9. Quel che accadde a Eric

Ero già a letto quando mio padre rincasò, subito dopo di me. Mi addormentai immediatamente, immergendomi in un sonno profondo e duraturo. La mattina dopo mi svegliai tardi, più del solito. Telefonai a Jamie. Non c’era, era andato dal dottore, ma sua madre mi disse che sarebbe rientrato presto. Mi preparai l’occorrente per la giornata e dissi a mio padre di aspettarmi per il tardo pomeriggio, poi mi avviai verso Portneil.

Jamie era tornato quando arrivai a casa sua. Tra una chiacchiera e l’altra ci scolammo un paio di lattine di Red Death, accompagnandole con dei dolci fatti da sua madre. Finito lo spuntino me ne andai, oltrepassai il paese e mi diressi verso le colline.


In cima a un colle ricoperto di erica, un pendio non troppo scosceso di terra e roccia situato oltre il confine dell’area forestale protetta, mi sedetti su una pietra per mangiare il mio pranzo al sacco. Guardai in lontananza, oltre l’orizzonte caliginoso, oltre Portneil: i pascoli punteggiati del bianco delle pecore, le dune, la discarica, l’isola (non che sembrasse un’isola, a vederla da là, perché pareva attaccata alla terraferma), la sabbia, il mare. Il cielo ospitava qualche nuvola. Era azzurro acceso, a perpendicolo, ma verso l’orizzonte, verso la calma distesa del fiordo e del mare, sfumava in tinte più chiare. Le allodole cinguettavano nell’aria. Una poiana si librò in volo come se cercasse qualcosa che si muoveva in mezzo al prato, tra l’erba, l’erica e i cespugli di ginestra. Gli insetti ronzavano svolazzando tutt’attorno, e io per scacciarli mi sventolavo con una felce intanto che mangiavo i panini e bevevo il succo d’arancia.

Alla mia sinistra le colline si facevano sempre più alte e lontane, ergendosi gradualmente, e sfumavano verso il grigio e l’azzurro avvolte nel luccicore della distanza. Guardai col binocolo il paese ai miei piedi, vidi i camion e le macchine che correvano lungo la statale, poi seguii con lo sguardo un treno che andava a sud, si fermava in paese e ripartiva, snodandosi sinuosamente davanti al mare.

Mi piace lasciare l’isola, ogni tanto. Senza andare troppo lontano. Non so ancora se è veramente possibile, ma è bello allontanarsi un po’, qualche volta, e assumere un punto di vista leggermente più distanziato. Ovviamente so quanto è piccolo un pezzo di terra. Non sono affatto idiota. Ho una chiara idea delle dimensioni del pianeta e so quanto è minuscola la parte che io conosco. Ho guardato troppa televisione, ho visto troppi documentari sulla natura e sui viaggi per non rendermi conto di quanto sia limitata la mia conoscenza degli altri luoghi in termini di esperienza diretta. Ma non voglio andare troppo lontano, non sento il bisogno di viaggiare o di conoscere un altro clima o della gente diversa. So chi sono e conosco i miei limiti. Ho le mie buone ragioni per restringermi gli orizzonti. Paura, sì, lo ammetto. Ma anche necessità di sentirmi al sicuro in un mondo che si dà il caso mi abbia trattato con crudeltà quando non avevo ancora l’età e la possibilità di agire su di esso.

E poi mi è bastata la lezione di Eric.

Eric se n’era andato. Con tutta l’intelligenza che aveva, con tutto il suo promettente ingegno e la sensibilità, aveva lasciato l’isola per trovare la sua via. Aveva scelto un sentiero e l’aveva seguito. Quella strada l’aveva portato alla distruzione, l’aveva fatto diventare una persona completamente diversa, le cui somiglianze con il ragazzo sensato che fino allora era stato apparivano semplicemente oscene.

Ma era sempre mio fratello, e io gli volevo bene, in qualche modo. Gli volevo bene nonostante la sua alterazione, allo stesso modo in cui lui, credo, mi volesse bene nonostante la mia invalidità. Quello stesso senso di protezione, credo, che le donne pare provino nei confronti dei bambini e gli uomini nei confronti delle donne.

Eric aveva lasciato l’isola ancor prima che io nascessi. Tornava solo per le vacanze, ma io credo che la sua anima non si fosse mai mossa da lì. Quando tornò davvero, un anno dopo il mio piccolo incidente, quando nostro padre aveva deciso che eravamo entrambi cresciuti abbastanza perché lui potesse occuparsi di noi, io non ebbi alcun risentimento. Anzi, andammo d’accordo sin dall’inizio, e sicuramente devo averlo messo in imbarazzo con il mio atteggiamento servile e imitativo nei suoi confronti, anche se la sua sconfinata sensibilità gli ha sempre impedito di farmelo notare, evitando così il rischio di ferirmi.

Quando se ne andò per frequentare la scuola, io mi consumai dal dispiacere. Ogni volta che tornava per le vacanze mi illuminavo di gioia, saltellavo da tutte le parti e traboccavo di entusiasmo. Passavamo tutte le estati sull’isola, a far volare gli aquiloni, ad assemblare modellini di legno e di plastica, a giocare con il Lego, col Meccano e con tutto quello che trovavamo in giro, a costruire dighe, capanne, trincee. Facevamo volare gli aeroplanini, giocavamo con le barchette, costruivamo velieri di sabbia e ci inventavamo società segrete, codici, lingue. Lui mi raccontava delle storie, inventandosele sul momento. Certe volte le mettevamo anche in scena. Giocavamo ai soldati valorosi che combattevano tra le dune, e lottavamo, e vincevamo, e lottavamo ancora, e a volte morivamo. Le uniche volte che Eric riusciva veramente a ferirmi erano quelle in cui la storia richiedeva la sua morte eroica, e io prendevo tutto troppo sul serio: lo vedevo esalare l’ultimo respiro riverso nell’erba o nella sabbia, dopo che aveva fatto saltare in aria il ponte o la diga o il convoglio nemico solo per salvarmi la vita, e io ricacciavo indietro le lacrime, e lo prendevo a pugni per cercare di cambiare la storia, ma lui rifiutava, mi scansava via e moriva. Moriva troppo spesso.

Quando gli veniva l’emicrania — a volte durava per dei giorni — io mi innervosivo moltissimo. Gli portavo bevande fresche e cibo nella stanza buia al piano di sopra, scivolavo dentro e restavo lì al suo capezzale. Tremavo dalla paura quando prendeva a lamentarsi e a contorcersi nel letto. La sua sofferenza mi distruggeva, e niente aveva più senso per me. Le storie e i giochi diventavano improvvisamente stupidi e inutili, e l’unica attività che in quei momenti ancora mi sembrava sensata restava quella di lanciare sassi contro bottiglie e gabbiani. Me ne andavo in giro a cercare i gabbiani e a fare cose diverse da quelle che piacevano a lui. Quando si riprendeva, era come un nuovo ritorno a casa, e io diventavo irrefrenabile.

Alla fine, comunque, gli venne un bisogno impellente di allontanarsi, visto che ormai era diventato un uomo, e andò via da me, verso il mondo esterno, con tutte le opportunità favolose che offriva, con tutti i suoi spaventosi pericoli. Decise di seguire le orme paterne e cominciò a studiare medicina. Quando partì mi disse che nulla sarebbe cambiato. Sarebbe stato libero per gran parte dell’estate, anche se doveva andare a stare a Glasgow per lavorare in ospedale e fare assistenza ai medici durante le visite in reparto. Mi disse che per me sarebbe rimasto l’Eric di sempre, ma io sapevo che non era vero, e gli leggevo nel cuore che anche lui lo sapeva. Ce l’aveva scritto negli occhi, si capiva dalle sue parole. Stava lasciando l’isola. Stava lasciando me.

Non potevo biasimarlo, neanche allora che il dolore era per me veramente lancinante. Era Eric, era mio fratello, stava facendo quello che doveva fare, proprio come il soldato valoroso che cadeva per la giusta causa, o per me. Come potevo dubitare di lui, come potevo accusarlo, quando lui non aveva mai neanche lontanamente dato l’impressione di voler dubitare di me o di volermi accusare? Mio Dio. Tutti quei delitti, quei tre bambini ammazzati, tra cui anche un fratello. E lui non è stato mai sfiorato dall’idea che io avessi qualcosa a che fare con quelle storie. L’avrei capito. Non sarebbe stato capace di guardarmi in faccia se solo avesse avuto un sospetto, non sapeva proprio mentire.

E così se ne andò al sud, frequentò il primo anno, in anticipo rispetto agli altri per via dei suoi brillanti risultati, poi cominciò il secondo. L’estate di mezzo tornò a casa, ma era cambiato. Cercava di comportarsi con me come aveva sempre fatto, ma io sentivo che non era spontaneo. Era distante. Il suo cuore non era più sull’isola, l’aveva lasciato insieme ai compagni di università, insieme ai suoi studi tanto amati; forse vagava per qualche altra parte del mondo, comunque non era più sull’isola. Non era più con me.

Ce ne andavamo in giro, giocavamo con gli aquiloni, costruivamo le dighe, ma non era più come un tempo. Lui era un adulto che cercava di farmi divertire, non un ragazzo che cercava di divertirsi anche lui. Non furono certo giorni brutti, e io ero comunque felice che lui fosse con me. Ma dopo un mese Eric se ne andò via, non senza un certo sollievo, lasciandomi per raggiungere degli altri studenti suoi amici in vacanza nel sud della Francia. Quella partenza fu per me come un lutto, stavo piangendo la morte di mio fratello, dell’amico che lui era stato per me. Sentivo più acuto che mai il dolore della mia lesione, quella lesione che avrebbe significato per me una condanna a una perenne adolescenza, che mi avrebbe impedito di crescere e diventare un vero uomo, capace di trovare la propria strada nel mondo.

Riuscii comunque a respingere quelle sensazioni in breve tempo. Avevo il Teschio, avevo la Fabbrica, avevo un senso sostitutivo di soddisfazione mascolina nei confronti dei successi strepitosi di Eric nel mondo esterno, visto che, per quel che mi riguardava, stavo cominciando a impadronirmi dell’isola e delle terre circostanti e a esercitare il mio dominio incontrastato su di esse. Eric mi scriveva per dirmi come se la passava, e telefonava. Parlava con mio padre, poi con me. Certe volte mi faceva ridere, al telefono, come sanno fare certe persone brillanti che ti fanno divertire anche quando non ne hai voglia. Non mi faceva mai capire sul serio che aveva completamente abbandonato sia me che l’isola.

E poi gli capitò quello sfortunato episodio, che andò ad aggiungersi ad altre cose di cui né io né mio padre sapevamo niente. Un episodio che fu sufficiente a far fuori anche un tipo strano come lui, a farlo schizzare via verso qualcos’ altro, un insieme di tante cose: quello che lui era prima (anche se diabolicamente invertito) e nello stesso tempo una persona più saggia e capace di stare al mondo; un adulto ferito e pericoloso, confuso, patetico e insieme un maniaco. Mi faceva pensare a un ologramma e ai suoi frantumi. Con l’immagine intera contenuta in ogni frammento acuminato, scheggia e contemporaneamente interezza.

Accadde durante il secondo anno, nell’ospedale dove faceva tirocinio. Non doveva lavorare lì a tempo pieno, nessuno gli imponeva di occuparsi di quell’umanità derelitta nei reparti più infognati dell’ospedale. Andava là a dare una mano durante il suo tempo libero. Successivamente mio padre e io venimmo a sapere che aveva avuto certi problemi di cui non ci aveva mai parlato. Si era innamorato di una tizia, ed era finita male, lei gli aveva detto che in fondo non lo amava e se ne era andata con un altro. Per un periodo le sue emicranie erano peggiorate e avevano finito per interferire con il lavoro. Era per quello, e per la ragazza, che lavorava in modo non ufficiale nella clinica universitaria: dava una mano agli infermieri del turno di notte, seduto coi suoi libri nel buio della corsia mentre i vecchi e i giovani e gli infermi si lamentavano e tossivano.

Stava facendo quello, la notte in cui accadde lo spiacevole episodio. Era un reparto dove venivano ricoverati bambini talmente rovinati da non poter sopravvivere fuori dall’ospedale, e anche dentro duravano poco. Un’infermiera che era stata in buoni rapporti con Eric ci scrisse una lettera, spiegandoci grosso modo quello che era successo, e dal tono della lettera sembrava che lei non fosse d’accordo sul fatto che certi bambini venissero tenuti in vita: non erano altro che oggetti d’esposizione che dottori e professori esibivano agli studenti.

Era una notte di luglio calda e opprimente, ed Eric era al suo orrido posto, vicino ai magazzini e all’antro delle caldaie. Aveva avuto mal di testa tutto il giorno, e mentre era in reparto il dolore era peggiorato, trasformandosi in una tremenda emicrania. Il sistema di aerazione era fuori uso da un paio di settimane, e i tecnici stavano cercando di ripararlo. Quella notte c’era un’aria afosa e pesante, e in quelle condizioni l’emicrania di Eric diventava lancinante. Qualcuno sarebbe arrivato a sostituirlo di lì a un’oretta. Se ci fosse stato qualcun altro credo che anche Eric avrebbe ammesso la sconfitta e se ne sarebbe andato nella sua stanza a stendersi sul letto. Fatto sta che se ne rimase lì in reparto a cambiare pannolini, a calmare i bambini che frignavano, a rifare i letti, a sostituire le flebo e tutto il resto, con la testa spaccata in due dal dolore, con la vista annebbiata da luci e linee.

Il bambino di cui si stava occupando quando accadde il fatto viveva allo stato puramente vegetativo. Tra le altre cose era completamente incontinente, riusciva a emettere solo gorgoglii e suoni indistinti, aveva uno scarso controllo della muscolatura — anche la testa necessitava di un supporto — e infine doveva indossare una specie di caschetto metallico, perché le ossa del cranio non si erano mai saldate e la pelle che rivestiva il cervello era sottile come carta velina.

Bisognava dargli da mangiare con una certa frequenza un intruglio speciale, ed era proprio quello che Eric stava facendo quando accadde il fatto. Si era accorto che il bambino era un po’ più silenzioso del normale, inerte sulla sedia, con lo sguardo fisso davanti a sé, il respiro leggero, gli occhi vitrei e un’espressione quasi pacifica sul volto solitamente vacuo. Sembrava addirittura incapace di ingerire il cibo, una delle poche attività che in genere era in grado di svolgere in modo anche partecipativo. Eric era molto paziente, e aspettò con il cucchiaio dritto davanti ai suoi occhi persi nel nulla. Glielo avvicinò alle labbra, e a questo punto di solito il bambino tirava fuori la lingua o cercava di sporgersi in avanti per prendere in bocca il cucchiaio, ma quella sera se ne restò immobile, senza gorgoglii, senza scuotere la testa, senza spostarsi o sbattere le mani o ruotare gli occhi: teneva lo sguardo fisso dinanzi a sé, il volto segnato da un’espressione curiosa che avrebbe potuto essere scambiata per felicità.

Eric continuò a insistere, si sedette ancora più vicino a lui, cercando di ignorare il dolore che gli martellava la testa sempre più forte via via che l’emicrania peggiorava. Gli parlò con dolcezza, cosa che normalmente avrebbe causato una rotazione delle pupille e un movimento della testa verso la fonte del suono, ma non ci fu alcuna reazione. Eric controllò la cartella clinica fissata di fianco alla sedia per vedere se gli erano state somministrate nuove cure, ma tutto sembrava normale. Si accostò ancora, cantilenando qualcosa tra sé, col cucchiaio sempre proteso, lottando contro le fitte di dolore che gli perforavano il cranio.

Fu allora che vide qualcosa. Una specie di movimento — piccolissimo, pressoché impercettibile — sulla testa rasata del bambino, che in quel momento accennava quasi un sorriso. Una mossa lenta e davvero minuscola. Eric strinse gli occhi e scosse la testa per tentare di scacciare i bagliori tremolanti dell’emicrania che gli stava ormai annebbiando il cervello. Si alzò in piedi, con il cucchiaio di poltiglia ancora stretto in mano. Si chinò sulla testa del bimbo per guardare più da vicino. Non riusciva a vedere niente. Guardò anche lungo il bordo del caschetto metallico, e gli parve di scorgere qualcosa là sotto, allora lo sollevò per controllare che non ci fosse qualche problema.

Un operaio della sala caldaie sentì l’urlo di Eric e accorse in reparto brandendo una grossa chiave inglese. Trovò Eric raggomitolato per terra in un angolo, che urlava con quanto fiato aveva in gola, la testa tra le gambe, mezzo inginocchiato e mezzo steso, in posizione fetale. La sedia del bambino si era ribaltata, ma lui era ancora legato dentro, con il sorriso sulle labbra, riverso sul pavimento a qualche metro di distanza da Eric.

L’uomo della sala caldaie cercò di scuotere Eric, ma non ebbe risposta. Poi guardò il bambino nella sedia e fece per avvicinarvisi, forse per rimetterlo su. Fece qualche passo, poi improvvisamente corse via verso la porta, ma lo stomaco non gli resse e vomitò prima di poterla raggiungere. Un’infermiera del piano di sopra lo trovò nel corridoio, ancora intento a lottare contro il vomito, quando scese a vedere cosa fosse tutto quel baccano. Eric intanto aveva smesso di urlare e si era calmato. Il bambino aveva ancora il sorriso sulle labbra.

L’infermiera raddrizzò la sedia. Non so se la cosa l’abbia sconvolta, se le sia costata fatica soffocare la nausea, oppure, avendo già assistito a scene simili o anche peggiori, se sia riuscita tranquillamente ad affrontare la situazione. Comunque seppe cavarsela: fece delle telefonate per chiedere aiuto e si diede da fare per tirar via Eric dall’angolo in cui si era rintanato. Lo fece sedere su una sedia, coprì la testa del bambino con un panno e cercò di confortare l’operaio delle caldaie, poi rimosse il cucchiaio dal cranio aperto del bimbo sorridente. Ce l’aveva conficcato Eric. Forse aveva pensato, nei primi momenti di shock, di poter tirare via con quello ciò che aveva visto là dentro.

In reparto erano entrate delle mosche, probabilmente quando si era inceppato il condizionatore. Si erano intrufolate sotto il caschetto di acciaio inossidabile e lì avevano depositato le uova. Quello che Eric vide quando sollevò il caschetto, quello che vide in quel luogo greve di sofferenza umana, con la città oscura, opprimente, afosa che si allargava violentemente tutt’attorno, quello che vide, con l’emicrania che gli spaccava in due il cranio, fu un nido brulicante di larve grasse e lente che pasteggiavano col cervello del bambino nuotando nei propri succhi gastrici.


Eric sembrò riprendersi dall’accaduto. Gli furono somministrati dei sedativi, restò ricoverato per un paio di notti, poi si riposò per qualche giorno nella sua stanza. Tornò agli studi nel giro di una settimana e riprese a frequentare i corsi regolarmente. Furono in pochi a sapere che gli era successo qualcosa. Qualcuno si accorse che era un po’ taciturno, ma niente di più. A noi non fu detto nulla, tranne che Eric aveva saltato le lezioni per qualche giorno a causa dell’emicrania.

Successivamente venimmo a sapere che si era messo a bere, non andava alle lezioni o si presentava a quelle sbagliate, urlava nel sonno e svegliava i vicini di stanza dello studentato, si impasticcava, saltava gli esami e le esercitazioni. Alla fine quelli dell’università gli suggerirono di starsene a casa fino alla fine dell’anno, visto che era rimasto indietro con i programmi. Eric la prese malissimo. Raccolse tutti i suoi libri, li mise uno sopra all’altro nel corridoio davanti all’ufficio del suo professore e appiccò il fuoco. Fu fortunato a non beccarsi una denuncia: l’università fu indulgente nei suoi confronti, chiuse un occhio sui lievi danni arrecati dal fumo agli antichi rivestimenti in legno, ed Eric tornò sull’isola.

Ma non tornò da me. Non volle avere niente a che fare con me, se ne stava chiuso in camera a sentire i suoi dischi a volume alto e non usciva mai, tranne che per andare in paese, dove però fu presto bandito da tutti e quattro i pub perché scatenava risse e urlava e insultava la gente. Quando si accorgeva di me mi puntava addosso i suoi occhi immensi, oppure si dava dei colpetti sul naso e ammiccava furtivamente. Gli era venuto uno sguardo torvo, segnato dalle occhiaie, e molto spesso gli tremavano le narici. Una volta mi sollevò tra le braccia e mi diede un bacio sulla bocca, facendomi una gran paura.

Anche mio padre divenne poco comunicativo. Si abbandonò a una vita tetra fatta di lunghe passeggiate e silenzi cupi, introspettivi. Si mise a fumare sigarette, e per un periodo ne fumò in gran quantità, una dopo l’altra. Andò avanti così per circa un mese, e la casa era diventata un inferno. Io stavo spesso fuori, oppure mi chiudevo in camera a guardare la tv.

In quel periodo Eric cominciò a terrorizzare i ragazzini giù in paese, prima scagliandogli addosso manciate di vermi, poi ficcandoglieli dentro ai vestiti all’uscita da scuola. Quando infine cominciò a metterglieli in bocca, un gruppetto di genitori, un insegnante e Diggs arrivarono sull’isola per parlare con mio padre. Io stavo nella mia stanza, in un bagno di sudore, mentre quelli parlavano giù in salotto, con i genitori che ricoprivano mio padre di urla. Eric fu interrogato dal dottore, da Diggs, e anche da un assistente sociale di Inverness, ma non diceva quasi niente: se ne restava seduto, col sorriso sulle labbra, e ogni tanto parlava della quantità di proteine contenute nei vermi. Una volta tornò a casa tutto pesto e sanguinante, e io e mio padre deducemmo che qualche ragazzo più grande o qualche genitore doveva avergliele suonate di santa ragione.

Un giorno un gruppo di ragazzini vide mio fratello che versava una tanica di benzina addosso a uno yorkshire e gli dava fuoco. Non si vedevano più cani in circolazione da circa due settimane. I genitori credettero ai propri figli e si misero alla ricerca di Eric. Lo trovarono che stava facendo la stessa cosa a un vecchio bastardino precedentemente adescato con dei dolci all’anice. Lo inseguirono per i boschi che si estendono oltre il paese, ma non riuscirono a prenderlo.

Diggs venne ancora da noi, quella sera, per dirci che doveva arrestare Eric per disturbo alla quiete pubblica. Aspettò fino a tardi, accettando solo un paio di whisky che mio padre gli aveva offerto, ma Eric non tornò. Diggs se ne andò e mio padre rimase ancora in attesa, ma Eric non si fece vivo. Dopo tre giorni e cinque cani finalmente tornò, stravolto e lurido. Puzzava di benzina e di fumo, aveva i vestiti a brandelli e la faccia scarnita e sudicia. Rientrò la mattina presto (fu mio padre a sentirlo), saccheggiò il frigo, ingurgitò una gran quantità di cibi diversi e si trascinò rumorosamente a letto.

Mio padre strisciò furtivo fino al telefono e chiamò Diggs, che arrivò prima di colazione. Eric però doveva essersi accorto di qualcosa, perché uscì dalla finestra della sua stanza, calandosi giù per la grondaia, e se la filò con la bicicletta di Diggs. Dopo una settimana e due cani, riuscirono a prenderlo mentre era intento a risucchiare benzina da una macchina parcheggiata per strada. Durante l’arresto i suoi concittadini gli ruppero la mascella, e quella volta Eric non scappò.

Qualche mese più tardi fu dichiarato malato di mente. Era stato sottoposto a ogni tipo di esame, aveva tentato di fuggire innumerevoli volte, e aveva aggredito infermieri, assistenti sociali e medici, minacciandoli di intraprendere azioni legali ai loro danni o addirittura di ammazzarli. Man mano che le analisi cliniche, le minacce e le rivolte proseguivano, Eric veniva trasferito in istituti sempre più sicuri e attrezzati per le lunghe degenze. Ci arrivarono notizie che si era calmato molto nella casa di cura a sud di Glasgow e aveva smesso di tentare la fuga, ma a ripensarci forse stava proprio tentando — riuscendoci, a quanto pare — di placare i sorveglianti dandogli l’illusione di non doversi più preoccupare di lui.

E adesso stava di nuovo tornando da noi.


Feci scorrere lentamente lo sguardo, attraverso il binocolo, lungo il paesaggio che si stendeva davanti a me e ai miei piedi, da nord a sud, da una parte all’altra dell’orizzonte caliginoso, tra il paese e le strade e la ferrovia e i campi e la spiaggia, e mi chiesi se i miei occhi potessero cogliere in qualche modo il luogo in cui si trovava allora Eric, ammesso che fosse già arrivato nei paraggi. Sentivo che era vicino. Non avevo nessuna ragione per pensarlo, però c’era stato tutto il tempo, la chiamata della notte precedente mi era sembrata più chiara delle altre, e poi… semplicemente lo sentivo. Poteva essere proprio qui in giro, acquattato da qualche parte in attesa che calasse la notte. Forse si stava muovendo furtivamente in mezzo al bosco, o tra i cespugli di ginestre, o attorno alle dune, forse si stava dirigendo verso casa, o forse andava a caccia di cani.

Camminai lungo il crinale delle colline, poi tornai giù di qualche chilometro, a sud rispetto al paese, attraversando file di conifere riecheggianti ronzii di motoseghe lontane, tra macchie scure di ombra e silenzio. Oltrepassai la ferrovia e qualche campo di orzo mosso dal vento, superai la strada e il pascolo impervio e giunsi alla spiaggia.

Camminai lungo la linea di sabbia dura, con i piedi in fiamme e le gambe indolenzite. Un vento leggero si era alzato dal mare, e ne fui felice, perché tutte le nuvole erano state spazzate via e il sole, che andava calando lentamente, era ancora forte. Arrivai a un torrente che avevo già attraversato su per le colline. Lo riattraversai lì, vicino al mare, addentrandomi nelle dune per dirigermi verso un ponte sospeso che stava da quelle parti. Un gregge di pecore si sparpagliò davanti ai miei occhi. Alcune erano tosate, altre avevano ancora la lana addosso. Si allontanarono ballonzolanti, coi loro belati incerti, si fermarono a una distanza che ritennero sicura e si misero a brucare l’erba punteggiata di fiori, chinando la testa o accovacciandosi sul prato.

Un tempo disprezzavo le pecore per la loro profonda stupidità. Le vedevo mangiare, e mangiare, e sempre mangiare, e bastava un cane per tenerne a bada intere greggi. Le inseguivo, divertendomi un mondo per il loro modo di correre, le vedevo andarsi a ficcare in situazioni stupide e complicate, e pensavo che si meritassero di finire in spezzatino, e che l’attività di produrre la lana fosse già troppo nobile per loro. Ci vollero anni e lunghe elaborazioni prima che finalmente mi rendessi conto di quello che le pecore rappresentassero veramente: non la loro stessa stupidità, ma il nostro potere, la nostra avidità e la superbia.

Dopo aver appreso le teorie dell’evoluzione e qualche nozione di storia e agricoltura, capii che quelle bestie bianche e grasse che mi avevano fatto tanto ridere perché andavano l’una dietro l’altra e si impigliavano nei cespugli erano non solo il prodotto di generazioni di pecore, ma anche il prodotto di generazioni di allevatori. Le avevamo create noi, le avevamo plasmate, trasformando quegli esemplari selvatici e intelligenti che le avevano precedute nella catena evolutiva in animali docili, timorosi, stupidi, succulenti e buoni a produrre lana. Non volevamo che le pecore fossero particolarmente furbe, visto che l’intelligenza e l’aggressività in qualche modo procedevano di pari passo. Certo, gli arieti sono un po’ più svegli, ma anche loro sono sviliti dalle stupide femmine con cui devono unirsi per la riproduzione.

Lo stesso principio vale per le galline e le mucche e per tutte le specie su cui abbiamo saputo mettere le nostre grinfie avide e affamate. Qualche volta mi viene in mente che qualcosa di simile sarebbe potuto succedere anche con le donne, ma, per quanto la teoria possa sembrare affascinante, forse mi sbaglio.


Tornai a casa in tempo per la cena, ingozzai uova, bistecca, patatine e fagioli e passai il resto della serata davanti alla televisione a cercare di tiranni via dai denti con un fiammifero dei frammenti di mucca morta.

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