Presi il mucchietto di cenere — quel che restava della vespa — e lo misi in una scatola di fiammiferi, avvolgendolo in una vecchia fotografia di Eric con mio padre. Nell’immagine mio padre teneva in mano una foto formato tessera della sua prima moglie, la madre di Eric, e lei era l’unica a sorridere. Mio padre fissava l’obiettivo con un’espressione cupa. Il piccolo Eric guardava lontano mentre si puliva il naso, con aria annoiata.
La mattina era fresca, fredda. C’era foschia sui boschi ai piedi delle montagne, e nebbia in lontananza verso il Mare del Nord. Mi misi a correre forte e agile sulla sabbia bagnata, dalla parte più compatta, con la borsa e il binocolo stretti lungo i fianchi, facendo con la bocca come un rumore d’aereo. All’altezza del Bunker virai verso l’interno, rallentando man mano che, risalendo su per la spiaggia, calpestavo la sabbia bianca e soffice. Diedi un’occhiata ai relitti e alle cianfrusaglie mentre ci passavo sopra, ma non c’era niente di interessante, niente che valesse la pena recuperare, solo una medusa, una massa consunta e violacea con quattro anelli sbiaditi al centro. Cambiai leggermente tragitto per scavalcarla, facendo «Trrrrrfffaow! Trrrrrrrrrrrfffaow!» e dandole un calcio senza smettere di correre, tanto da far scoppiare intorno a me una fontana lurida di sabbia e gelatina. «Puchrrt!» fu il rumore dell’esplosione. Feci un’altra virata e mi diressi al Bunker.
I Pali erano in buono stato. Non mi serviva la sacca con le teste e i corpi. Li passai in rassegna uno per uno, lavorando per tutta la mattinata, e sotterrai la bara di carta con la vespa morta non in mezzo ai due Pali principali, come avevo pensato all’inizio, ma sotto il sentiero, proprio vicino alla parte del ponte che dava sull’isola. Fintanto che mi trovavo là, mi arrampicai su per i cavi di sospensione fino alla cima della torre che sta sulla terraferma, e mi guardai attorno. Si vedeva la parte più alta della casa, con uno dei lucernari della soffitta. Si vedeva anche la guglia della Chiesa di Scozia di Portneil, e del fumo che usciva dai comignoli della città. Tirai fuori dal taschino sinistro un coltello e con gran cura mi tagliuzzai il pollice sinistro. Macchiai di rosso la parte superiore della trave principale, quella che incrocia tutte le altre travi della torre, poi mi asciugai la piccola ferita con un fazzolettino disinfettante che tenevo in una delle borse. Dopodiché mi lasciai scivolare giù e recuperai il cuscinetto a sfere con cui avevo colpito il segnale il giorno prima.
La prima signora Cauldhame, Mary, la madre di Eric, è morta in casa, di parto. La testa di Eric era troppo grossa per lei: ebbe un’emorragia e morì dissanguata sul letto nuziale nel lontano 1960. È tutta la vita che Eric soffre di forti emicranie, e secondo me questi disturbi sono dovuti proprio al modo in cui venne al mondo. Tutta la faccenda dell’emicrania e della morte della madre hanno molto a che fare, a mio avviso, con “Quel che accadde a Eric”. Povera anima sfortunata, si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato, e gli è successa una cosa assurda che per pura fatalità lo ha coinvolto molto più di quanto avrebbe coinvolto chiunque altro avesse vissuto la stessa esperienza. Ecco i rischi che si corrono quando si va via da questo posto.
Se vogliamo, dunque, anche Eric ha ucciso. Credevo di aver commesso solo io omicidi in famiglia, ma il buon vecchio Eric mi ha battuto, uccidendo la madre addirittura prima di iniziare a respirare. Senza volerlo, è vero, ma non sempre è il pensiero che conta.
La Fabbrica ha detto qualcosa a proposito del fuoco.
Ci stavo ancora pensando, chiedendomi cosa significasse realmente. L’interpretazione più ovvia era che Eric avrebbe ancora bruciato qualche cane, ma io me ne intendevo fin troppo dei metodi della Fabbrica per considerarla una spiegazione definitiva. Sospettavo che ci fosse dell’altro.
In un certo senso mi dispiaceva che Eric stesse tornando. Stavo pensando di fare una Guerra di lì a poco, magari la settimana dopo o giù di lì, ma il fatto che Eric forse sarebbe riapparso mi fece cambiare idea. Sono mesi che non faccio una bella Guerra; l’ultima è stata quella dei Soldati Semplici contro gli Aerosol. Gli eserciti 1/72, con tanto di carri armati, pistole, camion, scorte, elicotteri e barche, dovettero unirsi tutti insieme per combattere l’invasione degli Aerosol. Era praticamente impossibile fermare gli Aerosol: si misero a bruciare i soldati con armi e bagagli e a sparpagliarli su tutta la zona. Alla fine un valoroso soldato, che si era avvinghiato stretto a uno degli Aerosol mentre questi tornava in volo alla base, dopo tante avventure rientrò con la notizia che la base degli avversali era un tagliere ormeggiato a un ruscello interno sotto uno strapiombo. Una forza congiunta di truppe giunse lì giusto in tempo e ridusse la base in briciole, facendo saltare per aria lo strapiombo sopra ai resti ancora fumanti. Una bella guerra, con tutti gli ingredienti giusti e un finale tra i più spettacolari che avessi mai visto (quando tornai a casa quella sera mio padre mi chiese cos’erano state quelle esplosioni e tutto quel fuoco). È stato tanto, troppo tempo fa.
In ogni caso, con Eric sulla via del ritorno, pensai che non sarebbe stata una buona idea cominciare un’altra guerra solo per abbandonarla a metà e tornare a occuparmi del mondo reale. Decisi di rimandare le ostilità per qualche tempo. Mi misi invece a costruire una diga, dopo aver unto con sostanze preziose alcuni dei Pali più importanti.
Nella mia infanzia fantasticavo di salvare la casa costruendo una diga. Immaginavo che l’erba delle dune andasse a fuoco, o che cadesse un aereo, e che proprio io avrei impedito all’esplosivo che sta in cantina di esplodere, deviando una certa quantità di acqua da una diga lungo un canale e fin dentro la casa. Il mio desiderio più grande, a quel tempo, era farmi comprare da mio padre una scavatrice, in modo da poter costruire dighe vere e proprie. Ma ora ho un approccio molto più sofisticato, quasi metafisico, alla costruzione delle dighe. Mi rendo conto del fatto che l’acqua non si può realmente sconfiggere; alla fine l’avrà sempre vinta lei, con infiltrazioni e impregnazioni e ingrossamenti ed erosioni e straripamenti. Tutto quel che si può fare è costruire un qualcosa che possa solo temporaneamente deviarne il corso o bloccarla, convincerla a fare ciò che in realtà non vuole fare. Il piacere deriva dall’eleganza del compromesso che si viene a stabilire tra il corso che l’acqua vuole seguire (spinta dalla gravità e dal materiale su cui si muove) e quello che si vorrebbe che seguisse.
Credo che nella vita siano davvero pochi i piaceri paragonabili alla costruzione di dighe. Datemi uno spiaggione con un discreto dislivello e senza troppe erbacce, e un torrente di giusta grandezza, e sarò a posto per tutto il giorno.
A quell’ora il sole era bello alto, e io mi tolsi la giacca per posarla con le borse e il binocolo. Colpo Duro si mise ad affondare e a trapassare e a sminuzzare e a scavare, e fece così un’imponente diga a tre livelli, la cui sezione principale respingeva l’acqua per ottanta passi nel Torrente Nord; non lontano dal record massimo per la posizione che avevo scelto. Mi servii del solito pezzo di metallo che uso per le inondazioni (lo tengo nascosto tra le dune vicino al posto più adatto per costruire dighe), ma la piéce de résistance era un acquedotto con sopra un vecchio sacco per il pattume di plastica nera che avevo trovato nel cumulo di macerie. L’acquedotto trasportava il torrente straripato al di sopra di tre sezioni di un canale di deviazione che avevo scavato dalla zona soprastante la diga. Costruii un piccolo villaggio a valle, sotto la diga, completo di tutto: le strade, un ponte sopra a quel che restava del ruscello, e anche una chiesa.
Far saltare in aria una diga, o semplicemente fare in modo che provochi un’alluvione, è divertente quasi quanto la fase iniziale di progetto e costruzione. Mi servii di piccole conchiglie per simboleggiare le persone, come al solito. E come al solito neanche una conchiglia sopravvisse all’allagamento quando la diga saltò per aria. Affondarono tutte, il che vuol dire che morirono tutti quanti.
Mi era venuta una gran fame, cominciavano a farmi male le braccia e le mani si erano arrossate a forza di tenere la vanga o di scavare nella sabbia. Guardai l’acqua della prima inondazione precipitare giù verso il mare, piena di fango e di schifezze, poi mi voltai e mi diressi verso casa.
«Mi è sembrato di sentirti parlare al telefono ieri notte» disse mio padre.
Scossi la testa. «No!»
Stavamo seduti in cucina a finire il pranzo, io mangiavo lo stufato, mio padre lo accompagnava con riso integrale e insalata di alghe. Si era bardato con la roba che si mette quando va in città: scarponi marroni e un tre-pezzi di tweed marrone; e sul tavolo c’era il cappello marrone. Guardai l’orologio e vidi che era giovedì. Era molto strano che andasse da qualche parte di giovedì, a Portneil o più avanti ancora. Non avevo nessuna intenzione di chiedergli dove andasse perché mi avrebbe detto solo bugie. Un tempo quando gli chiedevo dove andava mi rispondeva: «Affottere». Una piccola città, diceva lui, a nord di Inverness. Ci vollero anni e un sacco di occhiate di scherno giù in paese prima che scoprissi la verità.
«Oggi esco» mi disse tra un boccone e l’altro di riso e insalata. Feci di sì con la testa, e lui aggiunse: «Torno tardi».
Forse andava a Portneil a ubriacarsi al Rock Hotel, o forse andava fino a Inverness, dove va spesso per affari su cui preferisce mantenere il segreto, ma a me venne il sospetto che in qualche modo c’entrasse Eric.
«Va bene» dissi io.
«Prendo le chiavi, così puoi sbarrare la porta quando vuoi.» Sbatté coltello e forchetta sul piatto vuoto e si pulì la bocca con un tovagliolino marrone di carta riciclata. «Ma non mettere tutti i catenacci, va bene?»
«D’accordo.»
«Fatti qualcosa da mangiare stasera, eh?»
Annuii di nuovo, senza alzare la testa dal piatto.
«E li fai i piatti?»
Annuii ancora una volta.
«Non credo che Diggs si farà vedere ancora; ma nel caso voglio che tu gli stia alla larga.»
«Non preoccuparti» gli dissi con un sospiro.
«Andrà tutto bene, vero?» disse lui alzandosi.
«Già. Già» dissi io prendendo l’ultimo boccone di stufato.
«Allora io vado.»
Alzai la testa e lo vidi mettersi il cappello, dare un’occhiata tutt’intorno alla cucina e darsi dei colpetti sulle tasche. Guardò ancora verso di me e fece un cenno col capo.
«Ciao» gli dissi.
«Ciao, stammi bene» rispose.
«Ci vediamo più tardi.»
«Sì.» Si girò attorno, poi si voltò, guardò ancora in giro per la stanza, scosse velocemente la testa e andò alla porta, e uscendo si prese il bastone che stava nell’angolo vicino alla lavatrice. Sentii la porta d’ingresso sbattere, poi ci fu silenzio. Sospirai.
Aspettai per qualche minuto e mi alzai, lasciando il piatto quasi pulito, poi attraversai la casa per andare in salotto, da dove si vedeva il sentiero che tra le dune porta al ponte. Mio padre camminava in fretta, a testa bassa, facendo oscillare il bastone con un’aria ansiosa e arrogante. Lo vidi tirare una bastonata a dei fiori selvatici che crescevano lungo i bordi del sentiero.
Andai di corsa al piano di sopra, fermandomi alla finestra della tromba delle scale per vedere sparire mio padre tra le dune davanti al ponte, feci di corsa gli scalini, arrivai alla porta dello studio e girai subito la maniglia. La porta era sbarrata, non si muoveva di un millimetro. Un giorno se ne sarebbe dimenticato, senza dubbio, ma oggi no.
Dopo aver finito di mangiare e di lavare i piatti, andai nella mia stanza, diedi una controllata alla birra e presi il fucile ad aria compressa. Controllai che ci fossero abbastanza pallottole nelle tasche della giacca, quindi uscii dirigendomi alle Terre del Coniglio, sulla terraferma, tra il ramo maggiore del torrente e la discarica.
Non mi piace adoperare il fucile. È un lavoro troppo preciso per me. La fionda è qualcosa di ulteriore, che richiede che tu sia tutt’uno con essa. Se non sei in forma, sbagli; se sai che stai facendo qualcosa di male, ugualmente sbagli. Con un’arma da fuoco, a meno che non spari a bruciapelo, con estrema precisione, è tutto un fatto esteriore: la punti e prendi la mira, e quest’è tutto, a meno che il bersaglio non sia fuori portata e non ci sia troppo vento. Una volta alzato il cane, la forza è tutta lì, aspetta solo di essere sprigionata dalla pressione di un dito. Con una fionda si vive insieme fino all’ultimo istante. Ti resta tesa tra le mani, respira con te, si muove con te, pronta al balzo, pronta al sibilo e allo scatto, e ti lascia in quella posa enfatica, con mani e braccia allungate nell’attesa di vedere la curva scura del proiettile in volo che va a colpire il bersaglio, con un tonfo delizioso.
Ma per andare dietro ai conigli, soprattutto a quei piccoli e astuti bastardi che stanno sulle Terre, bisogna aiutarsi con ogni mezzo possibile. Se spari se ne scappano verso la tana. Il fucile fa un rumore tale da spaventarli, è vero, ma, asettico e freddo com’è, aumenta anche la possibilità di ammazzarli al primo colpo.
Per quanto ne so io, nessuno dei miei sfortunati parenti è morto sparato. Se ne sono andati in tanti modi strani, i Cauldhame e i parenti acquisiti, ma che io sappia nessuno è stato fatto fuori da un’arma da fuoco.
Arrivai alla fine del ponte, dove tecnicamente il mio territorio finisce, e mi fermai un secondo a pensare, ad ascoltare, a guardare, a provare sensazioni e sentire odori. Sembrava che tutto andasse bene.
A parte quelli che ho ucciso io (e quando li ho ammazzati avevano tutti pressappoco la stessa età che avevo io allora) mi vengono in mente almeno tre persone in famiglia che se ne sono andate in modo insolito a quello che credevano fosse il loro Creatore. Leviticus Cauldhame, il fratello maggiore di mio padre, emigrò in Sudafrica, e lì comprò una fattoria nel 1954. Leviticus, un uomo di una stupidità talmente agguerrita che le sue facoltà mentali sarebbero forse migliorate con la demenza senile, lasciò la Scozia perché i conservatori non ce l’avevano fatta a ribaltare le riforme socialiste del precedente governo laburista: le ferrovie ancora statali, il proletariato che cresceva come le mosche adesso che c’era il Welfare State a impedire che le malattie operassero una selezione naturale, le miniere di proprietà dello stato… Intollerabile! Ho letto alcune lettere che scrisse a mio padre. Leviticus stava bene in campagna, anche se c’erano un po’ troppi negri in giro. Nelle prime lettere parlava della politica dello sviluppo separato in termini di “apart-odio”, poi qualcuno deve avergli detto che si diceva “apartheid”. Non è stato mio padre, questo è certo.
Un giorno Leviticus stava passando davanti alla centrale di polizia a Johannesburg, e camminava sul marciapiede dopo aver fatto un po’ di compere, quando un negro completamente pazzo, in preda a furore omicida, si buttò in stato di incoscienza dall’ultimo piano (pare che nella caduta si sia strappato via tutte le unghie). Andò a colpire il mio zio sfortunato e innocente, ferendolo a morte. Le ultime parole che biascicò in ospedale, prima di passare dal coma alla morte, furono: «Mio Dio, gli stronzi hanno imparato a volare…»
Un debole filo di fumo si levò davanti a me dalla discarica comunale. Non avevo intenzione di arrivare fin laggiù oggi, ma sentivo il bulldozer che a volte usavano per sparpagliare le immondizie andare su di giri e pigiare.
Era un po’ che non andavo alla discarica, era giunto il momento di andare a vedere che cosa aveva buttato via la brava gente di Portneil. È lì che ho trovato tutti i vecchi aerosol dell’ultima Guerra, per non parlare di certi pezzi importanti della Fabbrica della Vespa, compresa la Facciata.
Mio zio Athelwald Trapley, dal lato materno della famiglia, emigrò in America alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Trovò un buon lavoro con una compagnia di assicurazioni per poi fuggire con una donna e infine ritrovarsi, al verde e col cuore in pezzi, in un campo roulotte da due soldi alla periferia di Fort Worth, dove decise di mettere fine ai suoi giorni.
Aprì il gas della stufa e dello scaldabagno senza accendere il fuoco e si sedette ad aspettare la fine. Comprensibilmente nervoso, e certo anche un po’ sconvolto e turbato sia per la prematura scomparsa dell’amata che per la fine che stava riservando a se stesso, ricorse senza pensarci un attimo al metodo che abitualmente adottava per calmarsi, e si accese una Marlboro.
Si lanciò fuori dalla carcassa infuocata, urlando e incespicando tra le fiamme che lo avvolgevano dalla testa ai piedi. Aveva programmato di morire in modo indolore, non di lasciarsi bruciare vivo. Così si buttò di testa nella cisterna da duecento litri piena d’acqua piovana che stava dietro alla roulotte. Si incastrò nella cisterna e morì affogato, con le gambette che si dimenavano in modo patetico mentre inghiottiva acqua e si contorceva cercando di mettere le mani in posizione tale da potersi tirare fuori.
A venti metri circa dalla collina erbosa che dà sulle Terre del Coniglio cominciai a correre in silenzio, attraversando canne e sterpaglia con un’andatura furtiva, facendo attenzione a non provocare alcun rumore con la roba che mi portavo dietro. Speravo di prendere qualche bestiaccia subito, ma in caso di bisogno avrei aspettato pure fino al calare del sole.
Mi arrampicai con calma su per la salita, con l’erba che mi scivolava sotto il petto e la pancia, e le gambe tese nello sforzo di spingere il corpo in alto e in avanti. Andavo nella stessa direzione del vento, naturalmente, e la brezza era così forte da coprire gran parte dei rumori più leggeri. Da quel che potevo vedere, non c’erano conigli-vedetta sulla collina. Mi fermai a due metri circa dalla cima e caricai silenziosamente il fucile, controllando minuziosamente i proiettili di acciaio e nylon prima di inserirli nel caricatore e richiudere furtivamente l’arma. Chiusi gli occhi e pensai alla molla stretta, compressa, e alla piccola pallottola posata sul fondo rilucente della canna scanalata. Poi mi arrampicai in cima alla collina.
Dapprima pensai che avrei avuto da aspettare. Le Terre sembravano deserte nella luce pomeridiana, e solo l’erba si muoveva nel vento. Si vedevano le buche e i cumuli sparpagliati di escrementi, e si vedevano anche i cespugli di ginestre sull’estremità del pendio, al di sopra del terrapieno su cui stavano gran parte delle buche dove i conigli, correndo, scavavano sentieri serpeggianti e sottili, simili a gallerie che avanzavano a zig-zag tra i cespugli, ma delle bestie non c’era traccia. Era proprio là, in quei solchi tra le ginestre, che certi ragazzi del posto usavano mettere trappole. Ma io trovai i cappi di filo metallico, perché avevo visto i ragazzi piazzarceli, li tirai via e li posai in mezzo all’erba, lungo i sentieri che loro di solito prendevano per venire a controllare le tagliole. Se mai qualcuno sia incappato nella sua stessa trappola, questo non lo so, ma mi piace pensare che siano andati lì strisciando, con la testa davanti. In ogni caso, quei ragazzi, o chi per loro, non ne mettono più, di trappole. Credo che sia passato di moda, e se ne vanno in giro a fare scritte sui muri con le bombolette spray, a sniffare colla e a cercare qualcuno da scoparsi.
E raro che gli animali mi sorprendano, ma il coniglio che stava accucciato là vicino, non appena lo notai, per un attimo mi fece rabbrividire. Forse era lì da parecchio, in fondo alla zona pianeggiante delle Terre, immobile e con lo sguardo fisso su di me, ma io all’inizio non ci avevo fatto caso. Quando lo vidi, quella sua immobilità mi immobilizzò per un istante. Senza muovere un muscolo scossi mentalmente la testa come per schiarirmi le idee, e decisi che da quel grosso esemplare di maschio se ne sarebbe potuta ricavare una bella testa per un Palo. Sembrava quasi imbalsamato, da quanto era immobile, e io vidi che mi stava proprio fissando dritto negli occhi, senza battere ciglio, senza annusare col naso minuscolo, senza contrarre le orecchie. Lo guardai fisso anch’io, e con estrema lentezza avvicinai il fucile verso di me, muovendolo prima da una parte, poi leggermente dall’altra, sembrava quasi una cosa agitata dal vento nell’erba. Mi ci volle circa un minuto per mettere il fucile in posizione e per spostare la testa nella direzione giusta, con la guancia contro il calcio, e la bestia non si era ancora mossa di un millimetro.
Ingrandito di quattro volte e con il grosso muso baffuto diviso nettamente in quattro dalla croce del mirino, il coniglio sembrava ancora più impressionante, e ugualmente immobile. Col volto accigliato, bloccai d’improvviso la testa, e tutt’a un tratto pensai che forse era veramente imbalsamato. Forse qualcuno si stava divertendo alle mie spalle. I ragazzi che stanno giù in paese? Mio padre? Oppure Eric, di già? Era stata una mossa stupida spostare così la testa, di scatto, in modo innaturale; e il coniglio schizzò via su per il pendio. Abbassai la testa, e nello stesso tempo sollevai il fucile, senza pensarci. Non c’era tempo per riprendere la posizione giusta, tirare un bel respiro e premere con delicatezza il grilletto: dovevo sparare e basta. Il mio corpo era completamente sbilanciato, e con tutt’e due le mani sul fucile caddi in avanti, rotolando per terra per tenere l’arma fuori dalla sabbia.
Quando alzai lo sguardo, col fiato corto e il fucile ben stretto, con la parte posteriore del corpo immersa nella sabbia, non riuscii a vedere il coniglio. Feci forza sul fucile e mi colpii a un ginocchio. «Merda!» dissi tra me.
Il coniglio, comunque, non stava dentro a una tana. Non stava neanche vicino al pendio delle buche. Attraversava la pianura, correndo all’impazzata con balzi altissimi, puntando dritto verso di me, e sembrava che a ogni salto, a mezz’aria, tremasse e rabbrividisse. Veniva contro di me come un proiettile, con la testa tremolante, con una smorfia sul muso, coi denti lunghi e gialli, i più grossi denti che avessi mai visto a un coniglio, vivo o morto. Gli occhi parevano lumache arrotolate. Chiazze rosse gli schizzavano dalla coscia sinistra a ogni balzo. Mi era quasi arrivato addosso, e io stavo lì a guardare.
Non c’era tempo per ricaricare. Quando iniziai a reagire non restava più il tempo di fare niente che non fosse dettato dall’istinto. Lasciai il fucile sospeso a mezz’aria sopra alle ginocchia e cercai la fionda, che come al solito tenevo allacciata in vita, col manico incastrato tra la cintura e i calzoni. Non ebbi neanche il tempo di prendere i proiettili di ferro che usavo in caso di reazione immediata: il coniglio mi fu addosso in una frazione di secondo, puntando dritto alla gola.
Lo presi con la fionda, e mentre il grosso tubo nero di gomma si torceva nell’aria, caddi all’indietro con le braccia incrociate, lasciando che il coniglio mi passasse sopra la testa, poi presi a scalciare e a rigirarmi in modo da trovarmi alla stessa altezza della bestia, che scalciava e lottava con la forza di una faina, con tutt’e quattro le zampe aperte sulla discesa sabbiosa e col collo intrappolato nella gomma nera. Muoveva la testa da una parte é dall’altra nel tentativo di raggiungermi coi denti alle dita, pronto a trinciarmele. Gli fischiai contro, emettendo il sibilo attraverso i denti, e diedi uno strattone alla gomma, tirandola sempre più stretta. Il coniglio si mise a fare porcherie e a sputare ed emise un rumore stridente che non credevo i conigli fossero in grado di emettere, e sbatté le zampe per terra. Avevo i nervi a fior di pelle, a tal punto che diedi un’occhiata intorno per assicurarmi che quel suono non fosse un segnale per far saltare fuori un esercito di conigli della stessa razza di questa specie di dobermann, pronti a ridurmi a brandelli.
E non crepava, quella maledetta bestiaccia! La gomma si tendeva sempre di più, ma non abbastanza, e io non potevo muovere le mani per paura che mi lacerasse un dito o che mi staccasse via il naso con un morso. Per lo stesso motivo pensai di non prenderlo a testate; non avevo intenzione di avvicinarmi con la testa a quei denti. Non potevo neanche tirare su il ginocchio per spezzargli la schiena, perché stavo scivolando anch’io, con lui, giù per la china, e non riuscivo a trovare un appiglio su quella superficie con una gamba sola. Che follia! Non stavo mica in Africa! Era un coniglio, quello, non un leone! Ma che diavolo stava succedendo?
Alla fine la bestia mi morse, torcendo il collo più di quanto io potessi immaginare, e mi prese l’indice sinistro, in mezzo alle falangi.
Ecco tutto. Mi misi a urlare e tirai con tutte le mie forze, con la testa e le mani scosse dal tremito, buttandomi all’indietro per respingerlo, sbattendo con un ginocchio contro il fucile che era caduto nella sabbia.
Finii a terra, nell’erba rada ai piedi della collina, e le nocche mi erano diventate bianche mentre strangolavo il coniglio, facendomelo roteare davanti al viso, e tenendogli il collo bloccato con la sottile striscia di gomma nera, annodata come un laccio. Stavo ancora tremando, quindi non riuscivo a capire se le vibrazioni del corpo erano mie o del coniglio. Poi il laccio cedette. Il coniglio mi venne a sbattere contro la mano sinistra, mentre l’altro capo dell’elastico mi sferzò il polso destro. Le mani mi schizzarono in direzioni opposte, sbattendo per terra.
Mi sdraiai sulla schiena, con la testa nella terra sabbiosa, e lo sguardo fisso verso il posto in cui giaceva il corpo del coniglio, al limitare di una sottile curva nera, imprigionato nell’impugnatura della fionda. La bestia era immobile.
Alzai lo sguardo al cielo e chiusi la mano a pugno, sbattendola a terra. Mi voltai ancora a guardare il coniglio, poi mi andai a inginocchiare accanto a esso. Era morto; la testa riversa all’indietro, il collo spezzato, era in queste condizioni quando lo sollevai. La coscia sinistra era impastata di rosso per via del sangue, là dove l’avevo colpito con il proiettile. Era grosso, delle dimensioni di un gattone, il coniglio più grosso che avessi mai visto. Era troppo tempo che non mi occupavo più di conigli, altrimenti avrei senz’altro saputo dell’esistenza di una bestia del genere.
Mi succhiai dal dito il rivoletto di sangue. La mia fionda, fonte per me di gioia e orgoglio, la mia Distruttrice Nera, era stata a sua volta distrutta da un coniglio! Oh, immagino che avrei potuto procurarmi per corrispondenza dell’altra corda di gomma, o farmi trovare qualcosa del genere dal vecchio Cameron della ferramenta, ma non avrebbe mai più funzionato. Ogni volta che avessi sollevato il nuovo arnese per mirare a un bersaglio, vivo o morto, avrei sempre avuto in mente questo istante. La Distruttrice Nera era finita.
Tornai a sedermi nella sabbia e diedi un’occhiata intorno. Non c’erano altri conigli. La cosa non mi stupiva molto. Non c’era tempo da perdere. C’è un solo modo di reagire dopo episodi del genere.
Mi alzai, ripresi il fucile, mezzo sepolto nella sabbia della scarpata, arrivai in cima all’altura, guardai in giro, quindi decisi di rischiare, e lasciai tutto com’era. Strinsi il fucile tra le mani e partii a velocità d’emergenza, lanciandomi al massimo giù per il sentiero che riconduce all’isola, contando sul fatto che la fortuna e l’adrenalina mi avrebbero impedito di mettere un piede in fallo e di finire a terra nell’erba, boccheggiante e con una frattura multipla al femore. Nei punti più stretti usavo il fucile per bilanciarmi. Sia l’erba che la terra erano asciutte, per cui il rischio era minore di quanto avrebbe potuto. Mi allontanai dal sentiero vero e proprio e mi arrampicai di corsa su per la duna, scendendo poi dall’altra parte, fino al punto in cui il tubo di alimentazione che porta a casa l’acqua e la corrente emerge dalla sabbia e attraversa il torrente. Scavalcai con un salto le punte di ferro e ricaddi a piedi uniti sul cemento, poi attraversai di corsa la stretta superficie del tubo e saltai giù sull’isola.
Una volta a casa, andai direttamente alla mia rimessa. Lasciai il fucile, controllai la Borsa da Guerra e me la feci passare sopra il capo, allacciandomela in fretta alla vita. Richiusi a chiave lo sgabuzzino e mi avviai lentamente verso il ponte intanto che riprendevo fiato. Oltrepassato il cancelletto che sta nel bel mezzo del ponte, mi misi a correre a tutta velocità.
Alle Terre del Coniglio ogni cosa era rimasta come l’avevo lasciata — il coniglio per terra, strangolato nella fionda spezzata, la sabbia smossa e ammonticchiata nel punto in cui era avvenuto lo scontro. Il vento ancora muoveva l’erba e i fiori, e nei dintorni non c’erano animali. Neppure gli uccelli avevano scovato la carogna. Tornai immediatamente al lavoro.
Prima di tutto tirai fuori dalla Borsa da Guerra una bomba d’una ventina di centimetri fatta di filo elettrico. Aprii una fessura nell’ano del coniglio. Controllai che la bomba fosse a posto, soprattutto che fossero ben asciutti i cristalli bianchi della miscela, poi aggiunsi un tubicino di plastica che facesse da miccia e una carica esplosiva attorno al foro praticato nel tubicino nero, e fissai tutto insieme. Imbottii con quella roba il coniglio ancora caldo, lasciandolo in posizione accovacciata, seduto a guardare verso le buche del pendio. Quindi presi delle altre bombe più piccole e le sistemai dentro alle buche, pestando bene sulla parte superiore dell’entrata ai tunnel, in modo tale che il tetto, franando, lasciasse spuntare soltanto i tubicini delle micce. Riempii di benzina una vecchia bottiglia di plastica e preparai il dispositivo di accensione, la lasciai a terra in cima al pendio su cui stavano gran parte delle buche, poi tornai verso la prima buca ostruita e diedi fuoco alla miccia col mio accendino usa e getta. L’odore di plastica bruciata mi si fermava nelle narici e il bagliore della miscela in fiamme mi danzava negli occhi, intanto che mi affrettavo verso la buca successiva. Guardai l’orologio. Avevo piazzato sei piccole bombe, e in quaranta secondi le avevo accese tutte.
Mi sedetti in cima al pendio, al di sopra delle buche, mentre lo stoppino del lanciafiamme bruciava piano nella luce del sole. Passato un minuto, il primo tunnel saltò in aria. Lo sentii nel fondo dei calzoni, e sogghignai. Le altre buche esplosero in fretta, e uno sbuffo di fumo esalato dalla carica all’imboccatura di ogni bomba si levò dalla terra annebbiata immediatamente prima che esplodesse la carica principale. Sulle Terre del Coniglio rimbombavano i grumi di terra sparsa, e il tonfo sordo si avvolgeva nell’aria. La cosa mi fece sorridere. Di rumore ce n’era davvero pochissimo. Giù a casa non si sarebbe sentito niente. Tutta l’energia delle bombe si era esaurita nello scoppio della terra e nel risucchio d’aria nelle tane.
Cominciarono a uscire i primi conigli intontiti. Due di essi sanguinavano dal naso, sembrava che non avessero altre ferite, però barcollavano, quasi cadevano. Spremetti la bottiglia di plastica e spruzzai uno schizzo di benzina sullo stoppino dell’accensione che, tenuto da un picchetto da tenda di alluminio, spuntava di un paio di centimetri fuori dall’imboccatura. La benzina si incendiò quando andò a finire oltre lo stoppino nella minuscola ghiera di metallo, rimbombò nell’aria e ricadde tra i bagliori sui due conigli e attorno a essi. Presero fuoco e avvamparono, correndo, inciampando, cadendo. Mi guardai attorno per vedere se ce n’erano altri, intanto che nella zona centrale delle Terre questi primi due, crollati finalmente nell’erba, irrigiditi ma ancora in preda a contorsioni, bruciavano crepitando nel vento. Una sottile lingua di fuoco guizzava attorno all’imboccatura del lanciafiamme; la spensi. Apparve un altro coniglio, più piccolo. Lo colpii col getto di fiamme e quello schizzò via fuori tiro, dirigendosi verso l’acqua accanto alla collina dove il coniglio feroce mi aveva attaccato. Rovistai nella Borsa da Guerra, tirai fuori la pistola ad aria compressa, caricai e sparai con un unico movimento. Il tiro fallì e il coniglio si trascinò dietro di sé per la collina una scia di fumo.
Colpii altri tre conigli col lanciafiamme, prima di metterlo via. Per ultima cosa lanciai il getto di benzina incandescente contro il coniglio con cui avevo lottato, che stava ancora lì sulle Terre, in prima linea, seduto, imbottito, morto, sanguinante. Il fuoco schizzò tutt’intorno in modo tale che la bestia scomparve, avvolta da onde e spirali nero-arancio. In pochi attimi la miccia si accese, e dopo circa dieci secondi l’ammasso di fiamme esplose e si estinse, scagliando a venti metri e passa di distanza, nell’aria del tardo pomeriggio, una cosa nera e fumosa e disperdendone i pezzi per tutte le Terre. L’esplosione, di gran lunga più forte di quelle delle buche e pressoché priva di qualcosa che potesse smorzarla, schioccò per le dune come una frusta, risuonandomi nelle orecchie e facendomi anche sobbalzare.
Tutto quel che restava del coniglio ricadde al suolo, alle mie spalle, lontano. Seguii l’odore di bruciato fin dove giacevano i resti. Che consistevano essenzialmente nella testa, in un moncherino verminoso di spina dorsale e costole, e in circa una metà della pelle. Digrignai i denti e raccolsi quei caldi avanzi, li riportai alle Terre e li scaraventai dall’alto del pendio.
Rimasi in piedi, sotto la luce obliqua del sole, che mi avvolgeva calda e gialla, col tanfo di carne bruciata ed erba che si spargeva nel vento, il fumo che saliva nell’aria dalle tane e dai cadaveri, grigio e nero, l’odore dolciastro della benzina inesplosa che gocciolava dal lanciafiamme, dove l’avevo lasciato, e respirai profondamente.
Con quel che restava della benzina annaffiai la fionda e la bottiglia ormai vuota del lanciafiamme, che erano rimaste là sulla sabbia, e appiccai il fuoco. Mi misi a sedere a gambe incrociate proprio accanto alle fiamme, guardandole fisse controvento finché non si spensero e non rimase altro che la parte metallica della Distruttrice Nera, quindi raccolsi lo scheletro annerito dalla fuliggine e lo seppellii là dove era stato distrutto, ai piedi della collina. Che ora avrebbe avuto un nome: la Collina della Distruttrice Nera.
Il fuoco si era spento dappertutto. L’erba era troppo tenera e umida per potersi incendiare per bene. Non che me ne sarebbe importato qualcosa se si fosse bruciata. Avevo pensato di dare fuoco anche ai cespugli di ginestre, ma i fiori dimostravano sempre un che di amichevole quando spuntavano, e il fogliame offriva un odore migliore al naturale che non quand’era bruciato, e così non lo feci. Pensai che di danni ne avevo fatti già abbastanza per un giorno. La fionda era stata vendicata, il coniglio — o ciò che stava a significare, il suo spirito, forse — era stato insozzato e umiliato, gli era stata data una dura lezione. Mi sentivo bene. Se il fucile fosse stato a posto e non fosse entrata la sabbia nel mirino o in altre parti terribili da pulire, avrei quasi potuto dire che ne era valsa la pena. La Difesa, tenendo conto del bilancio, poteva permettersi di comprare una nuova fionda anche il giorno dopo. Per la balestra avrei dovuto aspettare un’altra settimana o giù di lì.
Con una deliziosa sensazione di sazietà dentro di me, impacchettai la Borsa da Guerra e arrancai verso casa, ripensando a ciò che era successo, cercando di sommare i perché e i percome, di capire qual era la lezione da trarre, quali i segni da leggere in tutta questa faccenda.
Lungo la strada trovai il coniglio che pensavo fosse fuggito, steso vicino all’acqua nitida e brillante del ruscello. Annerito e contorto, rannicchiato stretto in un groviglio inquietante, con gli occhi secchi e privi di vita che mentre passavo mi fissavano quasi a volermi accusare.
Con un calcio lo buttai nell’acqua.
L’altro mio zio che è morto si chiamava Harmsworth Stove, parente da parte del ramo familiare della madre di Eric. Era un uomo d’affari e viveva a Belfast. Lui e sua moglie si erano presi cura di Eric per circa cinque anni, quando mio fratello era ancora un moccioso. Harmsworth finì per suicidarsi con un trapano elettrico e una punta da sette millimetri. Introdusse l’aggeggio da un lato del cranio e, constatando di essere ancora in vita anche se un po’ dolorante, si recò in macchina fino a un ospedale lì vicino, dove più tardi morì. A dire il vero, è possibile che io abbia in qualche modo a che fare con la sua morte, visto che accadde neanche un anno dopo che gli Stove persero la loro unica figlia, Esmeralda. Una cosa non sapevano, loro e per la stessa ragione tutti gli altri: Esmeralda è stata una delle mie vittime.
Andai a letto, quella notte, ad aspettare che mio padre rientrasse e che squillasse il telefono. Nel frattempo pensai a quanto era accaduto. Forse quell’enorme coniglio non era uno di quelli delle Terre, forse era una bestia selvaggia arrivata lì da fuori per terrorizzare i conigli del posto e diventarne il capo, per poi morire in un incontro con un essere superiore di cui neanche poteva comprendere la vera essenza.
A ogni modo, si trattava di un Segno. Non avevo dubbi a riguardo. Quello snervante episodio doveva significare qualcosa. La mia reazione istintiva avrebbe potuto avere a che fare con il fuoco che la Fabbrica aveva profetizzato, ma dentro di me sapevo bene che non sarebbe finita lì, e che altre cose sarebbero successe. Ne era segno tutta quella faccenda nell’insieme, non solo la ferocia inattesa del coniglio che avevo ammazzato, ma anche la mia reazione furiosa, quasi sconsiderata, e il fato degli altri conigli innocenti che avevano subito l’impatto della mia collera.
Questa storia significava qualcosa non solo in riferimento a eventi futuri, ma anche riguardo al passato. La prima volta che commisi un assassinio fu a causa di certi conigli che avevano subito una morte violenta, una morte violenta provocata dalla bocca di un lanciafiamme praticamente identico a quello che avevo usato per compiere la mia vendetta sulla collina dei conigli. Era davvero troppo, tutto così concluso e perfetto. I fatti stavano prendendo velocemente una piega peggiore di quanto avrei potuto aspettarmi. Rischiavo di perdere il controllo della situazione. Le Terre del Coniglio — quello che credevo fosse un felice terreno di caccia — avevano dimostrato che mi sarebbe potuto benissimo capitare.
Dal più insignificante al più importante, i disegni suggeriti da queste storie si rivelano sempre veri, e la Fabbrica mi ha insegnato a farci attenzione e a rispettarli.
La prima volta che uccisi, dunque, fu a causa di quello che mio cugino Blyth Cauldhame aveva fatto ai nostri coniglietti, il mio e quello di Eric. Fu Eric a inventare il lanciafiamme, che stava in quella che allora era la rimessa delle biciclette (la mia rimessa, ora). Nostro cugino, che era venuto a passare il weekend da noi con i suoi genitori, decise che sarebbe stato divertente fare un giro con la bici di Eric nel fango molle della zona meridionale dell’isola. E fece proprio questo, mentre io e Eric stavamo fuori a far volare gli aquiloni. Lui tornò indietro e riempì il lanciafiamme di benzina. Si mise a sedere nel giardino sul retro, senza poter essere visto dalla finestra del salotto (dov’erano seduti i suoi genitori con mio padre), vicino al bucato che svolazzava al vento. Accese il lanciafiamme e schizzò vampate sulle due conigliere, mandando in cenere i nostri tesorucci.
Eric soprattutto ne rimase davvero sconvolto. Piangeva come una femminuccia. Avrei voluto uccidere Blyth lì stesso, in quel momento; non bastava la bussata che si era preso da suo padre James, fratello di mio padre, per quanto mi riguardava; non bastava, per quel che aveva fatto a Eric, mio fratello. Eric era inconsolabile, disperato e desolato perché era stato lui a costruire l’aggeggio che Blyth aveva usato per distruggere le nostre adorate bestiole. Era sempre stato piuttosto sentimentale di temperamento, il più sensibile, il più intelligente. Finché non ebbe quella sgradevole esperienza, tutti erano convinti che avrebbe fatto strada. Comunque, fu così che nacquero le Terre del Teschio, la zona della grossa duna dietro casa, in parte ricoperta di terra, dove stanno tutti i nostri animaletti morti. I primi furono i coniglietti bruciati. Il vecchio Saul ci andò a finire ancora prima, ma fu un’eccezione.
Non avevo detto niente a nessuno, neanche a Eric, di quello che volevo fare a Blyth. Avevo una certa saggezza anche allora, alla tenera età di cinque anni, quando quasi tutti i bambini sono soliti dire a genitori e amici che li odiano e che vorrebbero vederli morti. Io non dissi nulla.
Quando Blyth tornò, l’anno dopo, era diventato ancora più insopportabile, perché aveva perso la gamba sinistra fin sopra il ginocchio in un incidente (il bambino con cui si era cimentato in una prova di coraggio era rimasto ucciso). Blyth risentiva amaramente del suo handicap; aveva dieci anni, allora, ed era molto attivo. Cercava di comportarsi come se quell’orrendo affare rosa che doveva agganciarsi addosso non esistesse, come se non avesse niente a che fare con lui. Riusciva più o meno ad andare in bici, e gli piaceva giocare alla lotta o a pallone, di solito in porta. Io avevo solo sei anni, e anche se Blyth sapeva che avevo avuto un certo incidente parecchio tempo prima, apparivo comunque ai suoi occhi sicuramente molto più dotato, nel fisico, rispetto a lui. Si divertiva un mondo a sballottarmi, a fare a botte con me, a prendermi a pugni e a calci. Dimostrai un interesse convincente per tutti quei giochi scatenati, per una settimana o giù di lì mi comportai come se mi piacessero alla follia, e intanto pensavo a cosa avrei potuto fare al nostro cuginetto.
L’altro mio fratello, un fratello vero e proprio, Paul, era ancora vivo a quel tempo. Io, lui ed Eric avevamo in teoria il compito di far divertire Blyth. Facevamo del nostro meglio, portavamo Blyth nei nostri posti preferiti, lo lasciavamo giocare coi nostri giocattoli, facevamo dei giochi con lui. Io e Eric dovevamo trattenerlo, certe volte, quando voleva per esempio buttare nell’acqua il piccolo Paul per vedere se galleggiava, o quando voleva abbattere un albero e farlo cadere sul binario che passa da Portneil, ma in generale ce la cavavamo sorprendentemente bene, anche se mi rodeva vedere Eric spaventato in modo così evidente da Blyth, che in fondo aveva la sua stessa età.
E così un giorno, caldissimo e pieno di insetti, con un venticello leggero che arrivava dal mare, eravamo tutti stesi nell’erba, nella zona pianeggiante a sud rispetto alla casa. Paul e Blyth si erano addormentati, e Eric se ne stava con le mani dietro alla nuca a fissare con aria sonnacchiosa l’azzurro acceso del cielo. Blyth si era staccato la gamba di plastica, cava all’interno, e l’aveva lasciata per terra in un groviglio di cinghie e lunghi fili d’erba. Vidi Eric addormentarsi a poco a poco, la testa dolcemente riversa da un lato, gli occhi che si chiudevano. Mi alzai e andai a farmi un giro, e mi ritrovai al Bunker. Non aveva ancora assunto quell’importanza che avrebbe avuto in seguito nella mia vita, anche se il posto già mi piaceva e mi sentivo a mio agio lì, al freddo e al buio. Era uno sgabuzzino in muratura costruito subito prima dell’ultima guerra per custodire un cannone di protezione al fiordo, e stava impiantato nella sabbia come un grosso dente grigio. Entrai e trovai il serpente. Era una vipera. All’inizio non l’avevo notata, perché mi stavo divertendo a conficcare una vecchia asse di legno attraverso le crepe dello sgabuzzino, facendo finta che si trattasse di un pezzo d’artiglieria, e a sparare a pecore immaginarie. Fu solo quando finii di giocare che, dopo aver pisciato in un angolo, diedi un’occhiata all’altro angolo, ingombro di lattine arrugginite e vecchie bottiglie. Fu lì che vidi le striature zigrinate del serpente addormentato.
Decisi ciò che avrei fatto immediatamente dopo. Uscii senza far rumore e trovai un pezzo di legno della forma giusta, tornai al Bunker, presi il serpente per il collo con il pezzo di legno e lo impacchettai nella prima lattina arrugginita che avesse ancora un coperchio.
Non credo che il serpente fosse del tutto sveglio quando lo catturai, e feci attenzione a non sballottarlo troppo mentre tornavo di corsa al posto in cui i miei fratelli e Blyth stavano stesi sull’erba. Eric si era rigirato e teneva una mano sotto la testa, l’altra sugli occhi. Aveva la bocca leggermente aperta e il petto si muoveva piano. Paul era disteso al sole, avvolto su se stesso come una palla, perfettamente immobile, e Blyth stava a pancia in giù, con le mani sotto la guancia, col moncherino della gamba sinistra, sollevata tra i fiori e l’erba, che spuntava dai calzoni corti come una mostruosa erezione. Mi avvicinai, con la lattina arrugginita sempre ben stretta. La parte superiore della casa, dove il tetto è spiovente, vegliava su di noi dall’alto, a cinquanta metri circa di distanza, senza finestre. Nel giardino del retro sventolavano debolmente dei lenzuoli bianchi. Il cuore mi batteva all’impazzata, e mi bagnai le labbra con la saliva.
Mi misi a sedere accanto a Blyth, facendo attenzione a che la mia ombra non gli passasse sul volto. Appoggiai un orecchio alla lattina e la tenni ferma. Non riuscivo a sentire il serpente muoversi. Raggiunsi la gamba artificiale di Blyth, liscia e rosa, appoggiata alle sue reni, nell’ombra proiettata dal corpo. Accostai la gamba alla lattina e tirai via il coperchio, facendo scivolare nel frattempo la gamba sull’apertura. Poi capovolsi lentamente la lattina e la gamba nell’altro verso, in modo tale che la lattina fosse sopra rispetto alla gamba. Agitai la lattina, e sentii il serpente cadere dentro la gamba. All’inizio non gli piaceva, e si muoveva e sbatteva contro le pareti di plastica e l’imboccatura della lattina che io tenevo in mano sudando. Nel frattempo io restai in silenzio ad ascoltare il ronzio degli insetti e il fruscio dell’erba, e guardavo Blyth disteso là, muto e immobile, con i capelli scuri arruffati di quando in quando dal vento. Mi tremavano le mani e il sudore mi colava sugli occhi.
Il serpente smise di muoversi. Lo tenni un altro po’, con lo sguardo rivolto ancora una volta verso casa. Poi ribaltai di nuovo la gamba e la lattina, riportando la gamba sull’erba nella stessa posizione in cui si trovava prima, dietro a Blyth. Tirai via la lattina all’ultimo momento, facendo molta attenzione. Non accadde nulla. Il serpente era ancora dentro alla gamba, non riuscivo neanche a vederlo. Mi alzai, indietreggiai verso la duna più vicina, lanciai la lattina in alto, verso la sommità, poi tomai sui miei passi, mi sdraiai di nuovo dove stavo prima, e chiusi gli occhi.
Eric fu il primo a svegliarsi, io aprii gli occhi come se avessi dormito, poi svegliammo Paul e nostro cugino. Blyth mi evitò il disturbo di suggerire una partita a pallone perché fu lui stesso a proporla. Io, Eric e Paul ci avviammo insieme a prendere i posti di gioco mentre Blyth si allacciava in fretta la gamba.
Nessuno ebbe sospetti. Dal primo momento, quando io e i miei fratelli stavamo lì increduli davanti a Blyth che urlava e saltava e si tirava la gamba, fino al doloroso addio dei genitori di Blyth e alle testimonianze raccolte da Diggs (alcuni stralci di esse apparvero addirittura sull’Inverness Courier per quanto erano insoliti, e furono poi ripescati anche da un paio di giornalacci giù a Londra), nessuno avanzò l’ipotesi che potesse trattarsi di qualcosa di diverso da un incidente tragico e alquanto macabro. Solo io ne sapevo di più.
Non lo dissi a Eric. Era sotto shock per quanto era successo e sinceramente dispiaciuto per Blyth e i suoi genitori. Dissi solamente che ritenevo una punizione divina sia il fatto che Blyth avesse perso la gamba, sia che la sostituzione della gamba stessa si fosse poi rivelata lo strumento della sua rovina. E tutto per via dei conigli. Eric a quel tempo era nel bel mezzo di una fase religiosa che si supponeva anch’io, sulla sua scia, stessi in qualche modo attraversando. Pensò che avessi detto una cosa terribile. Dio non era così. Gli dissi che il dio in cui credevo io era proprio così.
In ogni caso, fu questo il motivo per cui quel pezzo di terra prese il nome di Parco del Serpente.
Me ne stavo a letto, e ripensavo a tutte queste cose. Mio padre non era ancora rientrato. Forse avrebbe passato la notte fuori. Cosa estremamente insolita, e piuttosto preoccupante. Forse era stato accoppato, o era morto d’infarto.
Ho sempre avuto un atteggiamento piuttosto ambiguo nei confronti di ciò che potrebbe succedere a mio padre, e tuttora continuo ad averlo. La morte è sempre eccitante, ti fa sempre sentire quanto tu sia vivo, quanto vulnerabile ma fortunato, almeno fino a quell’istante. La morte di qualcuno che ti è vicino, invece, ti offre una buona scusa per dare di matto per un po’, per fare cose che altrimenti sarebbero ingiustificabili. Che bellezza comportarsi veramente male e ricevere in cambio compassione!
Mi mancherebbe, mio padre, e poi non so se la legge mi permetterebbe di continuare a starmene qui senza di lui. Avrei tutti i suoi soldi? Sarebbe un’ottima cosa; potrei comprarmela subito, la moto, invece di aspettare. Cristo, ci sarebbero talmente tante cose che potrei fare che neanche saprei da dove cominciare a pensarci. Comunque sarebbe un grosso cambiamento e non so se è già il momento.
Sentivo che stavo scivolando nel sonno. Cominciavo a immaginare e vedere ogni sorta di stranezze davanti agli occhi: forme labirintiche e macchie sparse di colori ignoti, poi edifici fantastici e astronavi e armi e paesaggi. Vorrei riuscire a ricordarmi meglio i sogni…
Due anni dopo aver assassinato Blyth, ammazzai il mio fratellino Paul, per motivi completamente diversi e più seri, e l’anno successivo feci lo stesso con la cuginetta Esmeralda, più che altro per capriccio.
Finora questo è il totale realizzato. Tre. Sono anni che non ammazzo nessuno, e non intendo farlo ancora.
Stavo soltanto attraversando una fase.