Il Principe Limone fece il suo ingresso nel villaggio la mattina seguente, accompagnato da quaranta Limoni di corte e da un battaglione di Limoncini. Come sapete, alla corte del Principe Limone portavano tutti un campanello in cima al berretto e facevano un concerto straordinario.
All'udire quel fracasso, Pirro Porro, che si stava pettinando i baffi davanti allo specchio, si affacciò alla finestra, lasciando a mezzo la sua operazione. Così fu arrestato e condotto via, con un baffo all'in su e un baffo all'in giù.
— Lasciatemi almeno il tempo di pettinare anche il baffo sinistro! — supplicava Porro mentre le guardie lo portavano in prigione.
— Fate silenzio, altrimenti vi taglieremo il baffo sinistro e poi anche quello destro, risparmiandovi la fatica di pettinarli.
Pirro Porro se ne stette zitto per paura di perdere la sua unica ricchezza. Fu arrestato anche il sor Pisello.
— C'è un errore. Io sono un avvocato, sono al servizio del Cavalier Pomodoro. C'è un equivoco, lasciatemi subito in libertà.
Ma era come parlare col muro.
I Limoncini si accamparono nel parco. Per un bel pezzo si divertirono a leggere i cartelli di don Prezzemolo, poi per non annoiarsi cominciarono a strappare i fiori, a pescare i pesci rossi, a tirare al bersaglio contro i vetri delle serre e a prendersi altri spassi del genere.
Le Contesse andavano da un comandante all'altro con le mani nei capelli:
— Per favore, signori, preghino i loro uomini di moderarsi. Essi ci stanno rovinando tutto il parco.
I comandanti si irritarono moltissimo:
— I nostri eroi, — essi risposero, — hanno bisogno di svago dopo le fatiche belliche, e voi dovreste essere più riconoscenti.
Le Contesse fecero osservare che arrestare Pirro Porro e il sor Pisello non poteva essere stata una gran fatica. Allora il comandante rispose:
— Benissimo. Faremo arrestare pure voi, così guadagneremo meglio il nostro stipendio.
Alle Contesse non rimase che scappare via a lamentarsi col Principe Limone. Il quale, naturalmente, aveva preso alloggio al Castello con tutti i quaranta Limoni di corte, scegliendo le camere più belle e trattando senza complimenti Pomodoro, il Barone, il Duchino, don Prezzemolo e tutti quanti.
Il Barone era preoccupatissimo.
— Vedrete, — diceva sottovoce, — mangeranno tutte le provviste e noi morremo di fame. Se ne staranno qui fin che avranno mangiato tutto, poi se ne andranno lasciandoci nelle peste. E' una sciagura, è peggio del terremoto di Messina.
Il Governatore fece chiamare alla sua presenza Pirro Porro e cominciò ad interrogarlo, mentre don Prezzemolo, dopo essersi soffiato il naso nel suo fazzolettone a quadri, si accingeva a scrivere le risposte e Pomodoro sedeva alla destra del Governatore per fargli da suggeritore.
Bisogna sapere, infatti, che il Principe Limone, benché avesse in testa il campanello d'oro, non era molto intelligente, e soprattutto era distratto. Per esempio, appena il prigioniero fu condotto alla sua presenza, esclamò:
— Ma che bei baffi. In fede mia, in tutto il Governatorato non ho mai visto un paio di baffi così belli, così lunghi e così ben pettinati.
Pirro Porro, stando in prigione, non aveva altro da fare che pettinarsi i baffi.
— Grazie, Eccellenza, — disse umilmente.
— Anzi, — riprese il Governatore, — giacché ci siamo, vi voglio nominare Cavaliere del Baffo d'Argento. Olà, miei Limoni.
I dignitari accorsero subito alla chiamata.
— Portatemi una corona di Cavaliere del Baffo d'Argento. Gli portarono la corona, fatta a forma di un baffo che girava tutt'attorno ulla testa: però era d'argento, si capisce.
Pirro Porro era molto confuso: credeva di essere stato chiamato per venire interrogato, e invece si vedeva consegnare un'altissima onorificenza.
Si inchinò davanti al Principe il quale, tutto soddisfatto, gli mise in testa la corona, lo abbracciò e baciò sui due baffi, infine si alzò per andarsene.
Pomodoro si curvò a mormorargli all'orecchio preoccupatissimo:
— Altezza, vi faccio rispettosamente osservare che avete nominato Cavaliere un infame delinquente.
— Dal momento che l'ho nominato Cavaliere — rispose il Principe con sussiego, — non è più un delinquente. Tuttavia interroghiamolo pure.
E rivolgendosi a Pirro Porro, gli domandò se sapesse dove si erano rifugiati i prigionieri. Pirro Porro rispose che non sapeva niente. Il Principe gli domandò se sapeva dove fosse stata nascosta la casa del sor Zucchina, e Pirro Porro rispose di nuovo che non sapeva niente.
Pomodoro montò su tutte le furie:
— Altezza, quest'uomo mente. Propongo che sia messo alla tortura fin che non dica la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità.
— Benissimo, benissimo, — fece il Principe Limone fregandosi le mani: aveva già completamente dimenticato di aver decorato Pirro Porro un minuto prima ed era tutto contento all'idea della tortura, perché era di animo cattivo e crudele.
— Che tortura gli possiamo fare? — domandò il boia, arrivando con tutti i suoi strumenti, ossia forche, scuri, picche e fiammiferi per accendere eventualmente anche il rogo.
— Strappategli i baffi, — ordinò il Governatore.
Il boia cominciò a tirare i baffi del signor Porro, ma con tutto l'esercizio che avevano fatto a sostenere il peso della biancheria erano diventati così resistenti che non se ne staccò nemmeno un pelo. Pirro Porro non sentiva assolutamente nessun dolore e se la rideva di gusto. Il boia sudò, sbuffo, ringhiò, si stancò tanto che cadde svenuto. Pirro Porro fu riportato in una cella segreta dove fu dimenticato. Dovette nutrirsi di topi crudi e i baffi gli crebbero tanto che fecero due rotoli sul pavimento e qualsiasi lupo di mare li avrebbe scambiati per il cordame di un albero maestro.
Venne la volta del sor Pisello. L'avvocato si buttò subito ai piedi del Governatore e cominciò a baciarglieli affettuosamente, supplicando:
— Perdonatemi, Altezza: sono innocente.
— Male, avvocato mio, molto male. Se foste colpevole, potreste rivelarmi qualcosa. Se siete innocente, è probabile che non sappiate nulla. Sapete almeno dove sono scappati i prigionieri?
— No, Altezza, — rispose tremando il sor Pisello. E dilatti non lo sapeva.
— Vedete? — esclamò il Principe Limone. — Come faccio a liberarvi, se non collaborate con la giustizia?
Il sor Pisello si senti perduto, e nello stesso tempo provò una rabbia atroce, a vedersi così abbandonato dal suo protettore e padrone.
— Sapete dirmi, — continuava il Principe Limone, — dove è stata nascosta la casa del sor Zucchina?
Questo il sor Pisello lo sapeva, perché aveva udito la conversazione di Cipollino con i suoi compaesani quella famosa mattina.
— Se io rivelo il nascondiglio, — pensava, — sarò libero. Ma che cosa ci guadagnerò? Adesso li ho conosciuti, gli amici: fin che c'era da sfruttare il mio titolo e la mia abilità di avvocato per imbrogliare il prossimo, mi invitavano a cena e mi facevano un sacco di salamelecchi. No, non voglio aiutarli. Se la sbrighino loro. Vada come vuole, da me non sapranno niente.
E ad alta voce rispose, seccamente:
— No, non lo so.
— Mentite, — urlò Pomodoro, — lo sapete benissimo e non lo volete dire.
A questo punto il sor Pisello non si tenne. Si levò sulla punta dei piedi per sembrare più alto, fissò Pomodoro con uno sguardo di fuoco e gridò:
— E' vero, lo so. So benissimo dov'è nascosta la casetta. Ma non ve lo dirò mai e poi mai.
Il Principe Limone lo guardò sbalordito.
— Riflettete, — gli disse, — se non rivelate il vostro segreto, sarò costretto ad impiccarvi.
Il sor Pisello si sentì tremare le gambe per la paura e si toccò il collo: gli sembrava già di sentirsi stringere dalla corda. Ma ormai uveva deciso.
— Impiccatemi pure, — rispose fieramente. — Impiccatemi subito.
Finito di dire queste parole, diventò bianco, cosa molto strana per un pisello, e cadde a terra svenuto. Don Prezzemolo scrisse nel verbale.
— L'imputato sviene per la vergogna.
Poi si soffiò il naso nel fazzoletto e chiuse il libro: l'interrogatorio era finito.