che andava tanto forte.

Man mano che ci inoltravamo nelle zone più tranquille camminando sulla sabbia e fermandoci a guardare tutte le cose interessanti che erano state trasportate a riva dall’acqua, la spiaggia tendeva sempre più a scomparire. Laddove un tempo la sabbia si allungava fin verso l’orizzonte in un’ininterrotta striscia d’oro, si scorgevano ora zone sempre più rocciose esposte un po’ più in alto rispetto alla sponda che stavamo osservando, fino a un punto in cui di fronte alle dune c’era una costa di sola roccia. Quella notte la bufera aveva spazzato via tutta la sabbia, partendo dalla zona subito dopo il fiume, fino ad arrivare in luoghi che non avevo mai visto e a cui non avevo mai dato un nome. Era uno spettacolo impressionante, e all’inizio mi fece anche un po’ paura, ma solo perché era un cambiamento enorme e mi preoccupava il fatto che un giorno o l’altro l’isola si potesse ridurre così. Ricordavo, comunque, che mio padre mi aveva detto che in passato erano già avvenute cose del genere, e poi la spiaggia era sempre tornata a formarsi nelle settimane e nei mesi successivi.

Paul si divertiva un sacco a correre e saltare da una roccia all’altra e a tirare sassi nelle pozze. Le pozze che si erano formate in mezzo alle rocce erano per lui qualcosa di nuovo. Ci inoltrammo per la spiaggia devastata, scoprendo altri interessanti relitti, e finalmente giungemmo a un rudere arrugginito che da lontano sembrava una cisterna per l’acqua o una canoa mezza interrata. Spuntava da una piccola zolla sabbiosa, erto e spigoloso, un metro e mezzo circa fuori dal terreno. Mentre io osservavo quell’oggetto, Paul tentava di pescare in una delle pozze.

Toccai con un certo stupore la superficie di quel cilindro affusolato, e la cosa mi provocò una forte sensazione di calma e di forza, anche se non ne capivo il motivo. Poi mi allontanai di qualche passo e guardai l’oggetto un’altra volta. La sua forma mi si fece chiara, e fui allora in grado di immaginarne grosso modo anche la parte interrata. Era una bomba, piantata sul suo manico.

Mi avvicinai di nuovo a essa con cautela, colpendola leggermente e facendo sschhhhh! con la bocca. Era nera e ruggine, completamente deteriorata, puzzava di umido e proiettava un’ombra che pareva un missile. Seguii i contorni dell’ombra lungo la sabbia, sopra alle rocce, e mi ritrovai a guardare il piccolo Paul che sguazzava allegramente nella pozza, schiaffeggiando l’acqua con un pezzo di legno liscio grande quasi quanto lui stesso. Feci un sorriso, lo chiamai.

«La vedi questa cosa?» dissi io. Era una domanda retorica. Paul annuì, con gli occhioni sgranati. «È una campana» continuai «come quelle della chiesa giù in paese. Il rumore che si sente la domenica, hai capito?»

«Ti. Tùbito ’opo la colattione, Frank?»

«Che?»

«Il rumore tùbito ’opo colattione la domenica, Frank.» Paul mi colpì piano al ginocchio con la mano grassoccia.

Feci sì con la testa. «Sì, quello. La campana fa proprio quel rumore. È un grosso pezzo di metallo incavato pieno di rumori che vengono fuori la domenica mattina dopo colazione. Ecco cos’è.»

«La colattione?» Paul mi guardò con le piccole sopracciglia fortemente aggrottate. Scossi la testa con pazienza.

«No. La campana.»

«C come Campana» disse Paul sottovoce, annuendo tra sé, con gli occhi fissi verso l’aggeggio arrugginito. Forse stava pensando a un vecchio libro di filastrocche. Era un ragazzo intelligente. Mio padre intendeva mandarlo a scuola regolarmente, quando fosse arrivato il momento, e aveva già cominciato a insegnargli l’alfabeto.

«Bravo. Questa campana dev’essere caduta da una nave, o forse è stata portata qui dal diluvio. Ecco quello che dobbiamo fare; io salgo sulle dune e tu batti la campana col tuo pezzo di legno, così vediamo se io sento. Lo facciamo? Ti va? Forse il rumore sarà molto forte, potresti spaventarti.»

Mi chinai per portare il mio viso alla stessa altezza del suo. Scosse la testa con decisione e spiaccicò il suo naso contro il mio. «Nno! No’ mmi ’ppavento!» gridò.

Stava quasi per sgattaiolarmi davanti e colpire la bomba col pezzo di legno — l’aveva già sollevato e aveva già preso lo slancio — quando io mi allungai e lo afferrai per la cintola.

«Ancora no» dissi. «Aspetta che mi allontani. È una vecchia campana, e forse le è rimasto solo un rumore. Non vorrai mica sprecarlo così, vero?»

Paul si dimenò, con lo sguardo che sembrava indicare che in effetti non gli sarebbe spiaciuto fare qualche spreco, fino al momento in cui avrebbe dovuto colpire la campana con la sua trave. «Vabbè» disse, e smise di contorcersi. Lo misi giù. «Ma potto coppire forte forte forte?»

«Più forte che puoi, quando io ti faccio segno da sopra alla duna laggiù. Tutto a posto?»

«Potto fare una p’ova?»

«Fa’ una prova con la sabbia.»

«Potto coppire le pottanghere?»

«Sì, esercitati con le pozze d’acqua. È una buona idea.»

«Potto coppire quetta pottanghera?» Fece segno con la trave verso la pozza circolare intorno alla bomba. Scossi la testa.

«No, la campana si potrebbe arrabbiare.»

Aggrottò le ciglia. «Si allabbiano le campane?»

«Sì. Ora vado. Tu colpisci la campana forte forte e io sto a sentire forte forte, va bene?»

«Tì, Frank.»

«Non colpire la campana finché non ti faccio segno, va bene?»

Scosse la testa. «Te lo pometto.»

«Bene. Non ci metterò molto.» Mi voltai e cominciai a correre lentamente dirigendomi verso le dune. Provai una strana sensazione alla schiena. Intanto che andavo avanti, mi guardavo intorno per controllare che non ci fosse nessuno in giro. C’erano solo dei gabbiani che roteavano nel cielo chiazzato di nuvole. Quando mi voltai, vidi Paul. Era rimasto vicino alla bomba, e picchiava la sabbia con il suo pezzo di legno, tenendolo con tutt’e due le mani e sbattendolo a terra con quanta forza aveva in corpo, e intanto strillava e saltellava. Mi misi a correre più forte, oltre le rocce, sulla sabbia ferma, oltre i detriti del mare, sulla sabbia dorata e asciutta — qui dovetti rallentare — fino a raggiungere l’erba della duna più vicina. Mi inerpicai sulla cima e guardai lontano, oltre la sabbia e le rocce, verso Paul, la cui esile figura si stagliava contro il riverbero abbagliante delle pozze e della sabbia bagnata, sovrastato dall’ombra del cono obliquo di metallo che aveva accanto. Rimasi in piedi, aspettando che mi vedesse, diedi un’altra occhiata in giro e gli mandai il segnale, agitando le braccia alte sopra il capo, poi mi buttai a terra.

Mentre ero lì ad aspettare mi venne in mente che non avevo detto a Paul dove doveva colpire. Non accadde nulla. Rimasi dov’ero, sentivo lo stomaco sprofondare lentamente nella sabbia che ricopriva la duna. Sospirai e alzai lo sguardo.

Paul in lontananza pareva un pupazzo, sussultava e saltava, tirava indietro il braccio e picchiava più e più volte sulla parte laterale della bomba. Il mormorio dell’erba nel vento quasi copriva i suoi vigorosi gridolini. «Merda» dissi tra me e me, e mi appoggiai col mento sulla mano, ma in quel momento Paul, dopo aver dato un’occhiata veloce verso di me, cominciò a colpire il muso della bomba. Aveva dato un solo colpo, e io avevo tolto la mano da sotto il mento per prepararmi ad assumere una posizione di riparo, quando Paul, la bomba, la pozza che la circondava e tutte le altre cose che stavano lì attorno nel giro di dieci metri improvvisamente svanirono in un’alta colonna di sabbia, vapore e lapilli di roccia che in quell’istante breve e accecante si accese all’interno per via della foltissima detonazione esplosiva.

L’alta torre di detriti si alzò e ricadde ammucchiandosi, cominciando a ridiscendere nello stesso istante in cui l’onda d’urto mi raggiunse dalla duna. Ebbi una vaga consapevolezza delle cascatelle di sabbia che precipitavano dalle fiancate riarse delle dune circostanti. In quel momento il rumore si avvolse su se stesso, con uno schiocco ritorto, una specie di brontolio gastrico forte come un tuono. Rimasi a guardare gli schizzi circolari che si allargavano sempre più dal centro dell’esplosione man mano che le macerie ricadevano a terra. La colonna di fumo e sabbia era sospinta dal vento, e nell’ombra la sabbia si faceva più scura, formando nella parte inferiore una cortina di foschia, come quelle che si vedono al di sotto di una nuvola densa quando inizia a sgravarsi della pioggia. Riuscii a scorgere il cratere.

Scesi giù di corsa. Mi fermai a circa cinquanta metri dal cratere ancora fumante. Non mi misi a fissare con attenzione quei pezzi e frammenti sparsi tutt’attorno, li guardai soltanto con la coda dell’occhio, perché volevo e nello stesso tempo non volevo vedere brandelli di carne sanguinolenta o resti di abiti. Il rumore risuonò in modo incerto riecheggiando dalle colline oltre il paese. Il bordo del cratere era segnato da grosse schegge di pietra, staccatesi dalla superficie rocciosa sottostante, che circondavano quella scena come denti spezzati, rivolti verso il cielo oppure riversi a terra. Rimasi a guardare la nube lontana dell’esplosione spingersi alla deriva al di sopra del fiordo e disperdersi, poi mi voltai e mi misi a correre più forte che potevo per tornare a casa.

Ora so che si trattava di una bomba tedesca di cinquecento chilogrammi sganciata da un He.111 in avaria che tentava di rientrare alla base in Norvegia dopo aver fallito un attacco alla base aeronavale giù nel fiordo. Mi piace pensare che sia stato il mio fucile del Bunker a colpire l’aereo e a costringere il pilota a dare un colpo di coda e lanciare la bomba.

La punta di qualche scheggia rocciosa ancora si vede far capolino dalla sabbia che ormai da lungo tempo è tornata a coprire quella superficie. Questi spunzoni formano il Cerchio della Bomba, il monumento più adatto a commemorare il povero Paul: un cerchio blasfemo di pietre teatro di ombre.

Ancora una volta la fortuna fu dalla mia parte. Nessuno vide niente, e nessuno poté credere che il fatto l’avessi commesso io. Il dolore mi inebetì, quella volta, il senso di colpa mi dilaniò, ed Eric dovette prendersi cura di me mentre io interpretavo la mia parte alla perfezione. Non mi piaceva ingannare Eric, ma sapevo che era necessario. Non potevo dirgli che era stata colpa mia perché non avrebbe capito il motivo che mi aveva spinto a commettere quell’azione. Ne sarebbe rimasto terrificato, e molto probabilmente non sarebbe stato mai più mio amico. E così mi toccò fare la parte della creaturina innocente afflitta e rosa dal senso di colpa, e a Eric toccò consolarmi mentre mio padre ci rimuginava sopra.

A dire il vero non mi piacque molto il modo in cui Diggs mi interrogò sull’accaduto, e per qualche istante credetti che avesse capito tutto, ma poi le mie risposte sembrarono soddisfarlo. Ero anche un po’ in imbarazzo perché dovevo chiamare mio padre “zio” ed Eric e Paul “cugini”. L’idea era di mio padre, voleva imbrogliare Diggs riguardo i miei legami di parentela nel caso il poliziotto si fosse messo a fare domande in giro e avesse scoperto che ufficialmente io non esistevo. Gli raccontammo che io ero il figlio del fratello minore di mio padre, morto da tanti anni, e che mi trovavo sull’isola per una vacanza prolungata, passando da un parente all’altro nell’attesa che si decidesse del mio futuro.

In ogni caso, riuscii a tirarmi fuori da quell’impiccio, e per una volta anche il mare collaborò, arrivando subito dopo l’esplosione a spazzare via qualunque traccia rivelatrice avessi lasciato prima che Diggs potesse arrivare dal villaggio per ispezionare il luogo.


La signora Clamp era a casa quando rientrai, stava scaricando il grosso cesto di vimini della sua vecchissima bicicletta che aveva appoggiato di fianco al tavolo di cucina. Era intenta a riempire la credenza, il frigorifero e il freezer con il cibo e le provviste che aveva portato dal paese.

«Buon giorno, signora Clamp» dissi io cortesemente entrando in cucina. Si voltò a guardarmi. La signora Clamp è molto anziana ed estremamente minuta. Mi squadrò da capo a piedi e disse: «Ah, sei tu?» e tornò a girarsi verso il cestino di vimini, scavando in profondità con entrambe le mani per portare in superficie dei pacchetti di forma allungata avvolti in carta di giornale. Con andatura barcollante si portò verso il freezer, si arrampicò su uno sgabello, scartò i pacchi che rivelarono il proprio contenuto (erano i miei hamburger) e li piazzò nel freezer, sporgendosi fino quasi a ficcarcisi dentro. Mi attraversò il pensiero di quanto sarebbe stato facile… Scossi la testa per liberarmi di quel pensiero stupido. Mi sedetti al tavolo per guardare la signora Clamp al lavoro.

«Come se la passa in questi giorni, signora Clamp?» le chiesi.

«Oh, abbastanza bene» disse la signora Clamp scuotendo la testa mentre scendeva dallo sgabello e ritornava al freezer con altri hamburger surgelati in mano. Che si stesse congelando anche lei? Avevo la certezza di scorgere piccoli cristalli di ghiaccio luccicare sulla leggera peluria del suo volto.

«Gesù, ha portato un bel po’ di roba oggi. Strano che non sia caduta per terra tornando a casa.»

«Tu non mi avresti certo tirata su.» La signora Clamp scosse ancora una volta la testa, andò al lavandino, si sporse in punta di piedi per raggiungere il rubinetto, aprì l’acqua calda, si sciacquò le mani, se le asciugò sul grembiule azzurro plastificato e prese del formaggio dalla bici.

«Posso farle una tazza di qualche cosa, signora Clamp?»

«No, grazie. Non voglio niente» disse lei scuotendo la testa dentro al freezer, un po’ sotto il livello dello scomparto per il ghiaccio.

«Be’, allora niente.» La guardai che si lavava le mani un’altra volta. Quando cominciò a separare la lattuga dagli spinaci mi congedai e andai nella mia stanza.


Facemmo il nostro solito pranzo del sabato: pesce e patate dell’orto. La signora Clamp era all’altro capo del tavolo di fronte a mio padre, al posto dove di solito mi siedo io. Io mi sedetti circa a metà, con le spalle al lavandino, facendo dei disegni nel piatto con le spine di pesce mentre mio padre e la signora Clamp si scambiavano parole di cortesia, dei veri e propri riti di formalità. Feci un piccolo scheletro umano con le lische dei pesci morti e lo spruzzai di ketchup per rendere la cosa più realistica.

«Dell’altro tè, signor Cauldhame?» chiese la signora Clamp.

«No, grazie, signora Clamp» rispose mio padre.

«E tu, Francis?» mi chiese.

«No, grazie» dissi io. Un pisello sarebbe andato benissimo per fare da teschio allo scheletro. Ce lo misi. Mio padre e la signora Clamp continuarono a parlottare del più e del meno.

«Ho sentito dire che l’altro giorno è venuto il poliziotto. Non le darà mica fastidio che ne parli?» disse la signora Clamp tossicchiando educatamente.

«Già, è venuto il poliziotto» disse mio padre, ingozzando tanto di quel cibo da non poter parlare per uno o due minuti. La signora Clamp fece un cenno col capo di fronte al pesce troppo salato e sorseggiò il tè. Borbottai qualcosa tra me e me, e mio padre, con le mascelle che parevano due lottatori di catch impegnati in un corpo a corpo, mi lanciò un’occhiata.

Non fu aggiunto altro sull’argomento.


Sabato sera al Cauldhame. Me ne stetti lì come al solito, in fondo alla sala stipata e fumosa che sta sul retro dell’albergo, con la mia media chiara nel bicchiere di plastica, le gambe leggermente accavallate, la schiena appoggiata a una colonna rivestita di carta da parati, e Jamie il nano seduto sulle spalle che di tanto in tanto mi appoggiava la sua doppio malto in testa e si metteva a chiacchierare.

«Che hai fatto di bello in questi giorni, Frankie?»

«Mica tanto. Ho steso un paio di conigli l’altro giorno, ed Eric continua a farmi telefonate inquietanti. È tutto. E tu che mi racconti?»

«Niente di particolare. Com’è che Eric ti chiama?»

«Non sai niente?» dissi io, voltando la testa per guardarlo in faccia. Lui si appoggiò meglio e abbassò la testa per guardarmi. Che strana la faccia della gente se la guardi al contrario. «Oh, è scappato.»

«Scappato???»

«Zitto. Se ancora non si sa in giro, è meglio non farlo sapere. Già, se l’è squagliata. Ha chiamato a casa un paio di volte. Dice che sta venendo da queste parti. Diggs è venuto ad avvisarci il giorno che è scappato.»

«Cristo. Lo stanno cercando?»

«Angus dice di sì. Non hanno dato la notizia? Pensavo che tu già lo sapessi.»

«Macché. Gesù. Pensi che lo diranno in paese se non lo prendono?»

«Che ne so.» Mi venne da scrollare le spalle.

«Che succede se si mette di nuovo a bruciare i cani? Merda. E quei vermi che faceva ingozzare ai ragazzini! In paese si incazzeranno da morire.» Lo sentii scuotere la testa.

«Penso che terranno segreta la notizia. Forse credono di acchiapparlo in fretta.»

«Credi che lo prenderanno?»

«Oh, e che ne so. Sarà pazzo, ma è anche furbo. Se non fosse stato furbo non sarebbe riuscito a scappare, e poi quando chiama sembra sveglio. Sveglio ma fuori di testa.»

«Non sembri granché preoccupato.»

«Spero che ce la faccia. Mi farebbe piacere rivederlo. E mi piacerebbe vederlo farsi tutta quella strada soltanto per… così.» Feci un sorso di birra.

«Merda. Spero che non si metta a fare cazzate.»

«È probabile. È l’unica cosa che mi preoccupa. Credo che i cani non gli piacciano più. Comunque, i ragazzini possono stare tranquilli.»

«Come si muove? Ti ha detto come intende arrivare qui? Ce li ha i soldi?»

«Qualche soldo deve avercelo, almeno per telefonare. Ma più che altro rubacchia qua e là.»

«Dio. Be’, certo non si può biasimarlo per essere scappato da una gabbia di matti.»

«Già» dissi io. Intanto erano arrivati quelli che dovevano suonare, un gruppo punk di Inverness che si chiamava The Vomits. Il cantante aveva la cresta e un sacco di lampo e di catene. Afferrò il microfono mentre gli altri tre cominciavano a pestare gli strumenti, e si mise a urlare:

La mia morosa mi ha smollato

e io questo magone di merda me lo tengo

Ho pure perso il lavoro

e quando mi sparo le seghe non vengo…

Mi sistemai meglio con le spalle appoggiate al muro e bevvi un sorso. Intanto Jamie si era messo a sbattermi i piedi addosso e a gridare, con la musica frastornante che tuonava nella sala sudata. Sembrava che ci fosse da divertirsi.


Durante l’intervallo, mentre un barista portava secchio e straccio sotto il palco, dove tutti quanti si erano messi a sputare, io andai a prendere ancora da bere.

«Il solito?» fece Duncan da dietro al banco. Jamie annuì. «Come va, Frank?» disse rivolgendosi a me, poggiando sul banco una chiara e una doppio malto.

«Bene. E tu?» dissi io.

«Si tira a campare. Ne vuoi ancora di bottiglie vuote?»

«No, grazie, ne ho abbastanza per la mia birra.»

«Ti farai vedere ancora qui in giro, vero?»

«Ma certo» dissi. Duncan si sporse per dare a Jamie la sua birra e io presi la mia, lasciando contemporaneamente i soldi.

«Vi saluto, ragazzi» disse Duncan mentre ci voltavamo per tornare alla colonna.


Qualche birra più tardi, quando i Vomits erano al primo bis, ci mettemmo a ballare, a saltare su e giù, e Jamie urlava e batteva le mani e ballava sulle mie spalle. Non mi scoccia ballare con le ragazze quando lo faccio per Jamie, anche se una volta mi chiese di andare fuori insieme a lui perché doveva baciarsi con una cavallona altissima. Il pensiero di quelle tette che mi schiacciavano la faccia mi fece quasi salire il vomito, cosicché dovetti abbandonare per forza il mio amico. Comunque, la maggior parte delle punk non sanno esattamente di profumo, e solo alcune portano la gonna, e soltanto minigonne di pelle. Io e Jamie ci beccammo un bel paio di spintoni e rischiammo quasi di cadere a terra, ma ce la cavammo bene, riuscendo a reggere tutta la notte senza farci neanche un graffio. Purtroppo Jamie si mise a parlare con una tizia, ma io avevo già il mio daffare a cercare di respirare profondamente e a mantenermi in piedi per preoccuparmi di quello che faceva lui.

«Sì, presto avrò una moto, una due e cinquanta, naturalmente» diceva Jamie. Io ascoltavo solo a metà. Non avrebbe mai avuto una moto perché non ce l’avrebbe fatta a raggiungere i pedali, ma io non avrei detto nulla neanche se avessi potuto, perché non è proprio il caso di dire la verità alle donne e poi, come si suol dire, a questo servono gli amici. Quando riuscii a vedere meglio la ragazza, notai che era una ventenne dall’aria rozza, e aveva sulle palpebre una quantità di strati che sembravano dati col rullo. Fumava una schifosa sigaretta francese.

«La mia amica Sue s’è fatta la moto, una Suzuki 185GT che era del fratello, prima, ma poi se l’è presa lei e adesso si sta mettendo da parte i soldi che si vuole fare una Gold Wing.»

Stavano tirando su le sedie e sistemando il casino e i bicchieri rotti e le buste infradiciate delle patatine, e io ancora non mi sentivo tanto bene. La ragazza più la sentivo parlare peggio mi pareva. Aveva un accento terribile: veniva da qualche parte della costa occidentale. Glasgow, forse. Non me ne meraviglierei.

«Io una di quelle lì non la vorrei proprio, sono troppo pesanti. Una cinquecento, che ne so. Mi piacerebbe un casino una Moto Guzzi, ma mica sono tanto sicura, cioè, dell’albero motore…»

Cristo. Stavo per fare una vomitata bella colorata sul giubbotto della ragazza, le avrei arrugginito le cerniere e le avrei riempito le tasche e gli strappi, e forse Jamie al primo spaventoso conato sarebbe finito dall’altra parte della sala, sopra alle casse di birra vicino agli altoparlanti. Ecco cosa ne sarebbe stato delle fantasticherie motociclistiche di quei due.

«La vuoi una paglia?» disse la ragazza, sbattendomi in faccia il pacchetto per offrirlo a Jamie. Vidi la stria azzurra e lucente lasciata dal pacchetto che mi passava davanti, e continuai a vederla anche dopo. Jamie doveva aver preso una sigaretta anche se sapevo che non fumava, perché vidi l’accendino salire verso l’alto e accendersi davanti ai miei occhi con una pioggia di scintille, come un fuoco d’artificio. Sentivo che il mio lobo occipitale era sul punto di fondere. Pensai di fare qualche battuta a Jamie dicendogli che gli si sarebbe arrestata la crescita, ma tutto ciò che proveniva dal mio cervello sembrava comprimersi sotto la spinta dei messaggi urgenti che le budella mi inviavano. Sentivo un immondo tramestio su e giù nello stomaco, e ormai non avevo più dubbi su come sarebbe andata a finire, ma non riuscivo a muovermi. Me ne stavo immobile a fare da piedistallo tra il pavimento e la colonna, e Jamie era rimasto a parlottare con la ragazza del rumore che faceva una Triumph e delle corse che lei si era fatta di notte lungo le coste del Loch Lomond.

«Sei qui in vacanza, o cosa?»

«Sì, insieme alle mie amiche e c’ho pure il moroso, ma sta alla piattaforma petrolifera.»

«Mmm…»

Respiravo sempre profondamente, cercando di snebbiarmi il cervello con l’ossigeno. Non riuscivo proprio a capire come facesse Jamie. Era alto la metà di me, pesava la metà o anche meno, ma qualunque cosa ci bevessimo insieme, lui rimaneva sempre tranquillo. Di sicuro non le rovesciava per terra di nascosto, le sue birre: gli schizzi sarebbero arrivati addosso a me se lo avesse fatto. Mi resi conto che la ragazza si era finalmente accorta di me. Mi diede uno scossone alla spalla, e mi accorsi gradualmente che non era la prima volta che lo faceva.

«Ehi!» mi disse.

«Che c’è?» dissi io barcollando.

«Tutto bene?»

«Sì» annuii lentamente, sperando che si accontentasse di quella risposta, poi mi guardai attorno e mi voltai da una parte con lo sguardo rivolto verso l’alto, come se tutt’a un tratto avessi trovato sul soffitto qualcosa di molto interessante e importante a cui rivolgere la mia attenzione. Jamie mi diede un colpetto col piede. «Che c’è?» ripetei, senza cercare di guardarlo in faccia.

«Hai intenzione di startene qua tutta la notte?»

«Che? No. Di’, siete pronti voi due? Okay.» Allungai le mani all’indietro per cercare il muro, lo trovai e mi tirai su, con la speranza di non scivolare sul pavimento fradicio di birra.

«Forse faresti meglio a mettermi giù, amico» disse Jamie, continuando a darmi dei calci. Guardai verso l’alto e poi di nuovo di lato, come se volessi voltarmi verso di lui, poi annuii. Mi lasciai scivolare con la schiena attaccata alla colonna fino a ritrovarmi praticamente con le chiappe per terra. La ragazza aiutò Jamie a saltare giù. Da quell’angolazione, nella sala illuminata a giorno, i capelli rossi di lui e quelli biondi di lei si fecero improvvisamente abbaglianti. Duncan si stava avvicinando con lo spazzolone e il secchio, e intanto vuotava i posacenere e dava una pulita intorno. Mi alzai a stento, poi mi accorsi che Jamie e la ragazza mi stavano afferrando da sotto alle braccia per aiutarmi. Stavo cominciando a vedere triplo, chiedendomi come fosse possibile, visto che gli occhi erano due. Non capivo se mi stavano dicendo qualcosa oppure no.

«Ehi» dissi, nel caso mi stessero parlando davvero, poi mi resi conto che mi portavano fuori, all’aria fresca, attraverso l’uscita di sicurezza. Avevo bisogno del bagno, e a ogni passo mi pareva che le budella mi si contorcessero sempre di più. Avevo una sensazione orribile: il mio corpo sembrava diviso in due parti uguali, una parte tratteneva la piscia, l’altra tratteneva la birra non digerita, il whisky, le patatine, le arachidi tostate, la saliva, il moccio, la bile e uno o due bocconi di pesce con patate. Qualche anfratto malato del mio cervello si mise a pensare improvvisamente alle uova fritte belle unte adagiate su di un piatto, circondate da riccioli incavati di pancetta in mezzo a una pozza di grasso, col bordo del piatto incrostato di grumi coagulati. Lottai contro il bisogno impellente e agghiacciante che mi saliva dallo stomaco. Cercai di pensare a qualcosa di carino; poi, quando non mi venne in mente niente, decisi di concentrarmi su quello che succedeva intorno a me. Stavamo fuori dal Cauldhame Arms, e camminavamo sui marciapiede davanti alla banca, con Jamie che mi teneva da una parte e la ragazza dall’altra. Era una serata fredda e nuvolosa, accesa da luci al sodio. Ci lasciammo alle spalle l’odore del pub, e io cercai di farmi entrare in testa un po’ d’aria fresca. Ero consapevole del mio equilibrio instabile, e di tanto in tanto crollavo addosso a Jamie o alla ragazza, ma non potevo farci niente. Mi sentivo come uno di quei dinosauri preistorici, talmente grossi che avevano un cervello a parte per controllare le zampe posteriori. Mi sembrava di avere un cervello per ogni organo del corpo, solo che tutti questi cervelli avevano interrotto le relazioni diplomatiche. Barcollavo e inciampavo di continuo cercando di fare del mio meglio, fidando nella fortuna e nelle due persone che erano con me. A dire il vero, non è che avessi una gran fiducia in quei due, visto che Jamie era troppo basso per tenermi nel caso in cui avessi rischiato seriamente di cadere, e la ragazza era una ragazza. Forse troppo debole; e anche se così non fosse stato, di sicuro avrebbe lasciato che mi spaccassi il cranio sul marciapiede, perché alle donne piace vedere gli uomini in difficoltà.

«T’attacchi sempre addosso a ’sto modo, cioè così, insomma?» disse la ragazza.

«Così come?» disse Jamie, senza, pensai, la giusta dose di indignazione preventiva.

«Che ti metti sopra alle spalle.»

«Oh, no, è solo che così i concerti li vedo meglio.»

«Graziaddio. Mi credevo che pure al cesso c’andavi così.»

«E sì. Ci ficchiamo dentro a un cesso e Frank piscia nel vaso e io nella cassetta dello scarico.»

«Non sfottere!»

«Veramente!» disse Jamie con una voce distorta da una smorfia. Io cercavo di andare avanti come meglio potevo, e intanto mi sorbivo tutte quelle stronzate. Mi dava un certo fastidio quello che diceva Jamie a proposito di come andavo al cesso, anche se scherzava. Lo sa quanto sono sensibile riguardo a quella cosa. Soltanto una volta o due mi ha rinfacciato di non aver mai partecipato a un’attività molto interessante, quella di andare nel bagno dei maschi del Cauldhame (o di qualunque altro posto) ad attaccare le cicche di sigarette negli orinatoi con torrenti di piscio.

Ammetto di aver guardato Jamie che lo faceva e di averne ricevuta una certa impressione. Il Cauldhame Arms si presenta particolarmente adatto a quell’attività, avendo un unico lunghissimo orinatoio che si estende per tutta una parete e arriva alla metà di quella successiva, con un solo buco di scolo. Secondo Jamie lo scopo del gioco è quello di spingere una cicca inzuppata, da qualunque parte del canale si trovi, su e giù dal buco scoperto, cercando di separare gli strati del filtro quanto più è possibile. I punti si segnano dal numero di scanalature nella ceramica oltre le quali si riesce a mandare il mozzicone (con aggiunta di punti in caso il buco venisse centrato o il percorso venisse completato dall’estremità del canale fino al buco) oppure dal grado di distrazione che si riesce a causare — a ben vedere è molto difficile disintegrare il cilindretto scuro dalla parte bruciata — e, a fine serata, dal numero di cicche totalizzate.

Il gioco può essere fatto, in forma ridotta, anche negli orinatoi singoli di forma semisferica che vanno più di moda oggi, ma Jamie non ci ha mai provato, perché è talmente basso che per usare uno di quegli aggeggi deve rimanere a circa un metro di distanza e svuotarsi la vescica con un getto a parabola.

In ogni caso, sembrerebbe che ci siano diversi modi per rendere più interessante una pisciata lunga, ma non è roba per me, grazie al mio crudele destino.

«Che è tuo fratello o che cosa?»

«No, è un mio amico.»

«Sempre così fatto?»

«Già. Il sabato sera sì.»

Questa è una clamorosa bugia, naturalmente. È raro che mi sbronzi al punto di non poter parlare o camminare in posizione eretta. Gliene avrei dette quattro a Jamie, se avessi avuto la capacità di parlare e non avessi dovuto concentrarmi a mettere un piede di seguito all’altro. Non avevo la certezza che avrei saputo trattenere il vomito, ma quella stessa parte irresponsabile e distruttrice del mio cervello — soltanto qualche neurone, probabilmente, ma credo che ne bastino pochi, di elementi criminali, per dare al resto del cervello una pessima fama — continuò a pensare a quelle uova fritte con la pancetta fredda, e appena quella scena mi tornava in mente mi saliva su un conato. Ci volle una buona dose di forza di volontà per pensare all’aria delle colline o alle ombre che getta l’acqua sulla sabbia solcata, cose che ho sempre creduto recassero in sé un senso di chiarezza e freschezza e che mi sarebbero state d’aiuto per distrarre il cervello dall’impicciarsi del contenuto del mio stomaco.

Comunque, avevo un disperato bisogno di pisciare, anche più di prima. Jamie e la ragazza stavano a qualche centimetro di distanza da me, tenendomi per le braccia, e spesso finivo addosso all’uno o all’altra, ma la mia ubriachezza aveva raggiunto uno stato — nel momento in cui le ultime due birre ingollate insieme con un whisky mi arrivarono nel sangue che scorreva all’impazzata — che avrei anche potuto trovarmi su di un altro pianeta, per la speranza che avevo di far capire loro quello di cui avevo bisogno. Mi camminavano di lato, da una parte e dall’altra, e parlavano tra loro, biascicando emerite stronzate come se si trattasse di argomenti importantissimi, e io, con più cervello di tutti e due messi assieme e con informazioni di vitale importanza, non riuscivo a farmi uscire una parola.

Doveva esserci un modo. Provai a scrollare la testa e a fare qualche altro respiro profondo. Raddrizzai l’andatura. Pensai molto attentamente alle parole e a come comporle. Diedi una controllata alla lingua e feci una prova con la gola. Dovevo riprendere il controllo. Dovevo comunicare. Mi guardai attorno quando attraversammo una strada; vidi il segnale per Union Street fissato su di un muretto basso. Mi voltai verso Jamie e poi verso la ragazza, mi schiarii la voce e dissi in modo piuttosto chiaro: «Non so se per caso voi due abbiate mai condiviso — oppure stiate tuttora condividendo, per quel che ne so, almeno tra di voi, e comunque senza includere me — la svista concettuale che io casualmente ho potuto notare nelle parole contenute in quel segnale, ma sta di fatto che io credevo che il termine “unione” presente in tale denominazione delineasse un’associazione di lavoratori, un sindacato, e mi era sembrata una cosa di stampo alquanto socialista da parte dei padri della città denominare in siffatto modo una strada. Aveva destato in me una certa impressione il fatto che forse non tutto era perduto sul versante delle prospettive per una possibile pacificazione o almeno per un cessate il fuoco nella lotta di classe se un simile riconoscimento del valore delle unioni dei lavoratori poteva trovare una realizzazione in un segnale relativo a una via così venerabile e importante, ma devo ammettere che la disillusione mi è giunta nel momento in cui mio padre — Dio possa perdonargli il suo senso dell’umorismo — mi ha fornito informazioni sul fatto che era l’unione recentemente confermata tra il parlamento inglese e quello scozzese che le autorità locali celebravano con tanta solennità e durevolezza (in concomitanza con centinaia di altri consigli municipali dell’intero territorio che fino ad allora era stato un regno indipendente) sicuramente con un occhio rivolto alle opportunità di profitto che questa recente forma di omaggio non disinteressato avrebbe presentato».

La ragazza si rivolse a Jamie: «Che, ha detto qualche cosa quello là?»

«Credevo si stesse solo schiarendo la gola» disse Jamie.

«Mi sa che s’è messo a parlare delle banane, o che ne so.»

«Banane?» disse Jamie incredulo, guardando la ragazza.

«Vabbé» disse lei guardandomi e scuotendo la testa. «Mo’ basta.»

Gran bella comunicazione, pensai. Evidentemente erano entrambi così ubriachi che neanche capivano la mia lingua grammaticalmente corretta. Sospirai profondamente guardando prima l’uno poi l’altra mentre continuavamo a scendere lentamente per la strada principale, passando davanti a Woolworth e ai semafori. Guardai dritto davanti a me e cercai di pensare a cosa mai avrei potuto fare. Mi aiutarono ad attraversare la strada successiva, mentre io quasi inciampavo sullo scalino del marciapiede. Improvvisamente mi resi conto della vulnerabilità del mio naso e dei denti davanti, nel caso fossero venuti a contatto con il granito dei selciati di Portneil a una qualunque velocità che superasse quella di una frazione di metro al secondo.

«Bella storia, io e una compagna mia ce ne siamo andate in giro in mezzo ai cosi della forestale, come si chiamano, i sentieri, sopra alle colline, a novanta all’ora, andavamo impennando a tavoletta.»

«Merda!»

Mio Dio, stavano ancora parlando di moto.

«Insomma mo’ dov’è che ce lo dobbiamo portare questo qua?»

«Da mia madre. Se è ancora in piedi ci fa un po’ di tè.»

«Tua madre?»

«Eh.»

«Ah.»

Mi venne come un lampo. Era talmente ovvio che non capivo come mai non mi fosse venuto in mente prima. Sapevo che non c’era tempo da perdere e che non era il caso di esitare — stavo proprio per scoppiare — così abbassai la testa e mi divincolai da Jamie e dalla ragazza, mettendomi a correre fino in fondo alla strada. Non mi restava altro che scappare, proprio come Eric, in modo tale da potermi trovare un posticino tranquillo per farmi una bella pisciata.

«Frank!»

«Porca troia, rompicazzo di merda, che cazzo fai adesso?»

Avevo ancora la strada sotto i piedi, che si muovevano più o meno come si dovevano muovere. Sentivo Jamie e la ragazza che mi correvano dietro gridando, ma io avevo già superato la vecchia friggitoria e il monumento ai caduti e stavo prendendo velocità. La vescica tirata certo non mi aiutava, ma neanche mi impediva nei movimenti come avrei temuto.

«Frank, torna indietro! Frank, fermati! Cosa c’è che non va, Frank? Frank, bastardo fottuto, ti romperai l’osso del collo!»

«Ma lascialo andare, quel testa di cazzo!»

«No, è amico mio. Frank!»

Girai l’angolo in Bank Street, mi ci buttai a capofitto mancando di poco due lampioni, schizzai a sinistra in Adam Smith Street e arrivai al garage di McGarvie. Mi buttai nel cortile e andai di corsa dietro a una pompa, ruttando e ansimando e sentendomi il cuore in gola. Mi calai i pantaloni e mi accovacciai, appoggiandomi con la schiena alla pompa principale, col respiro che diventava sempre più affannoso man mano che la pozza di piscio fumante si raccoglieva sul selciato rugoso dell’area di rifornimento.

Sentii un rumore di passi, e un’ombra mi si avvicinò da destra. Mi voltai di fianco e vidi Jamie.

«Ah ah ah» rantolò, appoggiandosi con una mano a un’altra pompa per tenersi in equilibrio, piegato un po’ in avanti e con lo sguardo rivolto a terra, e con l’altra mano poggiata su un ginocchio, ansimante. «Ecco… ah… eccoti… eccoti qua… uhf uhf…» Si mise a sedere sul basamento delle pompe e guardò per un attimo verso il vetro scuro dell’ufficio. Mi sedetti anch’io, lasciandomi cadere contro la pompa, scrollandomi le ultime gocce. Inciampai all’indietro e mi misi giù sul basamento, poi mi rialzai barcollando e mi tirai su i calzoni.

«Perché l’hai fatto?» disse Jamie, ancora ansimante.

Gli feci un cenno, armeggiando con la cintura. Stavo per sentirmi male di nuovo, inalando zaffate di fumo dai vestiti impregnati.

«Mi d-disp…» stavo cominciando a dire che mi dispiaceva, ma le parole mi si trasformarono in un conato. La parte malsana del mio cervello pensò improvvisamente alle uova con la pancetta unta di grasso e di nuovo il mio stomaco ebbe uno sbuffo. Mi piegai in due, col ventre squassato dai conati, e sentii le budella contrarsi come se avessi un malloppo in corpo, qualcosa di vivo, indipendentemente dalla mia volontà. Mi sentivo come penso che debba sentirsi una donna incinta con un bambino dentro che scalcia. La gola mi raspava con la forza di un motore d’aereo. Jamie mi raccolse mentre stavo per cadere. Rimasi lì come un coltello a serramanico mezzo aperto, schizzando tutt’intorno il cortile. Jamie mi cacciò una mano attorno alla vita per non farmi cadere di faccia, e mi tenne con l’altra mano la fronte, borbottando qualcosa. Continuai a dare di stomaco; cominciavo a stare veramente male. Gli occhi mi si erano riempiti di lacrime, mi colava il naso e la testa me la sentivo come un pomodoro maturo, pronta a scoppiare. Lottavo per prendere fiato tra un conato e l’altro, e intanto buttavo giù grumi di vomito e tossivo e contemporaneamente sputavo. Mi sentivo emettere rumori orribili, come quelli che faceva Eric al telefono in preda alle sue follie, e speravo che nessuno passasse in quel momento, che nessuno mi vedesse in quello stato indegno e indifeso. Mi fermai, per un attimo credetti di sentirmi meglio, poi ricominciai a muovermi e mi sentii dieci volte peggio. Mi spostai da una parte, con Jamie che mi aiutava, e mi misi bocconi in un angolo relativamente pulito del selciato, dove c’erano le macchie di grasso più vecchie. Tossii e sputacchiai, con lo stomaco che mi sobbalzava ripetutamente in gola, poi caddi all’indietro tra le braccia di Jamie, stringendomi le gambe al petto per alleviare i dolori ai muscoli gastrici.

«Meglio, adesso?» disse Jamie. Annuii. Mi piegai in avanti, in modo da sedermi sui talloni, con la testa tra le ginocchia. Jamie mi incoraggiava. «Aspetta un attimo, Frankie.» Lo sentii allontanarsi e tornare dopo pochi secondi. Aveva preso dei ruvidi pezzi di scottex dal rotolo del distributore. Mi asciugò la bocca con uno strappo, il resto del viso con un altro. Poi li raccolse e li buttò nell’immondizia.

Anche se ero ancora in preda ai fumi dell’alcol e avevo dei dolori atroci allo stomaco, anche se la gola me la sentivo come se due porcospini ci stessero facendo a botte dentro, stavo molto meglio. «Grazie» riuscii ad articolare, e cominciai a fare dei tentativi per mettermi in piedi. Jamie mi aiutò a tirarmi su.

«Cristo, ma in che stato ti riduci, Frank!»

«Mm» dissi, strofinandomi gli occhi con la manica e guardandomi attorno per vedere se eravamo ancora soli. Diedi un paio di pacche sulla spalla a Jamie e ci dirigemmo verso la strada.

Percorremmo la strada deserta, io respiravo profondamente e Jamie mi teneva per un gomito. La ragazza se n’era andata, c’era da aspettarselo, ma a me non dispiaceva per niente.

«Perché te ne sei scappato a quel modo?»

Scossi la testa. «Avevo bisogno.»

«Che?» disse Jamie ridendo. «Perché non l’hai detto?»

«Non potevo.»

«Solo perché c’era la ragazza?»

«No» dissi, e tossii. «Non potevo parlare. Ero troppo fuori.»

«Eh?» rise ancora Jamie.

Feci un cenno di assenso. «Già» dissi. Jamie continuò a ridere e scosse la testa. Proseguimmo il nostro cammino.

La madre di Jamie era ancora in piedi, così ci fece una tazza di tè. È un donnone che porta sempre la stessa vestaglia verde ogni volta che la vedo, cioè quelle sere che dopo il pub io e Jamie finiamo a casa sua, cosa che avviene piuttosto spesso. Non è troppo scortese, anche se finge di apprezzarmi molto più di quanto io so che in realtà mi apprezzi.

«Ehi, ragazzino, non hai una gran bella cera. Qua, siediti che ti faccio subito subito un po’ di tè. Povero piccolo!» Non mi mossi di un millimetro dalla sedia del soggiorno intanto che Jamie appendeva le giacche. Lo sentivo saltellare nell’ingresso.

«Grazie» gracchiai, con la gola secca.

«Ecco a te, cucciolotto. Vuoi che alzi il riscaldamento? Hai freddo?»

Scossi la testa, e lei sorrise e mi fece un cenno col capo e mi diede una pacca sulla spalla e sgattaiolò in cucina. Jamie arrivò e si mise a sedere sul divano, accanto alla mia sedia. Mi guardò, mi fece un ghigno e scosse la testa.

«In che stato! In che stato!» disse sbattendo le mani e sbilanciandosi in avanti, coi piedi dritti davanti a lui. Io roteai gli occhi e guardai da un’altra parte. «Non ti preoccupare, Frankie, amico mio. Un paio di tazze di tè e starai bene.»

«Ummf» riuscii a dire, con un brivido.


Andai via verso l’una, l’ubriachezza era calata e le viscere mi scoppiavano per tutto il tè che avevo ingurgitato. Lo stomaco e la gola erano tornati quasi a posto, anche se avevo ancora la voce impastata. Diedi la buonanotte a Jamie e alla madre e mi avviai verso la periferia del paese, dirigendomi verso il sentiero che porta all’isola. Percorsi il sentiero al buio, ogni tanto lo illuminavo con la torcia, e mi diressi alla volta del ponte, verso casa.

Fu una passeggiata tranquilla attraverso le paludi, le dune e la campagna. A parte i pochi rumori che facevo camminando, altro non sentivo che il rombo lontano e sporadico dei camion che attraversavano il paese. Il cielo era quasi completamente ricoperto dalle nuvole, e la luna faceva poca luce, e non c’era nessuno intorno a me.

Mi ricordo che una volta, era l’estate di due anni fa, mentre scendevo per il sentiero a tramonto inoltrato dopo una giornata in giro per le colline, vidi delle strane luci nel buio che iniziava a calare, delle luci che slittavano nell’aria e sovrastavano l’isola. Si agitavano e si muovevano in modo inquietante, scintillavano, si spostavano, bruciavano come se fossero solide e pesanti, non sembrava che si stessero muovendo nell’aria. Mi fermai a guardarle per un po’, puntandoci sopra il mio binocolo. Per un istante, tra le immagini cangianti disegnate dalla luce, mi sembrò di scorgere qualche forma. Un brivido mi percorse allora le membra, e la mia mente cercò con tutte le sue forze di ragionare e capire cosa stessi vedendo. Lanciai un’occhiata veloce verso l’oscurità e poi mi voltai ancora verso quelle torri mute e lontane di fiamme traballanti. Erano sospese nel cielo come volti di fuoco che guardassero verso l’isola, come se stessero aspettando.

Allora mi venne in mente una cosa, e capii.

Un miraggio, un riflesso che si propagava dall’acqua del mare all’aria. Stavo guardando le fiammate gassose delle piattaforme petrolifere a centinaia di chilometri di distanza, nel Mare del Nord. Tornando con lo sguardo alle forme che avvolgevano le luci, mi accorsi che erano le piattaforme stesse, che si stagliavano sfumate contro il proprio bagliore gassoso. La cosa mi rallegrò, mi rese ancora più felice di quanto lo fossi prima di scorgere le strane apparizioni, e mi venne in mente che magari qualcuno che avesse avuto meno immaginazione di me, e che nello stesso tempo fosse stato meno razionale, sarebbe giunto alla conclusione di aver visto degli UFO.

Alla fine arrivai all’isola. La casa era immersa nell’oscurità. Rimasi a guardarla al buio, appena consapevole della sua presenza fisica sotto i fievoli raggi di una luna spezzata, e pensai che sembrava più grande di quello che in realtà era. Pareva la testa di un gigante di pietra, un imponente teschio che alla luce della luna mostrasse le sue forme e i suoi ricordi, con lo sguardo fisso verso il mare, attaccato a un corpo grosso e potente sepolto nella roccia e nella pietra, pronto a scrollarsi, a liberarsi, a disseppellirsi a qualche misterioso comando o segnale. La casa guardava fisso verso il mare, verso la notte, e io ci entrai.

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