8. La Fabbrica della Vespa

Il mattino dopo, mentre mio padre dormiva e la luce fredda dell’alba filtrava tra la fitta cortina di nubi, mi alzai in silenzio, mi lavai e mi rasai con cura, ritornai nella mia stanza, mi vestii lentamente, poi presi il barattolo con la vespa mezza addormentata e lo portai in soffitta, dove la Fabbrica mi stava aspettando.

Posai il barattolo sul piccolo altare sotto la finestra e feci gli ultimi preparativi di cui necessitava la Fabbrica. Dopodiché presi un po’ di gel detergente dal vasetto accanto all’altare e me lo strofinai bene sulle mani. Diedi un’occhiata alle Tavole delle maree e delle distanze, un libricino rosso che tenevo dall’altra parte dell’altare, per controllare l’orario dell’alta marea. Sistemai le due candeline delle vespe posizionandole come fossero le lancette di un orologio che segnava l’ora dell’alta marea sulla facciata della Fabbrica, poi svitai il coperchio del barattolo ed estrassi le foglie e le bucce d’arancia, lasciandoci dentro solo la vespa.

Poggiai il barattolo sull’altare, che era agghindato con diversi oggetti di potere: il teschio del serpente che aveva ucciso Blyth (catturato e tagliato in due da suo padre con una vanga da giardinaggio; l’avevo recuperato dall’erba nascondendone la parte anteriore nella sabbia prima che Diggs se lo portasse via come prova per le indagini), un frammento della bomba che aveva dilaniato Paul (il pezzo più piccolo che avevo trovato; ce n’erano un sacco), un brandello di tenda da campeggio, ossia la stoffa dell’aquilone che si era portata in cielo Esmeralda (un ritaglio, ovviamente, non l’originale) e un piattino contenente alcuni dei denti gialli e rovinati del Vecchio Saul (estratti senza alcuna difficoltà).

Mi misi una mano in mezzo alle gambe, chiusi gli occhi e ripetei le mie preghiere segrete. Ero in grado di recitarle automaticamente, ma provai a pensare al loro significato mentre le dicevo. Contenevano le mie confessioni, i miei sogni e le speranze, le paure e gli odii, e ancora mi fanno rabbrividire ogni volta che le pronuncio, automaticamente o meno. Basterebbe un registratore nelle vicinanze, e l’orribile verità sui miei tre omicidi verrebbe presto a galla. È solo per quel motivo che le preghiere sono pericolose. Dicono anche la verità su chi sono io, su ciò che voglio e ciò che provo, e fa una certa impressione sentirsi descrivere nel modo in cui si è pensato a se stessi nei momenti di sincerità e abiezione più estrema, tanto quanto è umiliante sentire a cosa si è pensato nei momenti di maggiore speranza e illusione.

Finite le preghiere, presi la vespa senza alcuna difficoltà, la portai verso la parte inferiore della Fabbrica e ce la feci entrare.


La Fabbrica della Vespa ricopre un’area di parecchi metri quadri disseminati in un groviglio irregolare e vagamente fatiscente di metallo, legno, vetro e plastica. Il fulcro della Fabbrica è il quadrante del vecchio orologio che un tempo era appeso sulla porta della Banca Reale di Scozia a Portneil.

L’orologio è l’oggetto più importante che abbia mai recuperato dalla discarica comunale. L’ho trovato là nell’Anno del Teschio e me lo sono portato fino a casa facendolo rotolare per il sentiero e per il ponte con un suono rimbombante. Dopodiché l’ho messo al sicuro nella rimessa e ho aspettato il momento che mio padre si allontanasse per un’intera giornata, poi ho faticato e sudato ore e ore per portarlo fino in soffitta. È fatto di metallo ed è quasi un metro di diametro. È pesantissimo e praticamente intatto. Le ore sono segnate con cifre romane. Era stato costruito a Edimburgo nel 1864, esattamente cento anni prima della mia nascita. Non si trattava certo di una coincidenza.

Ovviamente, visto che l’orologio dava sia verso l’interno che verso l’esterno della porta, ci dev’essere stato anche un altro quadrante. Lho cercato per settimane, dopo che avevo trovato la parte in mio possesso, battendo a tappeto la discarica, ma non ho mai trovato l’altro pezzo. Anche questo fa parte del mistero della Fabbrica, una sorta di leggenda, nel suo piccolo. Il vecchio Cameron della ferramenta mi ha detto di aver sentito dire che un rottamaio di Inverness avesse preso gli ingranaggi dell’orologio, quindi forse anche il secondo quadrante è stato fuso, oppure adesso adorna una parete di qualche casa elegante costruita con i proventi delle macchine demolite e dei prezzi altalenanti del ferro. Ma propenderei per la prima ipotesi.

Nel quadrante c’era qualche buco, che io ho saldato, ma ho lasciato com’era il foro centrale in cui il meccanismo si collegava alle lancette, ed è da quell’apertura che le vespe vengono introdotte nella Fabbrica. Una volta entrate là, possono girovagare per tutto il quadrante a loro piacimento, e possono curiosare attorno alle candele con le vespe loro parenti sepolte nella cera, oppure ignorare quei piccoli sepolcri, a seconda dei gusti.

Comunque, una volta giunte al limite del quadrante che io ho sigillato con una barriera di compensato alta cinque centimetri e tappato con un vetro circolare fatto fare su misura dal vetraio, le vespe possono entrare in uno dei dodici corridoi attraverso porticine della loro misura, che corrispondono rispettivamente ai numeri, enormi rispetto alla loro stazza. Fatta la scelta, il peso della vespa aziona un delicato meccanismo ad altalena costruito con pezzi di lattine d’alluminio, fili e spilli, e la porticina si chiude alle spalle dell’insetto, imprigionandolo nel corridoio selezionato. Nonostante io mi preoccupi di tenere i meccanismi delle porte sempre ben oliati e bilanciati, e di ripararli e controllarli fino a che anche il più lieve tremolio le faccia scattare — mi tocca camminare con passo leggero quando la Fabbrica sta svolgendo il suo compito lento e mortale — qualche volta la Fabbrica non accetta la prima scelta operata dalla vespa, e la lascia strisciare fuori finché non si ritrova di nuovo sul quadrante.

Certe volte le vespe si mettono a volare o strisciare all’indietro fino al cerchio di vetro, a volte restano un sacco di tempo vicino al foro senza uscita da cui sono entrate, ma presto o tardi scelgono un buco e una porta funzionanti, e da quel momento il loro fato è segnato.

Gran parte delle morti offerte dalla Fabbrica sono automatiche, ma alcune richiedono il mio intervento per il colpo di grazia, cosa che, ovviamente, è in qualche modo in relazione con quello che la Fabbrica volta per volta tenta di comunicarmi. Se la vespa si arrampica su per le canne del fucile ad aria compressa, a me tocca premere il grilletto; se precipita nella Pozza Ribollente, devo attaccare la corrente; se invece va a finire nel Salotto del Ragno o nella Caverna di Venere o nella Formicheria, posso semplicemente sedermi ad assistere alla natura che compie il suo corso. Se la vespa è portata ad avventurarsi nel Pozzo Acido o nella Camera di Ghiaccio o verso quel luogo che scherzosamente ho ribattezzato Cesso dei Maschi (dove lo strumento di sterminio è la mia stessa urina, in genere fresca di giornata), anche in quel caso posso starmene a guardare; se va a cadere sugli aculei ad alta tensione della Sala del Voltaggio, posso rimirarla mentre viene fulminata; se si ritrova nella Zona del Pesomorto, la vedo che si spiaccica e si riduce in poltiglia; se infine incespica dentro al Corridoio delle Lame, la osservo sminuzzarsi in preda alle convulsioni. Quando mi capita di disporre di qualche morte alternativa in aggiunta a quelle elencate, allora vedo la vespa che si rovescia addosso cera liquefatta, che ingerisce marmellata avvelenata o si infilza su uno spillo catapultata da un elastico. Può anche succedere che l’insetto metta in moto una catena di eventi che alla fine lo porta a saltare per aria, intrappolato in una piccola camera ben sigillata, col diossido di carbonio estratto da una lampadina al sodio, ma quando sceglie l’acqua bollente o la canna del fucile del Cunicolo del Destino, allora io devo partecipare in modo diretto alla sua morte. E se si inoltra nel Lago Feroce, tocca a me abbassare la barra che aziona l’accendino.

La morte per fuoco avviene sempre sulle Dodici, ed è una di quelle non sostituibili dalle morti alternative. Ho associato simbolicamente il Fuoco alla morte di Paul, era avvenuta verso mezzogiorno. Allo stesso modo, la morte per avvelenamento è rappresentata dal Salotto del Ragno che corrisponde alle Quattro. Esmeralda è morta probabilmente per annegamento (il Cesso degli Uomini), e le ho attribuito un’ora del decesso arbitraria, le Otto, tanto per rispettare la simmetria.

Vidi la vespa uscire dal barattolo e arrampicarsi su una foto di Eric che avevo piazzato sull’imboccatura. L’insetto non perdeva tempo, nel giro di pochi secondi giunse sulla facciata della Fabbrica. Si trascinò sopra la scritta con la marca e l’anno di fabbricazione dell’orologio, ignorò completamente le candele con le altre vespe sepolte dentro, e si avviò in modo piuttosto spedito verso il grande Dodici, entrando nella porticina di fronte che si richiuse silenziosamente alle sue spalle. Alla stessa velocità zampettò alla volta del corridoio, attraversando un’entrata intrecciata fatta come quella delle nasse, da cui si può accedere ma non uscire, poi infilò l’imbuto di metallo lucidato a specchio e andò a finire nello scomparto di vetro dove avrebbe finalmente trovato la morte.

Tornai a sedermi, sospirando. Mi passai una mano tra i capelli e restai col busto inclinato in avanti a guardare la vespa che intanto era caduta. La vidi arrampicarsi a fatica sulla pallina d’acciaio annerita e striata coi colori dell’arcobaleno che mi era stata venduta come filtro da tè ma che ora si era trasformata in filtro da benzina. Un sorriso afflitto mi incurvò le labbra. Lo scomparto era ben aerato per via dei numerosi buchi nel coperchio e nel fondo di metallo che corredavano il tubo di vetro, quindi la vespa non sarebbe soffocata per le esalazioni del carburante. A pensarci bene si avvertiva una leggera perdita di benzina tutte le volte che la Fabbrica veniva innescata. Sentivo l’odore di quella benzina mentre guardavo la vespa, e forse l’aria esalava anche un lieve sentore di vernice fresca, ma non ne avevo la certezza. Mi strinsi nelle spalle e schiacciai l’interruttore della scatola, in modo tale che un pezzo di spago scivolò lungo i binari (costituiti dal picchetto da tenda in alluminio) e giunse a contatto con la rotella e il meccanismo di erogazione del gas dell’accendino usa e getta sospeso sopra la pozza di benzina.

Non ci vollero neanche diversi tentativi per azionare il meccanismo: si accese al primo colpo, e le fiamme sottili, ancora piuttosto luminose in contrasto con l’oscurità del primo mattino in cui era immersa la soffitta, si arricciavano e lambivano la pallina aperta del filtro. Le fiamme non fuoriuscivano dalle maglie, ma il calore sì, e la vespa schizzò verso l’alto, ronzando rabbiosamente sopra le fiamme mute, e andò a urtare contro il vetro, poi ricadde all’indietro, colpì le pareti del filtro, si arrampicò sul bordo, cominciò a scivolare tra le fiamme, si rialzò in volo per allontanarsi, sbatté due o tre volte contro il tubo metallico dell’imbuto, poi tornò a cadere nella trappola d’acciaio. Si tirò su un’ultima volta e svolazzò disperatamente per qualche secondo, ma ormai le ali dovevano essersi bruciacchiate, perché si muoveva in modo folle e irregolare, poi cadde nella rete metallica del filtro e morì, dimenandosi fino all’ultimo, finché non rimase immobile, con un sottile filo di fumo che saliva dal suo corpicino.

Mi sedetti a guardare l’insetto annerito che sfrigolava e si accartocciava; a guardare le fiamme che si levavano tranquille e sventagliavano attorno al filtro da tè come una mano; a guardare il riflesso delle fiammelle tremolanti sulla parete opposta del tubicino di vetro. Alla fine mi sporsi in avanti, svitai la base del cilindro, feci scivolare verso di me la semisfera metallica con la benzina e spensi il fuoco. Aprii il coperchio di quella sezione della Fabbrica e ci infilai un paio di pinzette per rimuovere il corpo. Lo riposi in una scatola di fiammiferi vuota e l’appoggiai sull’altare.

Non sempre la Fabbrica restituisce i cadaveri delle sue vittime. L’acido e le formiche non lasciano resti, e la trappola di Venere e quella del Ragno fanno avanzare solo qualche rimasuglio accartocciato, e a volte neanche quello. Ancora una volta, comunque, mi era rimasto un cadaverino bruciato. Ancora una volta avrei dovuto fare qualcosa per sistemarlo. Mi presi la testa fra le mani, dondolando avanti e indietro sullo sgabello. La Fabbrica era tutt’intorno a me, l’altare mi stava alle spalle. Lanciai un’occhiata alle attrezzature della Fabbrica, ai tanti modi di morire che offriva, ai suoi corridoi, alle strettoie, alle piccole camere, alle lucine in fondo ai tunnel, ai serbatoi e alle cisterne, ai meccanismi a leva, ai fili e alle batterie, ai sostegni e ai supporti, ai tubi e ai cavi. Schiacciai alcuni interruttori, e dei piccoli propulsori ronzarono dentro ai corridoi, emanando un risucchio d’aria che si diresse verso i fori di uscita sopra ai mucchietti di marmellata fino ad arrivare alla facciata della Fabbrica. Rimasi in ascolto per qualche istante, finché non sentii l’odore della marmellata, che serviva per allettare le vespe più pigre e spingerle tra le braccia della morte. Disattivai i meccanismi.

Cominciai a spegnere tutto, a staccare i fili, a svuotare e a ricaricare la Fabbrica. La luce del mattino si stava facendo strada nella parte di cielo visibile dal lucernario, e si sentiva anche nell’aria fresca lo stridio di qualche uccello più mattiniero degli altri. Quando la disattivazione rituale della Fabbrica fu portata a termine tornai all’altare, con lo sguardo che vagava tutt’attorno alla ricerca delle varie componenti, soffermandosi sui piedistalli in miniatura e sui barattolini, sui ricordi della mia vita, su tutti quegli oggetti del passato che avevo trovato e conservato. Le fotografie dei miei parenti morti, sia di quelli che avevo ucciso io, sia di quelli che erano morti e basta. Le fotografie dei vivi: Eric, mio padre, mia madre. Fotografie di oggetti: una BSA 500 (non quella moto, purtroppo; credo che mio padre abbia distrutto tutte le foto in cui compariva), la casa quand’era ancora dipinta con colori sgargianti, e anche una foto dell’altare stesso.

Passai la scatola di fiammiferi con dentro la vespa morta sopra all’altare, la scossi un po’ al cospetto di tutti gli oggetti appoggiati là sopra, il barattolo di sabbia raccattata dalla spiaggia, le boccette dei miei preziosi fluidi, qualche pelo della barba di mio padre prelevato dal suo stick emostatico, un’altra scatola di fiammiferi con i primi denti di Eric avvolti nell’ovatta, una provetta con dei capelli di mio padre, un’altra con ruggine e pittura scrostate dal ponte che congiunge l’isola alla terraferma. Accesi le candele con le vespe invischiate nella cera, chiusi gli occhi e mi portai il piccolo sarcofago di cartone davanti alla fronte, in modo tale da sentire dentro la testa la presenza della vespa contenuta nella scatolina; una sensazione di prurito, di solletico, proprio dentro il cranio. Subito dopo spensi le candele, coprii l’altare, mi alzai in piedi, mi tolsi la polvere dai pantaloni, presi la foto di Eric che avevo posato sul vetro della Fabbrica e con quella incartai il sarcofago, legai il tutto ben stretto con un elastico e me lo misi nella tasca della giacca.


Mi avviai a passi lenti lungo la spiaggia alla volta del Bunker, con le mani in tasca e la testa bassa, con gli occhi fissi sulla sabbia e sui miei piedi, ma senza guardare veramente né l’una né gli altri. Dovunque mi voltassi c’era il fuoco. La Fabbrica l’aveva detto due volte, e io ne avevo fatto uso istintivamente quando quel maledetto coniglio aveva sferrato il suo attacco, e alla fine avevo spinto le fiamme in ogni angolo della mia mente. E poi Eric non faceva che portare quel fuoco sempre più vicino.

Sollevai il volto verso l’aria pungente e il cielo pastello dalle sfumature azzurre e rosate, con la sensazione del vento umido sulla pelle, ascoltando il sibilo della marea che scemava in lontananza. Da qualche parte una pecora si mise a belare.

Dovevo provare col Vecchio Saul, dovevo fare il tentativo di contattare il mio fratello pazzo prima che tutti questi fuochi si congiungessero e spazzassero via Eric, o spazzassero via la mia vita dall’isola. Cercai di convincermi che la situazione non fosse poi così grave, ma dentro di me sentivo che lo era; la Fabbrica non diceva mai bugie, e una volta tanto era stata anche piuttosto specifica. Mi stavo iniziando a preoccupare.


Nel Bunker, con il sarcofago della vespa di fronte al teschio del Vecchio Saul e la luce che filtrava dalle orbite dei suoi occhi ormai da tempo inariditi, mi inginocchiai nell’oscurità pungente davanti all’altare, col capo chino. Pensai a Eric. Pensai a com’era prima che gli capitasse quella spiacevole esperienza. A quando, sebbene si trovasse a distanza dall’isola, ne faceva ancora parte. Mi ricordai di com’era allora: un ragazzo intelligente, gentile, entusiasta. E poi pensai a com’era diventato: una forza del fuoco e della distruzione che si avvicinava all’isola come un angelo folle, con la testa brulicante di urla riecheggianti di pazzia e illusioni.

Mi sporsi in avanti e appoggiai il palmo della mano destra sul cranio del cane, tenendo gli occhi chiusi. La candela era accesa da poco, e il teschio cominciava appena a scaldarsi. Una parte cinica e sgradevole della mia mente mi disse che sembravo Spock in Star Trek mentre attivava un contatto psichico o qualcosa del genere, ma io la ignorai. Non me ne importava niente. Respirai profondamente, pensai ancora più profondamente. La faccia di Eric mi fluttuava davanti, lentiggini, capelli biondi e sorriso ansioso. Un volto giovane, sottile e intelligente, proprio come me lo immaginavo quando mi sforzavo di pensare a lui ai bei tempi, all’epoca delle estati passate insieme sull’isola.

Mi concentrai, mi premetti la pancia e trattenni il fiato, come se mi sforzassi di cagare. Il sangue mi rombava nelle orecchie. Con una mano mi schiacciai gli occhi chiusi, usando pollice e indice, dentro il mio stesso cranio, mentre l’altra mano si stava scaldando sul teschio del Vecchio Saul. Vidi delle luci, disegni erranti a forma di solchi che si allargavano a poco a poco, o simili a grosse impronte digitali arrotolate.

Sentii lo stomaco contrarsi involontariamente, e un’ondata di feroce agitazione mi attraversò il corpo. Solo acidi e ghiandole, lo sapevo benissimo, ma mi sentii trasportare da un teschio all’altro. Eric! Stavo per farcela! Lo sentivo. Sentivo i piedi doloranti e piagati, le gambe frementi, le mani sudicie e impastate di sudore, i capelli sozzi e pruriginosi. Sentivo il suo odore come fosse il mio, riuscivo a vedere attraverso quegli occhi che a stento si chiudevano e che gli ardevano nel cranio crudi, schizzati di sangue, asciutti. Sentivo i resti di qualche pasto agghiacciante che giacevano dentro lo stomaco, il sapore della carne bruciata e del pelo e degli ossi sulla lingua. Ce l’avevo fatta! Io ero…

Un’esplosione mi fece schizzare in aria. Il mio corpo fu sbalzato all’indietro e sbattuto via dall’altare come se fosse stato una granata leggera. Feci un volo sopra al pavimento di cemento ricoperto di terra e andai a finire contro il muro dalla parte opposta, con la testa che mi ronzava e la mano destra che mi faceva male. Caddi su un fianco e mi raggomitolai stringendo le ginocchia al petto.

Rimasi lì a terra a prendere fiato, con le braccia strette intorno al corpo e la testa spiaccicata sul pavimento ruvido del Bunker, e mi dondolai leggermente avanti e indietro. Sentivo la mano destra delle stesse dimensioni e dello stesso colore di un guantone da pugilato. Man mano che il respiro diventava regolare, dalla mano mi salivano fitte di dolore lungo tutto il braccio. Canticchiai a bassa voce e lentamente mi misi a sedere, sfregandomi gli occhi. Continuai a dondolarmi, avvicinando ancora di più la testa alle ginocchia, e indietreggiai leggermente con la schiena. Cercai di soccorrere il mio io distrutto e di riportarlo in salute.

Le ombre annebbiate che avevano riempito il Bunker cominciavano a dissolversi. Recuperata perfettamente la messa a fuoco, vidi che il teschio era ancora acceso, e le fiamme ardevano. Fissai quel bagliore e sollevai la mano destra, cominciando a leccarmela. Diedi un’occhiata intorno per vedere se il mio volo avesse danneggiato qualcosa, ma mi sembrò che fosse tutto a posto. Gli unici danni li avevo riportati io. Feci un sospiro tremolante e cercai di rilassarmi, appoggiando la testa sul freddo cemento del muro alle mie spalle.

Dopo un po’ mi raddrizzai e appoggiai sul pavimento la mano ancora palpitante per rinfrescarla. La tenni lì per qualche minuto, poi la tirai su e cercai di pulirla dal terriccio che la ricopriva, per vedere se c’erano ferite visibili, ma c’era troppa poca luce. Mi alzai lentamente e andai all’altare. Accesi le candele laterali con le mani che mi tremavano, misi la vespa e le altre cose nel contenitore di plastica alla sinistra dell’altare e diedi fuoco a quel sarcofago improvvisato sulla piastra di metallo davanti al Vecchio Saul. La fotografia di Eric prese fuoco. Il suo viso infantile scomparve tra le fiamme. Soffiai attraverso uno degli occhi del Vecchio Saul e spensi la candela.

Restai immobile per un attimo, cercando di mettere ordine nei miei pensieri, poi raggiunsi la porta di metallo del Bunker e la aprii. La luce morbida delle nuvole mattutine inondò lo stanzino e mi fece strizzare gli occhi. Mi voltai, spensi le altre candele e mi guardai di nuovo la mano. Il palmo era rosso e infiammato. La leccai ancora.

Ce l’avevo quasi fatta. Credevo sul serio di avere Eric in pugno, di avere il controllo della sua mente e di farne parte. Avevo visto il mondo attraverso i suoi occhi. Avevo sentito il sangue pulsare nella sua testa, il terreno sotto i suoi piedi. Avevo sentito l’odore del suo corpo e il sapore del suo ultimo pasto. Ma era troppo per me. La deflagrazione nella sua testa era qualcosa che una mente normale non poteva sopportare. Richiedeva una capacità folle di totale adesione che solo i pazzi completi riescono a esprimere costantemente, e che i soldati più feroci e gli atleti più agguerriti riescono a emulare soltanto per qualche istante. Ogni particella del cervello di Eric era concentrata su due sole azioni: tornare a casa e incendiare. E nessun cervello normale — neanche il mio, ben lontano dalla normalità e molto più potente della media — avrebbe potuto fronteggiare quello spiegamento di forze. Eric era dedito alla Guerra Totale, a una vera e propria Jihad. Si muoveva sulle ali del Vento Divino fino alle soglie dell’autodistruzione, e io non potevo farci niente.

Chiusi a chiave il Bunker e tornai a casa passando per la spiaggia, di nuovo a testa bassa, con più pensieri e preoccupazioni di quanti ne avessi all’andata.


Passai il resto della giornata a casa a leggere libri e giornali, a guardare la televisione e a pensare. Non potevo fare niente per Eric dall’interno, quindi dovevo cambiare strategia. La mia mitologia personale che ruotava attorno alla Fabbrica era abbastanza flessibile da accettare il fallimento che si era appena verificato e da usare una tale sconfitta per suggerire la vera soluzione. Le mie truppe d’assalto avevano subito uno scacco, ma avevo ancora tante altre risorse. Ce l’avrei fatta, ma non servendomi direttamente dei miei poteri. Almeno non applicando direttamente altri poteri che non fossero quelli dell’immaginazione. Era questo in definitiva il fondamento su cui si reggeva tutto il resto, e se non fosse stato in grado di reggere la sfida che Eric rappresentava, allora la mia distruzione sarebbe stata più che meritata.

Mio padre stava ancora pitturando, trascinandosi su per la scala verso le finestre con il barattolo della vernice e il pennello serrato tra i denti. Gli offrii il mio aiuto, ma lui insistette nel fare da solo. Quella stessa scala mi era servita diverse volte in passato per cercare di penetrare nello studio del vecchio, ma lui aveva piazzato delle serrature speciali alle finestre, e teneva pure le imposte accostate e le tende tirate. Mi piaceva vederlo arrancare con difficoltà sulla scala. Non era mai riuscito a salire sino in soffitta. Mi venne in mente che era proprio una fortuna che la casa fosse dell’altezza che era, altrimenti sarebbe stato capace di salire con la scala sino al tetto quindi di sbirciare dentro la soffitta attraverso i lucernari. Ma eravamo entrambi al sicuro, le nostre rispettive cittadelle erano al riparo anche per il futuro.

Per una volta mio padre mi lasciò preparare la cena, e mi misi a cucinare delle verdure al curry che entrambi trovammo passabili. Durante il pasto guardammo un documentario di geologia sul televisore portatile che avevo spostato apposta in cucina. Non appena il problema di Eric sarà risolto, decisi, devo proprio riprendere la mia campagna per persuadere mio padre a comprare un videoregistratore. Capitava fin troppo spesso di perdere dei buoni programmi nelle giornate di bel tempo.


Dopo cena mio padre andò in paese. Era un fatto insolito, ma non gli chiesi perché ci volesse andare. Aveva l’aria stanca, dopo aver passato tutta la giornata ad arrampicarsi sulla scala e ad allungarsi, ma salì in camera sua, si mise gli abiti che usa ogni volta che va a Portneil, e ritornò zoppicando in salotto per salutarmi.

«Be’, allora io esco» disse. Si mise a ispezionare con lo sguardo il salotto, come per scoprire se avessi già commesso qualche atrocità, addirittura prima che lui fosse uscito. Continuai a guardare la televisione e annuii senza rivolgergli neanche un’occhiata.

«Sta’ tranquillo» dissi.

«Non farò tardi. Non c’è bisogno che ti chiuda a chiave.»

«Va bene.»

«Ti comporterai bene, allora?»

«Oh sì.» Lo guardai, incrociai le braccia e sprofondai ancora di più nella vecchia poltrona. Indietreggiò, con i piedi nell’ingresso e il corpo inclinato verso il salotto. Solo la mano sulla maniglia della porta gli impediva di cadere. Mi fece ancora un cenno, mentre il berretto gli si abbassava sulla testa.

«Bene. A più tardi. Ci vediamo… mi raccomando.»

Sorrisi e ritornai a guardare lo schermo. «Sì, papà. Ci vediamo.»

«Mmh» disse, e dopo un’ultima occhiata al salotto, come a controllare se fosse sparita l’argenteria, chiuse la porta e sentii il rumore dei suoi passi nell’ingresso e poi fuori dalla porta principale. Lo vidi salire per il sentiero, aspettai un attimo, dopodiché salii al piano di sopra e provai ad aprire la porta dello studio che, come al solito, come sempre, era così fissa che avrebbe potuto benissimo far parte del muro.


Sonnecchiai per un po’. La luce fuori si stava facendo sempre più debole, alla tv c’era un orribile telefilm americano, e la testa mi faceva male. Strabuzzai gli occhi cisposi, sbadigliai per spiccicare le labbra e farmi entrare un po’ d’aria nella bocca impastata. Stavo stiracchiandomi tra uno sbadiglio e l’altro quando mi fermai di scatto. Il telefono si era messo a squillare.

Balzai in piedi, incespicai, per poco non caddi. Raggiunsi la porta, l’ingresso, la scala, e infine il telefono, più in fretta possibile. Sollevai il ricevitore con la mano destra, quella ferita. Premetti la cornetta sull’orecchio.

«Pronto» dissi.

«Ciao, Frank, come te la passi?» disse Jamie. Provai un misto di sollievo e disappunto. Sospirai.

«Ah, Jamie. Sto bene. E tu?»

«Sono a casa dal lavoro. Mi è caduta un’asse sul piede stamattina, e adesso è tutto gonfio.»

«Niente di serio, spero.»

«No. Starò a riposo per il resto della settimana, se mi va bene. Vado dal medico domani a farmi fare un certificato. Comunque volevo dirti che rimango a casa per il resto del giorno. Puoi portarmi da bere, se vuoi.»

«D’accordo. Forse passo domani. Ti chiamo prima per dirtelo.»

«Bene. Altre notizie da chi sai tu?»

«Niente. Pensavo che fosse lui quando ho sentito il telefono.»

«Sì, lo sapevo che l’avresti pensato. Non ti preoccupare. Non ho sentito niente in giro, pare che di stranezze non se ne siano viste, quindi forse non è ancora arrivato.»

«Sì, ma io vorrei rivederlo. Non vorrei proprio che si rimettesse a fare le solite stronzate. So che se ne dovrà comunque andare via da qui, anche se non combina niente, ma io voglio vederlo. Vorrei tutt’e due le cose, capisci?»

«Sì, sì. Andrà tutto bene, alla fine. Non ti preoccupare.»

«Non mi preoccupo.»

«Bene. Senti, io esco a comprare qualche pinta di anestetico giù al Cauldhame. Ti va di venire?»

«No, grazie. Sono a pezzi. Sono in piedi da stamattina presto. Ci vediamo domani.»

«D’accordo. Stammi bene. Ci vediamo, Frank.»

«Bene, Jamie. Ciao.»

«Ciao» disse Jamie. Riattaccai e tornai di sotto per cercare qualcosa di migliore in televisione, ma non feci in tempo a fare tutti gli scalini che il telefono squillò di nuovo. Tornai su. Mentre salivo sentii un ronzio nella testa e pensai che potesse essere Eric, ma la mia mente non percepiva i bip-bip. Feci un sogghigno e dissi: «Allora? Hai dimenticato qualcosa?»

«Dimenticato? Io non mi dimentico un bel niente! Mi ricordo sempre tutto! Tutto!» urlò una voce familiare dall’altro capo del telefono.

Mi si irrigidirono le membra. Deglutii e dissi: «Ehm…»

«Perché mi accusi di dimenticarmi le cose? Cosa mi stai accusando di dimenticare? Che cosa? Non mi sono dimenticato un bel niente!» esclamò Eric sputacchiando.

«Eric, scusami. Pensavo che fosse un’altra persona.»

«Sono io!» urlò. «Non sono un’altra persona! Sono io! Io!»

«Pensavo che fosse Jamie» dissi io in tono lamentoso, chiudendo gli occhi.

«Quel nano schifoso? Sei un bastardo!»

«Mi dispiace, io…» Poi mi interruppi un attimo per riflettere. «Come ti permetti di chiamarlo “nano schifoso”? È un mio amico. Non è colpa sua se è basso.»

«Ah sì?» rispose Eric. «E come fai a saperlo?»

«Che significa come faccio a saperlo? Non è colpa sua se è nato così» dissi io cominciando ad arrabbiarmi veramente.

«Hai solo la sua parola.»

«Ho solo la sua parola? In che senso?» chiesi io.

«Che è un nano» sputacchiò Eric.

«Che?» urlai, quasi incapace di credere alle mie orecchie. «Lo vedo, che è un nano. Idiota!»

«È quello che lui vuole farti credere. Forse in realtà è un alieno. Forse gli altri della sua razza sono ancora più piccoli di lui. Come fai a sapere che non è un alieno gigante di una razza di alieni piccoli? Eh?»

«Non fare il cretino!» urlai nella cornetta, afferrandola con la mano bruciata e dolorante.

«Be’, non dire che non ti ho avvertito!» gridò Eric.

«Non preoccuparti!» urlai io in risposta.

«Comunque» disse Eric in un tono di voce improvvisamente calmo, tanto che per un secondo o due pensai di stare parlando con qualcun altro, visto che aveva cominciato a fare una conversazione sorprendentemente normale. «Come stai?»

«Eh?» dissi io in tono un po’ confuso. «Ah, bene. Bene. E tu come stai?»

«Oh, niente male. Ci sono quasi.»

«Dove? Qui?»

«No. Là. Cristo, come fa la linea a essere disturbata a una distanza così?»

«A quale distanza? Eh? Come fa? E che ne so.» Mi toccai la fronte con l’altra mano, con la sensazione che stessi completamente perdendo il filo del discorso.

«Ci sono quasi» ripeté Eric con voce stanca. Fece un sospiro. «Non sto arrivando qui. Sono già qui. Sto arrivando là. Come potrei chiamarti se fossi già qui?»

«Ma dov’è qui?» chiesi io.

«Vuoi dire che non sai dove sei? Di nuovo?» esclamò incredulo Eric. Chiusi gli occhi e sbuffai con rassegnazione. Lui continuò: «E hai il coraggio di accusare me di dimenticarmi le cose? Ah ah!»

«Senti, tu sei completamente pazzo!» urlai io contro la plastica verde della cornetta stringendola sempre di più. Sentivo le fitte di dolore che mi salivano lungo il braccio, mentre la faccia mi si contorceva. «Non ne posso più delle tue telefonate. Prima mi chiami e poi ti comporti apposta in modo spaventoso. Smettila di fare questi giochetti!» rantolai, ormai a corto di fiato. «Sai bene cosa voglio dire quando dico “qui”! Voglio dire dove diavolo sei tu! Io so dove sono. Smettila di fare confusione, va bene?»

«Mmmh. Certo, Frank» disse Eric con tono di sufficienza. «Scusami se ti ho fatto arrabbiare.»

«Insomma…» avevo cominciato di nuovo a urlare, poi ripresi il controllo e mi calmai, respirando profondamente. «Senti… ecco… non trattarmi a quel modo. Ti ho solo chiesto dove sei.»

«Sì, va bene, Frank. Capisco» disse Eric pacatamente. «Ma proprio non posso dirti dove sono, altrimenti qualcuno potrebbe origliare. Lo vedi anche tu che non posso, vero?»

«Va bene, va bene» dissi io. «Ma non sei in una cabina, non è vero?»

«Be’, certo che no» disse lui innervosito. Poi riuscì a controllare il tono di voce e aggiunse: «Sì. È così. Sono in una casa. Una villetta, per essere precisi.»

«Cosa?» dissi io. «Di chi?»

«Non lo so» rispose, e mi sembrò quasi di sentire la sua scrollata di spalle. «Credo che potrei scoprirlo, se proprio ti interessa tanto. Ti interessa?»

«Eh? No. Sì. Cioè, no. Che importa? Ma dove… voglio dire… chi…»

«Senti, Frank» disse Eric spazientito «È solo la villetta per le vacanze di qualcuno, o il rifugio per il fine settimana, o qualcosa del genere, va bene? Non so di chi è. Ma chi se ne importa? L’hai detto anche tu…»

«Vuoi dire che hai scassinato la serratura?»

«Sì. E allora? Anzi, a dire il vero non ho dovuto scassinare un bel niente. Ho trovato la chiave della porta del retro nella grondaia. Cosa c’è di male? È un bel posticino.»

«Non hai paura che ti becchino?»

«Non molta. Sto seduto qui nella stanza che dà sulla facciata e controllo la strada. Non c’è problema. Ho da mangiare e c’è il bagno e il telefono e il freezer — Dio santo, ci entrerebbe un pastore alsaziano, qua dentro! — e il letto e tutto il resto. Che lusso!»

«Un pastore alsaziano!» strillai.

«Be’, sì, se ce l’avessi. Non ce l’ho, ma se ce l’avessi lo potrei conservare qua dentro. Infatti…»

«Non farlo» lo interruppi, chiudendo di nuovo gli occhi e sollevando la mano come se lui fosse lì in stanza con me. «Non dirmelo.»

«Va bene. Allora, volevo solo telefonarti per dirti che sto bene, e volevo sapere come stavi tu.»

«Io sto bene. Sei sicuro di star bene anche tu?»

«Sì. Mai stato meglio. Mi sento in forma. Credo che sia per quello che mangio…»

«Ascolta!» lo interruppi disperatamente, con la sensazione che i miei occhi si stessero aprendo sempre più al pensiero di ciò che stavo per chiedergli. «Non ti è successo niente stamattina, vero? Niente dentro di te… Non hai sentito niente? Hai sentito qualcosa?»

«Che vai blaterando?» disse Eric lievemente alterato.

«Hai sentito qualcosa stamattina, molto presto?»

«Ma che diavolo vuoi dire? Sentito?»

«Cioè, hai provato qualcosa? Una sensazione? Stamattina verso l’alba?»

«Be’» disse Eric in tono misurato e lento. «È strano che tu mi dica…»

«Sì? Che cosa?» dissi io con voce agitata, schiacciando la bocca così forte contro il ricevitore che i denti mi sbatterono sulla plastica.

«Niente di niente. Stamattina, se proprio devo essere sincero, è stata una di quelle mattine in cui non è successo un bel niente» mi informò Eric in tono quasi cortese. «Ho dormito.»

«Ma se hai detto che non dormi più!» dissi io furiosamente.

«Cristo, Frank. Nessuno è perfetto.» Cominciò a ridere.

«Ma…» cominciai. Serrai le labbra e digrignai i denti. Ancora una volta, chiusi gli occhi.

«Comunque, Frank, adesso piantala» disse lui. «A dir la verità sto cominciando a scocciarmi. Forse ti richiamo. In ogni caso ci vediamo presto. Ciao ciao.»

Prima che potessi ribattere, il telefono si ammutolì e io restai con la cornetta in mano, a guardarla come se fosse colpa sua. Avevo i nervi a fior di pelle e volevo sfogarmi. Pensai di sbattere il ricevitore contro qualche oggetto, ma poi decisi che sarebbe stato di cattivo gusto, e allora lo rimisi violentemente al suo posto. Fece uno squillo in risposta, e io lo fissai ancora. Poi mi voltai e me ne tornai di sotto sbattendo i piedi, mi buttai in poltrona e schiacciai a ripetizione i bottoni del telecomando, canale dopo canale, per circa dieci minuti. Dopodiché mi accorsi che stavo seguendo ben tre programmi contemporaneamente (il telegiornale, un altro agghiacciante telefilm americano e un documentario di archeologia), quando invece in genere faccio fatica a seguirne uno per volta. Gettai via il telecomando con disgusto e schizzai fuori, sotto la luce che andava ormai svanendo, a lanciare qualche sasso tra le onde.

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