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Scintillando argentea lungo le sue guide, la porta dell’ascensore si chiuse con un sussurro pneumatico.

«Che piano, prego?» compitò con elettronica artificiosità la voce della cabina.

«Quindicesimo», rispose Andie laconica. Detestava dover parlare coi meccanismi. L’ascensore salì dolcemente, in silenzio. Approfittando dell’agio che le offriva la cabina vuota per abbandonarsi a una voluttuosa stiracchiata, Andie osservò il riflesso grottescamente deformato che le restituiva la brunita superficie della porta, e con futile curiosità si chiese che effetto avrebbe potuto fare vivere con uno spropositato collo alla Modigliani sormontato da un faccione stile Picasso con tutti e due gli occhi dallo stesso lato del naso. Più o meno il modo in cui si era immaginata i mutanti quando ne aveva sentito parlare da bambina, prima che incominciassero apertamente a frequentare le scuole, a mostrarsi per strada, a sedere in Parlamento.

L’ascensore si fermò, e la porta si aprì sibilando per far entrare Karim Fuentes, primo assistente del senatore Craddick, e Carter Pierce, notorio manutengolo politicamente con le mani in pasta nei superconduttori coreani, nell’ingegneria genetica brasiliana e nelle plastileghe francesi.

«Andie… ti trovo bene», la salutò Karim regalandole uno di quei suoi smaglianti sorrisi. «Conosci Carter?»

«Ci siamo già visti.» Sebbene preferisse non confessarlo neppure a se stessa, le piacevano la scura bellezza e il fascino disinvolto di Karim. Ma gli intrallazzi politici di Pierce, al pari dei suoi polsini doppi in pura seta, la lasciavano del tutto indifferente. E comunque gli uomini biondi non le erano mai andati a genio. Per parte sua, Pierce evitava l’ufficio della Jacobsen con una cautela che aveva quasi del patologico. «Come va?»

«Forse dovremmo essere noi, a domandarglielo», replicò Pierce in tono insinuante, mentre si raddrizzava la cravatta col discutibile ausilio della propria immagine riflessa.

Per un attimo Andie accarezzò l’idea di scendere immediatamente dall’ascensore. Ma la poco invitante prospettiva di arrancare a piedi su per i restanti otto piani la dissuase. Decise di tener duro. Avrebbe sempre potuto fargliela scontare, a quel Pierce.

«E cioè?»

Pierce le rivolse un sorriso malizioso. «Be’, abbiamo sentito di quella lettera esplosiva. E non è nemmeno la prima, vero? Non è che questo genere di avvenimenti la renda per caso un pochino nervosa?… Insomma, lavorare per Eleanor Jacobsen significa stare a fianco di un bersaglio, non è d’accordo?»

Andie si strinse nelle spalle. «Ritengo che sia un privilegio, lavorare per una persona come la senatrice Jacobsen. Tutti gli incarichi pubblici possono essere pericolosi, Carter. Chiunque può divenire un bersaglio. Anche uno come lei.» Osservandogli la cravatta gialla striata di fili metallici, soppesò con gusto l’eventualità di strangolarcelo.

«Brrr…» fece lui. Poi, dopo una breve esitazione: «Signorina Greenberg, io sto parlando sul serio. Mi pare evidente che lavorare per certe persone è particolarmente pericoloso».

«E allora?»

«Sarei molto curioso di sapere come fa a resistere.»

«Carter…» lo ammonì Fuentes innervosito.

«Be’, in ogni caso è sempre meglio che trafficare giorno e notte per svendere gli avanzi della nostra industria a favore di interessi stranieri!» replicò lei, con sorriso velenoso. «Scusatemi, sono arrivata.» La porta si aprì e Andie, furente, uscì con impeto dall’ascensore.

«Andie, aspetta».

Si girò vivacemente, pronta a gettarsi in una bella litigata, ma vide che Fuentes l’aveva seguita da solo.

«Sì?»

«Mi spiace per Carter. Purtroppo sai come la pensa…» Il corridoio era pieno di gente, e guardandosi attorno con aria inquieta Fuentes le si fece più vicino.

«A proposito di che?»

«Be’, sì, a proposito dei…» rispose in un sussurro.

«Dei mutanti?» domandò Andie a denti stretti.

«Esatto. Secondo lui, appena pronta bisognerebbe spedirli tutti quanti alla Base Marte, o roba del genere», spiegò Karim con una scrollata di spalle.

«Ma guarda che strano. Proprio quello che vorrei fare io con Carter.»

Fuentes ridacchiò. Andie sentì allentarsi la tensione.

«E tu di loro che cosa pensi, Karim?»

Il suo sorriso si spense. Chinò gli occhi per qualche istante, poi tornò a fissarla con sguardo serio, indagatore. «Penso che abbiano diritto, come chiunque altro, a essere rappresentati in Parlamento. E il diritto a essere lasciati in pace. Non c’è neanche un mutante che io possa dire di conoscere davvero bene, ma la Jacobsen sembrerebbe una persona intelligente, onesta e capace. Che riesce a far bene il suo lavoro nonostante i giornalisti le stiano addosso di continuo. Che altro si può pretendere da un senatore? Non mi pare che tu debba star lì a farle da balia continuamente come tocca fare a me con Craddick.»

«Di questo puoi star certo.»

«Vedi, è chiaro che a certa gente la Jacobsen non va giù, ma non è il mio caso. Io non ho proprio niente contro i mutanti, e se finalmente sono riusciti a trovarsi un senatore, be’, buon per loro. E poi mia nonna si rivolterebbe nella tomba se sospettasse che mi oppongo a una minoranza. Nella nostra famiglia fu la prima a laurearsi. Credeva nell’eguaglianza, e cercò di fare in modo che tutti i suoi familiari sviluppassero il medesimo sentimento.»

«Mi fa piacere sentirtelo dire, Karim. Non sono molti, fra quelli che conosco, a pensarla come te.» Non si era sbagliata a giudicare quell’uomo, e se ne compiacque. «Nutro un’enorme ammirazione per Eleanor Jacobsen, e farò tutto il possibile per aiutarla nella sua opera d’integrazione fra mutanti e nonmutanti.» Ciò detto si girò per andarsene, ma dovette fermarsi sentendosi afferrare gentilmente per un braccio.

«Andie, ti andrebbe di venire a pranzo insieme a me?»

La maschera fascinosa era caduta. Karim le appariva disarmato. Serio. Persino più attraente. Andie sorrise.

«Be’, non mi sembra affatto una cattiva idea.» Diede un’occhiata all’orologio d’oro che aveva al polso. «Però non tanto presto, diciamo all’una e mezzo. A parte il solito lavoro, debbo mettere in condizione la Jacobsen e me stessa di partire per il Brasile.»

«Già, me l’immaginavo. Anche Craddick dovrebbe andare.»

«… Ma ti dirò che non mi dispiace affatto barattare il freddo e l’umidità di Washington con le assolate spiagge di Rio.»

«Mi dichiaro perfettamente d’accordo. Senti, pranzare sul tardi mi va benissimo. Avremo modo di parlare del Brasile, che ne dici?» E sorrise con entusiasmo.

«Perfetto. Allora ci vediamo all’una e mezzo giù nell’atrio.»

Un gesto di saluto, e lo lasciò.

Andie mostrò la sua olocarta alla porta dell’ufficio e quella si aprì senza indugio, augurandole buona giornata con la solita voce stridula che lei trovava così odiosa.

C’era una lettera per la Jacobsen proveniente dal senatore Horner, il «reverendo senatore», come Andie amava definirlo. Attivò il cicalino di richiesta ammissione all’ufficio privato della Jacobsen, ma non ottenne risposta. Be’, era ancora presto, di solito la senatrice compariva verso le nove.

Strappato il sigillo della cartellina ne lesse il contenuto scrollando il capo. Un’altra di quelle assurde proposte di aggregazione dei mutanti al Gregge, il collegio elettorale fondamentalista di Horner.

«Se ciascun uomo, donna e bambino mutante volesse unirsi alla nostra comunità», scriveva il senatore, «le nostre preghiere sarebbero esaudite.»

Che razza d’ipocrita, pensò Andie. Tutti i gruppi di una certa importanza avevano un loro rappresentante a Washington. La settimana scorsa s’era fatto avanti il Fronte Unito di Liberazione Musulmano guidato dall’emiro Kawanda. Costoro prima avevano tentato invano di battere i mutanti opponendo alla Jacobsen il proprio candidato, e adesso avrebbero voluto allearsi con gli ex avversari. E chi poteva biasimarle, tutte quelle minoranze politiche? Traguardi che ad altri erano costati generazioni di marce, dimostrazioni e petizioni, i mutanti sembravano in grado di raggiungerli con relativa facilità.

Probabilmente a Horner e a tutti i demagoghi del suo stampo interessava solo scroccare un passaggio al seguito dei mutanti. Ma le loro filosofie sostanzialmente intessute di avidità, razzismo e imperialismo religioso apparivano incompatibili con gli interessi mutanti. Anche se Horner non ne avrebbe certo fatto un problema, pensò Andie. Sotto tutta quella ostentazione di bigotteria, il cuore del «reverendo senatore» pulsava a un ritmo pragmaticamente politico: voti, voti, voti…,.

«Buongiorno, Andrea.» La senatrice Jacobsen, un videodisco per mano, attraversò la stanza a grandi passi. Sorrise, poi scomparve nel suo ufficio privato. Andie la seguì fin sulla soglia, sporgendosi attraverso la porta aperta.

«Senatrice, è arrivata un’altra istanza da Horner. La solita roba.»

«E tu dagli la solita risposta.»

«Grazie, ma non ci interessa.»

«Esatto.» La senatrice, già intenta al monitor della sua scrivania, alzò un attimo lo sguardo. «Stephen Jeffers ha confermato l’appuntamento delle nove e mezzo?»

«Sì.» Poi, dopo una breve esitazione, Andie soggiunse: «Sembra davvero che sia passato dalla nostra parte».

«Perché, cosa ti aspettavi?»

«Be’, dopo averlo visto così accanito alle primarie pensavo che avrebbe quanto meno tenuto le distanze.»

La Jacobsen sorrise. «Andie, una vecchia volpe esperta del mestiere come te dovrebbe sapere che gli antagonismi politici possono rivelarsi i più effimeri di tutti. E quando si arriva al dunque quel che conta è ottenere un risultato, specialmente se a favore dei mutanti, Stephen è troppo in gamba per consentire che la nostra trascorsa rivalità possa mettersi di mezzo. Meglio così. Se dopo le primarie non mi avesse spalleggiato, dubito che sarei riuscita a farmi eleggere. Sarebbe stato fin troppo facile dividere l’elettorato mutante.»

«Anche considerando il massiccio apporto dell’Oregon?»

«Senza dubbio. Il suo aiuto è stato essenziale.»

Fra l’altro è pure un bell’uomo, pensò Andie. Con quella magnifica chioma folta. Quel mento così forte e virile. E quel sorriso assassino. E quegli occhi dorati…

Si accorse che Eleanor Jacobsen la fissava con aria maliziosa, e distolse imbarazzata lo sguardo. Sapeva che la senatrice possedeva limitate facoltà telepatiche: ma non era vero che i mutanti si impegnavano a rispettare l’intimità dei pensieri altrui?…

«Allora, pronta a discutere della trasferta brasileira?»

«Un attimo solo.» Andie ripose il raccoglitore, acchiappò il videòtaccuino e tornò immediatamente nell’ufficio della Jacobsen.

«Hai presente quelle dicerie a proposito del supermutante?»

«Naturalmente.»

«Si tratta, com’è comprensibile, di un argomento per il quale nutro un vivissimo interesse. A quanto pare, tale interesse è condiviso da altri, tant’è vero che è stata proposta un’indagine parlamentare. Non ufficiale, s’intende.»

Andie annuì. «E lei è la persona logicamente più indicata per guidare questa missione… ufficiosa?»

«Così sembrerebbe.» Poi, con un sorrisetto ironico: «Mai vista una simile unanimità».

«E l’hanno già interpellata?»

«No, ma lo faranno. Un bel pasticcio. Sinceramente, l’ultima cosa che mi vorrei accollare, ora come ora, è proprio un insulso viaggio in Brasile. E poi nemmeno parlo il portoghese.»

«Si faccia fare un innesto.»

«No, finché non me lo chiedono…» Tese una mano e afferrò la tazza in porcellana bianca, colma di caffè, che attendeva lì accanto. «… la qual cosa, presumo, avverrà oggi pomeriggio. Sarà quindi opportuno fissare per tutt’e due un bell’innesto ipnotico. Il consueto bagaglio culturale e linguistico. Riceveremo istruzioni dal Dipartimento di Stato subito prima della partenza. Fai conto di restar fuori almeno un paio di settimane.»

«Va bene. Programmerò abbastanza cibo per gatti da lasciare Livia ben fornita fino ad aprile, nel caso lei decida d’impiantare laggiù un ufficio via satellite.»

La battuta fece spuntare un sorriso sul volto della senatrice. Quella mattina sembrava insolitamente di buon umore. «Non tentarmi, Andrea. Mi sei indispensabile qui per continuare a esercitare i tuoi benefici influssi. Ah, non dimenticarti di informare le agenzie di stampa.»

«Naturalmente.» Una pausa, prima di continuare. «Senatrice, posso rivolgerle una domanda personale?»

«Sentiamo.»

«Lei non dà molto credito a queste chiacchiere sul supermutante, vero?»

Le sopracciglia di Eleanor Jacobsen s’inarcarono in segno di sorpresa, ma tale incontrollata reazione durò lo spazio di pochi attimi, poi la consueta maschera d’armoniosa serenità tornò al proprio posto.

«Ritengo opportuno mantenere un atteggiamento di estrema cautela sin quando non si possa disporre di una prova certa», rispose con voce quieta. Controllata. «Quel che abbiamo sinora fra le mani non sono altro che chiacchiere. E io odio perdere tempo in chiacchiere.»

«Ma che cosa farà se quelle voci dovessero rivelarsi qualcosa di più che semplici voci?»

«Ci penserò se e quando verrà il momento.»


Datasi una rassettata ai polsini, James Ryton si rivolse al figlio.

«Nervoso?»

«Un poco. Diciamo emozionato.» Assai signorile nel suo completo grigio, Michael pareva una versione più giovane di Ryton padre, eccettuata la cravatta a treccia, di colore rosa acceso, che aveva insistito per indossare. James non aveva avuto problemi a concedergli quel pizzico di ostentazione, ma per sé aveva preferito una sobria cravatta rosso borgogna decisamente vecchio stile. Il vagone della metropolitana diede uno scossone, costringendoli ad afferrarsi al corrimano. Fuori dei finestrini schizzavano via stazioni su stazioni, rettangoli di luce bianca e pallidi volti inquadrati per un istante, e subito svaniti.

«Tu già la conosci, vero, papà?»

Ryton annuì. «Sì, e ti assicuro che incontrarla è sempre un piacere. Eleanor Jacobsen è in carica ormai da un intero mandato, ed è qualcosa di cui ogni mutante può andare orgoglioso.»

Il convoglio li depositò alla stazione centrale. Una lenta ascesa lungo scale mobili, sino a raggiungere l’ascensore argentato che s’incaricò di condurli all’ufficio della Jacobsen, dove furono accolti dall’addetta all’accettazione.

«I signori James e Michael Ryton? Accomodatevi, prego. La senatrice al momento è in riunione, ma sono certa che vi riceverà fra breve.»

Ryton annuì con aria impaziente. Era ansioso di arrivare al dunque. Trascorso un quarto d’ora, reinterpellò l’impiegata.

«Crede che ci vorrà ancora molto?»

L’altra sorrise comprensiva. «Ricorderò alla senatrice che siete arrivati.»

«Grazie.»


Al suono del cicalino, Andie alzò la testa dal monitor. Eleanor Jacobsen e Stephen Jeffers, immersi nella discussione, non se ne accorsero neppure.

«Vuoi forse dire che non ti opporresti all’applicazione di ulteriori restrizioni a danno degli atleti mutanti?» domandò Jeffers con voce irosa. «Buon Dio, Eleanor, se continua così fra un poco ci toccherà mettere le cinture di piombo e le bende agli occhi, prima di scendere in pista!»

«Calmati, Stephen», replicò la Jacobsen in tono pacato. «Stai esagerando. È ovvio che non sosterrò quelle restrizioni. Ma la tua richiesta di abrogare il Principio d’Imparzialità è prematura. Lo sai bene che al Senato non abbiamo ancora sostegno sufficiente per chiedere un simile voto.»

«E allora troviamolo, questo sostegno.»

«Magari fosse così facile.»

Lo schermo della senatrice suonò di nuovo, e Andie prese la chiamata.

«Che c’è, Caryl?»

«Ci sono qui James e Michael Ryton. Hanno un appuntamento con la senatrice. È già mezz’ora che aspettano.»

«Grazie.»

Si rivolse alla Jacobsen. «Senatrice, credo che i suoi ospiti delle undici siano di là che aspettano di essere ricevuti.»

«Di già?» Controllò il proprio monitor, poi: «Andie, mi servono altri dieci minuti o giù di lì per Stephen. Ce la fai a tenerli tranquilli finché non mi libero?»

«Si capisce.»

Jeffers le fece l’occhiolino. «Eleanor dovrebbe clonarti, Andie. Così potresti stare in due posti contemporaneamente.»

«O magari tre», aggiunse la senatrice. «Grazie, Andie, vai pure.»

Andie uscì, richiuse la porta, e col sorriso di Jeffers che ancora le rifulgeva in mente s’inoltrò nell’ufficio esterno. I Ryton erano in attesa accanto alla scrivania di Caryl.

«Signori, vi prego di scusare il ritardo. Sono Andrea Greenberg, assistente della senatrice Jacobsen. Verrete ricevuti fra pochi istanti.» Strinse la mano a entrambi i visitatori, vincendo l’impulso di lasciarsi andare a una risatina. Guarda un po’ a parlar di cloni… Ryton figlio, in effetti, pareva a prima vista modellato esattamente con il medesimo stampo del padre, anche se a un esame più attento risultava evidente che i suoi occhi avevano qualcosa di inconsueto, diciamo un tantino obliqui. Interessante. I mutanti erano sempre interessanti, pensò Andie. E attraenti. Sentì un fremito birichino correrle su per la schiena.

Fece accomodare i Ryton su due sedie che fronteggiavano la sua scrivania.

«Avete mai incontrato la senatrice, prima d’ora?»

«Io sì, nel corso di una precedente visita», rispose James Ryton. «Vogliamo parlarle a proposito del disegno di legge sugli stanziamenti per la Base Marte. Le previste norme di attuazione rischiano seriamente di soffocare l’intero comparto dell’ingegneria spaziale, e proprio ora che siamo finalmente riusciti a riguadagnare competitività nei confronti della Russia e del Giappone.»

«Sapete che il disegno di legge sarà messo ai voti domani?»

«È appunto per questo che oggi siamo qui.»

La linea privata di Andie emise un breve trillo. Il codice della Jacobsen.

«Scusatemi.» Distolse lo sguardo e sollevò il microfono.

«Andie, bisognerà rimandare, coi Ryton. Se facessimo domani?»

«Ora glielo chiedo.»

Con aria contrita tornò ad affrontarli.

«Pare purtroppo che la riunione debba andare per le lunghe. Temo proprio di dovervi pregare di tornare domani…»

«Ma potrebbe essere troppo tardi!» sbottò Michael Ryton. Una rapida occhiata di suo padre lo ridusse al silenzio.

Andie incominciò a spiegare quanto fosse spiacente, ma si interruppe a metà della prima parola. Dio, che facce depresse! Le bastò uno sguardo al ruolino dell’indomani per rendersi conto che all’ora in cui la Jacobsen avrebbe potuto riceverli il progetto sarebbe già stato votato.

«Aspettate», disse allora. «Vedo se posso fare qualcosa.»

Premette il pulsante di chiamata.

«Mi scusi, senatrice, ma credo proprio che dovrebbe cercare di trovare qualche minuto per i Ryton oggi stesso. Desiderano incontrarla per via del disegno di legge su Base Marte, e domani lei non avrà tempo di riceverli prima della votazione.»

«È tanto urgente?»

«Credo di sì.»

Pausa di silenzio in linea, mentre la Jacobsen si consultava con Jeffers. Poi: «Non fa nulla per loro se c’è anche Jeffers?»

Andie si rivolse ai Ryton.

«Al momento insieme alla senatrice c’è Stephen Jeffers. Avete qualcosa in contrario se assiste al colloquio?»

«Niente affatto.»

«Hanno accettato.»

«Grazie, Andie.»

«Va bene, gente, potete entrare.» Il giovane Ryton appariva talmente sollevato, che Andie fu sul punto di fargli l’occhiolino. Anche suo padre dava l’idea d’essere un poco meno teso. «Da questa parte.»

Mentre stavano per varcare la soglia dell’ufficio interno, James Ryton si fermò.

«Signorina Greenberg… grazie.» James Ryton sorrideva. Andie ebbe l’impressione che non dovesse capitargli tanto spesso.


«James, che piacere rivederti», lo salutò Eleanor Jacobsen con una breve stretta di mano. «E questo è tuo figlio?» Strinse la mano anche a Michael, il quale ne trasse un’impressione di fermezza che ben si accordava all’espressione autoritaria di lei. Sobriamente abbigliata con un pratico completo grigio, dominava l’ambiente circostante con la massima disinvoltura. Fece cenno ai due visitatori di prendere posto sulle sedie imbottite, rivestite in cuoio rosso, che stavano di fronte alla sua scrivania. Michael vide che non portava il distintivo della fraternità mutante. Probabilmente non è nel suo stile, pensò. Dava l’idea di essere molto più seria e tradizionalista di quanto Michael si fosse aspettato. E nello studio regnava un’atmosfera démodée cui davano sostanziale apporto il caldo rivestimento in legno delle pareti, l’elegante tappezzeria azzurra del divano e il tappeto orientale color vinaccia che faceva bella mostra di sé sul pavimento. Niente mobilio acrilico del Ventunesimo secolo, per la senatrice Jacobsen.

Un bell’uomo dalla mascella forte e dagli occhi dorati stava seduto accanto alla scrivania. Sul risvolto dell’impeccabile giacca blu marino gli scintillava un distintivo della fraternità. Il padre di Michael gli rivolse un cenno del capo.

«Conosci Stephen Jeffers?» domandò la Jacobsen.

«Ci siamo incontrati tre anni fa al convegno della costa occidentale», spiegò Ryton.

«Lieto di rivederti, James.» I due si strinsero la mano, poi Jeffers si rivolse a Michael. «Vedo che nel frattempo sei entrato anche tu in ditta. Ottima scelta. A quel che sento, si tratta di una delle migliori imprese di ingegneria spaziale attualmente in attività.»

«James, ho saputo che ti sei aggiudicato il contratto per il collettore solare», disse la Jacobsen.

«Esatto.»

«Sarebbe proprio ora che il programma spaziale americano ridiventasse competitivo.»

«Be’, è quello che vorremmo ottenere, ma quei maledetti regolamenti ci paralizzano.»

Jeffers annuì. «L’eredità del caso Groenlandia.»

«Le norme di sicurezza sono divenute per noi un cappio attorno al collo. Io utilizzo già una dozzina di persone solo per star dietro alla nuova normativa. In simili condizioni è impossibile rimanere concorrenziali. Non posso semplicemente dare in appalto il lavoro a ditte coreane come fanno la Russia e il Giappone.»

«James, nell’industria spaziale le norme di sicurezza sono un fattore vitale», obiettò la Jacobsen.

«Sicurezza, certo. Da questo punto di vista tutto il nostro lavoro è perfettamente aggiornato. Ma la normativa più recente è in gran parte apparenza e nient’altro, qualcosa a cui i tuoi colleghi possono riferirsi ogni volta che in questa nazione d’imbecilli torna di moda mettersi a far baccano sulla sicurezza delle imprese spaziali.»

«Be’, aspetta un momento, James…»

«Cara la mia senatrice, tu non hai idea di quanto sono diventati intricati questi maledetti regolamenti! È per questo che siamo qui. Con l’aumento continuo del costo del lavoro e del prezzo di materiali e componenti, e con una concorrenza estera sempre più agguerrita, se la nuova legge introdurrà l’obbligo di osservare ulteriori misure di sicurezza ti dico chiaramente che non sarò più in grado di tirare avanti.»

Eleanor Jacobsen scosse la testa. «Sai bene che si tratta di una questione molto delicata. Non posso semplicemente presentarmi in aula e annunciare la mia opposizione alle nuove norme federali di sicurezza su Base Marte. Mi farei ridere in faccia da tutto il Senato. A ragione o a torto, è politicamente indispensabile fornire risposte soddisfacenti ai non pochi critici del programma spaziale… se vogliamo che tale programma continui a esistere. Altrimenti risuccederà quel che accadde negli anni Ottanta. E la tua attività ne subirà un danno ancora più grave.»

«Sarei lieto di poter dimostrare quali effetti abbiano, sulla nostra attività, le misure preventive già in vigore», ribatté Ryton. «Siamo stati costretti a decuplicare i prezzi solo per conservare la posizione di mercato pre-Groenlandia. E sono certo che se deste un’occhiata ai miei concorrenti americani constatereste la medesima situazione. Forse ai contribuenti non dispiacerebbe affatto scoprire quanto gli costa la gratificazione psicologica derivante da una tale sovrabbondanza di precauzioni.»

«Dunque sei proprio convinto che queste norme di sicurezza siano superflue?»

«Alcune senza dubbio.»

Michael si sentì nascere dentro un’ondata di ammirazione per il modo in cui suo padre difendeva le proprie posizioni.

«E tu che cosa ne pensi?» gli domandò la Jacobsen.

«Sono d’accordo con mio padre. Dopo l’incidente in Groenlandia, la regolamentazione si rendeva evidentemente necessaria per spegnere le proteste. Ma in realtà si tratta solo di una perdita di tempo e di uno spreco di denaro pubblico. Le nuove norme non aumentano affatto la sicurezza del sistema. Che, comunque, è già molto sicuro. Abbiamo portato una documentazione dimostrativa di quanto elevato sia il suo grado di sicurezza anche senza l’adozione di ulteriori misure.» Si tolse di tasca una memocassetta e gliela porse.

Eleanor sospirò. «Sei persuasivo quanto tuo padre. Benissimo, signori. Miracoli non ne posso promettere. Ma farò il possibile.»

James Ryton si alzò in piedi. «Gradiremmo ricevere notizie circa l’esito della votazione, senatrice.»

«Vi contatterà Andie, la mia assistente.»

Michael strinse di nuovo la mano a Eleanor Jacobsen e uscì dallo studio sentendosi tranquillizzato, quasi euforico. Mentre insieme a suo padre passava accanto alla scrivania della graziosa assistente dai capelli rossi, lei li salutò alzando entrambe le mani in gesto beneaugurante.

Eccola qua, dunque, la famosa Eleanor Jacobsen, pensava Michael. Senza dubbio all’altezza della propria reputazione: schietta, intelligente, politicamente astuta. Il mutante giusto al posto giusto. Non vedeva l’ora di parlarne a Kelly.

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