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Attraversato vivacemente l’atrio deserto del Cesar Park Hotel, Andie spiattellò la propria identicarta davanti al sensore dell’accesso principale onde ottenerne l’apertura. I battenti scorsero di lato, e lei uscì sulla strada. Aveva giusto il tempo per una visitina in spiaggia, prima dell’incontro delle dieci.

L’accolse una città sorprendentemente tranquilla. Andie sapeva che le epurazioni del 1997 avevano portato fra l’altro alla scomparsa delle favelas, quell’accozzaglia eterogenea di casupole aggrappate sui fianchi delle colline. A dispetto delle indignate proteste levatesi dalla pubblica opinione, il nuovo regime era stato sbrigativo e brutale. E dov’erano, adesso, i favelitas? Andie li immaginò al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero del fumigante interno. Ammesso che fossero ancora vivi.

Si era aspettata di incontrare errabondi gruppi di festaioli reduci dalle discoteche aperte tutta la notte, coppie d’innamorati ancora a passeggio mano nella mano, con gli occhi pieni di stelle, lungo la spiaggia. Ma probabilmente si trattava di situazioni infrequenti, durante la settimana. Si era imbevuta delle leggende di Rio. Adesso era giunto il momento di conoscere la verità.

Attraversò con gran cautela l’affollatissima Avenida Atlantica, tenendo conto degli avvertimenti dell’ipnoinnesto circa l’imprevedibilità degli automobilisti locali. Giunta sul pavimento a mosaico delimitante la spiaggia si tolse le scarpe, e immerse i piedi nella bianca sabbia di Ipanema. Schiere su schiere di onde verde-azzurre si accavallavano verso di lei, andandosi a frangere sulla battigia. Alcuni irriducibili amanti della tintarella sedevano sulle sdraio, fissando il mare. Ma la spiaggia era in gran parte deserta. Si incamminò sulla sabbia rammaricandosi di non avere preso un cappello. Nonostante l’ora, il sole picchiava forte. Sebbene avesse bevuto un bicchiere abbondante di succo di mango appena prima di uscire, incominciò a sentirsi assetata. Aveva la bocca asciutta, la lingua impastata. Si figurò un bicchierone d’acqua tutto imperlato di vapore condensato, e pensò con bramosia a un bel gelato. Lungo la spiaggia, sulla sua sinistra, vide avvicinarsi un venditore di gelati alla frutta, un abbronzato ragazzo sui quattordici anni con occhiali scuri e jeans bianchi, e decise di cedere alla tentazione. Mentre contava il resto, il ragazzo si sollevò gli occhiali fin sopra la testa, e quando levò lo sguardo su di lei, Andie rimase sbalordita nel vedere un paio di occhi d’oro, lucenti come monete, appuntarsi nei suoi. Il denaro quasi le sfuggì di mano. Il venditore sorrise. «Obligado», disse, e proseguì il suo giro per la spiaggia, eclissandosi ben presto.

Possibile che se li fosse immaginati? Si mise in bocca la stecca gelata. Era appiccicosa e dolciastra. A dire il vero non le andava neanche un poco. Individuato un cestino per rifiuti, si sbarazzò del nauseante pastrocchio. Ma quel ragazzo, aveva davvero gli occhi dorati?

Perplessa, lasciò la spiaggia, si rinfilò le scarpe e traversò la strada, schivando agilmente torme di tassisti psicopatici. Passò davanti a parecchi caffè con le saracinesche abbassate e le sedie rovesciate sopra i tavolini. Dov’era andata a finire quella leggendaria cultura edonistica? Anche i negozi erano chiusi. All’incrocio con Avenida Rio Branco scorse finalmente un baretto aperto, con un cameriere svogliatamente impegnato a lustrare gli specchi dietro il banco. Nel passare ne incontrò lo sguardo. Lui le sorrise cortesemente, e Andie rispose con un cenno del capo. Le era solo sembrato, oppure aveva visto davvero scoccare dai suoi occhi un bagliore dorato? Forse si era trattato solo di un riflesso, pensò, mentre faceva il suo ingresso al Cesar Park. Ad ogni modo non era il momento. Adesso toccava alla riunione.

Eleanor Jacobsen, tanto per non smentirsi, venne immediatamente al dunque.

«Come sapete, siamo qui per indagare con estrema discrezione su certe dicerie nate a proposito di supermutanti. Io, personalmente, non ci credo affatto. Tuttavia, fino al termine della nostra missione, non darò nulla per scontato. Cominceremo col visitare stamattina i laboratori di ingegneria genetica del dottor Ribeiros. Ufficialmente ci presenteremo come una delegazione incaricata di reperire, nell’ambito di una iniziativa congiunta americano-giapponese, ditte di provata serietà cui affidare in appalto ricerche di carattere biomedico. Dopo pranzo il signor Craddick, il reverendo signor Horner e io stessa ci incontreremo col dottor Ribeiros per vagliare l’attitudine dei suoi laboratori a lavorare su commissione. Suggerisco agli altri di utilizzare nel frattempo la biblioteca del centro per cercare di trarne qualche utile indicazione. Ricordate che non possiamo correre il rischio di offendere i brasiliani. Quindi state molto attenti. Ci ritroveremo tutti alle quattro per confrontare le nostre osservazioni. Domande?»


Tentando di mantenere in equilibrio la pila di dischetti che le ingombrava le braccia, Melanie scartò troppo bruscamente sulla sinistra, e i primi dieci volumi della Storia delle Civiltà si sparpagliarono sul pavimento della biblioteca scolastica, seguiti a ruota dalla borsetta, dalla giacca e dal portadischi. Mel chinò lo sguardo sul mucchio scomposto che giaceva ai suoi piedi, e si lasciò sfuggire un sospiro sconsolato.

«Non potresti stare più attenta?» l’apostrofò la bibliotecaria, fulminandola con un’occhiataccia dal monitor installato nell’angolo vicino alla porta.

Mel si sentì avvampare. Cercò con gesto impacciato di scansarsi la frangetta dagli occhi. La bibliotecaria la odiava. Pur senza muoversi dalla sua postazione non la perdeva d’occhio un solo istante, e la odiava.

«Certo, Ryton, che per essere una mutante sei parecchio maldestra. Perché, dico io, invece di camminare non pigli su la tua roba e non te ne svolazzi via di qui… magari fino a Base Marte?» Era stato Gary Bregnan, terzino dei Piedmont Eagles, a sussurrarle quella frase in tono beffardo. Due compagni di squadra, seduti lì accanto, ridacchiarono sotto i baffi. Poi, istigati da Bregnan, presero a salmodiare sottovoce: «Mutosa, mutosa, mutosa…» Brucianti lacrime di frustrazione incominciarono a colmare gli occhi di Mel. Tutti la odiavano. Ma se era per questo, anche lei li odiava. E anche lei li avrebbe spediti in blocco su Base Marte, se avesse potuto.

Raccattò dischi e oggetti personali e andò a cercarsi una cabina-computer libera. La pioggia di aprile tamburellava contro i vetri del lucernario con fredda, deprimente insistenza. Mel sentiva Bregnan che non la smetteva di riderle dietro. Dunque odiava i mutanti, eh? Benissimo, di lì a poco avrebbe dovuto scegliersi un altro bersaglio, per il suo odio. Nel frattempo, il minimo che poteva fare era restituirgli il suo disprezzo. Certo, la mamma glielo diceva sempre di cercare di comprendere i normali. Ma la mamma non aveva da misurarsi ogni giorno con Gary Bregnan e i suoi degni compari.

Mel trascorse tre quarti d’ora a prendere appunti per la sua tesina di ammissione dal titolo «Confrontate l’impatto dei viaggi per mare sull’antica Spagna con quello dei viaggi spaziali sull’America contemporanea». Ristette infine qualche istante a stropicciarsi gli occhi, stanca del lungo fissare i caratteri bianchi sullo schermo.

Sia lode al cielo per Kelly McLeod, pensò. Se non avesse accettato di lavorare con lei a quella relazione, per Mel sarebbe divenuto un vero incubo. Kelly aveva suggerito l’inserimento di carte geografiche e persino la realizzazione di tavole sinottiche. Senza il suo intervento, Melanie si sarebbe limitata a un piatto resoconto di un paio di minuti. Secondo lei l’impero spagnolo aveva prosperato per merito della propria superiorità navale, ed era poi stato distrutto dalle conseguenze delle grandi navigazioni. Non le pareva che fosse il caso di trarre analoghe conclusioni dalla situazione attuale. Melanie sbadigliò, fece una copia su dischetto e spense il personal. Meno male che aveva smesso di piovere.

Nell’avviarsi all’uscita sostò davanti allo schedario principale. La risata di Bregnan continuava a riecheggiarle nelle orecchie. Scorrendo il catalogo si soffermò su Storia delle perversioni sessuali e Malattie veneree, chiedendo in prestito entrambi i testi a nome di Bregnan. Non ci voleva nulla a contraffarne l’identicarta facendola passare per buona all’esame degli ottusi sensori di cui disponeva quel vecchiume di computer. Strada facendo, non lontano da scuola, gettò i due dischi dentro una cassetta dell’Esercito della Salvezza. Ben gli sta a Bregnan se gli tocca ripagarli, pensò. Priva di poteri mutanti, d’accordo, ma mica poi del tutto sprovveduta…

«Mel, aspetta un momento!»

Melanie s’immobilizzò, raggelata dal terrore. L’avevano scoperta. Possibile che non le riuscisse nemmeno di vendicarsi impunemente? In preda alla disperazione, si volse a fronteggiare l’accusatore.

Vide Jena Thornton affrettarlesi incontro. «Ciao! Ti cercavo.»

«Ah, sì?» balbettò Melanie con voce tremante. Che Jena l’avesse veduta sbarazzarsi dei dischi?

«Eh già. Ti volevo parlare. Ti va di andare a bere qualcosa?» Jena sorrideva, con i lunghi capelli biondi che le danzavano attorno al viso scompigliati dal vento. A Melanie non parve che la guardasse con sospetto.

Il galoppo forsennato del suo cuore prese pian piano a placarsi. Scampato pericolo. Ma cosa voleva, Jena, da lei? Ai convegni del clan, più che un cenno col capo era difficile che le facesse. A scuola, poi, fosse dipeso dalle attenzioni che Jena le tributava, Melanie avrebbe anche potuto essere invisibile. E gli stessi giocatori che canzonavano e tormentavano lei, ogni volta che Jena passava ancheggiando non mancavano mai di fischiarle la loro ammirazione.

«Di cos’è che vuoi parlare?»

«Oh, be’, roba di scuola, cose del clan… Vieni, andiamo a farci un frullato di alghe.» Prese Melanie per un braccio e la condusse verso un localino lì nei pressi.

Una volta dentro, Jena ordinò al robocameriere due frappé e due polpette di riso al tonno.

«Lo studio come ti va?» s’informò.

«Bene», rispose Melanie, dopo aver trangugiato una bella forchettata della sua porzione. «Salvo imprevisti mi dovrei diplomare il mese prossimo. Come ore di frequenza ci sono.»

«Poi ti iscrivi all’università?»

«Non lo so. I miei vorrebbero. Ma potrei anche restare a lavorare con mio padre.»

Jena sorrise. «Ha messo in piedi davvero una bella ditta. E Michael lavora con lui?» Parve soffermarsi su quel nome, assaporarlo.

«Esatto. Sono appena rientrati da un viaggio a Washington, dove si sono incontrati con Eleanor Jacobsen.»

Jena rabbrividì. «Che donna in gamba. Al solo pensiero mi vien da levitare.» E si sollevò a fluttuare alcuni centimetri sopra la sua sedia, poi ridiscese, ridacchiando. «Mi piacerebbe tanto conoscerla. Chissà, forse Michael mi parlerà di lei, al prossimo convegno del clan.»

«Chiediglielo.» Melanie incominciava a sentirsi a disagio. Dove voleva andare a parare, Jena?

«Senti, il diciassette darò una festa. Mi chiedevo se tu e tuo fratello gradireste partecipare.»

«Sicuro. Cioè, a me andrebbe, ma a Michael bisognerà che tu lo chieda personalmente.»

«D’accordo, lo farò. Puoi portarti il ragazzo, se vuoi. E anche Michael può venire in compagnia. Scommetto che arriverà con Kelly McLeod. Sarà interessante avere alla festa una nonmutante.»

«Perché dici così?»

Gli occhi di Jena erano grandi, innocenti. «Be’, li ho visti al cinema insieme, la scorsa settimana. Si frequentano, vero?»

«Non saprei.»

«Comunque farebbero meglio a stare attenti», insisté Jena, mentre il sorriso le andava smorendo sulle labbra. «Se il clan lo viene a sapere, Michael potrebbe pentirsene.»

«È una minaccia, forse?» domandò Melanie irrigidendosi.

«Ma no, figurati», le assicurò Jena in tono mellifluo. «Semplicemente una considerazione. Tutto sommato credo che sarà una bella esperienza, per tuo fratello, gustare il frutto proibito.» E si lasciò andare a una risata aspra, tagliente.

«Senti, Jena, si sta facendo tardi…»

«Conosci Stevam Shrader?»

«È il cugino di Tela, mi pare.»

«Esatto. Ultimamente usciamo insieme, io e lui. Bei muscoli.» Jena ridacchiò. Poi diede un’occhiata al suo cronometro da polso. «Mio Dio, bisogna che scappi. Ho promesso di riportare a casa il libratore, e fra un’ora devo incontrarmi con Stevam. Resta qui tranquilla e finisci. Ci vediamo il diciassette.» Uno svolazzo di capelli biondi, il guizzo di una tuta azzurra, e se ne andò come il vento.

Melanie recuperò il portadischi. I discorsi di Jena l’avevano innervosita. Che intenzioni aveva, con Michael e Kelly? A volte, ridletté, i mutanti erano difficili da capire quanto i nonmutanti. Per il momento, comunque, non aveva alcuna voglia di continuare a preoccuparsi.


Jena spinse a tavoletta l’acceleratore della sua freccia vermiglia. L’autostrada era un nastro di calcestruzzo divorato dal libratore, il fuggente paesaggio un guazzabuglio giallo-verde di alberi germoglianti.

Osservò fra sé che in fin dei conti aveva detto la verità, a Melanie Ryton. È chiaro che avrebbe invitato alla festa sia lei sia suo fratello, anche se entrambi sapevano a chi era veramente interessata. E aveva davvero un appuntamento con Stevam, sebbene lo considerasse essenzialmente uno sciocco presuntuoso.

Se solo fosse riuscita a dimenticare quello che aveva visto la sera prima… Michael con un braccio stretto attorno a Kelly McLeod. E tutti e due che ridevano all’unisono uscendo dal cinema. Felici di essere insieme, ignari degli sguardi che come coppia «mista» inevitabilmente si attiravano.

Il concetto di «coppia» le fece venire un groppo allo stomaco. Quei due le avevano dato l’impressione di formare una coppia davvero molto affiatata, immersi com’erano in un alone di particolare intimità che faceva al confronto impallidire i suoi peggiori incubi.

Jena aveva adorato Michael Ryton sin dall’età di dodici anni. A ogni convegno del clan l’aveva osservato giocare a pallone e saltare la cavallina coi loro cugini, beandosi del modo in cui si muoveva, del modo in cui timidamente le sorrideva. E sperando che, con l’andar del tempo, lui pure giungesse a provare per lei gli stessi sentimenti. Dopotutto avevano quasi la stessa età. Una scelta assolutamente appropriata. E il momento della decisione era ormai giunto, per Michael Ryton. Perché non doveva toccare a lei?

Jena si era accorta presto che i suoi sguardi erano un’arma potente, efficace anche sui nonmutanti… non che quegli ottusi, noiosi normali, destassero in lei il minimo interesse. Lo vedeva bene, ai convegni del clan, in che maniera la guardavano gli uomini. Quando passava lei, persino gli individui dell’età di suo padre si permettevano di indugiare sulle sue fattezze con occhiate inequivocabili. L’aveva sempre considerato un piacevole gioco. Ma l’unico uomo col quale veramente desiderava giocare pareva avere la mente orientata altrove. Sui nonmutanti. Jena strinse il volante. Accidenti, aveva saltato l’uscita.

L’atteggiamento intransigente e ribelle tenuto da Michael durante il convegno dell’inverno prima le era parso un chiaro segno del fatto che egli non era ancora pronto a sottomettersi. D’accordo, aveva pensato Jena. Prima o poi si arrenderà. Diamogli tempo e modo. Il suo rifiuto le aveva fatto male, però lei non aveva lasciato capire a nessuno, neppure a sua madre, quanto profonda fosse quella ferita. E aveva giurato a se stessa che Michael, presto o tardi, sarebbe stato suo.

Ma come poteva essere tanto interessato a una nonmutante? Kelly era una ragazza in gamba, d’accordo, ma si trattava pur sempre di una normale. Di un’estranea! Per andare contro le rigide consuetudini del clan, Michael doveva aver contratto ben più di una leggera infatuazione. Forse sarebbe stato addirittura disposto a sfidare pesanti sanzioni, pur di sposarla.

No. No. No.

Jena si disse che una cosa del genere non poteva, non doveva accadere. Aveva aspettato abbastanza. Adesso bisognava intervenire, e alla svelta. Uscì allo svincolo successivo, invertì direzione e manovrò il libratore verso casa, mentre un piano le si andava già delineando nella mente.


«James, non puoi semplicemente incollare Michael a Jena aspettando che succeda qualcosa. Non sono mica animali.» Sue Li guardava suo marito andare avanti e indietro per la stanza spostandosi senza posa da una zona di luce azzurra a una di luce verde, sintomo indubbio che le vampate mentali lo stavano tormentando. «E poi i fidanzamenti non sono più di moda.»

«Non me ne frega niente della moda. Con noi due ha funzionato, no? A dar troppa libertà di scelta a questi giovani scriteriati, finisce che prendono decisioni pericolose.»

«Già, ma quelli erano altri tempi. Non devi generalizzare.» Sue Li avrebbe preferito non affrontare l’argomento, ma James aveva insistito per sapere che fine avesse fatto il libratore, e alla fine, pur controvoglia, era stata costretta a dirgli dell’appuntamento di Michael con Kelly. Lui era andato su tutte le furie. Sue Li interruppe con un sospiro la lettura dell’Art History Monthly, e senza disattivare lo schermo si abbandonò rassegnata contro i cuscini del divano.

«Cercare di obbligare Michael a obbedirti non servirà», lo ammonì. «Temo, anzi, che tu possa indurlo a lasciarci.» E se dovesse accadere non te lo perdonerò mai, pensò, chiedendosi se James fosse in grado di percepirla nettamente. La sua chiarudienza era una facoltà capricciosa e incostante.

Ryton, un’espressione costernata dipinta sul volto, troncò di netto il proprio andirivieni, e lei si sentì percorrere da un lieve fremito di esultanza. I suoi poteri telepatici erano sempre stati assai superiori a quelli del marito.

«Non costringerei mai mio figlio ad andarsene di casa», dichiarò Ryton con voce sommessa.

«Però non credo che tu ti renda ben conto di quali pressioni stai esercitando su di lui», obiettò Sue Li, infagottandosi più stretta nel suo kimono color prugna.

«E lui non ha nessuna idea di quali forze potrebbero essere messe in opera per ricondurlo alla ragione», replicò Ryton in tono aspro.

Sue Li lo fissò con sguardo atterrito. «Non starai mica pensando di chiedere l’intervento della mente di gruppo? Contro nostro figlio?»

«Non sarebbe certo la prima volta che accade una cosa del genere. Anche se, naturalmente, si tratta di una sanzione applicata di rado. E sempre per il bene del clan. È già stato proposto di richiedere l’applicazione di un provvedimento ufficiale a carico di Skerry. Per costringerlo a rigare dritto. E io sono tentato di votare a favore. Michael gli vuole bene. Potrebbe essere un’ottima lezione, per lui.»

«Ma una condanna di gruppo potrebbe distruggere le facoltà telepatiche di Skerry!»

Ryton si strinse nelle spalle. «Ora come ora di quale utilità è costui, per il clan? Ha abbandonato la comunità. Se non altro, potremmo recuperare il suo potenziale genetico.»

«Operando su di lui un’ulteriore costrizione, naturalmente. Possibile che tu non sappia pensare ad altro?»

«Lo sai che non è così. E sai altrettanto bene che si tratta di un punto essenziale. Lo è sempre stato. Siamo così pochi. E adesso che siamo usciti allo scoperto, i nostri giovani pensano solo a mescolarsi coi normali.» Ryton si massaggiò le tempie con aria stanca. «È un’idea pazzesca. Pericolosa. Non può uscirne nulla di buono. I normali sono impreparati almeno quanto noi, a un passo del genere.»

«Sembra quasi che li consideri una specie di trogloditi.»

«Sotto certi aspetti lo sono, paragonati a noi.»

«Dio, quanto mi irrita sentirti parlare a questo modo!» Sue Li si girò verso lo schermo del computer. Era la seconda volta, quella sera, che provava una gran voglia di possedere facoltà telecinetiche, appena quel tanto che sarebbe bastato a sbatter suo marito contro un muro per cacciargli fuori quell’atteggiamento ostile, quelle idee paranoiche.

«Incoraggiarlo in questa sua infatuazione per la figlia di McLeod servirà solo a rendere le cose più difficili», dichiarò Ryton. «E io non voglio che mio figlio si esponga così alle insensatezze dei normali, col rischio di rimanerne scottato, o peggio.»

«Finora, ad ogni modo, ce l’ha fatta a sopravvivere», obiettò sarcastica Sue Li. «Anche dall’università è uscito tutto intero, e dire che là dentro era circondato da migliaia di normali.» Con un gesto nervoso della mano si decise finalmente a spegnere il video. «Non possiamo tenerlo isolato per sempre, James. Già sta scalpitando per andarsene a vivere la sua vita, e se cerchiamo per forza di separarlo da Kelly potremmo ottenere solo di far precipitare la situazione. Porta pazienza. Sono tanto giovani, tutti e due. Può darsi benissimo che a tempo debito la cosa si risolva da sé.»

«Mah, speriamo che tu abbia ragione.» Ryton andò a sistemarsi in poltrona e incominciò a riempirsi la pipa di tabacco, segno che la conversazione poteva considerarsi conclusa.

Sue Li esalò mentalmente un sospiro di sollievo, riattivò il monitor e tornò a occuparsi della rivista, congratulandosi con se stessa per avere evitato la delicata questione della vita sessuale di suo figlio. Più avanti, comunque, avrebbe fatto bene ad affrontare l’argomento con Michael…

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