Alla fine, poveracci, scappano pure i Limonacci

Una mattina il Limonaccio che portava a Cipollino la zuppa di pane e acqua, dopo aver deposto per terra la ciotola, si assicurò che la porta della cella fosse ben chiusa e che nessuno potesse ascoltare, e alla fine bisbigliò:

— Tuo padre sta male. E' molto ammalato.

Cipollino avrebbe voluto saperne qualcosa di più, fare delle domande. Ma il Limonaccio aggiunse solo che Cipollone non si poteva muovere dalla sua cella. E concluse:

— Bada bene di non dire a nessuno che te l'ho fatto sapere. Potrei perdere il posto, e ho una famiglia da mantenere.

Cipollino non rifiatò. Evidentemente non bastava la divisa a fare un Limonaccio. Il carceriere, in fondo, era solo un padre di famiglia che non aveva trovato un mestiere migliore per mantenere i suoi figli.

Più tardi i prigionieri uscirono in cortile per la passeggiata e cominciarono come al solito a girare in tondo in tondo, mentre un Limonaccio segnava il passo battendo il tamburo:

— Uno… due… uno… due…

— Uno… — pensava Cipollino, — il Ragno postino è scomparso senza dar notizie di sé. Sono passati dieci giorni dalla sua partenza e ormai è certo che non ritornerà più. Non ha consegnato il messaggio, altrimenti la Talpa sarebbe già arrivata. Uno… due… Il babbo è malato e non c'è da pensare a farlo fuggire. Come trasportarlo? Come curarlo? Chissà per quanto tempo ci toccherebbe vivere alla macchia, senza medici e senza medicine. Caro Cipollino, lascia ogni speranza e rassegnati a passare il resto della tua vita in prigione. — E a restarci anche dopo morto, — aggiunse mentalmente, dando un'occhiata al cimitero della prigione di cui si vedevano i cipressi spuntare dal muro del cortile.

Quel giorno la passeggiata sembrava anche più triste del solito. I detenuti, nelle loro divise a strisce bianche e nere, camminavano con le spalle curve, e nessuno tentava nemmeno di attaccare col vicino, sottovoce, le solite conversazioni. Come per accompagnare la tristezza generale cominciò anche a piovere, ma i prigionieri non potevano mettersi al riparo perché la passeggiata si doveva fare con qualunque tempo.

A un tratto Cipollino si senti chiamare per nome da una ben nota voce nasale.

— La Talpa! — pensò, mentre il sangue gli dava un tuffo per la gioia.

— Al prossimo giro, rallenta, — aggiunse la voce.

Cara, vecchia Talpa, ce l'hai fatta.

Cipollino affrettò il passo e urtò col piede il detenuto che gli camminava davanti. Questi si volse e protestò:

— Mi hai preso per un pallone?

— Passa la voce, — bisbigliò Cipollino, — tra un quarto d'ora saremo tutti fuori della prigione.

— Ma sei matto?

— Fa come ti dico. State pronti. Si fugge durante la passeggiata. Fidati di me.

Il detenuto pensò che a fidarsi non ci perdeva nulla. Prima che il giro fosse terminato, il passo dei prigionieri era diventato più energico, più vivace. Le spalle si erano raddrizzate. Perfino il Limonaccio che suonava il tamburo se ne accorse, e credette bene di elogiare gli ergastolani:

— Così, così, — gridò, — fuori il petto, dentro la pancia, indietro quelle spalle… Uno… due… uno… due…

Non sembrava più la passeggiata di un gruppo di detenuti, ma la marcia di un plotone di soldati.

Quando Cipollino giunse al punto in cui aveva udito la voce della Talpa rallentò.

— La galleria è pronta. L'imboccatura si trova un passo a sinistra dei tuoi piedi. Non hai che da saltare e la terra sprofonderà, perché ne abbiamo lasciata solo una crosta sottilissima.

— Cominceremo al prossimo giro, — rispose Cipollino.

La Talpa disse ancora qualcosa, ma Cipollino era già passato oltre.

Urtò di nuovo col piede il detenuto che gli camminava davanti e bisbigliò:

— Al prossimo giro, quando ti urto col piede, gettati un passo a sinistra e salta battendo forte per terra.

Il prigioniero avrebbe voluto fare delle domande, ma in quel momento il Limonaccio che suonava il tamburo guardava proprio dalla sua parte.

Bisognava fare qualcosa per distrarlo. Subito un prigioniero gridò.

— Ahi!

— Che cosa succede? — strepito il Limonaccio voltandosi di scatto.

— Mi hanno pestato un callo.

Mentre il Limonaccio scrutava minacciosamente la fila per cercare il colpevole, alle sue spalle Cipollino diede il segnale: il detenuto balzò fuori della fila, picchiò i piedi in terra e sprofondò. Rimase un'apertura abbastanza larga perché ci potesse passare un uomo e Cipollino fece correre la voce:

— Ad ogni giro fuggirà un prigioniero, quello che io urterò col piede.

Così fu. Ad ogni giro un prigioniero balzava a sinistra, saltava nel buco e scompariva. Per prevenire il pericolo che il Limonaccio se ne accorgesse, dall'altra parte c'era sempre qualcuno che strillava forte forte:

— Ahi! Ahi!

— Che succede? — tuonava il Limonaccio.

— Mi hanno pestato un callo! — rispondeva una voce lamentosa.

— Questa mattina non fate altro che darvi pedate. State più attenti.

Dopo cinque o sei giri, il Limonaccio cominciò a sentirsi piuttosto inquieto. Guardava il cerchio dei prigionieri che gli facevano intorno il solito girotondo e pensava:

— Strano, giurerei che la fila si è accorciata.

Poi trovava che la sua era proprio una stupida fissazione. Ma subito dopo ripeteva:

— Eppure, eppure mi sembrano di meno.

Per convincersi che la sua impressione era sbagliata cominciò a contare i prigionieri; ma siccome questi giravano in tondo, gli capitò di non ricordarsi da quale aveva cominciato a contare e li contò due volte.

Cosi il conto non tornava, perché il totale era aumentato.

— Com'è possibile? Che stupida cosa l'aritmetica.

Avrete già capito che il povero Limonaccio non era troppo forte in quella materia. Ricominciò il conto da capo, ed ogni volta che li contava i prigionieri crescevano di numero. Infine decise di non contarli più, per non confondersi le idee. Guardò la fila, si fregò gli occhi: i prigionieri si erano ridotti alla metà!

Alzò gli occhi al cielo per vedere se qualche prigioniero veleggiasse tra le nuvole e proprio in quel momento un altro ergastolano saltò nella galleria e scomparve.

Cipollino non aveva cessato tutto il tempo di pensare a suo padre. Ogni volta che un prigioniero, davanti a lui, saltava a sinistra e si infilava nella galleria, gli si stringeva il cuore:

— Oh, se fosse il mio babbo!

Ma Cipollone era chiuso nella sua cella e non c'era da pensare a liberarlo. Cipollino decise in cuor suo che avrebbe fatto fuggire tutti i prigionieri e lui sarebbe rimasto con il padre. Non voleva la libertà, se non poteva goderne anche il vecchio Cipollone.

Ecco, ora non restavano che quindici prigionieri, dieci, nove, otto, sette…

Il Limonaccio, sbalordito, continuava meccanicamente a suonare il tamburo.

— Qui il diavolo ci ha messo la coda, — pensava sgomento fra sé, — ad ogni giro ne scompare uno. Che devo fare? Mancano ancora sette minuti a finire la passeggiata. Il regolamento è regolamento. E se prima della passeggiata sono scomparsi tutti? Ecco, ora ne restano solo sei. Ma che dico? Ne restano solo cinque.

Cipollino aveva la morte nel cuore. Provò a chiamare la Talpa ma non ottenne risposta: avrebbe voluto salutarla, dirle perché non poteva fuggire.

In quel momento, il Limonaccio, finalmente deciso a porre termine all'incantesimo che gli aveva fatto sparire sotto il naso tutti i prigionieri gridò:

— Alt!

Restavano quattro prigionieri e Cipollino.

Si fermarono sull'attenti e si guardarono in faccia.

— Via presto, — gridò Cipollino, — prima che il Limonaccio dia l'allarme.

I prigionieri non se lo fecero ridire: uno dopo l'altro si tuffarono nella galleria. Cipollino non si muoveva, ma ad un tratto si sentì afferrare per le gambe. I suoi compagni avevano indovinato il suo pensiero e senza tanti complimenti lo tirarono giù nella galleria.

— Non fare lo stupido, — gridavano, — fuori di prigione potrai essere più utile al tuo babbo che dentro. Vieni via, presto!

— Aspettatemi, aspettatemi! — supplicava piangendo il Limonaccio, che aveva finalmente scoperto il trucco, — vengo anch'io. Non abbandonatemi! Il Principe mi farebbe impiccare. Fatemi venire con voi.

— Aspettiamolo, — ordinò Cipollino, — dobbiamo anche alla sua scarsa conoscenza dell'aritmetica se siamo riusciti a fuggire.

— Però facciamo presto, — esortò una voce nasale al suo fianco, — qui c'è tanta luce che non vorrei prendermi un'insolazione.

— Vecchia Talpa, — esclamò Cipollino, — non possiamo fuggire. Il mio babbo è malato e chiuso nella sua cella.

La Talpa si grattò la testa.

— Ho visto dov'è la sua cella, — disse poi, — ho studiato molto bene la pianta del carcere che mi hai mandata. Ma faremo in tempo? Avresti dovuto avvisarmi prima.

Lanciò un richiamo, e in meno che non si dica un centinaio di talpe si radunarono zampettando davanti a Cipollino.

— Dobbiamo scavare un'altra piccola galleria, — annunciò la Vecchia Talpa. — Questione di un quarto d'ora.

Le talpe non stettero nemmeno a pensarci, e si lanciarono nella direzione indicata. In pochi minuti la cella di Cipollone fu raggiunta. Cipollino vi balzò dentro per il primo; il suo babbo era là, sdraiato sul tavolaccio e delirava.

Fecero appena in tempo a farlo scendere nella galleria, mentre nelle celle irrompevano le guardie che stavano facendo il giro del carcere per cercare i prigionieri, non riuscendo a spiegarsi la loro scomparsa.

Quando si resero conto che i prigionieri erano fuggiti, pensarono spaventati alle terribili punizioni che avrebbero ricevute dal Principe e tutti d'accordo gettarono le armi e si infilarono a loro volta nella galleria scavata dalle talpe.

Giunti in aperta campagna, entrarono nelle case dei contadini, si spogliarono delle divise e indossarono abiti da lavoro.

Gettarono via anche i campanelli che avevano sul berretto: raccogliamoli noi, e diamoli ai bambini da giocare.

Come dite? Cipollino?

Ah, la Talpa e Cipollino, credendosi inseguiti dalle guardie, si erano allontanati per un'altra galleria, abbandonando il condotto che portava in campagna. Ecco perché le guardie non li avevano raggiunti.

«Ma adesso dove si trovano?». Pazienza, lo saprete.

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