Piove di nuovo più forte, la nebbia diventa sempre più fitta, tanto che non si riesce più a distinguere le case ai lati della strada. Gli esperti sono in preda al panico. Hanno paura che i trasformatori biottici non funzionino. Li tranquillizzo. Appena si sono tranquillizzati cominciano a far gli sfacciati e insistono perché io accenda il proiettore antinebbia Lo accendo. Gli esperti esultano, ma a questo punto Ščekn si mette seduto in mezzo alla strada e annuncia che non farà più un passo finché non spengo quello stupido arcobaleno, per colpa del quale gli fanno male le orecchie e gli è venuto prurito fra le dita. Lui, Ščekn, ci vede benissimo anche senza questi insulsi proiettori, e se gli esperti non ci vedono, non fa niente, tanto non hanno bisogno di vedere niente. Piuttosto sarebbe meglio che si occupassero di qualcosa di utile; per esempio potrebbero preparare per il suo ritorno, suo di Ščekn, una zuppa d’avena con le fave. Esplosione di sdegno. In genere gli esperti hanno paura di Ščekn. Ogni terrestre che faccia la conoscenza dei Testoni, presto o tardi comincia a temerli. Ma allo stesso tempo, per quanto sia paradossale, quello stesso terrestre non riesce a comportarsi con un Testone diversamente da come si comporterebbe con un grande cane parlante (come per esempio al circo, o con qualche prodigio della zoopsicologia, ecc.).
Uno degli esperti commette l’imprudenza di dire a Ščekn che se continua a ostinarsi così rimarrà senza pranzo. Ščekn alza la voce. Risulta chiaro che lui, Ščekn, tutta la vita se l’è cavata benissimo senza esperti. Inoltre qui eravamo stati benissimo fino a che esperti non se ne erano visti né sentiti. Per quanto riguarda personalmente quell’esperto che, a quanto pareva, ora ce l’aveva con lui, Ščekn, pensasse piuttosto alla zuppa di avena con le fave… Eccetera, eccetera.
Sto in piedi sotto la pioggia, che diventa sempre più forte, ascolto tutte queste sciocchezze e non riesco proprio a scrollarmi di dosso una certa sonnolenza. Mi sembra di far da spettatore a una stupidissima rappresentazione teatrale senza capo né coda, dove tutti i personaggi si sono dimenticati la parte e si mettono a improvvisare nella vana speranza di arrivare in qualche modo alla fine. Questa rappresentazione veniva tirata per le lunghe in mio onore, per tenermi fermo il più a lungo possibile, per non farmi fare nemmeno un passo, e nel frattempo qualcuno dietro le quinte fa in modo che mi sia definitivamente chiaro: è tutto inutile, non si può fare nulla, bisogna tornare a casa…
Mi riprendo con enorme difficoltà e spengo quel maledetto proiettore. Ščekn interrompe a metà una lunga ingiuria, pensata con cura, e come se niente fosse si slancia in avanti. Lo seguo, e nel frattempo ascolto Vanderchuze che ristabilisce l’ordine a bordo:
«Vergogna!… disturbare un gruppo di ricognizione!… Lo allontanerò immediatamente dalla torretta di comando… Lo destituirò… Questo non è un mercato!…».
— Ti diverti? — chiedo piano a Ščekn.
Lui mi getta un’occhiata in tralice, con i suoi occhi sporgenti.
— Intrigante, — gli dico. — Del resto tutti voi Testoni siete degli intriganti e dei litigiosi…
— È bagnato, — risponde a sproposito Sèekn. — È pieno di rane. Non si sa dove passare.
Alle due del pomeriggio il quartier generale diffonde il primo comunicato. C’è stata una catastrofe ecologica, ma la civiltà è perita per un’altra ragione. La popolazione è scomparsa, per così dire, su due piedi, ma non è stata eliminata in guerra e non è nemmeno stata evacuata attraverso il cosmo: la tecnologia non è abbastanza avanzata, e il pianeta non è un cimitero ma piuttosto un mondezzaio. Sparuti gruppi di aborigeni vegetano nelle campagne, coltivano in qualche modo la terra, sono del tutto privi di cultura, se la cavano però benissimo con i fucili a ripetizione. Io e Ščekn deduciamo che la città deve essere assolutamente vuota, anche se nutriamo qualche dubbio.
La strada si allarga, le case e le file di macchine, da entrambi i lati, spariscono completamente nella nebbia, e ora sento davanti a me lo spazio aperto. Ancora alcuni passi e nella nebbia si disegna una massiccia sagoma quadrata. Si tratta di nuovo di un’autoblindo del tutto uguale a quella che è finita sotto il muro crollato; ma questa è stata abbandonata molto tempo fa, è sprofondata sotto il proprio peso e si è come radicata nell’asfalto. I portelli sono spalancati. Due corti cannoni, che non avevano mai mirato minacciosamente contro chi entrava nella piazza, sono tristemente afflosciati, gocciolano di ruggine e pigramente scolano sulla parte frontale inclinata. Passando, spingo automaticamente il portello laterale spalancato, ma è ormai arrugginito per l’eternità.
Non vedo niente davanti a me. La nebbia in questa piazza è particolare, innaturalmente densa, come se qui si fosse fermata per molti anni e in tutti questi anni si fosse rappresa come il latte, e fosse sprofondata sotto il proprio peso.
— Giù! — ordina Ščekn all’improvviso.
Guardo giù, ma non vedo niente. Però mi accorgo all’improvviso di non avere più l’asfalto sotto le suole, ma qualcosa di morbido, elastico, scivoloso, proprio come un folto tappeto bagnato. Mi accoccolo.
— Puoi accendere il tuo proiettore, — ringhia Ščekn.
Ma ormai anche senza proiettore vedo che qui l’asfalto è ovunque ricoperto da una crosta piuttosto spessa e disgustosa, una specie di massa umida pressata, abbondantemente ricoperta di muffa multicolore. Tiro fuori il coltello, sollevo uno strato di questa crosta, dalla massa ammuffita si stacca qualcosa a metà fra un cencio e un frammento di cinturino, ma sotto questo cinturino di un verde opaco fa capolino qualcosa di rotondo (un bottone? una fibbia?), e lentamente si raddrizzano delle specie di molle o di fili di ferro…
— Sono venuti tutti qui… — dice Ščekn in uno strano tono.
Mi rialzo e proseguo, camminando su quello strato morbido e scivoloso. Mi sforzo di tenere a freno l’immaginazione, ma ora non mi riesce. Sono venuti tutti qui, per questa strada, hanno abbandonato le loro inutili macchine e i furgoni, centinaia di migliaia, milioni di persone si sono rovesciate dal viale in questa piazza, aggirando l’autoblindo con le sue mitragliatrici minacciose e inutili, lasciando cadere quel poco che cercavano di portarsi dietro.
Camminavano a stento, a volte cadevano e allora non riuscivano più a rialzarsi, e tutto quello che cadeva veniva calpestato e ricalpestato da milioni di piedi. E chissà perché, mi sembrava che tutto questo dovesse essere accaduto di notte, che questa poltiglia umana dovesse essere illuminata da una fioca luce di morte, e dovesse esserci silenzio, come in sogno…
— Una buca… — dice Ščekn.
Accendo il proiettore. Non c’è nessuna buca. Per quanto il raggio arrivi a illuminare, la piazza è liscia e piatta, costellata dagli innumerevoli fuocherelli opachi della muffa luminescente, e due passi più avanti nereggia un grande rettangolo, all’incirca venti per quaranta, di nudo asfalto. Sembra proprio ritagliato accuratamente in quello scintillante tappeto ammuffito.
— Gradini! — urla disperato Ščekn. — Con dei buchi! È profondo! Non vedo…
Mi sento i brividi per la schiena: non avevo mai sentito parlare Ščekn con una voce così strana. Senza guardare, abbasso la mano e le mie dita si posano sulla grande testa, e sento il tremito nervoso dell’orecchio triangolare. L’impavido Ščekn ha paura. L’impavido Ščekn si stringe alla mia gamba, proprio come i suoi antenati si sono stretti alla gamba dei loro padroni, sentendo al di là della soglia della caverna l’ignoto e il pericolo…
— Non ha fondo… — dice disperato. — Non riesco a capire. C’è sempre il fondo. Sono andati tutti là, ma non c’è il fondo, e nessuno è tornato… Dobbiamo andare là?
Mi accoccolo e lo abbraccio al collo.
— Non vedo nessuna fossa, — dico nella lingua dei Testoni. — Vedo solo un rettangolo liscio di asfalto.
Ščekn respira affannosamente. Tutti i muscoli sono tesi, e si stringe sempre di più a me.
— Non puoi vedere, — dice. — Non puoi. Ci sono quattro scale con i gradini consumati. Luccicano per l’usura. Sono sempre più profonde. E non hanno fine. Non voglio andar là. Non me lo ordinare.
— Amico mio, — gli dico, — cosa ti succede? Come potrei darti degli ordini?
— Non me lo chiedere, — dice. — Non mi chiamare. Non mi invitare.
— Ora ce ne andremo via di qui, — dico.
— Sì. E in fretta!
Dètto il rapporto. Vanderchuze aveva già collegato il mio canale allo Stato Maggiore, e quando ho finito, la spedizione al completo sa già tutto. Comincia un gran baccano. Si fanno ipotesi, si propongono misure. C’è trambusto. Ščekn poco a poco ritorna in sé: strabuzza l’occhio giallo e nello stesso tempo si lecca. Alla fine si intromette Komov. Il baccano cessa. Ci viene ordinato di continuare la ricognizione e noi ubbidiamo.
Aggiriamo il terribile rettangolo, attraversiamo la piazza, sorpassiamo la seconda autoblindo, che chiude il viale dalla parte opposta, e ancora una volta ci troviamo fra due colonne di macchine. Ščekn riprende a correre baldanzosamente in avanti, è di nuovo energico, litigioso e arrogante. Ridacchio fra me e me e penso che, al suo posto, indubbiamente adesso mi tormenterei per l’imbarazzo di quell’attacco di panico, quasi di terrore infantile, che non era riuscito a trattenere là, nella piazza. E invece Ščekn non si tormenta affatto. Sì, è vero, ha avuto paura e non è riuscito a dominarsi, ma non vede in questo niente di vergognoso o imbarazzante. Ora ragiona a voce alta:
— Se ne sono andati tutti sotto terra. Se lì ci fosse un fondo, allora ti assicurerei che ora vivono tutti sotto terra, in profondità, dove non li sente nessuno. Ma lì non c’è un fondo! Non capisco dove possano essere. Non capisco perché non ci sia fondo.
— Cerca di spiegarlo, — gli dico. — È importante.
Ma Ščekn non può spiegarlo.
— È molto strano, — continua. — I pianeti sono rotondi, ragiona, — e pure questo pianeta è rotondo, l’ho visto io, ma in quella piazza non è rotondo per niente. Sembra un piatto. E nel piatto c’è un buco. E questo buco porta da un vuoto, dove ci troviamo noi, dritto in un altro vuoto, dove noi non siamo.
— Ma perché io non l’ho visto questo buco?
— Perché è chiuso. Tu non puoi. L’hanno chiuso perché quelli come te non lo vedessero, e quelli come me lo vedessero…
Poi avverte all’improvviso che c’è di nuovo pericolo. Un pericolo piccolo, comune. Prima non c’era, e ora c’è.
Qualche minuto dopo, dalla facciata della casa sulla destra si stacca e frana a terra il balcone del terzo piano. Chiedo in fretta a Ščekn se il pericolo non sia diminuito, e lui, senza pensarci su, mi risponde che è diminuito ma non di molto. Voglio chiedergli da che parte ora ci minacci, ma in quel preciso momento mi colpisce un’aria densa, mi fischia nelle orecchie, a Ščekn si drizza il pelo.
Sul viale pare che si scateni un piccolo uragano. È caldissimo e puzza di ferro. Ancora un paio di balconi e di cornicioni franano su entrambi i lati della strada. Da una lunga casa tozza si stacca il tetto, e la casa, vecchia, piena di buchi, fatiscente, si attorciglia lentamente su se stessa e cade in pezzi, invade la strada e sparisce in una nuvola di polvere giallo marcio,
— Che sta succedendo lì da voi? — si informa Vanderchuze.
— C’è uno spiffero… — rispondo fra i denti.
Un nuovo colpo di vento mi costringe a correre avanti, contro la mia volontà. Mi sento umiliato.
— Abalkin! Ščekn! — tuona Komov. — Tenetevi nel mezzo! Il più lontano possibile dai muri. Faccio ripulire la piazza, c’è pericolo di crolli…
E per la terza volta un breve uragano caldo soffia lungo il viale, proprio nel momento in cui Ščekn cerca di girarsi col naso al vento. Lo stacca da terra e facendolo slittare. Lo trascina lungo la strada con l’umiliante compagnia di uno sbalordito ratto.
— Finito? — chiede arrabbiato, quando l’uragano si acquieta. Non cerca nemmeno di rialzarsi in piedi.
— Finito, — dice Komov. — Potete proseguire la perlustrazione,
— Molte grazie, — risponde Ščekn, velenoso come un serpente.
Nell’etere qualcuno ridacchia, ma cerca di trattenersi. Mi pare sia Vanderchuze.
— Mi scuso, — dice Komov. — Ma dovevo spazzar via la nebbia.
Per tutta risposta Ščekn se ne esce con l’improperio più lungo e significativo che ci sia nella lingua dei Testoni, si rialza, si scrolla furiosamente e all’improvviso resta fermo in una posizione molto scomoda.
— Lev, — dice, — non c’è più pericolo. Assolutamente. È stato spazzato via.
— Almeno questo, — rispondo io.
Informazione da Espada. Descrizione molto pittoresca del Futurorecchio capo. Me lo vedo davanti: incredibilmente sporco, puzzolente, coperto di tigna, un vecchiaccio a cui daresti almeno duecento anni e che afferma di averne ventuno. Parla con voce arrochita, tossisce, scatarra e si soffia il naso, tiene sempre sulle ginocchia un fucile a ripetizione e di tanto in tanto fa fuoco sopra la testa di Espada, alle domande non vuole rispondere, però gli piace farle; ma non sta a sentire le risposte e una risposta si e una no afferma che è una bugia…
Il viale finisce in un’altra piazza. Per la verità non è proprio una piazza. Semplicemente, sulla destra si trova un giardino semicircolare, dietro cui si intravede un lungo edificio giallo con la facciata concava, ornata da finte colonne. La facciata è gialla e i cespugli nel giardino sono di uno smunto color giallo, come se si fosse alla vigilia dell’autunno, e perciò non noto subito nel mezzo del giardino un altro “bicchiere”.
Ma questa volta è tutto intero e brilla come se fosse nuovo, come se l’avessero messo qui solo stamattina, in mezzo ai cespugli gialli. Il cilindro è alto circa due metri, ha il diametro di uno ed è fatto di un materiale trasparente simile all’ambra. Sta in posizione verticale, e lo sportello ovale è ben chiuso.
A bordo, da Vanderchuze, c’è un’esplosione di entusiasmo, ma Ščekn ancora una volta dimostra la sua indifferenza e addirittura il suo disprezzo per tutti questi oggetti «che non sono interessanti per il suo popolo»: comincia subito a grattarsi, dando la schiena al “bicchiere”.
Faccio il giro del “bicchiere”, poi afferro con due dita la maniglia sullo sportello ovale e do un’occhiata all’interno. Uno sguardo mi è sufficiente: riempiendo con le sue mostruose ossa articolate tutto lo spazio, tenendo avanti a sé le chele spinose lunghe mezzo metro, mi fissa, ottuso e minaccioso, con due file di albugini verde-opaco, un gigantesco granchio-ragno di Pandora in tutto il suo splendore.
In me scatta non la paura, ma un positivo riflesso davanti a qualcosa di assolutamente inatteso. Non faccio in tempo nemmeno ad aprir bocca, che già con tutte le mie forze spingo con le spalle la porta subito richiusa e punto i piedi contro il terreno. Bagnato di sudore da capo a piedi, mi tremano le vene.
Ma Ščekn è subito al mio fianco, pronto alla mischia. Si dondola sulle zampe tese ed elastiche, spostando da un lato all’altro, in segno di attesa, la testa dall’ampia fronte. I denti, di un bianco accecante, brillano e rivoli di saliva gli scendono agli angoli della bocca. Il tutto dura un paio di secondi, dopo di che chiede in tono litigioso:
— Che cosa è successo? Chi ti ha fatto del male?
Trovo con le dita l’impugnatura del disintegratore, mi costringo a staccarmi da quella maledetta porta e comincio a indietreggiare, tenendo il disintegratore pronto. Ščekn indietreggia insieme a me, sempre più irritato.
— Ti ho fatto una domanda! — dice sdegnato.
— Ma come, — gli dico fra i denti, — non hai ancora sentito nulla?
— Dove? In quella cabina? Là non c’è niente!
Vanderchuze e gli esperti schiamazzano agitati alle mie orecchie. Non li sto a sentire. So anche senza di loro che si può, per esempio, puntellare la porta con delle assi — ammesso che se ne trovino — oppure darle fuoco con il disintegratore. Continuo a indietreggiare, senza levare gli occhi dalla porta del “bicchiere”.
— Nella cabina non c’è niente! — insiste Ščekn. — E non c’è nessuno. E sono anni che non c’è nessuno. Vuoi che apra la porta e ti mostri che là non c’è nessuno?
— No, — dico, riuscendo a spuntarla sulle mie corde vocali. — Andiamocene.
— Apro solo la porta…
— Ščekn, — dico. — Ti stai sbagliando.
— Noi non ci sbagliamo mai. Vado io. Vedrai.
— Ti sbagli! — ruggisco. — Se ora non vieni via con me, significa che non sei mio amico e che te ne infischi di me!
Mi giro deciso sui tacchi (con il disintegratore in mano, la sicura levata, il regolatore sulla scarica continuativa) e me ne vado. Mi sembra di avere una schiena enorme, occupa il viale in tutta la sua ampiezza, ed è assolutamente priva di difese.
Ščekn, con aria scontenta e sprezzante, striscia verso sinistra e all’indietro. Brontola e vuole attaccar briga. Quando ci siamo allontanati di unì duecento passi e mi sono ormai completamente tranquillizzato e comincio a cercare il modo di far pace, Ščekn scompare all’improvviso. Solo le sue unghie picchiettano l’asfalto. Ed ecco è di nuovo accanto al cilindro, ed è ormai tardi per slanciarmi dietro di lui, per afferrano per le zampe posteriori e trascinare indietro quello sciocco, e il mio disintegratore ormai non serve a niente. Quel maledetto Testone socchiude la porta e a lungo, infinitamente a lungo, guarda dentro il “bicchiere”.
Poi, senza emettere il minimo suono, chiude di nuovo la porta e ritorna indietro. Ščekn è umiliato. Ščekn è annientato. Ščekn ammette senza parlare la sua completa inutilità e perciò è pronto in futuro ad accettare qualsiasi impiego si vorrà fare di lui. Ritorna da me e si siede accanto ai miei piedi, con la testa china. Stiamo zitti. Evito di guardarlo. Guardo il “bicchiere”, sentendo i rivoli di sudore sulle tempie, che si asciugano e si raggrinziscono sulla pelle; sento che quel tremito tormentoso, subentrato a un dolore molesto e noioso, si allontana dal muscolo e più di tutto al mondo ora vorrei sibilargli: «Bestiaccia!» e, di slancio, ripreso fiato, picchiarlo con rabbia sul testone mesto, sciocco, ostinato e scervellato. Invece dico soltanto:
— Abbiamo avuto fortuna. Chissà perché qui non attaccano…
Comunicazione dallo Stato Maggiore. Si suppone che il rettangolo di Ščekn sia l’ingresso in un tunnel interspaziale, attraverso cui è stata evacuata la popolazione del pianeta. Probabilmente dai Nomadi dello Spazio…
Procediamo per un quartiere insolitamente deserto. Nessun segno di vita, perfino le zanzare sono sparite. Questo non mi piace, in Ščekn invece non suscita nessun allarme.
— Questa volta siete in ritardo, — ringhia.
— Sì, sembra proprio così, — rispondo prontamente.
Dopo l’incidente del granchio-ragno è la prima volta che Ščekn parla. Sembra che abbia voglia di discorrere del più e del meno. È un’inclinazione che non ha spesso.
— I Nomadi, — borbotta, — l’ho sentito molte volte: i Nomadi, i Nomadi… Non sapete proprio niente di loro?
— Molto poco. Sappiamo che è una superciviltà e che sono molto più potenti di noi. Supponiamo che non siano umanoidi. Pensiamo che abbiano colonizzato tutta la nostra Galassia, molto, molto tempo fa. Pare, inoltre, che non abbiano una casa, nella nostra o vostra accezione di questo termine. Per questo li chiamiamo Nomadi…
— Volete incontrarli?
— Come dirti… Komov darebbe volentieri la sua mano destra per una cosa del genere. Io, invece, preferirei non incontrarli mai…
— Hai paura di loro?
Non ho voglia di parlarne. Specialmente ora.
— Vedi, Ščekn, — dico, questo è un lungo discorso. Sarebbe meglio che ti guardassi intorno, perché mi sembra che tu sia diventato un po’ distratto.
— Sto guardando. Tutto calmo.
— Hai notato che qui non c’è più segno di vita?
— Dipende dal fatto che qui c’è spesso gente, — risponde Ščekn.
— Davvero? — dico. — Beh, mi sento più tranquillo.
— Ora non c’è nessuno. Quasi.
Il 42° rione termina, arriviamo ad un incrocio. Ščekn annuncia all’improvviso:
— Dietro l’angolo c’è un uomo. Uno.
È un vecchio barbogio con un cappotto nero che gli arriva fino ai calcagni, un berretto di pelliccia con i paraorecchie legati sotto una barba sporca e arruffata, con dei guanti di un vivace giallo chiaro, delle enormi scarpe con la tomaia in tessuto. Si muove con difficoltà, trascina a stento le gambe. E a circa trenta metri, ma anche a questa distanza si sente chiaramente che respira a fatica, con un fischio, e di tanto in tanto geme per lo sforzo.
Carica della roba su un carretto con alte rotelle sottili, qualcosa come una carrozzina per bambini. Si infila in una vetrina infranta, sparisce e poi ritorna indietro lentamente, tenendo stretti al petto due o tre barattoli con etichette vistose. Ogni volta, appena torna alla sua carrozzina, si lascia cadere sfinito sul seggiolino triangolare, per un po’ rimane seduto immobile, si riposa, poi comincia piano piano e con cautela a togliersi i barattoli da sotto il braccio e a sistemarli sul carretto. Poi si riposa di nuovo, come se dormisse seduto; e di nuovo si rialza sulle gambe tremanti e si dirige verso una vetrina, lungo, nero, piegato quasi a metà.
Noi rimaniamo fermi all’angolo, senza nasconderci, perché è chiaro: il vecchio non vede e non sente nulla intorno a sé. Secondo Ščekn, è completamente solo, non c’è più nessuno, tranne, forse, qualcuno molto lontano. Non ho il minimo desiderio di entrare in contatto con lui ma, evidentemente, bisognerà farlo, se non altro per aiutarlo con tutti quei barattoli. Ma ho paura di spaventano. Chiedo a Vanderchuze di mostrarlo a Espada, in modo che Espada possa precisare chi sia: uno “stregone”, un “soldato” od un “uomo”.
Il vecchio ha scaricato per la decima volta i suoi barattoli e ora si riposa, raggomitolato sul sellino triangolare. La testa gli trema leggermente e si china sempre più in basso sul petto. Chiaramente, si sta addormentando.
— Non ho mai visto niente del genere, — annuncia Espada. — Parli con lui, Lev…
— Sembra molto vecchio, — dice dubbioso Vanderchuze.
— Ora muore, — brontola Ščekn.
— Proprio, — dico. — Specialmente se ora gli compaio davanti in questo mio saio arcobaleno.
Non faccio in tempo a finir di parlare. Il vecchio all’improvviso scivola in avanti e cade dolcemente sul selciato.
— È finita, — dice Ščekn. — Puoi andare a vedere, se ti interessa.
Il vecchio è morto, non respira, e il polso non si sente. A quanto pare, ha avuto un infarto e inoltre l’organismo è molto deperito. Ma non per la fame. È, semplicemente, molto vecchio, incredibilmente vecchio. Sto in ginocchio e guardo la sua faccia ossuta, di un colore bianco-verdastro, le ispide sopracciglia grigie, la bocca sdentata dischiusa, le guance cascanti. È un viso molto umano, proprio terrestre. Il primo uomo normale in questa città. Ed è morto. E non posso far nulla perché ho con me solo l’apparecchiatura da campo.
Gli inietto due fiale di necrofago e dico a Vanderchuze di mandare un medico. Non ho intenzione di trattenermi qui. Non ha senso. Lui non parlerà. E anche se lo farà, non sarà presto. Prima di andarmene, rimango fermo ancora un minuto accanto a lui, guardo la carrozzina, carica per metà di barattoli di conserve, il sedile capovolto, e penso che il vecchio, probabilmente, si è trascinato dietro il suo sgabello dappertutto e a ogni momento ci si sedeva per riposare…
Intorno alle diciotto comincia a far buio. Secondo i miei calcoli, alla fine del nostro percorso mancano ancora due ore di cammino, perciò propongo a Ščekn di riposarci e di mangiare. Ščekn non sente il bisogno di riposarsi, ma come sempre non si lascia sfuggire l’occasione di mangiare ancora una volta.
Ci sistemiamo al bordo di un’ampia fontana asciutta, sotto la protezione di un mostro mitologico con le ali di pietra, e io apro i pacchetti dei generi alimentari. Intorno a noi spiccano opache le mura delle case morte, c’è un silenzio mortale, e fa piacere pensare che a una decina di chilometri da noi non c’è più un deserto di morte, ma ci sono persone che lavorano.
Durante il pasto Ščekn non parla mai, però, appena è sazio, gli piace chiacchierare.
— Quel vecchio, — inizia, leccandosi accuratamente la zampa, — l’hanno veramente fatto rivivere?
— Sì.
— È di nuovo vivo, cammina, parla?
— È difficile che parli ed ancor meno che cammini, ma è vivo.
— Peccato, — borbotta Ščekn.
— Peccato?
— Sì. Peccato che non parli. Sarebbe interessante sapere com’è là…
— Là dove?
— Là dov’è andato quando era morto.
Mi metto a ridere.
— Pensi che là ci sia qualcosa?
— Ci deve essere. Devo andare da qualche parte, quando non ci sarò più.
— Dove va a finire la corrente elettrica, quando la spengono? — chiedo.
— Non sono mai riuscito a capirlo, — confessa Ščekn. — Ma il tuo ragionamento non è esatto. È vero, non so dove vada a finire la corrente elettrica, quando la spengono. Ma non so nemmeno da dove venga quando la accendono. E, invece, da dove sono venuto io lo so e lo capisco.
— E dove eri, quando ancora non esistevi? — domando maliziosamente.
Ma per Ščekn questo non è un problema.
— Ero nel sangue dei miei genitori. E, prima ancora, nel sangue dei genitori dei miei genitori…
— Allora, quando non esisterai più, sarai nel sangue dei tuoi figli…
— E se non avrò figli?
— Allora sarai nella terra, nell’erba, negli alberi…
— Non è così! Nell’erba e negli alberi ci sarà il mio corpo. Ma io dove sarò?
— Anche nel sangue dei tuoi genitori non c’eri tu, ma il tuo corpo. Tu non puoi ricordare come eri nel sangue dei tuoi genitori.
— Come non me lo ricordo? — si meraviglia Ščekn. — Lo ricordo benissimo!
— Sì, certo… — borbotto io, ormai vinto. — Voi avete una memoria genetica…
— Puoi chiamarla come vuoi, — brontola Ščekn. — Ma veramente non capisco dove andrò a finire quando morirò. Inoltre, non ho figli…
Decido di tagliar corto con questa discussione. Ormai è chiaro: non riuscirò mai a dimostrare a Ščekn che là non c’è niente. Per questo incarto in silenzio il pacchetto con i viveri, lo metto nello zaino e mi sistemo più comodamente, allungando le gambe.
Ščekn si lecca con cura l’altra zampa, si mette in ordine il pelo sulle guance e di nuovo si mette a far conversazione.
— Mi meravigli, Lev, — annuncia. — E tutti voi mi meravigliate. Ancora non vi siete stancati di stare qui?
— Stiamo lavorando, — ribatto pigramente.
— Perché lavorare senza un senso?
— Perché senza un senso? Lo vedi da solo, quante cose siamo venuti a sapere in un giorno.
— È proprio questo che chiedo: perché dovete sapere cose che non hanno un senso? Che cosa ve ne farete? Volete sapere sempre di più e non vi serve a niente quello che sapete.
— Cioè, per esempio? — chiedo.
Ščekn è un grande amante delle discussioni. Ha appena avuto una vittoria e ora brucia chiaramente dalla voglia di averne un’altra.
— Per esempio, la fossa senza fondo che ho trovato. A chi e perché può servire una fossa senza fondo?
— Non è proprio una fossa, — dico. — È piuttosto la porta di ingresso in un altro mondo.
— Potete entrare in quella porta? — si informa Ščekn.
— No, — ammetto. — Non possiamo.
— A che vi serve una porta attraverso cui non potete entrare?
— Oggi non possiamo, ma domani potremo.
— Domani?
— In senso lato. Dopodomani. Fra un anno…
— Un altro mondo, un altro mondo… — brontola Ščekn. — State forse stretti in questo?
— Come dirti… È stretto per la nostra immaginazione.
— Figuriamoci! — esclama Ščekn velenoso. — Vale proprio la pena, andare a finire in un altro mondo per cercare di rifarlo il più simile possibile al proprio. E naturalmente, anche questo diventerà stretto per la vostra immaginazione, e allora ne cercherete ancora un altro e di nuovo cercherete di rifarlo…
Interrompe bruscamente la sua filippica, e nello stesso istante sento la presenza di un estraneo. Qui. Vicino. A due passi. Dall’altra carte del basamento con il mostro mitologico di pietra.
È un aborigeno assolutamente normale — a giudicare da tutto — della categoria “uomini”. Un giovanotto forte e ben fatto, con pantaloni e giubbotto di tela cerata incatramata sul corpo nudo, e un fucile a ripetizione portato ad armacollo. La chioma spettinata gli cade sugli occhi, le guance e il mento sono lisci e sbarbati. Sta accanto al basamento assolutamente immobile e solo gli occhi, senza fretta, passano da me a Ščekn e viceversa. A quanto pare, al buio non vede peggio di noi. Non capisco come abbia fatto ad avvicinarsi così silenziosamente e senza farsi notare.
Porto cautamente la mano dietro la schiena e accendo il traduttore.
— Avvicinati e siediti, siamo amici, — dico solo con le labbra.
Dal traduttore con un ritardo di mezzo secondo vengono dei suoni gutturali non privi di fascino.
Lo sconosciuto ha un tremito e fa un passo indietro.
— Non aver paura, — dico. — Come ti chiami? Io mi chiamo Lev e lui Ščekn. Non siamo nemici. Vogliamo parlare con te.
No, non ne viene fuori nulla. Lo sconosciuto indietreggia ancora e si nasconde per metà dietro il basamento. Il suo viso continua a non esprimere nulla, e non è nemmeno chiaro se capisca quello che gli viene detto.
— Abbiamo buon cibo, — non mi voglio arrendere. — Forse hai fame o vuoi bere? Siediti con noi, ti offrirò volentieri qualcosa…
All’improvviso mi viene in mente che per l’aborigeno deve essere un po’ strano sentire “noi” e “con noi”, e passo in fretta al singolare. Ma non serve. L’aborigeno si nasconde del tutto dietro al basamento, e ora non si vede e non si sente.
— Se ne va, — ringhia Ščekn.
Ed ora vedo di nuovo l’aborigeno. Con passo lungo, leggero, senza fare alcun rumore, attraversa in strada, cammina sul marciapiede di fronte e, senza girarsi indietro nemmeno una volta, sparisce in un portone.