Lancia il Duchino l'esse-o-esse, si tingon di nero le Contesse

Quando scese la notte i nuovi castellani cominciarono a preoccuparsi.

— Che cosa faremo? — s'inquietava la sora Zucca. — Non potremo mica restare qui per sempre! Questa non è casa nostra. Abbiamo le nostre case, il nostro lavoro.

— Non vogliamo restare qui per sempre, — rispose Cipollino, — vogliamo trattare con i nostri nemici. Chiediamo solo la libertà per tutti. Quando saremo certi che non sarà fatto del male a nessuno, usciremo dal Castello.

— Ma come ci difenderemo? — interloquì il sor Pisello. — La difesa di un castello come questo è una operazione bellica assai difficile. Occorre la conoscenza della strategia, della tattica e della balistica.

— Che cos'è la balistica? — domandò la sora Zucca. — Avvocato, non cominciate a imbrogliarci con le parole difficili.

— Voglio dire, — concluse l'avvocato arrossendo, — che tra noi non c'è nessun generale. Senza un generale come si fa a difendersi?

— Nel bosco ci sono almeno quaranta generali, — disse Cipollino, — eppure non sono stati capaci di prenderci.

— Staremo a vedere, — brontolò il sor Pisello. L'idea di sostenere un lungo assedio senza un generale che si intendesse di strategia, di tattica e di balistica, gli metteva in corpo una terribile tremarella.

— Non abbiamo cannoni, — intervenne timidamente il sor Zucchina.

— Non abbiamo mitragliatrici, — aggiunse Pirro Porro.

— Non abbiamo fucili, — rincarò Mastro Uvetta.

— Ci penseremo domani, — decise Cipollino.

Andarono a dormire. Nel letto del Barone Melarancia ci entrarono in sette e c'era ancora posto. Il sor Mirtillo e il sor Zucchina, invece, andarono a dormire nella loro Casina, giù vicino al cancello.

Il Mastino che vi si era insediato li salutò con un ringhio, ma siccome era un cane rispettoso delle leggi, quando gli fu dimostrato che quella casa non gli apparteneva si rassegnò a traslocare nel suo vecchio canile.

Zucchina si mise seduto e si affacciò al finestrino, mentre il sor Mirtillo gli si sdraiava sui piedi.

— Che bella notte, — diceva Zucchina, — che notte tranquilla. Ci sono perfino i fuochi artificiali.

Nel bosco, difatti, il Principe Limone faceva i fuochi artificiali per divertire le Contesse. Come faceva? Legava un paio di Limoncini alla bocca dei cannoni e li sparava nel cielo. I Limoncini volando con una fiaccola per mano facevano un bellissimo vedere.

Ad un certo punto, tuttavia, Pomodoro si accostò al Principe e gli bisbigliò all'orecchio:

— Altezza! State consumando tutto l'esercito.

Il Principe, a malincuore, fece sospendere i fuochi.

— Ecco, — disse Zucchina guardando dal suo finestrino, — i fuochi artificiali sono finiti.

Il Principe contò i soldati che gli rimanevano per continuare nella caccia dei prigionieri. Gliene restavano sempre abbastanza, ma era prudente aspettare il mattino.

Fece preparare una bella tenda per le Contesse, che per la curiosità e per l'eccitazione non riuscirono a dormire.

Verso mezzanotte Pomodoro uscì in esplorazione. Salì su una collinetta pensando che di lì avrebbe scorto il fuoco del bivacco degli evasi, se per caso ne avessero fatto uno. Invece, con sua grande sorpresa, vide le finestre del Castello illuminate.

— Il Barone e il Duchino fanno baldoria, — pensò contrariato. — Quando gli evasi saranno catturati e sarà risolto l'affare Cipollino, bisognerà pensare anche a quei due mangiapane a ufo.

Rimase per un pezzo ad osservare il Castello, e la rabbia gli cresceva di minuto in minuto.

— Fannulloni, — pensava irritato, — banditi da strada. Ridurranno in miseria le mie signore e a me non resteranno che gli ossi da leccare.

Una dopo l'altra le finestre si andavano spegnendo. Alla fine ne restò accesa una sola, quella di Mandarino.

— Il Duchino non può dormire al buio, — sibilò Pomodoro tra i denti, — ha troppa paura. Ma cosa fa adesso? Guarda che razza di sciocco. Si diverte a spegnere e ad accendere la luce. Spegne, riaccende. Finirà col guastare l'interruttore. Provocherà un corto circuito e il Castello andrà in fiamme. Finiscila! Finiscila dunque!

Di lontano sembrava proprio che il Duchino si divertisse a fare la gibigianna con la lampadina, con grande rabbia di Pomodoro. Il quale però a un certo punto cominciò ad insospettirsi.

— E se fossero dei segnali? — riflette colpito dall'insistenza del gioco.

— Già, ma segnali di che? A che scopo? E diretti a chi? Darei un soldo bucato per capire che cosa possano mai significare. Tre colpi brevi… tre lunghi… altri tre colpi brevi… Buio. Ed ora ricomincia: tre colpi brevi… tre colpi lunghi… tre colpi brevi… Scommetto che ha la radio accesa e accompagna la musica spegnendo e accendendo la luce.

Tornò verso l'accampamento e, incontrato un dignitario di corte che aveva l'aria di essere un uomo istruito, gli domandò se conosceva il linguaggio dei segnali.

— Naturalmente, — rispose il Limone, — sono dottore in segnalazioni, laureato all'università di Segni.

— E che cosa significa un segnale cosi e così? — E Pomodoro gli descrisse il segnale che veniva dalla finestra del Duchino Mandarino.

— S..O..S… Significa «salvate le nostre vite». Significa: "Aiuto!" insomma.

— Aiuto? — rifletté Pomodoro sorpreso. — Ma allora non è un gioco. Il Duchino sta cercando di farci sapere qualcosa. Dev'essere in pericolo, per trasmettere quel segnale.

E senza pensarci sopra due volte si diresse a grandi passi verso il Castello.

Giunto presso il cancello, fischiò per chiamare Mastino. Si aspettava che sbucasse dalla elegante casetta di Zucchina, ma con sorpresa lo vide uscire a orecchie basse dal suo vecchio canile.

— Che succede? — gli domandò.

— Io rispetto la legge, — rispose il cane di malumore. — I legittimi proprietari mi hanno mostrato documenti di indubbio valore e non ho potuto far altro che cedere loro il passo.

— Quali proprietari?

— Un certo Zucchina e un certo Mirtillo.

— E adesso dove sono?

— Nella loro casa, e dormono. Almeno lo spero, per quanto non riesca a capire come potrà dormire il signor Zucchina, che nella casetta ci può stare solamente seduto.

— E al Castello chi c'è?

— Oh, molta gente, un sacco di invitati. Gente di basso rango, come ciabattini, professori d'orchestra, cipolle e via dicendo.

— Vuoi dire Cipollino?

— Sì, credo che si chiami così. Da quello che mi è sembrato di capire il Duchino Mandarino è molto offeso: si è rinchiuso nei suoi appartamenti e non si è fatto vedere per tutta la serata.

— Questo vuoi dire che è prigioniero, — riflette Pomodoro, che passava da una sorpresa all'altra.

— Dal canto suo, — proseguì Mastino, — il Barone Melarancia si è rinchiuso in cantina. Da diverse ore si sente da quella parte un bombardamento di bottiglie stappate che mette allegria.

— Maledetto ubriacone, — pensò Pomodoro.

— Quello che non mi spiego, — continuò il cane, — è che il Visconte Ciliegino faccia comunella con gente di così bassa estrazione, dimenticando i doveri del suo rango.

Pomodoro corse subito a svegliare il Principe e le Contesse e diede loro la terribile notizia. Le Contesse avrebbero voluto tornare subito al Castello, ma il Principe osservò:

— I divertimenti di questa notte hanno molto menomato la efficienza del mio esercito. Non possiamo tentare un assalto notturno. Attenderemo l'alba.

Fece chiamare don Prezzemolo, che era forte in aritmetica, e gli fece fare il conto delle forze che rimanevano dopo il salasso provocato dai fuochi d'artificio. Don Prezzemolo si armò di gesso e lavagna e fece il giro delle tende, segnando una croce per ogni soldato e una doppia croce per ogni dignitario di corte o generale. Risultò che restavano diciassette Limoncini e quaranta generali circa, più Pomodoro, don Prezzemolo stesso, il Principe Limone, le Contesse, Carotino, Segugio e i cavalli.

Pomodoro non vedeva l'utilità dei cavalli, ma don Prezzemolo fece osservare che negli assedi i reparti di cavalleria sono molto utili. Si accese una discussione strategica, alla fine della quale il Principe Limone, sinceramente conquistato, affidò a don Prezzemolo il comando di un reparto di cavalleria.

Il piano di battaglia fu studiato con l'aiuto di Mister Carotino, elevato per l'occasione al rango di Consigliere Militare Straniero.

Per prima cosa egli consigliò che tutti si tingessero le facce di nero, per spaventare gli assediati. Il Principe fece stappare molte bottiglie e con i turaccioli bruciacchiati si divertì egli stesso a tingere le facce dei suoi generali.

— Quale onore per noi! — dicevano i generali inchinandosi. Il Principe approfittava di quell'inchino per tingergli anche il collo.

Allo spuntar del sole l'operazione della tintura era felicemente ultimata. Il Principe appariva molto soddisfatto e insistette per tingere di nero anche Pomodoro e le Contesse.

— La situazione è molto grave, — ammonì, — e inoltre non abbiamo adoperato tutti i turaccioli.

Le Contesse si rassegnarono con le lacrime agli occhi. L'attacco cominciò alle sette precise.

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