Mi dà fastidio il fatto che Eric sia impazzito. Anche se non si è mai trattato propriamente di una cosa a intermittenza, con momenti di follia che si alternavano a sprazzi di lucidità, ho la certezza che sia stato proprio l’incidente col bambino a far scattare in Eric quella molla che l’avrebbe inevitabilmente condotto alla rovina. Una parte di lui non poteva accettare quel che era accaduto, ciò che aveva visto non combaciava affatto col modo in cui secondo lui sarebbero dovute andare le cose. Forse una zona profonda della sua coscienza, sepolta sotto gli strati del tempo e del progresso come i resti romani di una città moderna, credeva ancora in Dio, e non riusciva a tollerare l’idea che una simile entità, ammesso che potesse esistere un essere così improbabile, avesse permesso che accadesse una cosa del genere a una delle sue creature, fatte a quanto pare a sua stessa immagine e somiglianza.
Quel che allora si sprigionò dentro Eric, di qualunque cosa si trattasse, lo rese un debole, provocò in lui un’incrinatura. Se fosse stato un vero uomo non avrebbe reagito a quel modo. Le donne — lo so bene perché ne ho viste a centinaia, forse a migliaia nei film e nei programmi televisivi — non resistono quando si trovano di fronte a un evento davvero importante. Se vengono violentate, o se gli muore il fidanzato, vanno fuori di testa e si suicidano, oppure si struggono di dolore fino alla morte. So bene che non tutte reagiscono allo stesso modo, ma questa è la regola, e le donne che non vi obbediscono sono comunque in minoranza.
Credo che ne esista anche qualcuna in gamba, più mascolina delle altre nel carattere, e comunque ho il sospetto che Eric sia stato vittima di un animo un po’ troppo femminile. Quella sensibilità, quel desiderio di non ferire la gente, quell’intelligenza delicata, accorta, erano tutte caratteristiche che gli appartenevano forse proprio perché pensava troppo come una donna. Non aveva mai avuto problemi a riguardo prima che gli capitasse quella spiacevole esperienza, ma in quel momento, in quella circostanza estrema, Eric crollò. La colpa è di mio padre, per non parlare di quella puttana che l’aveva mollato per un altro. Mio padre deve prendersi le sue responsabilità soprattutto per le stupidaggini che ha fatto quando Eric era piccolo, lasciando che si vestisse come meglio credeva e facendogli scegliere liberamente se mettersi i pantaloni o la gonna. Harmsworth e Morag Stove avevano tutte le ragioni per preoccuparsi del modo in cui veniva allevato il nipote, e fecero bene a prendersi cura di lui. Se mio padre non avesse avuto quelle idee balorde, se mia madre non avesse provato risentimento nei confronti di Eric e se gli Stove l’avessero portato via prima, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma non è stato così, e spero che mio padre si senta in colpa per questo, come è giusto che sia. Voglio che si senta continuamente addosso il peso di ciò che ha fatto, e spero che non chiuda occhio la notte, o che gli incubi lo facciano svegliare nel gelo della notte in un bagno di sudore se per caso riesce ad addormentarsi. Se lo merita.
La sera della scarpinata sulle colline Eric non chiamò. Avevo preso sonno quasi subito, ma sicuramente avrei sentito lo squillo del telefono. Invece feci tutta una tirata, forse per la stanchezza della lunga camminata. Il giorno dopo mi svegliai alla solita ora, uscii a fare una passeggiata lungo la spiaggia all’aria fresca del mattino e tornai in tempo per una colazione sostanziosa.
C’era qualcosa di inquietante nell’aria. Mio padre era più taciturno che mai, e il calore della cucina si addensava in fretta, spandendosi greve per tutta la casa nonostante le finestre aperte. Vagai da una stanza all’altra, poi mi appoggiai a un davanzale per guardare fuori, perlustrando l’orizzonte con gli occhi sbarrati. Dopodiché, con mio padre mezzo addormentato in poltrona, tornai in camera, indossai una maglietta e il gilè leggero con le tasche, le riempii di cose utili, mi misi in spalla lo zainetto e uscii di casa, con l’intenzione di dare un’occhiata alle varie vie di accesso all’isola e di passare forse anche dalla discarica, se non c’erano troppe mosche. Inforcai gli occhiali da sole. Le lenti scure rendevano i colori più vividi. Cominciai a sudare subito dopo aver varcato la soglia di casa. Un venticello caldo e tutt’altro che refrigerante soffiava incerto da più direzioni, portando con sé l’odore dell’erba e dei fiori. Mi avviai a passo deciso su per il sentiero, passai il ponte e costeggiai il torrente dalla parte della terraferma, seguendone il corso e scavalcando a balzi le diramazioni minori, fino ad arrivare alla zona delle dighe. Poi mi diressi a nord e risalii la fascia delle dune davanti al mare, prendendole dalla parte della cima sabbiosa per poterne sfruttare la visuale, anche se arrampicarsi dal versante meridionale significava fare il doppio della fatica.
Il riverbero della calura rendeva tutto tremolante, incerto, mutevole. La sabbia era bollente. Attorno a me ronzavano insetti di ogni specie e dimensione. Li scacciai via con la mano.
Di tanto in tanto sollevavo gli occhiali, mi asciugavo il sudore dalla fronte e guardavo col binocolo, esaminando l’orizzonte velato dal tremolio dell’afa. Mi prudeva la testa dal sudore, e sentivo un formicolio in mezzo alle gambe. Controllai diverse volte e con estrema accuratezza le cose che avevo portato con me. Soppesai distrattamente l’astuccio con i proiettili, portai una mano alla vita per controllare coltello e fionda, verificai se avevo ancora l’accendino, il pettine, lo specchio, la penna e la carta. Sorseggiai un po’ d’acqua dalla borraccia, anche se ormai era calda e sapeva di stantio.
Vidi qualche relitto dall’aspetto interessante sulla spiaggia e lungo la battigia, ma me ne restai sulle dune, seguendo la strada più scoscesa quando non potevo fare altrimenti, e spingendomi verso l’estremo nord, oltre ruscelletti e piccoli acquitrini, oltre il Cerchio della Bomba e oltre lo spiazzo (a cui non avevo mai dato un nome vero e proprio) dove Esmeralda aveva preso il volo.
Pensai a quei luoghi solo dopo averli superati.
Dopo un’ora o giù di lì cominciai a spostarmi verso l’interno, poi girai a sud, seguendo le ultime dune, e mi fermai a guardare i pascoli smangiucchiati con le pecore che si muovevano lente sull’erba e continuavano a brucare. Sembravano quasi delle larve. Rimasi immobile per un attimo e seguii il volo di un uccello che si stagliava contro l’azzurro ininterrotto del cielo, volteggiando nella corrente e solcando il cielo con movimenti spiraliformi, ora in un verso, ora nell’altro. Più in basso sfrecciò uno stormo di gabbiani, con le ali tese e il collo bianco allungato come a puntare qualcosa. Trovai una rana morta stecchita in cima a una duna, ancora sporca di sangue sul dorso e tutta incrostata di sabbia, e mi chiesi come fosse potuta arrivare fin là. Forse l’aveva lasciata cadere un uccello. Mi infilai il berretto verde, proteggendomi gli occhi dalla luce abbagliante. Mi avviai a passo spedito giù per il sentiero, all’altezza dell’isola e della casa. Ogni tanto mi fermavo per guardare col binocolo. Le macchine e i camion scintillavano in mezzo agli alberi, a circa un chilometro di distanza. Passò anche un elicottero, forse diretto verso una piattaforma o un oleodotto.
Mi inoltrai in mezzo agli arbusti e arrivai alla discarica, subito dopo mezzogiorno. Mi sedetti all’ombra del fogliame e ispezionai il posto attraverso le lenti degli occhiali. C’erano un po’ di gabbiani, e nessuno in giro. Un filo di fumo saliva lentamente da un fuoco acceso al centro, e tutt’attorno si vedevano i resti sparsi di ciò che era stato gettato via in città e dintorni: scatoloni e sacchi di plastica nera, insieme al bianco luccicante e rovinato di vecchie lavatrici, cucine e frigoriferi. Per un istante si alzò il vento, e le cartacce varie si sollevarono nell’aria disegnando un mulinello, poi ricaddero al suolo.
Mi avvicinai ancora di più alla discarica, assaporandone l’odore marcio e dolciastro. Presi a calci le immondizie, capovolgendo a colpi di stivale gli oggetti più interessanti, ma non c’era niente che valesse veramente la pena di raccattare. Uno dei motivi per cui la discarica mi è sempre piaciuta tanto è che ogni volta è diversa. Si sposta, come fosse un immenso essere vivente, si espande come un’ameba gigantesca man mano che assorbe la terra feconda e i rifiuti di tutta la gente. Ma quel giorno sembrava stanca e noiosa. Diventai insofferente nei suoi confronti, lasciandomi quasi prendere dalla rabbia. Lanciai un paio di boccette per l’aerosol nel debole fuoco acceso nel mezzo. Caddero senza alcun vigore tra le fiamme pallide, dandomi poca soddisfazione. Lasciai la discarica e ripresi il mio cammino verso sud. A circa un chilometro dalla discarica, vicino a un torrente, c’era una specie di villetta, una casa per le vacanze che dava dritta sul mare. Era sigillata e deserta, e non c’erano impronte recenti sul sentiero sconnesso che portava all’entrata e poi alla spiaggia. Era proprio su quel viottolo che Willie, un amico di Jamie, ci aveva fatto fare la corsa sul furgone, sgommando a tutta velocità sulla sabbia.
Sbirciai l’interno dalla finestra. Nella penombra si scorgevano dei mobili male assortiti, dall’aria polverosa e abbandonata. Sul tavolo c’era una vecchia rivista, con un angolo ingiallito dal sole. Mi sedetti là fuori, nell’ombra proiettata dal tetto spiovente, e finii di bere l’acqua. Mi tolsi il berretto e mi asciugai la fronte col fazzoletto. In lontananza si sentivano esplosioni soffocate provenienti dal campo-esercitazioni che stava più avanti, lungo la costa. A un certo punto il cielo fu squarciato da un jet, che passò sopra il mare piatto dirigendosi verso ovest.
Dall’altra parte della casa si stendeva una fila di collinette ricoperte di ginestre e alberi rachitici modellati dal vento. Puntai il binocolo da quella parte, scacciando le mosche con la mano. Cominciava a farmi male la testa e avevo la gola secca, nonostante avessi appena scolato quell’acqua ormai calda che mi era rimasta. Misi giù il binocolo e abbassai gli occhiali sul naso. In quel momento udii un rumore.
Era una specie di ululato. Un animale — mio Dio, sperai non fosse stato un essere umano a emettere quel suono — lanciò un urlo straziante. Era un gemito di angoscia crescente e disperata, un suono che solo un animale in fin di vita potrebbe produrre, e che mai si vorrebbe sentir emettere da qualsivoglia creatura vivente.
Mi sedetti, con il calore che mi arrostiva e il sudore che mi colava addosso. Mi vennero i brividi. Una folata fredda mi percorse le membra, e mi scrollai come un cane bagnato, da capo a piedi. Scossi la nuca inzuppata di sudore, e i capelli si staccarono, restando dritti dietro al collo. Mi alzai in fretta, aggrappandomi al legno caldo della casa, con il binocolo che mi sbatteva sul petto. L’ululato veniva dalle colline. Tirai su gli occhiali da sole e afferrai il binocolo, dandomi una botta in fronte mentre cercavo affannosamente di mettere a fuoco. Le mani mi tremavano. Una sagoma nera schizzò fuori dai cespugli, lasciando dietro di sé una scia di fumo. Discese a folle velocità la collina, calpestando l’erba punteggiata di giallo lucente, e oltrepassò una staccionata. Armeggiai col binocolo per cercare di ottenere una panoramica e seguire l’animale, ma il movimento convulso delle mani mi fece sfocare la visuale. Il gemito penetrante risuonava nell’aria, acuto e terribile. Vidi sparire quella sagoma dietro un cespuglio, poi tornai a vederla. Correva avvolta dalle fiamme, e saltava qua e là tra le canne e l’erba, con il fumo che le si levava attorno. Avevo la bocca tutta secca. Non riuscivo a inghiottire, stavo soffocando, ma continuai a seguire col binocolo la bestia che sbandava e si contorceva in preda ai guaiti, rimbalzava, cadeva, schizzava ancora in aria. Poi scomparve, a un centinaio di metri da me e altrettanti dalla cresta della collina. Spostai velocemente il binocolo verso l’alto per vedere cosa succedeva lassù, percorsi con lo sguardo ogni direzione, avanti e indietro, mi soffermai a osservare attentamente un cespuglio, scossi la testa, ispezionai nuovamente l’orizzonte. Una parte insulsa del mio cervello si mise a pensare a quello che si vede nei film quando qualcuno guarda con un binocolo, quello che si suppone debba vedere chi sta guardando: l’immagine è sempre racchiusa in una specie di otto coricato. Quando ci guardo dentro io, invece, vedo sempre un cerchio più o meno perfetto. Abbassai il binocolo e diedi una rapida occhiata intorno. Non c’era nessuno. Mi spostai di scatto dall’ombra, scavalcai il reticolato che delimitava il giardino e mi diressi di corsa verso le collinette.
Una volta raggiunto il crinale mi fermai per un momento, piegandomi in due per riprendere fiato e scrollarmi dai capelli un po’ di sudore, che lasciai gocciolare ai miei piedi, sull’erba scintillante. Avevo la maglietta appiccicata addosso. Poggiai le mani sulle ginocchia e sollevai la testa, sforzando gli occhi per scrutare gli alberi e i cespugli allineati in cima al colle. Percorsi con lo sguardo l’orizzonte, oltre i campi e le file di ginestre che segnavano il solco della ferrovia. Camminai a passo sostenuto lungo il crinale, con la testa che ciondolava avanti e indietro, finché non vidi una chiazza di erba che stava bruciando. Spensi il fuoco coi piedi e cercai delle tracce. Le trovai. Aumentai la velocità dell’andatura, nonostante le proteste dei miei polmoni e della gola, e vidi un altro incendio nell’erba che si stava propagando verso le ginestre. Estinsi anche quello, e proseguii.
Dalla parte interna del crinale vidi una piccola conca. Gli alberi là attorno erano cresciuti in modo abbastanza normale. Se ne vedevano solo le cime, che spuntavano dalla barriera delle collinette e parevano venir fuori direttamente dal mare, agitate dal vento.
Mi misi a correre verso la parte erbosa del dirupo, nella scia instabile di ombra proiettata dalle foglie e dai rami che ondeggiavano lentamente nel vento. C’erano delle pietre disposte in circolo attorno a un centro annerito. Diedi un’occhiata in giro. Vidi una chiazza di erba appiattita. Mi fermai per calmare i nervi, diedi un’altra occhiata agli alberi, all’erba, alle felci, ma non vidi nulla. Mi avvicinai alle pietre, le toccai, e lo stesso feci con le ceneri nel mezzo. Erano ancora calde, anche se ci batteva l’ombra, talmente calde da farmi ritirare la mano. Sentii odore di benzina.
Risalii dalla conca e mi arrampicai su un albero, mi sistemai bene in equilibrio e lentamente cominciai a ispezionare la zona, aiutandomi col binocolo. Niente.
Scesi dall’albero, rimasi immobile per un istante, poi tirai un respiro profondo e ridiscesi di corsa la collina, dal versante rivolto verso il mare, dirigendomi in diagonale verso il punto in cui avevo visto passare la bestia. Feci una deviazione per estinguere un altro piccolo incendio. Sorpresi una pecora intenta a brucare. Le saltai addosso, tanto per spaventarla, e quella si mise a belare e fuggì.
Il cane giaceva nel torrente che porta alla palude. Era ancora vivo, anche se aveva perso gran parte del pelo, e la cute sotto era livida e squarciata. Tremava nell’acqua, e a vederlo anche a me vennero i brividi. Rimasi sull’argine a guardarlo. Sollevò la testa scossa dalle convulsioni e mi guardò con un occhio solo, l’altro era bruciato. Nella pozza d’acqua in cui era immerso galleggiavano grumi di pelo bruciacchiato. Sentii nelle narici un leggero odore di carne bruciata, e mi venne un groppo alla gola, proprio sotto il pomo di Adamo.
Presi la borsa con i proiettili, mi slegai la fionda dalla cintola e la caricai. Allungai le braccia, avvicinandomi una mano al viso madido di sudore, e sparai il colpo.
Il cane tirò fuori la testa di scatto, la rimise sott’acqua, poi la sollevò di nuovo e cercò di fuggire, riverso su un fianco. Si lasciò trascinare per un po’ dalla corrente, poi andò a sbattere contro l’argine. Perdeva sangue dall’orbita ormai vuota di quell’unico occhio che gli era rimasto. «A Frank non si sfugge» mormorai.
Trascinai fuori il cane e scavai col coltello una fossa nel terreno soffice di torba che circondava l’alto corso del torrente, soffocando i conati che mi salivano per la puzza del cadavere. Seppellii la bestia, mi guardai attorno e poi, dopo aver valutato bene la direzione del vento, mi spostai di qualche metro e diedi fuoco al prato. Le vampe lambirono le ultime tracce di quella fuga fiammeggiante, insieme alla tomba del cane. L’incendio si propagò fino al torrente, dove sapevo sarebbe terminato. Estinsi qualche chiazza isolata che stava prendendo fuoco sull’altra sponda, dove erano volati dei tizzoni.
Quando fu tutto finito, e il cane fu definitivamente arso dalle fiamme, mi voltai verso casa e mi misi a correre.
Non ci furono incidenti sulla via del ritorno. Tracannai un litro d’acqua e cercai di rilassarmi nel fresco della vasca da bagno, con un cartone di succo d’arancia appoggiato sul bordo. Stavo ancora tremando. Mi ci volle un po’ per togliermi dai capelli la puzza di bruciato. Dalla cucina, dove mio padre stava facendo da mangiare, salivano odori di cibi vegetariani. Non avevo dubbi: avevo quasi visto mio fratello. Non era lì che aveva passato la notte, pensai, ma c’era passato, e per poco non l’avevo incrociato. In un certo senso provai sollievo. La cosa mi risultava difficile da accettare, ma era la verità.
Sprofondai di schiena, lasciando che l’acqua mi venisse addosso.
Mi infilai la vestaglia e scesi in cucina. Mio padre era seduto a tavola in calzoncini e canottiera, con i gomiti appoggiati sul piano e lo sguardo fisso sull’Inverness Courier. Rimisi in frigo il succo d’arancia e tirai su il coperchio del tegame; dentro c’era un intruglio al curry che si stava raffreddando, da accompagnarsi con l’insalata disposta sul tavolo in una ciotola. Mio padre sfogliava il giornale, ignorandomi.
«Caldo, eh?» dissi, in mancanza di altri argomenti.
«Mmmh.»
Mi sedetti all’altro capo del tavolo. Mio padre voltò un’altra pagina, a testa bassa. Mi schiarii la gola.
«C’è stato un incendio giù, vicino a quella casa nuova. L’ho visto. E l’ho anche spento» dissi per coprirmi le spalle.
«Sarà stato per il caldo» disse mio padre senza alzare lo sguardo. Annuii tra me, grattandomi in mezzo alle gambe senza dare nell’occhio, attraverso i lembi della vestaglia.
«Ho sentito le previsioni. Dicono che domani sul tardi cambia il tempo» dissi scrollando le spalle. «Così pare.»
«Bene, staremo a vedere» disse mio padre. Richiuse il giornale e si alzò a controllare lo stufato. Annuii, giocherellando con la cintura della vestaglia, e buttai un’occhiata distratta al quotidiano. Mio padre si sporse in avanti per annusare l’intruglio. Io rimasi immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto.
Mi voltai verso di lui, mi alzai, girai intorno alla seggiola su cui prima era seduto, mi fermai, come a voler guardare fuori dalla porta. Ma i miei occhi caddero di sbieco sui titoli del giornale. MISTERIOSO INCENDIO DIVAMPA IN CASA DI VILLEGGIATURA, c’era scritto in prima pagina, in fondo a sinistra. Una villetta subito a sud di Inverness era andata a fuoco immediatamente prima che il giornale andasse in stampa. La polizia stava conducendo le indagini.
Tornai all’altro capo del tavolo, mi misi a sedere.
Mangiammo l’insalata e lo stufato, e io ricominciai a sudare. Un tempo pensavo di essere una strana creatura perché avevo scoperto che il giorno dopo aver mangiato curry anche le mie ascelle sapevano di curry, ma poi Jamie mi disse che succedeva anche a lui, e la cosa mi tranquillizzò notevolmente. Mangiai lo stufato, poi uno yogurt e una banana, ma non servì a togliermi il piccante dalla bocca. Mio padre, che aveva sempre avuto un atteggiamento masochistico nei confronti di quel piatto, non riuscì a finirlo, e ne lasciò quasi la metà.
Ero ancora in vestaglia, a guardare la tv in soggiorno, quando squillò il telefono. Mi avviai verso la porta, ma sentii mio padre che usciva dal suo studio per andare a rispondere. Rimasi sulla soglia ad ascoltare. Non riuscii a capire molto, poi sentii i passi di mio padre che veniva giù dalle scale e tornai in fretta alla mia poltrona, ci sprofondai dentro e poggiai la testa su un bracciolo, con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Mio padre aprì la porta.
«Frank, è per te.»
«Eh?» dissi io piano. Aprii gli occhi, mi voltai verso la tv, poi mi alzai un po’ barcollante. Mio padre lasciò la porta aperta e ritornò nello studio. Andai al telefono.
«Sì… Pronto?»
«Buo-o-n-giorno, pa-a-rlo con Fra-a-nk?» disse una voce strascicata.
«Sì. Chi è?»
«Ah, ah, piccolo Frank!» urlò Eric. «Bene, eccomi qua, sono nel cuore della foresta e continuo a mangiare i miei hot dog! Ah, ah! Allora come stai, ragazzo mio? L’oroscopo ti è favorevole, vero? A proposito, di che segno sei? L’ho dimenticato.»
«Del cane.»
«Oh, davvero?»
«Sì. E tu di che segno sei?» chiesi io seguendo diligentemente un suo vecchio tormentone.
«Cancro!» arrivò la risposta, urlata.
«Benigno o maligno?» domandai io in tono stanco.
«Maligno!» stridette Eric. «Ho detto cancro, non tumore!»
Allontanai l’orecchio dalla cornetta. Cominciò a ridere sguaiatamente, e io dissi: «Senti, Eric…»
«Come stai? Come vanno le cose? A che pensi? Stai bene? Come te la passi? Che mi dici? Che fai di bello? Dove stai con la testa in questo momento? Dove sei stato? Cristo santo, Frank, sai perché le Volvo fischiano? Be’, neanch’io, ma chi se ne frega? Cosa disse Trotskij? “Ho bisogno di Stalin come di un buco in testa”. Ah ah ah ah ah! A dire il vero non mi piacciono queste macchine tedesche. Hanno i fari troppo ravvicinati. Stai bene, Frankie?»
«Eric…»
«A letto, a dormire. Forse a masturbarti. Ce l’hai il preservativo? Ah ah ah!»
«Eric» dissi io guardando su per le scale per controllare che mio padre non fosse là attorno. «Vuoi stare zitto?»
«Che?» disse Eric con voce rotta e risentita.
«Il cane» dissi io con un sibilo. «Oggi ho visto il cane. Quello vicino alla casa nuova. Ero lì. L’ho visto.»
«Che cane?» chiese Eric perplesso. Sentivo i suoi sospiri pesanti e un chiacchiericcio in sottofondo.
«Non cercare di confondermi, Eric. L’ho visto. Voglio che tu la smetta, hai capito? Basta coi cani. Mi senti? Hai capito? Allora?»
«Che? Che cani?»
«Hai capito benissimo. Sento che non sei lontano da qui. Niente più cani. Lasciali in pace. E smettila anche coi bambini. Niente vermi. Scordatelo. Se vuoi vieni a trovarci — sarebbe bello — ma niente vermi e niente cani in fiamme. Sto dicendo sul serio, Eric. Faresti meglio a darmi retta.»
«Dare retta a cosa? Di che stai parlando?» disse lui lamentoso.
«Hai sentito» dissi, e misi giù il telefono. Rimasi in piedi lì accanto, guardando in alto verso le scale. Dopo pochi secondi squillò di nuovo. Tirai su la cornetta, sentii solo il segnale e riattaccai. Restai in attesa per qualche minuto, ma non accadde altro.
Tornai in soggiorno e incrociai mio padre che usciva dallo studio asciugandosi le mani con uno straccio. Aveva gli occhi spalancati e si portava dietro una scia di odori incomprensibili.
«Chi era?»
«Jamie che faceva una voce strana» dissi.
«Mmmh» rispose, apparentemente risollevato, e tornò indietro.
A parte lo stufato che gli tornava su, mio padre fu molto silenzioso. Quando la serata cominciò a rinfrescarsi uscii a fare un giro sull’isola. Arrivavano delle nuvole dal mare, e sembrava che una porta si stesse sbarrando lentamente davanti al cielo, intrappolando sopra l’isola il calore delle giornate. Si sentivano dei tuoni dall’altra parte delle colline. Niente lampi. Piombai in un sonno agitato, senza mai smettere di sudare e rigirarmi nel letto, finché un’alba iniettata di sangue non fece la sua comparsa sopra la spiaggia.