Quell'uno solo che aveva visto la bandiera della Repubblica piantata sulla torre, pensò che si trattasse di uno scherzo di Ciliegino, e decise di fare subito due cose: primo, strappare quell'orribile straccio; secondo, dare un paio di sculacciate al Visconte, perché questa volta «aveva passato il segno».
Eccolo dunque, quell'uno, che sale i gradini a quattro a quattro, e ad ogni passo si gonfia dalla rabbia. Si gonfia sempre più, ho perfino paura che quando sarà arrivato in cima non riuscirà a passare per la porticina che da sul terrazzo della torre. Sento i suoi passi terribili che rimbombano nel silenzio come martellate. Tra poco sarà in cima. Passerà, non passerà? Quanto scommettiamo?
Ecco, è arrivato. Avevate scommesso?
Bene, hanno vinto quelli che hanno scommesso che non ci passava. Per la rabbia, difatti, Pomodoro — era lui che saliva le scale, non l'avevate ancora riconosciuto? — si è gonfiato tanto che la porta è troppo stretta.
E adesso lui e lì, a due passi dalla terribile bandiera che sventola al sole, e non può strapparla, non può nemmeno sfiorarla con le dita. E accanto all'asta della bandiera, accanto al Visconte che si pulisce nervosamente gli occhiali, chi vede se non Cipollino in persona, l'odiato nemico che lo ha fatto piangere per la prima volta?
— Buongiorno, signor Cavaliere, — disse Cipollino inchinandosi.
Attento, Cipollino! Peccato, quel bell'inchino ha portato la sua testa alla distanza giusta: Pomodoro non ha che da allungare le mani e il nostro eroe è afferrato per i capelli, come il giorno del suo arrivo.
Pomodoro è talmente arrabbiato che non si ricorda più dell'effetto che gli fece quella tiratina di capelli e tira di nuovo, con tanta forza, che va a finire allo stesso modo: una ciocca gli resta in mano e subito Pomodoro sente quel terribile pizzicorino agli occhi e le lacrime gli cadono dalle palpebre, grosse come noci e sul pavimento fanno tac, tac…
Questa volta però Pomodoro non piangeva solo per effetto dei capelli. Piangeva anche di rabbia, perché aveva compreso tutto.
— E' la fine! E' la fine! — pensava amaramente il Cavaliere, annegando nelle proprie lagrime.
E noi lo lasceremmo annegare volentieri ma Cipollino è generoso e lo salva, così Pomodoro può scappare giù per la torre e andare a chiudersi nella sua stanza a piangere.
Che babilonia, allora, ragazzi.
Si sveglia il Principe, corre fuori, vede la bandiera e senza dire né uno né due infila un viale e va a gettarsi di nuovo a capofitto in un letamaio, nella speranza che non lo trovino.
Si sveglia il Barone e chiama Fagiolone, Fagiolone non si sveglia, ma comincia a tirare la carriola ad occhi chiusi. Quando però arrivano nel cortile del Castello, la luce del sole lo sveglia. Ma si vede un'altra luce, oltre quella del sole. Che cos'è? Fagiolone alza gli occhi e vede la bandiera, e appena la vede è come se avesse ricevuto la scossa elettrica.
— Tieni la carriola! Tieni la carriola! — urla il Barone spaventato.
Ma Fagiolone non tiene la carriola, e il Barone rotola vergognosamente giù per la china, come quella volta che schiacciò una ventina di generali, e va a finire nella vasca dei pesci rossi, e ci vuoi del bello e del buono per ripescarlo.
Si sveglia il Duchino Mandarino, corre alla vasca, balza sulle ali dell'angelino che getta acqua dalla bocca e grida:
— Togliete subito la bandiera altrimenti mi affogo!
— Vediamo se è vero! — dice Fagiolone, e gli da una spinta.
Poco dopo ripescano il Duchino con un pesce rosso in bocca.
Povero pesce rosso, credeva di andare a esplorare qualche nuova caverna: è l'unico che ci rimette la vita. Pace alle sue pinne gloriose.
Da questo momento gli avvenimenti precipitano e noi li lasciamo precipitare: i giorni cadono uno sull'altro come i foglietti di un calendario, passano le settimane a sette a sette e noi non facciamo a tempo a vedere niente, come quando al cinema la macchina impazzisce, e appena torna a girare abbastanza piano perché noi si possa finalmente vedere che cosa succede, tutto è cambiato.
Il Principe e le Contesse sono andati in esilio! Per il Principe, la cosa è chiara, ma le Contesse perché se ne sono andate? Nessuno voleva far loro del male. In fin dei conti, però, se sono andate in esilio, buon prò gli faccia.
Il Barone è diventato magro come uno stecco.
I primi tempi della Repubblica, siccome non trovava nessuno che gli portasse la carriola, non poteva andare in giro a procurarsi da mangiare e gli toccò di vivere sulle sue riserve di grasso, consumandole rapidamente. In due settimane perse quasi metà del suo peso, ossia alcuni quintali.
Quando fu in grado di camminare cominciò a chiedere l'elemosina agli angoli delle strade, ma gli sputavano nella mano e non gli davano niente.
— Tu non sei un povero, sei un finto povero: va piuttosto a lavorare.
— Non trovo un impiego!
— Va alla stazione a portare le valigie.
Così fece il Barone, e a forza di portare valigie divenne affilato come un coltellino da tasca. Di un vestito solo ne ha fatto fuori una mezza dozzina. Un vestito però lo ha conservato allo stato naturale: quando lo andate a trovare, ve lo mostra in gran segreto.
— Guardate! — dice. — Guardate com'ero grasso una volta!
— Non è possibile! — dite voi stupiti.
— Non ci credete, eh? — sogghigna il Barone, trionfante. — Informatevi, informatevi! Ah, quelli erano tempi! Mangiavo in un giorno quello che adesso mi basta per tre mesi. Guardate che pancia, che schiena, che sedere!
Il Duchino? Ah, lui non muove un dito, e campa alle spalle del Barone. Ogni volta che il Barone gli nega qualcosa, sale in cima ai pali della luce e minaccia di uccidersi, se non sarà soddisfatto. E il Barone, che di quando era grasso ha conservato soltanto il cuore, lo accontenta sospirando.
Il sor Zucchina non sospira più, invece: è diventato giardiniere capo del Castello, e Pomodoro è ai suoi ordini. Vi dispiace che Pomodoro sia ancora in circolazione? Hanno perdonato anche a lui. Adesso pensa solo a piantar cavoli e a falciare l'erba. Qualche volta si lamenta, è vero, ma solo di nascosto, quando incontra don Prezzemolo, che è diventato il bidello del Castello.
Un Castello col bidello? Vi sembrerà strano, ma è così. Il Castello non è più un castello, ma una casa da gioco. Per ragazzi, si capisce: c'è la sala del ping-pong, la sala del disegno, la sala dei burattini, quella del cinema, eccetera eccetera. Naturalmente c'è anche il gioco più bello, ossia la scuola: Cipollino e Ciliegino siedono uno accanto all'altro, nello stesso banco, e studiano l'aritmetica, la lingua, la storia e tutte le altre materie che bisogna conoscere bene per difendersi dai birbanti e tenerli lontani.
— Perché, — dice sempre Cipollone a suo figlio, — i birbanti al mondo sono molti. E quelli che abbiamo cacciato potrebbero tornare.
Ma io sono sicuro che non torneranno. Non tornerà nemmeno il sor Pisello, che è scappato senza farsi vedere, perché aveva troppi peccati sulla coscienza.
Dicono che faccia l'avvocato in un paese straniero, ma a me non me ne importa. Sono contento che sia uscito dalla nostra storia prima che la storia sia finita. Mi sarebbe seccato trascinarmelo dietro proprio fino in fondo. Dimenticavo di dirvi che il Sindaco del villaggio è Mastro Uvetta, il quale, per essere all'altezza della sua nuova posizione, ha completamente perso il vizio di grattarsi la testa con la lesina. Solo nei casi più gravi si da una grattatina con la matita, ma roba da poco.
Una mattina si sono trovati i muri del villaggio tappezzati di grosse parole che dicevano:
— Viva il Sindaco.
La sora Zucca ha sparso la voce che gli evviva siano stati scritti proprio da Mastro Uvetta.
— Bel sindaco, — dice la comare, — che va in giro di notte a scrivere sui muri.
Ma questa è una bugia. Le scritte sono di mano di Pirro Porro. Anzi, non di mano, ma di baffo. Pirro Porro, infatti, ha scritto sui muri coi baffi, dopo averli intinti nell'inchiostro. Questo ve lo posso dire perché siccome non avete ancora i baffi non vi verrà in mente di imitare Pirro Porro, e non potrete fare disastri.
Adesso la storia è proprio finita. E' vero che ci sono altri castelli e altri birbanti al mondo, oltre i Limoni. Ma uno per volta se ne andranno e nei loro parchi ci andranno i bambini a giocare. E così sia, amen.