Proprio mentre in città si svolgevano le grandi corse dei cavalli frenati, in una sala del Castello del Ciliegio, che fungeva da aula del Tribunale, Pomodoro aveva fatto convocare gli abitanti del villaggio per decidere una causa molto importante.
Presidente, manco a dirlo, era lo stesso Pomodoro. Avvocato il sor Pisello. Don Prezzemolo fungeva da usciere, e scriveva le risposte in un registro con la mano sinistra, per poter continuare a soffiarsi il naso con la destra.
La gente era abbastanza spaventata, perché ogni volta che si radunava il Tribunale erano guai. L'ultima volta, per esempio, il Tribunale aveva deciso che l'aria era proprietà delle Contesse del Ciliegio, e che quindi si dovesse pagare per respirare. Una volta al mese Pomodoro faceva il giro delle case, faceva respirare profondamente in sua presenza i cittadini e prendeva le misure del loro respiro: poi faceva alcune moltiplicazioni e concludeva fissando la cifra della tassa.
Il sor Zucchina, che come sapete sospirava continuamente, era quello che pagava più di tutti.
Il Cavalier Pomodoro prese per primo la parola e disse:
— Negli ultimi tempi le entrate del Castello sono state piuttosto scarse. Come sapete, le due povere vecchie signore, orfane di padre, di madre e di zii, sono nella più squallida miseria, e si trovano nella triste necessità di mantenere anche il Duchino Mandarino e il Barone Melarancia, per non lasciarli morire di fame.
Mastro Uvetta lanciò un'occhiataccia al Barone, che sedeva in un angolo con gli occhi chiusi, e assaporava mentalmente una lepre in salmi con contorno di passerotti.
— Qui non si danno occhiatacce, — ammonì severamente Pomodoro, — smettetela di guardare a quel modo altrimenti faccio sgomberare l'aula.
Mastro Uvetta si affrettò a guardare la punta delle proprie scarpe.
— Le nobili Contesse, nostre amate padrone, hanno dunque presentato richiesta scritta in carta da bollo per ottenere il riconoscimento di un loro importante diritto. Avvocato, date lettura del documento.
Il sor Pisello si alzò, si schiarì la voce, gonfiò il petto con aria d'importanza e cominciò a leggere:
— "Le qui segnate Donna Prima e Donna Seconda Del Ciliegio ritengono che, essendo padrone dell'aria, devono essere riconosciute anche padrone della pioggia. Esse chiedono perciò a tutti i cittadini il pagamento di una tassa di cento lire per un acquazzone semplice, di duecento lire per un temporale con tuoni e lampi, di trecento lire per una nevicata e di quattrocento lire per una grandinata. Per rugiada, nebbia alta e bassa, brina, la tassa e ridotta a lire cinquanta. Seguono le firme."
Il sor Pisello si sedette. Il Presidente domandò:
— Sono in regola le carte da bollo?
— Sì, signor Presidente, — rispose il sor Pisello, balzando nuovamente in piedi.
— Benissimo, — concluse Pomodoro, — se le carte da bollo sono in regola le Contesse hanno ragione, e questo Tribunale si ritira I per pronunciare la sentenza.
Il Cavaliere si alzò, raccolse la toga nera che gli era scivolata dalle spalle e si ritirò in uno stanzino per stendere la sentenza del Tribunale.
Pero Pera diede una leggera gomitata al suo vicino, Pirro Porro, e bisbigliò timidamente:
— Trovate giusto che si debba pagare anche per la grandine e per la nebbia? Capisco per la pioggia e per la neve, che recano vantaggio alla campagna. Ma una grandinata è già una bella sventurata sola, ed ecco che proprio sulla grandine mettono la tassa più alta. E la nebbia non provoca forse un gran numero di disastri per terra e per mare?
Pirro Porro non rispose. Continuava a lisciarsi nervosamente i baffi, aiutato dalla moglie che così sfogava la bile.
Mastro Uvetta si cercò in tasca una lesina per grattarsi la testa, ma si ricordò che prima di entrare in aula aveva dovuto consegnare le armi. Don Prezzemolo non perdeva d'occhio l'aula e segnava continuamente a verbale:
«Pero Pera ha bisbigliato. Pirro Porro si liscia i baffi. Sora Zucca sbuffa. Il sor Zucchina sospira due volte».
Faceva proprio come quegli scolari che la maestra manda alla lavagna per fare la spia ai compagni, e mentre lei è in corridoio a parlare con le sue colleghe scrivono i nomi dei buoni e dei cattivi.
Nella colonna dei buoni, don Prezzemolo scrisse:
«Il Duchino Mandarino e buono. Il Barone Melarancia è buonissimo. Sta mangiando il trentaquattresimo passerotto».
— Ali, — pensava Mastro Uvetta, — se ci fosse qui Cipollino, certe cose non succederebbero. Da quando Cipollino è in prigione, siamo trattati come schiavi, senza mai poter aprir bocca, per paura che don Prezzemolo ci segni nel suo libraccio.
Difatti quelli che don Prezzemolo segnava nella colonna dei cattivi, dovevano poi pagare la multa. Mastro Uvetta pagava quasi una multa al giorno, e certi giorni perfino due.
Finalmente la Corte, ossia Pomodoro, rientrò nell'aula delle udienze.
— In piedi! — ordinò don Prezzemolo, il quale però rimase seduto.
— Vi do lettura della sentenza, — disse il Cavaliere. — Eccola: "Il Tribunale riconosce che le Contesse hanno il diritto di far pagare l'affitto sulla pioggia e sulle altre intemperie. Però stabilisce quanto segue: ogni cittadino dovrà versare all'Amministrazione del Castello il doppio di quanto le Contesse hanno chiesto."
La sala fu percorsa da un mormorio.
Tutti guardarono spaventati fuori delle finestre, sperando di vedere il cielo sereno. Purtroppo invece, videro che stava avvicinandosi un temporale.
— Mamma mia, — pensò Mastro Uvetta, — ecco quattrocento lire da pagare.
— Maledizione alle nuvole.
Anche Pomodoro guardò fuori della finestra, e la sua faccia grassa e rossa si spianò in un bellissimo sorriso.
— Eccellenza, — gridò il sor Pisello, — siamo fortunati. Il barometro si abbassa. Avremo certamente cattivo tempo.
Tutti gli lanciarono un'occhiata di odio, meritandosi un brutto segno da don Prezzemolo, che non ne perdonava una.
Quando il temporale scoppiò davvero, di lì a qualche minuto, il sor Pisello si mise addirittura a saltare sul banco del Presidente e Mastro Uvetta, con tutta la sua rabbia, dovette accontentarsi di guardare più fissamente la punta delle proprie scarpe per non beccarsi un'altra multa.
La povera gente del villaggio guardava la pioggia che cadeva come avrebbe guardato il finimondo. I tuoni gli parevano altrettante cannonate. I lampi, era come se gli scoppiassero nel cuore.
Don Prezzemolo si bagnò la matita copiativa sulla lingua e cominciò rapidamente a calcolare quanto ci guadagnava, con tutta quella grazia di Dio, l'Amministrazione del Castello. Ne venne fuori una bella cifra, e contando anche le multe addirittura un piccolo patrimonio.
La sora Zucca cominciò a piangere, e la moglie di Pirro Porro la imitò subito, bagnando da cima a fondo i baffi di suo marito, che adoperava per asciugarsi gli occhi.
Pomodoro si arrabbiò moltissimo e li cacciò tutti fuori dell'aula.
I poveretti uscirono sotto l'acqua e s'incamminarono giù per la discesa senza nemmeno affrettare il passo. Non gli importava niente di bagnarsi e di prendersi un raffreddore. Quando uno ha un male grosso, quelli piccoli non li sente nemmeno.
Prima di arrivare al villaggio c'era un passaggio a livello, e i nostri dovettero fermarsi, perché stava per arrivare il treno. Veder passare il treno al passaggio a livello è sempre uno spettacolo interessante. Si vede la macchina venire avanti sbuffando e gettando fumo dai fumaioli. Nella sua cabina il macchinista, con un fiore in bocca, tira allegramente la cordicella del fischio. Ai finestrini si affaccia la gente che è stata alla fiera, i contadini col tabarro, le contadine col fazzoletto nero in testa. Sull'ultimo vagone…
— Giusto cielo, — esclamò la sora Zucca, — guardate un po' sull'ultimo vagone.
— Si direbbe, — arrischiò timidamente il sor Zucchina, — si direbbero orsi.
Tre orsi stavano affacciati ai finestrini e guardavano con interesse il paesaggio.
— Questa non si è mai vista, — dichiarò Pirro Porro, mentre i baffi gli si sollevavano per la sorpresa.
Uno dei tre orsi li salutava con grandi gesti.
— Villano screanzato, — gli gridò dietro Mastro Uvetta, — hai anche la faccia tosta di prenderci in giro.
Macché, l'orso continuava a salutarli, e anche quando il treno fu passato, si sporgeva dal finestrino agitando la zampa e si sporse tanto che fu per cadere. Per fortuna gli altri due orsi lo afferrarono per la coda e lo tirarono dentro.
I nostri amici giunsero davanti alla stazione proprio mentre il treno si fermava. Ed ecco di nuovo i tre orsi, che uscivano dondolandosi gravemente. Il più anziano dei tre consegnò i biglietti al facchino.
— Sono tre orsi saltimbanchi, — disse con disprezzo Mastro Uvetta, — sono venuti certamente con l'intenzione di dar spei tacolo. Ora si vedrà il domatore. Sono sicuro che si tratta di uno di quei vecchi tedeschi con la barba rossa e con un piffero di legno.
Il domatore invece era piccoletto, aveva un berrettino verde, un paio di pantaloni blu pezzati sul ginocchio… un musetto vispo e intelligente, con l'espressione di chi ne sta pensando uni bella.
— Cipollino! — gridò Mastro Uvetta mettendosi a correre. Era proprio Cipollino, che prima di tornare in campagna era passato allo zoo ed aveva liberato la famiglia degli orsi. Il guardiano era stato tanto contento di rivederlo, che gli avrebbe regalato anche l'Elefante, se l'avesse voluto.
Ma l'Elefante non volle credere che c'era stata la Rivoluzione e rimase nella sua stalla, a scrivere le sue memorie.
Figuratevi gli abbracci, i baci, i racconti, eccetera eccetera.
E tutto sotto la pioggia, questo è il bello: quando uno è contento, i piccoli guai non gli importano niente, e non gli importa niente se prende il raffreddore.
Pero Pera continuava a stringere la zampa all'orsacchiotto più giovane, balbettando commosso:
— Vi ricordate quando avete ballato al suono del violino? L'orsacchiotto se ne ricordava e cominciò subito a ballare mentre i ragazzi battevano le mani.
Naturalmente Ciliegino fu subito avvisato del ritorno di Cipollino: e giù altri abbracci e baci a non finire.
— Adesso basta con le feste, — disse ad un certo punto Cipollino, — debbo esporvi un piccolo piano.
Mentre Cipollino espone il suo piano, andiamo un po' a vedere che ne è stato del Principe Limone.