II barone Melarancia, con Fagiolone porta-pancia

E' tempo ormai che diamo un'occhiata al Castello delle Contesse del Ciliegio, le quali, come avrete già capito, erano le padrone di tutto il villaggio, delle case, della terra, della chiesa e del campanile.

Il giorno che Cipollino fece trasportare nel bosco la casa del sor Zucchina, al castello c'era una gran confusione, perché erano arrivati i parenti.

Ne erano arrivati esattamente due: il barone Melarancia e il duchino Mandarino. Il barone Melarancia era cugino del povero marito di Donna Prima. Il duchino Mandarino, invece, era cugino del povero marito di Donna Seconda. Il barone Melarancia aveva una pancia fuori del comune: cosa logica, del resto, perché non faceva altro che mangiare dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, frenando le mascelle solo qualche oretta per fare un pisolino.

Quando era giovane, il barone Melarancia dormiva tutta la notte, per digerire quello che aveva mangiato di giorno, ma poi si era detto:

— Dormire è tutto tempo perso: mentre dormo, infatti, non posso mangiare.

E così aveva deciso di mangiare anche di notte e di ridurre a un'ora il tempo destinato alla digestione. Da tutti i suoi possedimenti, che erano molti e sparsi in tutta la provincia, partivano continuamente carovane cariche di cibarie di ogni genere per saziare la sua fame. I poveri contadini non sapevano più cosa mandargli: uova, polli e tacchini, ovini, bovini e suini, frutta, latte e latticini, il barone mangiava tutto quanto in un momento. Aveva due servitori incaricati di ficcargli in bocca quel che arrivava, e altri due che davano il cambio ai primi quando erano stanchi.

Alla fine i contadini gli mandarono a dire che non c'era più niente da mangiare.

— Mandatemi gli alberi! — ordinò il barone.

I contadini gli mandarono gli alberi, e lui mangiò anche quelli, con le foglie e le radici, intingendoli crudi nell'olio e nel sale.

Quando ebbe finito gli alberi, cominciò a vendere le sue terre e con il ricavato comprava altra roba mangereccia. Quando ebbe venduto le terre e fu diventato povero in canna, scrisse una lettera alla Contessa Donna Prima e si fece invitare al Castello.

Donna Seconda, a dire la verità non era tanto contenta:

— Il barone darà fondo alle nostre ricchezze: si mangerà il nostro castello fino ai comignoli.

Donna Prima cominciò a piangere:

— Tu non vuoi ricevere i miei parenti. Povero baroncino, tu non gli vuoi bene.

— D'accordo, — disse allora Donna Seconda — invita pure il barone. Io inviterò il duchino Mandarino, cugino del mio povero marito.

— Invitalo pure, — rispose sprezzante Donna Prima, — quello non mangia nemmeno quanto un pulcino. Il tuo povero marito, pace al suo nocciolo, aveva parenti piccoli e magri, che quasi non si vedono a occhio nudo. Il mio povero marito invece, pace al suo nocciolone, aveva parenti grandi e grossi, visibili a grande distanza.

Il barone Melarancia era davvero visibile a grande distanza: a distanza di un chilometro si poteva scambiarlo per una collina.

Si dovette subito provvedere per un aiutante che lo aiutasse a portare la pancia, perché da solo non ce la faceva più. Pomodoro mandò a chiamare il cenciaiolo del paese, ossia Fagiolone, perché portasse il suo carretto. Fagiolone non trovò il carretto, perché lo aveva preso suo figlio Fagiolino, come sapete, e così si portò dietro una carriola a mano, di quelle che adoperano i muratori per portare la calcina.

Pomodoro diede una mano al barone a sistemare la sua pancia dentro la carriola, poi gridò:

— Arri, là!

Fagiolone afferrò le stanghe della carriola e tirò con tutte le sue forze, ma non la spostò di un centimetro.

Furono chiamati altri due servitori e tutti insieme riuscirono a far fare al barone una passeggiata nei viali del Castello. Da principio non stavano attenti ai sassi: la ruota della carriola andava a cercare i sassi più grossi e puntuti del viale, come se lo facesse apposta, e il povero barone riceveva nella pancia certi colpi che lo facevano sudare.

— State attenti ai sassi! — si raccomandava giungendo le mani.

Fagiolone e i due servitori stavano attenti ai sassi e la carriola andava a finire nelle buche.

— State attenti alle buche, per l'amor del cielo! — supplicava il barone.

Mentre lo portavano a spasso, però, non dimenticava la sua occupazione preferita e sgranocchiava un tacchino arrosto che Donna Prima gli aveva fatto preparare come antipasto.

Anche il Duchino Mandarino diede un bel da fare al Castello.

La povera Fragoletta — cameriera personale di Donna Seconda — non finiva mai di stirargli le camicie. Quando gliele riportava, il Duchino torceva il naso, si metteva a piangere e balzava in cima all'armadio, gridando:

— Aiuto! Aiuto!

Accorreva Donna Seconda con le mani nei capelli:

— Mandarino, che cosa ti fanno?

— Non mi stirano bene le camicie, e io voglio morire!

Per convincerlo a restare in vita Donna Seconda gli regalò tutte le camicie di seta del suo povero marito.

Il duchino Mandarino saltò giù dall'armadio e cominciò a provarsi le camicie.

Dopo un poco lo si udì nuovamente gridare:

— Aiuto! Aiuto!

Donna Seconda accorse con il batticuore:

— Cugino Mandarino, che cosa ti fanno?

— Ho perso il bottone del colletto e non voglio più stare al mondo!

Questa volta si era arrampicato in cima allo specchio e minacciava di buttarsi a capofitto sul pavimento.

Per farlo chetare Donna Seconda gli regalò tutti i bottoni del suo povero marito, che erano d'oro, d'argento e di pietre preziose.

Prima di sera, Donna Seconda non aveva più gioielli, il Duchino Mandarino aveva ammassato parecchi bauli di roba e si fregava le mani soddisfatto.

Le Contesse cominciavano ad essere molto preoccupate per quei loro parenti così voraci, e sfogavano l'irritazione sul povero Ciliegino, il loro nipotino, orfano di padre e di madre.

— Mangiapane a tradimento! — lo sgridava Donna Prima, — vai subito a fare i compiti.

— Li ho già fatti.

— Fanne degli altri! — ordinava severamente Donna Seconda.

Ciliegino, ubbidiente, andava a fare degli altri compiti: ogni giorno ne faceva dei quaderni intieri, in una settimana ne faceva una montagna di quaderni.

Quel giorno, le Contesse non finivano mai di fargli fare dei nuovi compiti.

— Che cosa fai in giro, bighellone?

— Vorrei fare una passeggiata nel parco.

— Nel parco ci passeggia il barone Melarancia, non c'è posto per i fannulloni come te. Va' subito a studiare la lezione.

— L'ho già studiata.

— Studiane un'altra.

Ciliegino, ubbidiente, andò a studiare un'altra lezione: ogni giorno ne studiava centinaia e centinaia. Aveva già letto tutti i libri della biblioteca del Castello.

Ma se le Contesse lo vedevano con in mano un libro subito prendevano a sgridarlo:

— Posa quei libri, incosciente. Non vedi che li consumi?

— Ma come posso studiare le lezioni senza toccare i libri?

— Studiale a memoria.

Ciliegino si chiudeva in camera sua e studiava, studiava, studiava. Sempre senza libri, si capisce. Aveva tutto nel cervello e continuava a pensare nuove cose. A pensare gli veniva il mal di testa e le Contesse lo sgridavano:

— Sei sempre ammalato perché pensi troppo. Non pensare e ci farai risparmiare i soldi delle medicine.

Insomma, tutto quello che faceva Ciliegino per le Contesse era malfatto.

Ciliegino non sapeva da che parte voltarsi per non prendersi dei rabbuffi e si sentiva veramente infelice.

In tutto il Castello aveva un solo amico, ed era Fragoletta, la servetta di Donna Seconda. Fragoletta aveva compassione di quel povero piccolo ragazzo con gli occhiali, a cui nessuno voleva bene: era gentile con lui e di sera, quando andava a letto, gli portava qualche pezzo di dolce.

Ma quella sera, a tavola, il dolce se lo mangiò il barone Melarancia.

Il duchino Mandarino ne voleva un pezzo anche lui. Per farselo dare saltò in cima alla credenza e cominciò a strillare:

— Aiuto! Aiuto! Tenetemi, se no mi butto!

Ma ebbe un bello strillare: il barone mandò giù il dolce intero senza dargli retta.

Donna Seconda, in ginocchio davanti alla credenza, pregava il suo cuginetto di non ammazzarsi. Per convincerlo a scendere a terra gli doveva promettere qualcosa, ma non aveva più niente.

Del resto, quando comprese che non c'era più niente da arraffare, il duchino Mandarino calò a terra da solo, sbuffando.

Proprio in quel momento Pomodoro fu avvertito che la casa del sor Zucchina era scomparsa. Il Cavaliere non ci pensò su due volte: mandò un messaggio al Governatore e gli chiese in prestito una ventina di poliziotti, ossia di Limoncini.

* * *

I Limoncini arrivarono il giorno dopo e fecero piazza pulita. Questo vuoi dire che fecero il giro del paese e arrestarono tutti quelli che trovarono.

Arrestarono Mastro Uvetta, naturalmente. Il ciabattino prese là lesina per grattarsi la testa e li seguì brontolando. I Limoncini gli sequestrarono la lesina.

— Non potete portare armi con voi, — dissero severamente a Mastro Uvetta.

— E io con che cosa mi gratto?

— Quando vi volete grattare, avvisate il comandante e ci penserà lui.

Così Mastro Uvetta, quando aveva bisogno di grattarsi la testa per riflettere, avvisava il comandante dei Limoncini e subito un Limoncino gli grattava la testa con la sciabola.

Anche il professor Pero Pera fu arrestato: gli lasciarono prendere solo il violino e una candela.

— Che cosa ne volete fare della candela?

— Mia moglie me l'ha messa in tasca, perché dice che le prigioni del Castello sono molto scure.

Insomma, furono arrestati tutti gli abitanti del villaggio, eccetto il sor Pisello, perché era un avvocato, e Pirro Porro, perché non lo trovarono.

Pirro Porro non si era mica nascosto, anzi: se ne stava tranquillo sul balcone, con i baffi tirati dalle due parti, e sui baffi il bucato steso ad asciugare. Le guardie lo scambiarono per un palo e non gli badarono.

Zucchina seguì i Limoncini sospirando secondo il suo solito.

— Perché sospirate tanto? — gli domandò severamente il comandante.

— Perché ho tanti sospiri. Ho lavorato tutta la vita e ogni giorno ne mettevo da parte una dozzina: adesso ne ho migliaia e migliaia e bisogna pure che li adoperi.

Fra le donne, fu arrestata solamente la sora Zucca: e siccome si rifiutava di camminare, le guardie la rovesciarono e la fecero rotolare fin sulla porta della prigione. Era così rotonda.

Siccome erano molto furbi, i Limoncini non arrestarono nemmeno Cipollino, che se ne stava tranquillo seduto sul muricciolo a vederli passare, in compagnia di una bambina qualunque, che si chiamava Ravanella.

I Limoncini domandarono proprio a loro se avessero visto da quelle parti un pericoloso malandrino di nome Cipollino.

Essi risposero che l'avevano visto nascondersi sotto il berretto del comandante e scapparono sghignazzando.

Quel giorno stesso, però, andarono a fare un giro d'ispezione al Castello, per sapere che ne era stato dei prigionieri.

Загрузка...