3. Nel Bunker

I miei peggiori nemici sono le Donne e il Mare. Queste sono le cose che odio. Le Donne perché sono deboli e stupide e vivono all’ombra degli uomini e non valgono nulla a confronto, e il Mare perché mi ha sempre deluso, distruggendo ciò che io costruivo, lavando via ciò che lasciavo, cancellando le tracce che imprimevo. Credo che la colpa sia in parte anche del Vento.

Il Mare è una specie di nemico mitologico, e io gli dedico in cuor mio pratiche che si potrebbero definire sacrificali, un po’ lo temo, lo rispetto quanto si merita, e comunque lo tratto, in un modo o nell’altro, da pari a pari. Il Mare agisce sul mondo, e io pure; bisognerebbe temerci entrambi. Le Donne… mah, le donne, per quanto mi riguarda, mi mettono un po’ a disagio. Non mi piace che ci siano donne sull’isola, neanche la signora Clamp, che viene il sabato, ogni settimana, a pulire la casa e a portarci le provviste. È vecchissima, e asessuata, come lo sono le persone molto vecchie e quelle molto giovani, comunque è stata una donna anche lei, e questo mi scoccia, per le mie buone ragioni.


Mi svegliai il giorno dopo chiedendomi se mio padre fosse tornato o meno. Senza stare a vestirmi, mi diressi verso la sua stanza. Stavo per aprire la porta, ma prima che potessi girare la maniglia lo sentii russare, così mi voltai e andai in bagno.

Nel bagno, dopo una pisciata, mi dedicai al solito rituale delle abluzioni. Prima di tutto feci la doccia. La doccia è l’unico momento nell’arco delle ventiquattr’ore in cui mi levo le mutande. Mi tolsi il paio che avevo indosso e lo misi nella sacca dei panni sporchi. Mi lavai con cura, cominciando dai capelli e finendo coi piedi, in mezzo alle dita e sotto le unghie. Certe volte, quando ho bisogno di sostanze preziose come il formaggio delle unghie dei piedi o la pappetta dell’ombelico, mi tocca stare senza doccia per giorni e giorni. Detesto farlo, perché mi sento subito puzzolente e mi vengono i pruriti, e l’unico lato positivo di queste astinenze è che alla fine ci si sente davvero bene a lavarsi.

Dopo la doccia e una veloce strofinata prima con una salvietta, poi con l’asciugamano, mi tagliai le unghie. Poi mi lavai bene i denti con lo spazzolino elettrico. Quindi passai alla barba. Uso sempre la schiuma da barba e gli ultimi ritrovati nel settore rasoi (il bilama a testina snodabile è al momento il meglio del meglio), e tiro via con abilità e precisione la peluria morbida e scura cresciuta in un giorno e una notte. Come tutte le mie abluzioni, anche la rasatura segue uno schema definito e prestabilito; mi do lo stesso numero di rasoiate della stessa misura e nella stessa sequenza tutti i giorni. Come sempre, sentii anche stavolta un crescente formicolio di eccitazione man mano che contemplavo la superficie meticolosamente rasata del mio viso.

Mi soffiai il naso e me lo nettai con cura, mi lavai le mani, pulii il rasoio, il tagliaunghie, la doccia e il lavandino, sciacquai la salvietta e mi pettinai. Per fortuna non avevo neanche un brufolo. Non mi restava che lavarmi per l’ultima volta le mani e infilarmi un paio di mutande pulite. Misi a posto con estrema precisione tutta la roba che avevo usato per lavarmi, asciugamani, rasoio e tutto il resto, asciugai un po’ di vapore dallo specchio dell’armadietto e tornai in camera mia.

Mi misi le calze; verdi andavano bene. Poi una camicia color caki con le tasche. D’inverno mi metto anche la canottiera e una maglia verde militare sopra alla camicia, ma non d’estate. Poi mi infilai i calzoni a costine, quindi gli scarponi kickers marroncini, con la marca staccata, cosa che faccio del resto con tutto ciò che mi metto addosso perché non voglio fare da pubblicità ambulante per nessuno. La mia giacca da combattimento, il coltello, le borse, la fionda e tutto il resto dell’attrezzatura lo portai con me giù in cucina.

Era ancora presto, e la pioggia che avevo sentito annunciare la notte precedente sembrava quasi pronta a cadere. Feci una modesta colazione; era tutto pronto.

Uscii nella fresca umidità del mattino, camminando in fretta per non sentire freddo e arrivare all’isola prima che cominciasse a piovere. Le colline di là dal paese erano nascoste dalla nebbia, e il mare era in burrasca perché si era rinforzato il vento. L’erba era greve di rugiada. Gocce di bruma piegavano i fiori non dischiusi e si attaccavano anche ai miei Pali Sacrificali, come limpido sangue, sulle teste avvizzite e sui corpi sottili e ormai rinsecchiti.

A un certo punto un paio di aerei fischiarono sorvolando l’isola, due velocissimi Jaguar che procedevano affiancati a un centinaio di metri d’altezza e attraversarono l’isola in un batter d’occhio, sfrecciando verso il mare. Una volta, un paio d’anni fa, altri due aerei mi fecero fare un bel salto. Dopo aver fatto esercitazioni con le bombe sulla zona che sta proprio sotto al fiordo, si misero a volare basso sull’isola, al di sotto dei limiti consentiti, provocando un rumore improvviso e assordante che mi fece sobbalzare proprio mentre mi dedicavo a una delicata operazione: attirare in un barattolo una vespa che avevo trovato nel vecchio tronco d’albero vicino al recinto delle pecore, all’estremità settentrionale dell’isola. La vespa mi punse.

Quel giorno stesso andai in paese, comprai un modellino di Jaguar in plastica, lo montai nel pomeriggio e con gran cerimoniale lo feci saltare per aria sul tetto del Bunker con una piccola bomba a tubo. Due settimane dopo un Jaguar si schiantò in mare al largo di Nairn, anche se il pilota fece in tempo a lanciarsi fuori. Vorrei credere che in quell’occasione fosse entrato in azione il Potere, ma ho il sospetto che si sia trattato di pura coincidenza; i jet ad alte prestazioni si schiantano così spesso che non c’era da stupirsi che la mia distruzione simbolica e quella reale fossero avvenute a due settimane di distanza l’una dall’altra.

Mi misi a sedere sull’argine terroso che dà sul Torrente di Fango e mangiai una mela. Mi appoggiai con la schiena all’albero ancora giovane che in passato, quand’era ancora un arboscello, aveva svolto il ruolo di Assassino. Era cresciuto, adesso, ed era diventato un bel po’ più alto di me, ma parecchi anni fa, quando eravamo grandi uguale, l’albero mi faceva da catapulta fissa per la difesa degli approdi meridionali dell’isola. Allora, come adesso, era rivolto verso l’esterno, sul vasto torrente e sul fango color bronzo duro, con il relitto decrepito d’un vecchio peschereccio che vi spuntava.

Dopo la “Storia del vecchio Saul” assegnai all’albero un’altra funzione, e diventò l’Assassino, flagello di criceti, topi e gerbilli.

Mi ricordo che era capace di far volare una pietra grossa quanto un pugno ben oltre il torrente, sulla terraferma, con un raggio d’estensione, all’interno dei terreni ondulati, di venti metri e passa; una volta entrato in sintonia col ritmo naturale della catapulta, arrivai a sparare un colpo ogni due secondi. Potevo posizionare i proiettili in un raggio d’azione di sessanta gradi variando la direzione in cui tiravo su e giù l’alberello. Non è che a ogni sparo, ogni due secondi, mi servissi di animaletti; ne utilizzavo pochi alla settimana. Per sei mesi fui il miglior cliente del negozio di animali di Portneil, ci andavo ogni sabato per procurarmi un paio di bestiole, e ogni mese per comprare un tubo di volani da badminton, sempre nello stesso negozio. Dubito che qualcuno abbia mai messo le due cose in relazione, a parte me.

Avevo uno scopo ben preciso, questo è certo; pochissime delle cose che faccio sono immotivate, in un modo o nell’altro. Stavo cercando il teschio del Vecchio Saul.


Lanciai il torsolo della mela oltre il torrente. Sprofondò lontano, nel fango dell’argine, con un bel risucchio. Decisi che era giunto il momento di esaminare per bene l’interno del Bunker, e mi avviai lungo l’argine ad andatura sostenuta, aggirando la duna più a sud per dirigermi al vecchio sgabuzzino. Mi fermai a guardare la costa. Sembrava non ci fosse niente di interessante là, ma mi venne in mente la lezione del giorno precedente, quando avevo fatto una sosta per annusare l’aria e tutto mi era sembrato a posto, e dieci minuti dopo stavo combattendo con un coniglio kamikaze. Affrettai il passo, allontanandomi dalla duna per avvicinarmi alla linea dei detriti vomitati dal mare.

C’era una bottiglia. Un nemico davvero di poca importanza, e poi era vuota. Scesi verso la riva e scagliai in mare la bottiglia. Venne a galla, col collo rivolto verso l’alto, a dieci metri di distanza. La marea non aveva ancora ricoperto i ciottoli, così ne raccolsi una manciata e mi misi a scagliarli contro la bottiglia. Era piuttosto vicina, tanto da permettermi lanci dal basso verso l’alto. I sassolini che avevo scelto erano tutti più o meno della stessa misura, quindi ebbi la possibilità di fare tiri molto precisi: quattro finirono in acqua, il quinto mandò in frantumi il collo della bottiglia. Una vittoria da niente, perché le bottiglie le avevo già sconfitte definitivamente da tempo, subito dopo aver imparato a fare i lanci, quando per la prima volta avevo capito che il mare era un nemico. Nonostante tutto, di tanto in tanto continuava a mettermi a dura prova, il mare, e io non ero proprio nello spirito adatto per permettere la benché minima invasione del mio territorio.

La bottiglia andò a fondo. Tornai alle dune, salii in cima a quella su cui stava il Bunker, mezzo sepolto nella sabbia, e diedi un’occhiata intorno con il binocolo. La costa era limpida, anche se il tempo non lo era. Scesi verso il Bunker.

La porta di ferro l’avevo riparata da parecchi anni, allentando i cardini arrugginiti e stringendo le guide di scorrimento per la spranga. Tolsi la chiave dal lucchetto e aprii la porta. Dentro c’era un odore familiare di cera, di bruciato. Chiusi la porta e ci appoggiai dietro un puntello di legno, quindi restai immobile un attimo ad aspettare che gli occhi e la mente si adattassero al buio e alle sensazioni tattili del posto.

Dopo un po’ cominciai a intravedere qualcosa alla luce che filtrava dalla tela di sacco appesa alle due strette fessure che facevano da finestre. Mi tolsi lo zaino e il binocolo e li appesi ai chiodi conficcati nel muro mezzo sgretolato. Presi la latta con i fiammiferi e accesi le candele. Fecero una fiammata giallastra e io mi inginocchiai con i pugni stretti e mi misi a pensare. Avevo trovato l’attrezzatura per fare le candele nell’armadio sotto la scala cinque o sei anni prima, e per mesi avevo fatto pratica con i colori e le varie consistenze prima che mi saltasse in mente di usare la cera come prigione per le vespe. Alzai lo sguardo e vidi la testa di una vespa che spuntava dall’alto di una candela sull’altare. Sulla candela che avevo appena acceso, di color rosso sangue e grossa quanto il mio polso, c’erano la fiamma immobile e la testolina nel suo guscio di cera, e sembravano i pezzi di un gioco strano. Mentre ero lì a guardare, la fiamma, spostata indietro di un centimetro rispetto alla testa della vespa imprigionata nella cera, liberò dal grasso le antenne, che si raddrizzarono per un secondo prima di estinguersi nel fuoco. Gocciolata via la cera, la testa cominciò ad andare in fumo, poi il fumo si accese e il corpicino della vespa — un’altra fiamma dentro al cratere della candela — si mise a guizzare e crepitare man mano che il fuoco inceneriva l’insetto dalla testa fino al resto del corpo.

Accesi la candela che sta nel teschio del Vecchio Saul. Quella sfera d’osso, bucata e ingiallita, aveva causato la morte di tutte quelle creaturine crepate nel fango dall’altra parte del torrente. Guardai la fiamma fumosa guizzare nel teschio, nel punto in cui un tempo c’era il cervello del cane, e chiusi gli occhi. Vidi ancora una volta le Terre del Coniglio, e i corpi in fiamme che schizzavano via fulminei. Vidi ancora quel coniglio che era scappato dalle Terre ed era morto un istante prima di giungere al fiume. Vidi la Distruttrice Nera e mi ricordai della sua morte. Pensai a Eric, e mi chiesi cosa significasse quell’avvertimento della Fabbrica.

Vidi me, Frank L. Cauldhame, e vidi ciò che avrei potuto essere: un individuo alto e slanciato, forte e determinato e pronto a farsi strada nel mondo, sicuro e ostinato. Aprii gli occhi e deglutii, con un respiro profondo. Una luce fetida brillava nelle orbite del Vecchio Saul. Su tutt’e due i lati dell’altare le candele guizzavano nella corrente insieme alla fiamma del teschio.

Diedi un’occhiata di ricognizione all’interno del Bunker. Teste mozze di gabbiani, conigli, cornacchie, topi, civette, talpe e lucertole mi guardavano con aria di disprezzo. Erano appese a seccarsi a piccoli cappi di filo nero penzolanti da corde tese sui muri da un angolo all’altro, e proiettavano sulle pareti retrostanti ombre indistinte e cangianti. La mia collezione di teschi mi guardava, sparsa in terra lungo i muri, su basamenti di legno o di pietra, o su lattine e bottiglie abbandonate dal mare. Le ossa gialle del cranio di cavalli, cani, uccelli, pesci e montoni guardavano faccia a faccia il Vecchio Saul, certi tenevano aperto il becco, certi la mascella, altri tenevano becco e mascella chiusi, coi denti che spuntavano come artigli sfoderati. Le fialette con i miei preziosi fluidi le tenevo alla destra dell’altare di mattoni, legno e cemento dove stavano le candele e il teschio; a sinistra si innalzava un’alta pila di cassetti di plastica trasparente, quelli che si usano per metterci viti, rondelle, chiodi e uncini. Ogni cassettino, non più grande di una scatola di fiammiferi, conteneva il corpo di una vespa che era passata per le mani della Fabbrica.

Allungai il braccio per prendere alla mia destra un grosso recipiente di latta, feci leva col coltello sul coperchio serrato e con un cucchiaino presi un po’ dell’intruglio bianco che c’era dentro per metterlo su una piastra tonda di metallo davanti al teschio del cane. Dopodiché tolsi una vespa morta, quella che stava lì da più tempo, dal suo cassettino e la feci scivolare sul mucchio di granelli bianchi. Rimisi a posto il contenitore ben sigillato e il cassetto di plastica e accesi un piccolo rogo con un fiammifero.

Il miscuglio di zucchero e diserbante cominciò a splendere e sfrigolare, la luce intensa mi attraversò bruciando, e nuvole di fumo mi avvolsero la testa. Trattenni il respiro e gli occhi cominciarono a lacrimarmi. La fiamma si estinse in un istante, l’intruglio e la vespa un unico grumo nero di detriti sfigurati e purulenti che andavano raffreddandosi da quel calore giallo e intenso. Chiusi gli occhi per concentrarmi sui contorni dell’abbaglio, ma mi era rimasto impresso solo il ricordo del fuoco, la cui immagine si stava dissolvendo allo stesso modo in cui si era estinta la massa incandescente sulla piastra di metallo. L’immagine mi danzò per un attimo nelle retine, poi scomparve. Avevo sperato di poter vedere il volto di Eric, o di carpire qualche altro indizio riguardo a ciò che sarebbe avvenuto, ma non ottenni nulla.

Mi sporsi in avanti, spensi le candele che avevo usato per le vespe, a destra e poi a sinistra, soffiai attraverso un occhio e spensi la candela dentro al teschio del cane. Con gli occhi ancora abbagliati, trovai a tentoni l’uscita muovendomi al buio, col fumo che mi circondava. Uscii, lasciando che il fumo si disperdesse nell’aria umida. Spirali grigio-blu si avvolgevano tutt’attorno staccandosi dai miei capelli e dai vestiti mentre me ne stavo immobile là fuori a respirare profondamente. Chiusi gli occhi per un istante, poi tornai nel Bunker per mettere in ordine.


Chiusi a chiave la porta. Tornai a casa per il pranzo e trovai mio padre che spaccava la legna in giardino.

«Buongiorno» disse asciugandosi la fronte. Era umido, anche se non faceva particolarmente caldo, e lui era in canottiera.

«Ciao» dissi io.

«Tutto bene ieri?»

«Sì.»

«Sono tornato tardi.»

«Dormivo.»

«Me l’immaginavo. Vorrai pranzare, ora.»

«Oggi preparo io, se vuoi.»

«No, non preoccuparti. Puoi spaccare la legna, se ti va. Del pranzo me ne occupo io.» Mise giù l’accetta e si asciugò le mani sui calzoni, lanciandomi un’occhiata. «Tutto tranquillo ieri?»

«Oh, sì» annuii, restando là dov’ero.

«Non è successo niente?»

«Niente di particolare» gli assicurai, e intanto posai i miei arnesi e mi tolsi la giacca. Tirai su l’accetta. «Una giornata molto tranquilla, davvero.»

«Bene» disse lui, apparentemente convinto, ed entrò in casa. Cominciai ad abbattere l’accetta sulla catasta di legno.


Dopo pranzo andai in città, portandomi dietro la mia bici Gravel e un po’ di soldi. Dissi a mio padre che tornavo per l’ora di cena. Ero a metà strada da Portneil quando iniziò a piovere, perciò mi fermai per mettermi il k-way. La strada era dura, ma me la cavai senza intoppi. Il paese appariva grigio e vuoto alla luce uggiosa del pomeriggio. Sulla strada che va a nord le macchine sfrecciavano con sibili acuti; alcune di esse avevano i fari accesi, cosa che faceva sembrare tutto il resto ancora più ovattato. Prima di tutto andai al negozio di caccia e pesca a trovare il vecchio Mackenzie e prendergli un’altra delle sue fionde da caccia americane e un po’ di proiettili per il fucile ad aria compressa.

«Come va oggi, giovanotto?»

«Benissimo, e lei?»

«Oh, non troppo male» rispose scuotendo lentamente la testa grigia. Gli occhi e i capelli ingialliti avevano un che di ripugnante sotto la luce elettrica del negozio. Ci diciamo sempre le stesse cose. Spesso mi capita di stare nel negozio più del previsto solo perché c’è un buon odore.

«E come se la passa tuo zio? È un pezzo che non lo vedo.»

«Sta bene.»

«Oh, mi fa piacere» disse Mackenzie, strizzando gli occhi con una leggera aria di sofferenza e scuotendo lentamente il capo. Annuii anch’io, e guardai l’orologio.

«Be’, ora devo andare» dissi, e cominciai a indietreggiare, mettendo la nuova fionda nello zaino e le pallottole avvolte in carta scura nelle tasche della giacca da combattimento.

«Se devi andare, vai» disse Mackenzie, facendo cenni col capo verso il bancone di vetro, come a voler ispezionare le esche artificiali, i mulinelli e i richiami per le anatre che stavano là dentro. Prese uno straccio accanto al registratore di cassa e cominciò a strofinarlo lentamente, alzando lo sguardo solo nell’istante in cui stavo uscendo dal negozio, e disse: «Allora, arrivederci».

«Sì, arrivederci.»


Nel bar Belvedere del Fiordo — un luogo dove doveva essersi verificato qualche tremendo cedimento del terreno quando il posto già si chiamava così, visto che per riuscire a vedere il mare bisognerebbe stare almeno un piano più in alto — presi un caffè e feci una partita a Space Invaders.

Avevano messo un nuovo videogioco, ma dopo una sterlina o giù di lì era già in mio totale dominio, tanto che vinsi addirittura un’astronave supplementare. Mi stufai subito, e tornai a sedermi davanti al caffè.

Diedi un’occhiata ai manifesti sui muri per vedere se ci fosse qualcosa di interessante in zona, ma a parte il Film Club non c’era molto. Il primo film in programma era Il tamburo di latta, ma era tratto da un libro che mio padre mi aveva comprato diversi anni prima, uno dei pochi veri regali che mi abbia mai fatto, e per questo ho sempre evitato accuratamente di leggerlo, così come avevo fatto con Myra Breckinridge, un altro dei suoi rari regali. Il più delle volte mio padre mi dà i soldi che gli chiedo e io mi compro quello che voglio. Non credo che la cosa lo coinvolga più di tanto; ma, d’altra parte, non sarebbe capace di rifiutarmi niente. Per quanto mi risulta, è come se tra noi due ci fosse un tacito accordo, io tengo il becco chiuso sulla mia ufficiale non-esistenza, e in cambio posso fare praticamente il comodo mio sull’isola e comprarmi più o meno tutto ciò che mi pare giù in paese. L’unica cosa su cui ultimamente abbiamo avuto discussioni è stata la motocicletta. Lui mi ha detto che me la comprava quando diventavo un po’ più grande. Io ho detto che sarebbe stata una buona idea comprarla quell’estate stessa, così avrei potuto fare pratica prima che arrivasse il brutto tempo, quando si scivola, ma lui era dell’idea che in piena estate ci sarebbe stato troppo traffico, coi turisti che andavano in giro per il paese e per tutte le strade intorno. Io credo che lui voglia solo continuare a rimandare quest’acquisto. Forse teme che io diventi troppo indipendente, o forse ha solo paura che possa ammazzarmi come capita a molti ragazzi che si fanno la moto. Non so, non riesco mai a capire bene quello che prova per me. E a pensarci bene, neanche io so se effettivamente a lui ci tengo.

Speravo di incontrare qualcuno che conoscevo, intanto che ero in paese, ma le uniche persone che vidi erano il vecchio Mackenzie del negozio di caccia e pesca e la signora Stuart al bar, grassa e sonnacchiosa, che leggeva un romanzetto rosa dietro al bancone di formica. Non che conosca poi tanta gente, comunque. Jamie è il mio unico vero amico, e grazie a lui ho incontrato un po’ di persone della mia età che posso considerare conoscenti. Non ho mai frequentato la scuola e sull’isola ho sempre agito come se in realtà non esistessi, è questo il motivo per cui non ho mai avuto a che fare con gente della mia età (tranne Eric, naturalmente, ma lui è stato via per un sacco di tempo), e quando alla fine ho preso la decisione di avventurarmi oltre e di cercare di conoscere qualcuno, proprio allora Eric è impazzito, e per un po’ le cose al paese si sono messe male.

Le mamme dicevano ai figli di comportarsi bene, altrimenti Eric Cauldhame li avrebbe presi e avrebbe fatto loro cose orribili con vermi e larve. Inevitabilmente la storia a poco a poco diventò che Eric li avrebbe bruciati vivi, non limitandosi alle bestiole e ai canile così, altra inevitabile conseguenza, un sacco di bambini cominciarono a credere che io fossi Eric, o che anch’io mi mettessi a fare gli stessi scherzi. O forse i genitori avevano intuito qualcosa a proposito di Blyth, Paul e Esmeralda. In ogni caso, i bambini mi stavano alla larga e mi gridavano insulti tenendosi a distanza, e quindi dovetti farmi da parte e limitare al minimo le mie visite in paese. Ancora adesso subisco strane occhiate da parte di bambini, ragazzi e adulti, e lo so che certe madri dicono ai figli che se non si comportano bene finiranno nelle mani di Frank, ma non mi interessa. Non ci faccio caso, a certe cose.

Presi la bici e tornai a casa in modo piuttosto incauto, sfrecciando per il sentiero tra le pozzanghere e lanciandomi a quaranta chilometri all’ora giù per il Salto — una parte del sentiero con una lunga discesa seguita da una leggera salita dove è facile staccarsi da terra — fino a toccare di nuovo il terreno con un tonfo attutito dal fango, e per poco non andai a finire nei cespugli spinosi di ginestre. Il tonfo mi provocò un dolore al culo che mi fece spalancare la bocca. Ma riuscii ad arrivare senza riportare grossi danni. Dissi a mio padre che andava tutto bene e che tornavo per mangiare nel giro di un’ora o giù di lì, poi mi diressi verso la rimessa per dare una pulita a Gravel. Dopodiché mi misi a confezionare delle altre bombe per rimpiazzare quelle che avevo usato il giorno prima, e ne feci anche qualcuna in più. Nel rifugio accesi la vecchia stufa elettrica, non tanto per scaldarmi, quanto per impedire che la miscela altamente igroscopica assorbisse i vapori umidi dell’aria.

A dire il vero mi piacerebbe non dover stare a trascinarmi dietro dal paese chili di zucchero e taniche di diserbante con cui riempire i pezzi di condutture elettriche che mi procura Jamie il nano dall’impresa edile dove lavora. È un’assurdità, con una cantina piena zeppa di cordite, in quantità tale da poter cancellare dalla carta geografica metà dell’isola, ma mio padre non mi ci lascia nemmeno avvicinare, a quella roba.

Fu il padre di mio padre, Colin Cauldhame, a procurarsi la cordite dal cantiere di riparazione navale che un tempo stava giù sulla costa. Un suo parente che lavorava là aveva trovato una vecchia nave da guerra con la santabarbara ancora piena di esplosivo. Colin comprò la cordite e la adoperò per la combustione domestica. Quando è priva di involucri, la cordite è ottima per accendere il fuoco. Colin ne acquistò in quantità tale che sarebbe bastata al fabbisogno casalingo per circa duecento anni, anche se l’avesse usata pure il figlio; forse pensava di venderla. So che mio padre per un po’ l’ha usata per accendere la stufa, ma in altri periodi non l’ha usata per niente. Dio sa quanta ancora ce n’è là sotto. Ne ho visti interi mucchi, con i marchi della Royal Navy ancora impressi sopra, e ho pensato a tutti i mezzi possibili e immaginabili per riuscire a impossessamene: ma, a meno che non riuscissi a introdurmi nella cantina scavando un tunnel dalla rimessa e a tirare fuori la cordite da dietro, in modo tale da lasciare gli imballaggi apparentemente intatti, non vedo in che altro modo ce la potrei fare. Mio padre controlla la cantina ogni due o tre settimane, scende giù nervosamente con una torcia, conta le balle di esplosivo, dà una sniffatina intorno, e controlla il termometro e l’igrometro.

È bello fresco giù in cantina, non è umido, anche se immagino che questo sia possibile solo al di sopra del livello di superficie freatica, e mio padre sembra sapere quello che fa, ed è certo del fatto che l’esplosivo non sia diventato poco affidabile, ma credo che la cosa lo innervosisca ugualmente, almeno da quando ci fu l’episodio del Cerchio della Bomba. (Colpevole, ancora una volta. Era ancora colpa mia. Il mio secondo omicidio, quello che cominciò a far cadere sospetti su di me da parte di alcuni membri della famiglia.) Ma se ha tanta paura di quell’esplosivo, non capisco perché non se ne sbarazza. Credo che covi una sua piccola superstizione riguardo alla cordite. Una sorta di legame col passato, o forse un demone nascosto, un simbolo di tutti i misfatti della nostra famiglia; che attende, forse, di coglierci un giorno di sorpresa.

In ogni caso, io non ho accesso alla cantina, e mi tocca perciò trasportare dal paese metri e metri di tubi neri di metallo, e sudarci sopra, e faticarci. Li incurvo e li taglio e li perforo e li comprimo e poi li incurvo ancora, stringendoli al massimo nella morsa, finché il banco da lavoro e tutta la rimessa scricchiolano dallo sforzo. Credo che si tratti di una vera e propria arte, in un certo senso, e di sicuro richiede abilità, ma a volte mi annoio, ed è soltanto il pensiero di come le utilizzerò, queste piccole torpedini nere, che mi fa continuare a sputar sangue dalla fatica.

Misi tutto a posto e ripulii la rimessa cancellando ogni traccia degli ordigni costruiti, poi rientrai per la cena.


«Lo stanno cercando» disse all’improvviso mio padre tra un boccone di cavolo e uno di soia. I suoi occhi scuri mi lanciarono un’occhiata tremolante come una fiamma alta e fuligginosa, poi tornò ad abbassare lo sguardo. Aprii una birra, di quelle che faccio io, e ne buttai giù un po’. Questa volta era venuta meglio del solito, era anche più forte.

«Eric?»

«Sì, Eric. Lo stanno cercando nelle paludi.»

«Le paludi?»

«Credono che potrebbe essere là.»

«Certo, sarà questo il motivo per cui lo cercano là.»

«Esatto» annuì mio padre. «Che hai da bofonchiare?»

Mi schiarii la gola e continuai a mangiare l’hamburger, facendo finta di non aver sentito.

«Stavo pensando…» disse, e si sbatté in bocca un’altra cucchiaiata di quell’intruglio verde e marrone, continuando a masticarlo a lungo. Ero in attesa di sentire quel che avrebbe aggiunto. Agitò debolmente il cucchiaio, puntandolo verso il piano di sopra, poi disse: «Quanto sarà lungo il filo del telefono?»

«Normale o tirato?» chiesi io prontamente, appoggiando la birra sul tavolo. Si limitò a borbottare, senza aggiungere altro, e tornò al suo cibo, apparentemente soddisfatto anche se non propriamente contento. Continuai a bere.

«C’è qualcosa di particolare che ti potrei ordinare dal paese?» disse alla fine, sciacquandosi la bocca con un bicchiere di succo d’arancia. Scossi la testa e tornai alla birra.

«Niente. Il solito» risposi con una scrollata di spalle.

«Patate precotte, hamburger, zucchero, tortini di carne, cornflakes e altre schifezze del genere, immagino» disse in tono leggermente sarcastico, per quanto le parole fossero già di per sé eloquenti.

Annuii. «Sì, perfetto. Conosci i miei gusti.»

«Non hai un’alimentazione corretta. Avrei dovuto essere più severo con te.»

Non dissi nulla e continuai lentamente a mangiare. Credo che mio padre mi stesse guardando dall’altro capo del tavolo, agitando il suo succo d’arancia e fissandomi mentre calavo la testa sul piatto. Scosse la testa e si alzò da tavola, portandosi il piatto al lavandino per sciacquarlo.

«Esci stasera?» mi chiese, aprendo il rubinetto.

«No, stasera resto a casa. Esco domani sera.»

«Voglio sperare che non ti riduca male anche stavolta, completamente sbronzo come al solito. Una di queste sere ti arrestano e poi dove andremo a finire?» Mi guardò. «Eh?»

«Non ho nessuna intenzione di sbronzarmi» lo rassicurai. «Mi faccio solo due o tre bicchieri per socializzare, questo è tutto…»

«Be’, fai un sacco di rumore quando torni, per uno che ha semplicemente fatto un po’ il socievole.» Mi lanciò un’occhiata scura e tornò a sedersi.

Alzai le spalle. Sicuro che mi ubriaco. Che diavolo bevi a fare se poi non ti ubriachi? Ma ci vado piano. Non voglio creare complicazioni.

«Allora stai attento. Lo sento dalle scorregge, quanto hai bevuto» disse, facendo un grugnito come a volerne imitare una.

Mio padre ha una teoria riguardo al legame importantissimo e stretto che intercorre tra la mente e l’intestino. È un’altra delle sue idee che tira fuori quando vuole fare colpo su qualcuno, ha un manoscritto sull’argomento (Lo stato della scorreggia) che di tanto in tanto spedisce a certe case editrici di Londra, che ovviamente lo rimandano indietro. Nel manoscritto mio padre asserisce in vari modi che dalle scorregge è possibile capire non solo quello che la gente ha mangiato o bevuto, ma anche che tipo di persone sono, che cosa dovrebbero mangiare, se sono individui emotivamente instabili o sconvolti, se nascondono qualcosa, se ti ridono alle spalle o cercano di ingraziarsi i tuoi favori, e addirittura quello a cui pensano nell’istante preciso in cui emettono la scorreggia (soprattutto dal suono prodotto). Tutte stronzate.

«Mah» dissi io in tono non compromettente.

«Sì che sono in grado di capirlo» ribatté lui mentre io, finito di mangiare, mi appoggiavo allo schienale, pulendomi la bocca col dorso della mano, più che altro per infastidirlo. Continuò ad annuire. «So quando bevi birra chiara e quando bevi quella a doppio malto. E ti ho sentito addosso anche la Guinness.»

«La Guinness non la bevo» mentii, ma la cosa mi colpì profondamente. «Ho paura di slogarmi la gola.»

Questo tocco d’arguzia gli scivolò addosso senza lasciare traccia, almeno apparentemente, e continuò: «Sono solo soldi buttati nel cesso, lo sai. Non aspettarti che finanzi il tuo alcolismo».

«Smettila con queste sciocchezze» gli dissi alzandomi in piedi.

«So bene di cosa parlo. Ho visto gente migliore di te credere di saperci fare con la bottiglia, e poi finire nella fogna a bere vino liquoroso.»

Se con quest’ultima uscita intendeva colpire basso, allora aveva mancato il colpo: la vecchia solfa della “gente migliore di te” non funzionava più da tempo.

«La vita è mia, non credi?» dissi, e, posato il piatto nel lavandino, lasciai la cucina. Mio padre non disse nulla.


Quella sera guardai la tv e misi un po’ in ordine le mie mappe, aggiornandole con il posto dell’ultimo nome che avevo assegnato, la Collina della Distruttrice Nera, e aggiunsi una breve descrizione di quel che avevo fatto ai conigli, registrando sia gli effetti delle bombe che le istruzioni di fabbricazione dell’ultima serie. Decisi che in futuro avrei tenuto la Polaroid nella Borsa da Guerra. Per certe spedizioni punitive a basso rischio come quella contro i conigli, infatti, la Polaroid potrebbe abbondantemente ripagarmi del peso extra e del tempo perso a usarla. Naturalmente quando si tratta di nefandezze più serie la Borsa da Guerra deve essere portata così com’è, e una macchina fotografica sarebbe solo un impiccio, ma è un paio d’anni che non ci sono vere e proprie minacce in giro, sin da quella volta in cui certi ragazzi del paese si erano messi a darmi fastidio e a farmi degli agguati per la strada.

Pensavo che le cose sarebbero andate storte per un po’, ma loro non esagerarono come mi aspettavo facessero. Una volta li minacciai con il coltello, dopo che quelli mi avevano fermato — ero in bici — e avevano cominciato a darmi spintoni e a chiedermi soldi. Quella volta se ne andarono, ma qualche giorno dopo tentarono di invadere l’isola. Li tenni a distanza con pietre e proiettili metallici, e loro risposero con fucili ad aria compressa, e per un po’ la cosa mi divertì, ma poi arrivò la signora Clamp per le commissioni settimanali e minacciò di chiamare la polizia, e dopo averla apostrofata con due o tre appellativi sgradevoli, i ragazzi se ne andarono.

Cominciai allora a organizzare un sistema di munizioni, mettendo insieme rifornimenti di proiettili metallici, sassi, bulloni e piombini da pesca e seppellendo il tutto, dentro a sacchetti di plastica o scatole, in certi punti strategici dell’isola. Preparai anche delle trappole, e dei fili collegati a bottiglie di vetro sparse sull’erba delle collinette oltre il torrente, in modo tale che se a qualcuno fosse venuto in mente di intrufolarsi, gli sarebbe capitato o di restare intrappolato o di inciampare nel filo, tirando la bottiglia fuori dalla buca e facendola finire contro una pietra. Per qualche notte restai in piedi a fare la guardia, sporgendo la testa dal lucernario posteriore della soffitta, con l’orecchio teso ad ascoltare l’eventuale tintinnio del vetro che andava a infrangersi, o le imprecazioni smorzate che qualcuno avrebbe potuto lanciare, oppure il segnale più insolito degli uccelli che, disturbati, avrebbero preso il volo, ma non accadde più nulla. Mi limitai a evitare per un po’ i ragazzi giù in paese, andandoci solo insieme a mio padre oppure quando sapevo che erano a scuola.

Il sistema di munizioni esiste ancora, e ci ho aggiunto anche un paio di bombe a benzina in uno o due dei rifugi segreti, dove un possibile percorso d’attacco si snoda per il terreno su cui dovrebbero schiantarsi le bottiglie, mentre i fili d’allarme li ho smantellati e li ho lasciati nella rimessa. Il mio Manuale di Difesa, che contiene cose come le piantine dell’isola con gli armamenti segnati, i possibili percorsi d’attacco, un elenco di tattiche e una lista di armi che posseggo o che potrei costruire, include in quest’ultima categoria un po’ di cose spiacevoli come i fili d’allarme e le trappole posizionate a un paio di metri di distanza da una certa bottiglia rotta che spunta dall’erba, le mine a denotatore elettrico fatte con bombe a tubo e piccoli chiodi, il tutto seppellito nella sabbia, insieme ad alcune interessanti, per quanto improbabili, armi segrete, come per esempio frisbee con rasoi inseriti lungo il bordo.

Non che voglia ammazzare qualcuno, adesso, è per difesa più che per offesa, e mi fa sentire molto più al sicuro. Presto avrò i soldi per una balestra potentissima, e davvero non vedo l’ora, mi consolerà soprattutto per non avercela mai fatta a convincere mio padre a comprare un fucile o una pistola che qualche volta avrei potuto usare anch’io. Ho le mie catapulte e le fionde e il fucile ad aria compressa, e tutt’e tre potrebbero rivelarsi letali in circostanze adeguate, ma non hanno una gittata sufficiente rispetto a quella che vorrei io. Lo stesso vale per le bombe a tubo. Bisogna posizionarle, o almeno lanciarle contro il bersaglio, e usare la fionda per scagliare quelle più piccole — le costruisco così proprio per questo scopo — si rivela un’azione lenta e imprecisa. Anche con la fionda è possibile commettere cattive azioni: le bombe a fionda devono avere una miccia piuttosto corta, in modo che esplodano immediatamente dopo aver colpito il bersaglio, prima che possano essere rilanciate indietro, e già per un paio di volte ho sfiorato l’incidente, visto che mi sono scoppiate subito dopo essere partite dalla fionda.

Ho avuto a che fare anche con armi da fuoco, naturalmente, sia a proiettile che a mortaio, con una parabola di tiro molto più ampia di quella delle bombe a fionda, ma si sono rivelate poco pratiche, pericolose, lente e pronte a esplodere quando meno te lo aspetti.

L’ideale sarebbe un fucile da caccia, anche se forse preferirei un calibro 22, ma la balestra andrà bene lo stesso. Forse un giorno riuscirò a escogitare un modo per aggirare la mia ufficiale non-esistenza e fare richiesta di un’arma, ma tutto sommato non è detto che mi darebbero il porto d’armi. A volte penso, magari fossi in America!

Stavo facendo l’inventario delle bombe a benzina, il cui grado di evaporazione non era stato controllato di recente, quando squillò il telefono. Guardai l’orologio, e mi stupii di quanto fosse tardi: quasi le undici. Scesi di corsa le scale per raggiungere il telefono, e mentre passavo davanti alla stanza di mio padre lo sentii avvicinarsi alla porta.

«Portneil 531.» Sentii un bip-bip provenire dalla cornetta.

«’Fanculo Frank, ho i calli ai piedi. Come cazzo se la passa il mio maschione?»

Guardai il ricevitore, e poi mio padre che, appoggiato al corrimano, si sporgeva dal piano di sopra, ficcandosi il sopra del pigiama dentro i calzoni. Parlai dentro la cornetta: «Ciao, Jamie, com’è che mi chiami a quest’ora?»

«Cheeee? C’è il vecchio lì davanti a te, vero?» disse Eric. «Digli da parte mia che è un sacco di pus ribollente.»

«Jamie ti manda i suoi saluti» gridai a mio padre, che senza dire una parola si voltò e tornò alla sua stanza. Sentii la porta che si chiudeva. Tornai al telefono. «Eric, dove sei stavolta?»

«Merda, non te lo dico. Indovina.»

«Non so… Glasgow?»

«Ah ah ah ah ah ah!» ridacchio Eric. Strinsi tra le mani la plastica della cornetta.

«Come stai? Tutto bene?»

«Sto bene. E tu?»

«Benissimo. Senti, hai da mangiare? Ha dei soldi? Te ne vai in giro in autostop o cosa? Ti stanno cercando, lo sai, ma al notiziario non hanno ancora detto niente. Non è che…» Mi fermai prima che trovasse qualcosa da ridire.

«Me la passo bene. Mangio i cani! Eh eh eh!»

«Oddio, non dirai sul serio?» borbottai.

«E che altro potrei mangiare? È magnifico, Frankie; me ne sto in giro per boschi e campi e cammino un sacco e mi faccio dare passaggi qua e là e quando arrivo vicino a un paese mi cerco un bel cane grasso e succulento e ci faccio amicizia e me lo porto nei boschi e poi lo ammazzo e me lo mangio. Niente di più semplice. Adoro la vita all’aperto.»

«Ma almeno li cuoci?»

«Certo che li cuocio, cazzo» disse Eric indignato. «Per chi mi hai preso?»

«Non mangi altro?»

«No. Rubo. Nei negozi. È facilissimo. Rubo cose che non posso mangiare, tanto per fare. Per esempio, tampax e sacchi per il pattume e pacchi di patatine formato famiglia e una confezione da cento di decorazioni per cocktail e una da dodici di candeline in vari colori e portafotografie e coprivolanti in finta pelle e portasciugamani e ammorbidenti e deodoranti per l’ambiente a doppia azione per mandar via gli odori stantii della cucina e scatoline per le cianfrusaglie e pacchi di cassette e tappi per i serbatoi delle macchine compresi di serratura e spolveradischi ed elenchi telefonici riviste di diete presine buste di etichette ciglia finte scatole da trucco intrugli per smettere di fumare orologi giocattolo…»

«Non ti piacciono le patatine?» lo interruppi.

«Eh?» Sembrava confuso.

«Hai nominato i pacchi di patatine formato famiglia tra le cose che non puoi mangiare.»

«Per l’amor di Dio, Frank, tu lo mangeresti un pacco di patatine formato famiglia?»

«E come tiri avanti?» dissi io prontamente. «Cioè, dormirai male. Non ti prendi il raffreddore o cosa?»

«Non dormo.»

«Non dormi?»

«Certo che no. Non c’è bisogno di dormire. È una cosa che ti dicono di fare per tenerti sotto controllo. Nessuno ha bisogno di dormire; ti insegnano a dormire quando sei piccolo. Se sei veramente deciso, riesci a farne a meno. Io riesco a fare a meno del sonno. Ora non dormo mai. In questo modo è molto più facile stare in guardia e controllare che nessuno ti strisci sopra furtivamente, e poi puoi continuare a camminare sempre. Non c’è niente di meglio. Diventi una specie di barca.»

«Di barca?» Mi aveva confuso le idee.

«Smettila di ripetere tutto quello che dico, Frank.» Lo sentii mettere altre monete nel telefono. «Quando torno ti insegno come si fa a non dormire»

«Grazie. Quando pensi di arrivare?»

«Prima o poi. Ah ah ah ah ah!»

«Senti, Eric, perché mangi i cani se hai la possibilità di rubare tutte quelle cose?»

«Te l’ho già detto, idiota che non sei altro: non si può mangiare quella roba di merda.»

«Perché allora non rubi cose che puoi mangiare e lasci stare quelle che non puoi mangiare e lasci perdere i cani?» suggerii io. Sapevo che non sarebbe stata una buona idea. Sentivo il tono di voce che mi saliva sempre di più mentre pronunciavo quelle parole, ed era segno che stavo cadendo in uno stato di confusione verbale.

Eric urlò: «Sei deficiente? Cosa c’è che non va? Perché mi dici queste cose? Non sono altro che cani! Non mi metto ad ammazzare gatti o topolini di campagna o pesci rossi o cose del genere. Si tratta di cani, imbecille! Cani

«Non c’è bisogno di urlare così» dissi io senza cambiare tono, anche se a dire il vero cominciavo a innervosirmi. «Ti stavo solo chiedendo perché sprechi tanto tempo a rubare cose che non puoi mangiare e poi sprechi dell’altro tempo a procurarti i cani, quando invece, tutto sommato, potresti rubare e mangiare allo stesso tempo?»

«“Tutto sommato”? “Tutto sommato”? Che cazzo dici?» urlò Eric con una voce strozzata tra il rauco e il contralto.

«Oh, non cominciare a gridare» dissi io con un sospiro, passandomi la mano sulla fronte e tra i capelli, con gli occhi chiusi.

«Io grido quanto mi pare!» urlò Eric. «Perché credi che stia facendo tutto questo? Eh? Perché cazzo credi che stia facendo tutto questo? Sono cani, sacco di merda decerebrato! Non t’è rimasto neanche un po’ di cervello? Che è successo al tuo cervello, mio piccolo Frankie? Il gatto ti ha mozzato la lingua? Ho detto, il gatto ti ha mozzato la lingua?»

«Non cominciare a sbattere…» dissi io allontanando la bocca dalla cornetta.

«Eeeeeeaaarrrggghhh Bllleeeaaarrrgggrrrllleeeooouuurrgghh!» Eric sputò e rantolò, e poi sentii il rumore della cornetta sbattuta contro l’interno della cabina. Sospirai e abbassai premurosamente il ricevitore. Forse non ero in grado di trattare con Eric per telefono.

Tornai nella mia stanza, cercando di dimenticare mio fratello. Volevo andare a letto presto in modo da alzarmi in tempo per la cerimonia battesimale della nuova catapulta. Dopodiché avrei pensato a un modo migliore per trattare con Eric.

…Proprio come una nave! È pazzo.

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