7. Space Invaders

Prima di rendermi conto che gli uccelli fossero miei alleati occasionali, mi capitava spesso di fargli cose non proprio carine: gli sparavo, li agganciavo all’amo, li intrappolavo nella sabbia legandoli a un bastoncino durante la bassa marea, sistemavo bombe con detonatore elettrico sotto i loro nidi, e via dicendo.

Il mio gioco preferito consisteva nel catturarne due insieme con l’esca e la rete per poi legarli l’uno all’altro. Solitamente si trattava di gabbiani, e io li legavo zampa a zampa con del grosso filo da pesca di nylon arancione, poi mi sedevo in cima a una duna e guardavo. Certe volte prendevo un gabbiano e un corvo, e anche se non erano della stessa specie capivano immediatamente che non avrebbero potuto volare come al solito. Il filo, a dire il vero, era lungo abbastanza per consentire il volo, ma i due uccelli finivano presto per mettersi a combattere, dopo qualche acrobazia goffa e ridicola.

Se uno dei due moriva, il sopravvissuto — che spesso rimaneva ferito — non se la cavava certo meglio, attaccato com’era a un pesante cadavere invece che a un avversario vivo. Ho visto un paio di volte uccelli talmente determinati da beccare la zampetta dell’avversario sconfitto fino a reciderla, ma difficilmente ci riuscivano, e comunque la maggior parte neanche ci pensava, e così venivano catturati dai topi durante la notte.

Facevo anche altri giochi, ma quello mi dava sempre una gran soddisfazione, era una delle mie invenzioni più mature; un gioco simbolico, per così dire, e contornato da un bel miscuglio di insensibilità e ironia.


* * *

Uno degli uccelli cagò su Gravel mentre io pedalavo su per il sentiero verso il paese un giovedì mattina. Mi fermai, lanciai un’occhiataccia ai gabbiani che svolazzavano e ai tordi, poi presi un po’ d’erba e la strofinai su quel casino giallastro per pulire il parafango anteriore. Era una giornata soleggiata e luminosa, animata da una leggera brezza. Le previsioni per i giorni successivi erano buone, e io speravo che il bel tempo tenesse fino all’arrivo di Eric.

Incontrai Jamie per pranzo nel salottino del Cauldhame Arms, e ci accomodammo davanti a uno schermo tv per fare una partita a un videogioco.

«Se è tanto fuori di testa non capisco perché non l’hanno ancora preso» disse Jamie.

«Te l’ho detto, è pazzo, ma è molto furbo. Non è stupido. È sempre stato molto intelligente, da quando era piccolo. Ha imparato a leggere presto, facendo esclamare a tutti i parenti, zii e zie: “Oh, come crescono in fretta di questi tempi!” e cose del genere, da prima che io nascessi.»

«In ogni caso, è pazzo.»

«È quello che dicono, ma non so se è vero.»

«Che mi dici dei cani? E degli insetti?»

«Va bene, potrebbe sembrare una cosa da pazzi, lo ammetto, ma a volte penso che abbia in mente qualcosa, forse non è del tutto matto. Forse è solo che non ne può più di comportarsi come una persona normale e ha deciso di fare stranezze, ed è stato rinchiuso perché si è spinto troppo oltre.»

«E lui reagisce facendo il matto» disse Jamie con una smorfia, tracannandosi la birra mentre io annientavo sullo schermo una sfilza di astronavi variopinte che cercavano di sfuggire da tutte le parti. Mi venne da ridere. «Sì, se è così che la pensi. Oh, non lo so. Forse è matto davvero. Forse anch’io non ci sto con la testa. Forse tutti quanti. O almeno tutta la mia famiglia.»

«Adesso sì che ragioni.»

Lo guardai per un istante, poi sorrisi. «Mi capita, a volte. Mio padre è un eccentrico… Credo di avere anch’io qualche stranezza.» Scrollai le spalle, tornando a concentrarmi sulla battaglia spaziale. «Ma non me ne frega niente. Ci sono un sacco di persone più matte di me, qua attorno.»

Jamie rimase muto per un po’ mentre io mi facevo schermate e schermate di flotte rotanti e sibilanti. Alla fine la mia fortuna si esaurì e mi fecero fuori. Presi il mio boccale, e Jamie si mise in posizione per distruggere qualche pezzo dello sfarzoso schieramento. Gli guardai la testa mentre si accingeva a giocare. Cominciava a perdere i capelli, anche se sapevo che aveva solo ventitré anni. Mi faceva pensare a un pupazzo, con quella testa sproporzionata e quelle braccine tarchiate e quelle gambe che si dimenavano nello sforzo di schiacciare il pulsante per fare fuoco e controllare con piccoli scatti i comandi di posizione.

«È vero» disse dopo un po’, sempre proteso all’attacco delle navi in arrivo. «E molti di loro sono politici, presidenti e cose del genere.»

«Che?» dissi io, chiedendomi a cosa si stesse riferendo.

«Quelli ancora più pazzi. Molti sono a capo di nazioni, religioni ed eserciti. I veri pazzi.»

«Già, suppongo di sì» dissi soprappensiero, sempre seguendo su e giù la battaglia sullo schermo. «O forse sono gli unici che ragionano. Dopo tutto sono loro ad avere tutto il potere e la ricchezza. Sono loro che decidono quello che la gente deve fare, se deve morire per loro o lavorare per loro o procurargli potere o proteggerli o pagargli le tasse o comprargli i giocattoli, e sono loro che sopravviveranno a un’altra grande guerra, nei bunker e nel sottosuolo. Dunque, visto che le cose stanno così, chi è che gli va a dire che sono pazzi perché non fanno le cose nel modo in cui Pinco Pallino pensa che andrebbero fatte? Se la pensassero come Pinco Pallino, sarebbero direttamente Pinco Pallino, e qualcun altro si divertirebbe al posto loro.»

«La sopravvivenza dei più forti.»

«Già.»

«La soprav…» Jamie prese fiato energicamente e tirò i comandi con una forza tale che quasi cadde dallo sgabello, ma riuscì a schivare le saette gialle dardeggianti che avevano costretto i suoi affarini in un angolo dello schermo «…vivenza dei più stronzi.» Mi guardò e mi fece un sogghigno veloce prima di curvarsi nuovamente sui comandi. Io continuai a bere, facendo sì con la testa.

«Se preferisci. Se sopravvivono i più stronzi, allora diamoci sotto.»

«Noi siamo tutti della schiatta di Pinco Pallino» disse Jamie.

«Sì, tutti quanti. L’intera specie. Se veramente diventiamo malvagi e insensibili al punto da usare quelle splendide bombe H e al neutrone l’uno sull’altro, forse è meglio se ci eliminiamo da soli prima di raggiungere lo spazio e cominciare a fare cose orribili alle altre razze esistenti.»

«Vuoi dire che saremmo noi gli “Space Invaders”?»

«Sì» dissi io ridendo, e mi dondolai sullo sgabello. «È così. Siamo proprio noi!» Risi ancora e puntai il dito sullo schermo nel punto in cui passava una formazione di cosi svolazzanti rossi e verdi. In quel momento uno di essi, staccandosi dal gruppo principale, si tuffò verso il basso e fece fuoco contro lo schieramento di Jamie. Mancò il bersaglio, ma lo abbrancò con un’aletta verde fino a farlo scomparire dallo schermo, e così la flotta di Jamie esplose con un bagliore luminescente di rosso e giallo.

«Merda» disse, rimettendosi comodo. Scosse la testa.

Mi misi in posizione e aspettai che apparisse la mia flotta.


Con una leggera ubriacatura in corpo dovuta alle tre birre, me ne tornai all’isola fischiettando. Mi piacevano un sacco le chiacchierate con Jamie all’ora di pranzo. Qualche volta parliamo anche il sabato sera, ma non si sente niente quando c’è la musica dal vivo, e poi mi sbronzo troppo, e anche se riesco a parlare la sbornia mi impedisce di ricordarmi quello che dico. Il che, a pensarci bene, significa la stessa cosa, a giudicare dal modo in cui le persone che di solito si comportano in modo educato si trasformano in idioti balbettanti e incivili e in enfatici predicatori una volta che le molecole di alcol nel sangue superano in quantità i neuroni o non so cosa. Fortunatamente uno se ne accorge solo se resta sobrio, quindi la soluzione è ovvia quanto piacevole, almeno in quel momento.

Mio padre stava dormendo su una sdraio in giardino quando tornai a casa. Lasciai la bici nella rimessa e rimasi a guardarlo da lì per un istante, in una posizione tale che se in quel preciso momento si fosse svegliato avrebbe creduto che io stessi giusto allora chiudendo la porta. Aveva la testa leggermente inclinata dalla mia parte, e la bocca era semiaperta. Portava gli occhiali scuri, ma attraverso le lenti si vedevano lo stesso gli occhi chiusi.

Avevo da pisciare, così non restai a guardarlo a lungo. Non che avessi qualche ragione particolare per guardarlo; mi piaceva e basta. Mi faceva bene sapere che mi fosse possibile vederlo senza che lui vedesse me, e che io mi rendessi perfettamente conto di ogni cosa mentre lui no.

Entrai in casa.


Trascorsi tutto il lunedì, dopo un rapido controllo dei Pali, a fare qualche riparazione e qualche miglioria alla Fabbrica, lavorando l’intero pomeriggio fino a che gli occhi non mi fecero male e mio padre non mi chiamò giù per la cena.

La sera venne a piovere, quindi restai a casa a guardare la televisione. Andai a letto presto. Eric non si fece sentire.


Dopo aver eliminato almeno metà della birra che avevo bevuto al Cauldhame, salii a dare un’altra occhiata alla Fabbrica. Mi arrampicai nella soffitta inondata dal calore e dalla luce del sole e dall’odore di vecchi libri interessanti, e decisi di rimettere un po’ in ordine il posto.

Sistemai nelle scatole i vecchi giocattoli, riposi qualche rotolo di moquette e di carta da parati nel posto da dove erano caduti, riappesi un paio di cartine geografiche sulla parete inclinata del sottotetto di legno, tirai via un po’ di attrezzi e arnesi che mi erano serviti per riparare la Fabbrica e mi occupai di quelle sue sezioni che necessitavano di rifornimenti.

Trovai delle cose molto interessanti durante questo lavoro: un astrolabio fatto in casa, una scatola contenente le parti pieghevoli di un modellino in scala delle mura di Bisanzio, i resti della mia collezione di isolatori per i pali del telegrafo e qualche vecchia scartoffia di quando mio padre mi insegnava il francese. Sfogliando quelle pagine, non vi trovai neppure una delle sue ovvie bugie. Non mi aveva insegnato a dire volgarità invece di “mi scusi” o di “mi può indicare la strada per la stazione, per favore?”, anche se a mio avviso la tentazione dev’essere stata forte.

Finii di riordinare la soffitta, starnutendo più volte per via della polvere luminescente che si spandeva nello spazio dorato. Diedi un’altra occhiata alla Fabbrica riassettata, giusto perché mi piace guardarla e mi piace giocherellarci e toccarla e sfiorare i suoi piccoli livelli e le porticine e i congegni. Alla fine mi costrinsi ad andare via, pensando in cuor mio che presto avrei avuto occasione di usarla nel modo più giusto. Avrei catturato una vespa quel pomeriggio stesso e avrei messo in funzione la Fabbrica il giorno successivo. Volevo interrogare ancora una volta la Fabbrica prima che Eric arrivasse; volevo avere un’idea più precisa di quello che stava per accadere.

C’era qualche rischio, ovviamente, a chiedere la stessa cosa due volte, ma pensai che le circostanze eccezionali lo rendessero necessario, e la Fabbrica era mia, dopotutto.


Presi la vespa senza alcuna difficoltà. Ci entrò praticamente da sola nel barattolo da cerimonia che da sempre adopero per conservare le prede per la Fabbrica. Presi il barattolo, lo sigillai col coperchio bucherellato e lo misi via insieme a qualche foglia e una manciata di bucce d’arancia, lasciandolo all’ombra dell’argine, quel pomeriggio, intanto che io mi dedicavo alla costruzione di un impianto di dighe.

Lavorai e sudai alla luce del tardo pomeriggio mentre mio padre faceva qualche rattoppo di verniciatura sul retro della casa e la vespa girava in tondo chiusa dentro al barattolo, con le antenne che oscillavano.

Ero a metà con la diga — il momento più delicato — quando mi venne l’idea che sarebbe stato divertente farla anche esplodere, così lasciai l’acqua a defluire e mi feci il sentiero in senso inverso per andare a prendere la Borsa da Guerra nella rimessa. Tornai indietro con la sacca e vi tirai fuori la bomba più piccola tra quelle predisposte alla detonazione elettrica. La collegai ai fili della torcia elettrica, con le punte scoperte che si intravedevano dal foro che avevo fatto col trapano nella copertura metallica, e avvolsi la bomba in un paio di buste di plastica. Conficcai la bomba sul fondo della diga principale, facendo passare i fili da dietro, fino al punto in cui avevo lasciato la vespa ad affannarsi nel suo barattolo. Coprii i fili, in modo da camuffarli col resto, poi tornai a costruire le dighe.

La barriera divenne bella grossa e piuttosto complicata, con ben due villaggi ai suoi piedi, uno vicino a due piccole dighe e uno sottocorrente rispetto all’ultima diga. C’erano dei ponti corredati di stradine, un castello con quattro torri e due tunnel stradali. Subito prima dell’ora del tè tirai fuori l’ultimo filo dalla torcia e portai il barattolo con la vespa in cima alla duna più vicina.

Riuscivo a vedere mio padre, sempre intento a dipingere le imposte della finestra del salotto. Mi ricordo ancora i disegni che c’erano sulla facciata della casa, dalla parte del mare. Erano sbiaditi già allora, ma si potevano considerare opere minori di una collezione di arte flippata, da quello che mi ricordo: grandi spirali vorticose e simboli induisti che facevano capolino sulla facciata come tatuaggi in technicolor, avvolgendosi attorno alle finestre e seguendo l’arcata della porta. Un cimelio di quando mio padre era un hippy. Sono rovinati e scrostati, adesso, consunti dal vento e dal mare, dalla pioggia e dal sole. Se ne distingue appena la sagoma, insieme a qualche mostruosa macchia del colore di origine. Sembra pelle screpolata.

Aprii la torcia, inserii le batterie, le sistemai per bene e schiacciai il bottone di accensione. La corrente passò in serie, con la batteria da nove volt fissata col nastro adesivo, attraversò i fili che partivano dal foro in cui prima c’era la lampadina e giunsero nell’involucro della bomba. Al centro la lana d’acciaio guizzò in un bagliore opaco, poi diventò più luminosa e cominciò a sciogliersi, mentre la mistura di cristalli bianchi esplodeva facendo saltare via il metallo — a cui avevo dato la giusta curvatura solo dopo una perdita immane di sudore e di tempo — come fosse carta.

Buuum! La parte frontale della diga più grande saltò in aria e schizzò da tutte le parti. Un miscuglio confuso di gas e vapore, acqua e sabbia, si levò in aria e ricadde a spruzzi. Un bel rumore ovattato. Nel fondo dei pantaloni, subito prima di udire il tonfo, avevo sentito un tremolio intenso e localizzato.

La sabbia scivolò nell’aria, precipitò, schizzò nell’acqua e ricadde pesantemente a mucchietti, inzaccherando le casette e i sentieri. L’acqua, ormai libera di defluire, si abbatté contro i muretti di sabbia e defluì in basso, rosicchiandosi gli orli della breccia e sputando una melma brunastra sopra il primo villaggio, poi si fece strada e andò ad ammassarsi dietro la duna seguente, tornò indietro, distrusse casette di sabbia, ribaltò di fianco il castello dalle torri già disfatte. Il supporto del ponte crollò, la parte di legno cedette, affondando da un lato, poi la diga cominciò a inondarsi, e nel giro di pochissimo fu completamente sommersa, divorata dalla piena che ancora si sprigionava dalla prima diga, con l’acqua che spingeva da cinquanta metri e passa in balia della corrente.

Lasciai il barattolo e scesi dalla duna esultante, mentre l’acqua si riversava a ondate sulla superficie zigrinata del letto del fiume, colpendo le case, seguendo le strade, correndo per i tunnel, finché non andò a investire l’ultima diga, che fu sopraffatta in un batter d’occhio. Infine l’onda andò a schiantarsi contro le case rimanenti, raggnippate nel secondo villaggio. Le dighe erano ridotte in poltiglia, le case erano finite nell’acqua, i ponti e i tunnel stavano precipitando e gli argini crollavano da tutte le parti. Un meraviglioso senso di eccitazione mi investì lo stomaco come un’onda e mi prese alla gola, facendomi fremere al pensiero della distruzione per acqua che avevo scatenato.

Guardai i fili elettrici arrotolarsi nell’acqua, tutti raggnippati da un lato, poi mi voltai verso la parte centrale dell’inondazione, che si dirigeva velocemente verso il mare passando sopra alla sabbia per lungo tempo secca. Mi sedetti di fronte a dove prima c’era il primo villaggio, e dove ora fluttuavano creste d’acqua fangosa in lento avvicinamento, e aspettai che la piena calasse, con le gambe incrociate, i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Provai calore e gioia, e anche un po’ di fame.

Alla fine, quando il torrente tornò pressoché normale e non rimase più nulla delle mie ore di lavoro, individuai ciò che stavo cercando: il relitto nero e argento della bomba, che spuntava sventrato e grinzoso dalla sabbia, sottocorrente rispetto alla diga che aveva distrutto. Non mi tolsi gli scarponi, ma avanzai sulle mani finché non raggiunsi il bel mezzo del torrente, mentre i piedi rimasero là dov’erano, puntati contro l’argine asciutto. Raccolsi i resti della bomba dal letto del fiumiciattolo, afferrai quell’oggetto frastagliato con la bocca, poi tornai indietro, sempre carponi, finché non mi fu possibile riprendere la posizione e rialzarmi.

Asciugai il pezzo di metallo appiattito con uno straccio della Borsa da Guerra, misi la bomba nella sacca, poi raccolsi il barattolo con la vespa e tornai a casa per il tè, scavalcando il torrente proprio nel punto più alto da cui avevo fatto defluire le acque.


La nostra vita è tutta fatta di simboli. Ogni cosa che facciamo è parte di un disegno dove abbiamo comunque voce in capitolo. I forti stabiliscono i propri percorsi e influenzano quelli degli altri, i deboli ce li hanno già segnati. I deboli e gli sfortunati. E gli stupidi. La Fabbrica della Vespa è parte del disegno perché è parte della vita e — a maggior ragione — della morte. È complicata, proprio come la vita, e complicati sono tutti i pezzi. Il motivo per cui la Fabbrica sa rispondere alle domande è che ogni domanda è un inizio che cerca una fine, e la Fabbrica riguarda la Fine — la morte, nient’altro. Tenetevi le vostre viscere e i vostri bastoncini, i vostri dadi e i libri, il volo degli uccelli e le voci e i pendolini e tutte quelle altre stronzate; io ho la Fabbrica, e risponde al presente e al futuro. Non al passato.

Mi misi a letto, quella notte, sapendo che la Fabbrica era bell’e pronta, aspettava solo quella vespa che annaspava e girava in tondo nel barattolo accanto al mio letto. Pensai alla Fabbrica, su in soffitta, e aspettai che squillasse il telefono.

La Fabbrica della Vespa è bella, letale, perfetta. Mi avrebbe dato qualche indizio su ciò che stava per succedere, mi avrebbe dato una mano a capire cosa fare, e dopo che l’avessi consultata, avrei potuto provare a contattare Eric attraverso il teschio del Vecchio Saul. È mio fratello, dopo tutto, anche se solo per metà, e siamo due uomini, anche se io lo sono soltanto per metà. A un livello profondo, noi due ci capiamo, anche se lui è pazzo e io no. Abbiamo anche un’altra cosa in comune, mi è venuta in mente solo da poco ma potrebbe tornarmi utile in futuro: tutt’e due abbiamo ucciso, e l’abbiamo fatto usando la testa.

Mi venne in mente allora, ma lo sapevo anche prima, che gli uomini sono fatti proprio per quello scopo. Entrambi i sessi sanno fare una sola cosa molto bene: le donne mettono al mondo, gli uomini uccidono. Noi — mi considero un uomo per carica onoraria — siamo il sesso forte. Noi penetriamo, ci facciamo strada, spingiamo e deprediamo. Il fatto che io sia capace solo di fare qualcosa di analogo a queste azioni desunte dalla terminologia sessuale non mi scoraggia affatto. Lo sento nelle ossa, nei miei geni non castrati. Per Eric deve valere tutto questo.

Si fecero le undici, poi arrivò la mezzanotte e il segnale orario, allora spensi la radio e mi misi a dormire.

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