TENTATIVO DI FUGA

I


— Oggi sarà proprio una bella giornata! — disse Vadim ad alta voce. Aveva fatto rientrare una parete della villetta e guardava il giardino, dandosi grandi manate sulle spalle nude. Di notte era piovuto, ed ora l’erba era bagnata, i cespugli erano bagnati, il tetto del cottage vicino era bagnato. Il cielo era grigio e sul sentiero luccicavano le pozze d’acqua. Vadim si rimboccò i calzoncini, saltò nell’erba e si mise a correre giù per il sentiero. Inspirando profondamente, rumorosamente, l’aria umida del mattino, si lasciò alle spalle le sedie a sdraio bagnate, il mucchio delle casse e dei fagotti umidi, la staccionata del vicino, di là dalla quale un Colibrì mezzo smontato mostrava le sue viscere e, addentratosi fra i macchioni e i pini grondanti, si tuffò nel laghetto. Uscito sulla riva opposta, coperta di canne palustri, corse subito indietro, accaldato e soddisfatto, con andatura sempre più rapida, oltrepassando a salti le grandi pozzanghere immobili e spaventando piccoli ranocchi grigi, per andare poi a fermarsi nella radura davanti al cottage di Anton, dove si trovava la navicella.

La navicella era molto giovane: non aveva neppure due anni. Le membrane nere che l’avvolgevano erano perfettamente asciutte e vibravano appena. La cuspide era molto inclinata ed era orientata verso il punto preciso del cielo grigio in cui le nuvole nascondevano il sole: come sempre la navicella stava accumulando energia. Intorno, l’erba alta, appassita e ingiallita, era coperta di brina. L’apparecchio non era altro che una discreta astronave turistica. Un incrociatore spaziale in una notte avrebbe fatto gelare tutto il bosco in un raggio di dieci chilometri.

Scivolando in curva, Vadim fece di corsa un giro della navicella e si diresse verso casa. Mentre, gemendo di piacere, si strofinava con un asciugamano di spugna, dalla villetta di fronte uscì il vicino, lo zio Saša, con in mano un bisturi. Vadim gli fece un cenno di saluto con l’asciugamano. Il vicino aveva centocinquarita anni, e tutto il santo giorno si dava da fare intorno al suo elicottero, ma invano: il Colibrì non volava volentieri. Lo zio Saša guardò pensieroso Vadim.

— Non hai dei bioelementi da prestarmi? — chiese.

— Perché, i suoi si sono bruciati?

— Non lo so. Reagiscono in modo strano.

— Provi a mettersi in contatto con Anton, zio Saša, — propose Vadim. — Lui ora è in città. Se ne faccia portare un paio.

Il vicino si avvicinò all’elicottero e lo colpì sul naso con il bisturi.

— Ma che mi combini, scemotto? — gli disse, arrabbiato.

Vadim cominciò a vestirsi:

— Bioelementi… — brontolava lo zio Saša, cacciando il bisturi nelle viscere del Colibrì. — Chi ne ha bisogno? Meccanismi vivi… Meccanismi semivivi… Meccanismi quasi morti… Niente montaggio, niente elettronica… solo nervi! Scusate, ma non sono un chirurgo. — L’elicottero fece un movimento brusco. — Piano tu, animale! Stai fermo! — Tirò fuori il bisturi e si girò verso Vadim.

— Alla fin fine non si tratta di un essere umano! — annunciò. — Una povera macchina difettosa è come un dente sempre malato! Forse, sono vecchio stile? Ma mi fa pena, capisci?

— Anche a me, — borbottò Vadim, infilandosi la camicia.

— Davvero?

— Dico, potrei forse aiutarla?

Lo zio Saša per qualche minuto guardò alternativamente l’elicottero ed il bisturi.

— No, — disse deciso. — Non voglio arrendermi alle circostanze. Riuscirò a farlo volare.

Vadim sedette a far colazione. Accese lo stereovisore e si mise davanti Nuove tecniche di caccia ai Tachorg. Era un vecchio libro di carta, letto e riletto ancora dal nonno di Vadim. Sulla copertina era riprodotto il paesaggio del pianeta-parco naturale Pandora con due mostri in primo piano.

Vadim mangiava, sfogliando il libro e gettando occhiate compiaciute alla bella annunciatrice che raccontava qualcosa sulle battaglie dei critici a proposito dell’emozionalismo. L’annunciatrice era nuova e piaceva a Vadim ormai da una settimana intera.

— Emozionalismo! — disse Vadim con un sospiro e diede un morso al panino con formaggio di capra. — Ragazza mia, questa parola è abominevole, persino foneticamente. Vieni piuttosto con noi! E l’emozionalismo lascialo sulla Terra. Con ogni probabilità sarà morto prima del nostro ritorno. Puoi contarci.

— L’emozionalismo è un orientamento molto promettente, — continuava imperturbabile l’annunciatrice. — Infatti solo ora si aprono vere prospettive di sostanziale diminuzione dell’entropia dell’informazione emotiva nell’arte. Infatti solo ora…

Vadim si alzò e con il panino in mano si avvicinò alla parete spalancata.

— Zio Saša, — chiamò, — non le dice niente la parola “emozionalismo”?

Il vicino, con le braccia dietro la schiena, stava davanti all’elicottero smontato. Il Colibrì stormiva come un albero al vento.

— Cosa? — disse lo zio Saša, senza voltarsi.

— La parola “emozionalismo”, — ripeté Vadim. — Mi rammenta lo scampanìo che accompagna i funerali, si vede l’edificio elegante del crematorio, si sente odore di fiori secchi.

— Sei sempre stato un ragazzo pieno di tatto, Vadim, — osservò il vecchio con un sospiro, — ma la parola è veramente orribile.

— Sì, proprio, — ribadì Vadim, masticando. — Sono contento che anche lei la pensi così… Senta un po’, ma dov’è il suo bisturi?

— Mi è caduto là dentro, — disse lo zio Saša.

Per un po’ di tempo Vadim seguitò a guardare l’elicottero che ondeggiava penosamente.

— Sa che cosa ha fatto, zio Saša? — disse. — Con il bisturi ha azionato il sistema digestivo. Ora mi metto in contatto con Anton perché gliene porti un altro.

— È questo?

Vadim, abbozzando un sorriso di rammarico, scosse una mano.

— Guardi, — disse, mostrando quel che restava del panino. — Stia attento a quel che faccio! — Si cacciò il panino in bocca, lo masticò e l’inghiottì.

— E allora? — chiese con interesse lo zio Saša.

— Questo è quello che sta succedendo al suo strumento.

Lo zio Saša guardò l’elicottero. L’elicottero smise di vibrare.

— Finito, — disse Vadim. — Non c’è più il suo bisturi. Però il Colibrì ora è carico. Ha almeno trenta ore di carica ininterrotta.

Il vicino girò intorno all’elicottero, toccandorie inutilmente le varie parti. Vadim scoppiò a ridere e se ne tornò a tavola. Stava mangiando il secondo panino e bevendo il secondo bicchiere di yogurt, quando scattò l’accensione della segreteria automatica e una voce calma e tranquilla disse:

— Non ci sono state né chiamate né visite. Anton, andando in città, augura buon giorno e propone di cominciare subito dopo colazione a staccarsi da tutto ciò che è terrestre. In istituto sono arrivati nove nuovi problemi…

— Non voglio particolari, — disse Vadim.

— … Il problema numero diciannove non è stato ancora risolto. Paula Mincin ha dimostrato il teorema per cui si può effettuare una operazione polinominale sul campo Q di strutture di Simonian. Indirizzo: Richmond, diciassette-diciassette-sette. Tutto.

La segreteria automatica scattò, fece una lunga pausa e aggiunse un ammonimento:

— È sciocco essere invidiosi! È sciocco essere invidiosi!

— Scema! — ribatté Vadim. — Non sono affatto invidioso. Mi fa piacere! Brava, Paula! — Si fece pensieroso e guardò in giardino.

— No, — disse. — Finiamola! Bisogna staccarsi da tutto ciò che è terrestre.

Buttò le stoviglie sporche nel condotto per l’immondizia e gridò:

— Facciamo fuori i Tachorg! Decoriamo lo studio di Paula Mincin — Richmond, diciassette-diciassette-sette — con il teschio di un Tachorg!

E si mise a cantare:


I Tachorg di paura ululano,

squittiscono e mugolano!

Entra contro di loro in pista,

il linguista superstrutturalista!


— Allora, — disse Vadim. — Dov’è il radiofono? — Fece un numero. — Anton, come va?

— Sto facendo la fila, — rispose Anton.

— Cosa dici? E vanno tutti su Pandora?

— Molti. Qualcuno ha messo in giro la voce che la caccia ai Tachorg presto sarà proibita.

— Ma noi ce la faremo?

Anton tacque per un po’.

— Ce la faremo, — disse.

— E ragazze lì vicino non ce ne sono?

— Certo che ce ne sono…

— E ce la faranno anche loro?

— Aspetta che chiedo… Dicono di sì.

— Salutate da parte di un amico linguista strutturale, alto sei piedi, di bell’aspetto… Ascolta, Anton, cosa volevo dirti? Ah, si! Porta, per favore, un bisturi per lo zio Saša. E una coppia di BE-6. E già che ci sei di BE-7.

— E già che ci sei un elicottero nuovo, — disse Anton. — Ma che ne ha fatto il vecchio del suo bisturi?

— E tu cosa pensi che si possa fare con un bisturi?

— Non so, — disse Anton pensieroso. — È una cosa che dura in eterno. Come la piattaforma di Baalbek.

— L’ha fatto cadere nello stomaco del suo Colibrì.

Al radiofono si sentirono varie voci ridacchiare. La fila si stava divertendo.

— Va bene, — disse Anton. — Aspettami, torno presto. Fammi da supermagazziniere e comincia a caricare la roba.

Vadim si mise il radiofono in tasca e calcolò a occhio la lunghezza delle tre stanze che lo separavano dall’uscita.

— Lo spirito delle gambe è debole, — declamò, — la potenza delle braccia è grande!

Si rizzò sulle braccia e corse allegro fino all’uscita. Sulla veranda fece un salto mortale e gridando «U-uch!» cadde carponi sull’erba davanti alla veranda. Si alzò in piedi, si pulì le mani e canticchiò con entusiasmo:


In guerra e in duello,

per il primo premio in lista

si presenta sul più bello

il linguista superstrutturalista.


Poi si avviò lentamente per il viale, dove stavano ammucchiati casse e fagotti. C’era parecchio da caricare. Bisognava infatti portarsi armi, munizioni, vettovaglie, vestiti per la caccia e per poter andare al famoso caffè «Il Cacciatore», sulla cima piatta dell’Everina, dove fra i tavolini soffia un vento profumato e in fondo al burrone, a una profondità di trecento metri, si ammucchiano, simili a nubi minacciose, impenetrabii sterpi neri; dove i cacciatori, sferzati a sangue dalle spine, si scalano con una risata le borracce panciute piene di Sangue di Tachorg e si slogano le spalle nell’inutile tentativo di mostrare quali trofei si sarebbero procurati, se solo fossero riusciti a capire come si impugna il fucile; dove nel crepuscolo verde scuro le coppie ballano fiaccamente al suono del «ritmo luminoso» mentre, sopra la Catena degli Audaci, si alzano nel cielo senza stelle le piccole lune piatte di Pandora.

Vadim si accoccolò con la schiena contro la cassa più pesante, si sistemò e con uno scatto se la caricò di slancio sulle spalle. Nella cassa c’erano armi, tre carabine automatiche con mirini antinebbia e seicento pallottole in piatte custodie di plastica. Con passo elastico Vadim portò la cassa attraverso il giardino fino alla navicella. Andò dalla parte dell’abitacolo e con il piede diede un calcio all’oblò. La membrana che copriva il portello ovale si ruppe, e Vadim fece cadere la cassa in un’oscurità che odorava di freddo.

Vadim tornò indietro, passando fece cadere dai cespugli le enormi bacche di un ibrido. E ogni cespuglio gli lanciava contro grossi spruzzi di pioggia fredda.

Bisogna abbattere non meno di cinque Tachorg, pensava. Un teschio per Paula Minčin di Richmond. Perché sappia che sono un bravo ragazzo. Un teschio per la mamma. La mamma il teschio non lo vorrà, è una persona seria, e allora lo regalerò alla prima ragazza che mi passerà davanti all’angolo fra la Prospettiva Nevskij e la Via Sadovaja, alle dieci del mattino. Il terzo teschio lo butterò in faccia a Samson per moderare il suo scetticismo: si è comportato in modo strano da Nelly, quando le raccontavo dell’ultima spedizione su Pandora. Il quarto teschio è per Nelly, perché creda a me e non a Samson. Il quinto teschio lo voglio appendere sopra lo stereovisore.

Vadim immaginò con piacere come sarebbe stata bene la bella annunciatrice sotto il teschio ghignante del mostro.

Portò sulla navicella quattro grandi casse di carne fresca, otto casse di frutta e verdura, due balle di vestiti, e ancora una grande cassa contenente regali per gli indigeni, con la scritta «Doni per i Pandoriani».

Chissà dove, dietro le nuvole, il sole saliva sempre piti in alto. Cominciava a far caldo e tutto, intorno, si asciugava. Le rane si nascondevano nell’erba. Nei cottage vuoti le pareti si spalancavano con un fruscio. Lo zio Saša appese l’amaca e si sdraiò con il giornale in mano accanto al suo Colibrì. Vadim finì di caricare le casse e si sistemò accanto a un cespuglio di uvaspina.

— E cosi, partite, — disse lo zio Saša.

— Uhu.

— Volate su Pandora?

— Aha.

— Qui scrivono che chiuderanno la riserva di caccia. Per alcuni anni.

— Non fa niente, zio Saša, — disse Vadim. — Noi facciamo ancora in tempo.

Lo zio Saša tacque e poi aggiunse piano:

— Mi annoierò molto qui da solo.

Vadim smise di sbadigliare.

— Ma noi torniamo, zio Saša! Fra un mese.

— È lo stesso. Questo mese me ne torno in città. Cosa sto a fare qui da solo con cinque cottage? — guardò l’elicottero. — Con questo scemotto. Più morto che vivo.

Dal cielo giunse un sottile ronzio.

— Eccone un altro che vola, — disse lo zio Saša.

Vadim alzò la testa. A quota bassa sopra il villaggio un Ramforinch rosso vivo disegnava lentamente un otto. Sulla chiglia sottile si stagliava nettamente un numero bianco.

— Così sono buono pure io, — disse lo zio Saša. — E tu, carino mio, scendi in picchiata a spirale, e non dilato, e non finire dentro il laghetto, ma vicino…

Il Ramforinch volò via. Sulla stradina asfaltata al di là del giardino si sentì sbuffare il motore di una macchina.

— Il nostro villaggio si fa animato, — osservò lo zio Saša. — C’è movimento come sulla Prospettiva Nevskij.

— È Anton! — Vadim balzò in avanti e gli corse incontro.

Anton mise la macchina in garage. Uscendo dal garage, disse distrattamente:

— Tutto a posto, Dimka. Ho registrato il libretto di navigazione, ho avuto il permesso…

— Ma? — chiese Vadim perspicace.

— Ma… che cosa?

— Sento chiaramente che c’è un “ma”.

Anton rispose malvolentieri:

— Sono passato da Galja. Lei non viene.

— Per causa mia?

— No… per causa mia.

— Sì, — commentò Vadim pensieroso.

Anton chiese:

— E come vanno le operazioni di carico?

— Tutto a posto, skipper. Possiamo partire.

— E com’è la casa? In ordine?

— Quale casa?

— La mia, per esempio.

— No, capitano. Scusa, capitano. Ho appena terminato di caricare, capitano.

Basso, sopra i tetti, volò di nuovo il Ramforinch rosso. Anton guardò attentamente.

— Ma che cosa succede? — si meravigliò. — Di nuovo lo ZS-268! A quanto pare sono diventato oggetto di particolare attenzione. Questo Ramforinch rosso, col numero ZS-268 sulla fiancata, mi sta seguendo fin dalla piazza Dvorcovaja.

— Non ci sarà dimezzo qualche donna? — si informò Vadim.

— Non credo. Finora le donne non mi hanno mai dato la caccia.

— Potrebbero anche iniziare… — disse Vadim, ma qui lo illuminò una nuova idea. — Forse si tratta di un membro di una Società segreta per la protezione dei Tachorg?

Il Ramforinch sorvolò di nuovo le loro teste e improvvisamente si acquietò.

— È venuto per lo zio Saša, — fece Vadim. — Avrà portato i pezzi di ricambio. Povero Ramforinch! A proposito, ce li hai?

— Sì, ce li ho, — rispose Anton, distratto. — No, supermagazziniere strutturalista, non è venuto per lo zio Saša…

Da dietro i cespugli apparve un uomo alto e ossuto che portava un’ampia casacca bianca e dei pantaloni pure bianchi. Aveva il volto molto abbronzato con le sopracciglia cespugliose e grandi orecchie scure. In mano teneva una voluminosa cartella.

— È lui, — disse Anton.

— Lui chi?

— L’uomo in bianco. Si aggirava sempre intorno alla fila. E guardava tutti negli occhi.

— Ora gli vado a spiegare cosa sono i Tachorg, — disse Vadim, — così capisce.

L’uomo in bianco si accostò e fissò con attenzione i due cacciatori.

— Lo sa che i Tachorg attaccano le persone e qualche volta le feriscono gravemente? — chiese Vadim. — Possono causare serie mutilazioni.

— Davvero? — fece sorpreso l’uomo in bianco. — I Tachorg? Mai sentiti nominare. Comunque, non è affar mio. Sono venuto da voi per chiedervi un favore. Salve, — si toccò la tempia con le due dita.

— Salve, — rispose Anton. — Cerca me?

Lo sconosciuto lasciò cadere la cartella fra le sue gambe e si asciugò il sudore dalla fronte. Nella cartella qualcosa fece un rumore sordo. Era enorme, piena zeppa di roba, molto consumata, con una gran quantità di lucchetti e di fibbie metalliche. “Cartella” in giapponese si dice “kaban”, che in russo significa “cinghiale”, pensò Vadim. Hanno ragione i giapponesi.

Lo sconosciuto cominciò lentamente a parlare:

— Sì, lei. — Socchiuse gli occhi e di nuovo si passò con forza la mano sulla fronte. — Solo, la prego, non mi chieda perché proprio lei. Si tratta solo di un caso… Poteva essere chiunque altro…

— Abbiamo avuto proprio fortuna, — disse allegro Vadim. — È straordinaria la fortuna che abbiamo oggi.

Lo sconosciuto lo guardò senza sorridere.

— È lei il capitano? — chiese.

— Potenzialmente, — rispose Vadim. — Ma cineticamente sono il supermagazziniere e lo specialista capo di Tachorg… Se necessario, zoologo dilettante…

Vadim era partito in quarta, non poteva più trattenersi. Doveva a ogni costo riuscire a far sorridere lo sconosciuto, anche solo per cortesia.

— Inoltre, sono secondo pilota dilettante, — disse. — Cioè, nel caso che al capitano venga un attacco di disidratazione o il gomito della lavandaia…

Lo sconosciuto ascoltava in silenzio. Anton disse piano:

— Molto spiritoso.

Cadde il silenzio.

— Da quel che ho capito, volate su Pandora, — disse lo sconosciuto. Guardava Anton.

— Sì, andiamo su Pandora, — Anton sbirciò la cartella. — Vuole che portiamo qualcosa da parte sua?

— No, — disse lo sconosciuto. — Non devo mandare niente. Il mio problema è un altro… Avrei una proposta da farvi. Voi, andate a divertirvi?

— Sì, — disse Anton.

— Se una caccia pericolosa può ritenersi un divertimento, — aggiunse Vadim significativamente.

— È proprio una bella vacanza, — disse Anton. — Un volo turistico e la caccia.

— Un volo turistico… — ripeté lentamente lo sconosciuto, come se si meravigliasse. — Turisti… Scusate, ragazzi, ma non assomigliate affatto a dei turisti. Siete degli esploratori giovani, sani… A che vi servono i pianeti abitati, le giungle elettrificate, i distributori automatici di gazzosa nel deserto? E per che cosa! Perché non scegliete un pianeta sconosciuto?

I ragazzi si guardarono.

— Quale pianeta precisamente? — chiese Anton.

— Quale pianeta? Uno qualsiasi, su cui l’uomo non abbia ancora messo piede… — lo sconosciuto sgranò gli occhi all’improvviso. — Oppure non ce ne sono?

Non stava scherzando: era chiaro, e i ragazzi di nuovo si guardarono.

— Come no! — disse Anton. — Pianeti così ce ne sono a iosa. Ma noi è tutto l’inverno che ci prepariamo ad andare a caccia su Pandora.

— Io personalmente, — continuò Vadim, — ho già regalato ai conoscenti i crani dei Tachorg non ancora uccisi.

— E poi, che cosa faremmo su un pianeta nuovo? — disse piano Anton. — Non siamo una spedizione scientifica, non siamo degli specialisti. Ecco, Vadim è linguista, ed io sono pilota di astronavi… Non saremmo in grado neppure di redigere una prima descrizione… Oppure, forse, lei ha un’idea?

Lo sconosciuto aggrottò le sopracciglia cespugliose.

— No, non ho nessuna idea, — disse deciso. — Semplicemente ho bisogno di andare in un pianeta sconosciuto. E la questione è: mi potete aiutare oppure no?

Vadim si mise a giocherellare con la chiusura lampo del suo giubbotto. Il tono dello sconosciuto lo infastidiva: non era il tono a cui era abituato. E, ciò nonostante, la situazione era difficile. Per uno che parte per andare a divertirsi è difficile discutere con uno che ha bisogno di partire per affari. Argomenti Vadim non ne aveva, e perciò aveva già deciso di prendere a pretesto i modi dello sconosciuto quando avvenne uno strano fatto.

Dietro agli alberi un cane si mise ad abbaiare. Era l’airedale Trofim dello zio Saša, un vecchio stupido cane con segni di origine aristocratica e un latrato incredibilmente profondo. Con ogni probabilità abbaiava perché sul naso gli si era posata una vespa e lui non sapeva cosa fare, ma la faccia dello sconosciuto all’improvviso si contorse in modo terribile. Si ranriicchiò e balzò lontano. Vadim non capì nemmeno cosa stesse succedendo. Lo sconosciuto si raddrizzò e a passi studiatamente lenti tornò al suo posto. La fronte gli luccicava per il sudore. Vadim gettò un’occhiata ad Anton, il cui viso era calmo e pensieroso.

— Allora, — disse. — Nella seconda periferia ci sono molte nane gialle che hanno dei discreti pianeti di tipo terrestre. Possiamo andare là. Prendiamo per esempio EN 7031. Si preparava già una spedizione, ma è stata rimandata. Sembrava che non fosse interessante. I volontari non amano le nane gialle, preferiscono le stelle giganti, meglio i sistemi binari… Le va bene EN 7031?

— Sì, certo, — disse lo sconosciuto. Aveva già ripreso il controllo di se stesso. — Però solo se si tratta di un pianeta deserto.

— Non è un pianeta, — corresse gentilmente Anton. — È una stella. Un sole. Ma ci sono anche dei pianeti deserti, con ogni probabilità. Ma lei, come si chiama?

— Mi chiamo Saul, — disse lo sconosciuto e per la prima volta sorrise. — Saul Repnin. Sono uno storico. Ventesimo secolo. Ma mi sforzerò di rendermi utile. So cucinare, guidare macchine terrestri, cucire, riparare le scarpe, sparare… — Tacque. — E inoltre, so come tutto questo si faceva nei tempi passati. Conosco anche le lingue: il polacco, lo slovacco, il tedesco, un po’ di francese e di inglese…

— Peccato che non sappia guidare l’astronave, — sospirò Vadim.

— Sì, peccato, — disse Saul. — Ma non fa niente, l’astronave la guiderete voi.

— Non sospirare, Dimka, — disse Anton. — È ora che anche tu veda gli strani paesaggi dei pianeti senza nome. Ballare si può anche sulla Terra. Fa’ vedere quanto vali quando non ci sono ragazze, cascamorto…

— Sospiravo di entusiasmo, — disse di rimando Vadim. — In fin dei conti cosa sono questi Tachorg? Animali ingombranti e noti a tutti…

Saul si informò gentilmente:

— Spero di non avervi forzato troppo la mano, e che il vostro consenso sia libero e volontario.

— Ma infine, — disse Vadim, — Che cos’è la libertà? Una necessità consapevole. E tutte le altre cose non sono che sfumature.

— Passeggero Saul Repnin, — disse Anton. — La partenza è per le dodici in punto. La sua cuccetta è la terza, a meno che non voglia occupare la quarta, la quinta, la sesta o la settima. Venga, le faccio vedere.

Saul si chinò per prendere la cartella e da sotto l’ascella gli scivolò un grosso oggetto nero che cadde pesantemente sull’erba. Anton inarcò le sopracciglia. Vadim guardò e inarcò anche lui le sopracciglia. Era uno skorcer, un pesante revolver disintegratore a canna lunga, che sparava scariche di milioni di volt. Oggetti simili Vadim li aveva visti solo al cinema. In tutto il pianeta non c’era più di un centinaio di esemplari di questa strana arma, e venivano dati solo ai capitani delle astronavi che sbarcavano nei posti più lontani.

— Che sbadato, — borbottò Saul. Raccolse lo skorcer e se lo infilò sotto l’ascella; poi prese la cartella e annunciò: — Sono pronto.

Anton lo fissò per qualche minuto, come se volesse chiedergli qualcosa. Poi disse:

— Andiamo Saul. Tu, Vadim, metti in ordine a casa e porta al vecchio il suo strumento. È nel bagagliaio. Intendo lo strumento, naturalmente!

— Agli ordini, capitano, — disse Vadim e andò in garage.

Difficile essere ottimista, pensava. Ma che cosa è un ottimista? Gli venne in mente che in qualche vecchio vocabolario si diceva che l’ottimista è una persona piena di ottimismo. Sempre lì, un po’ più su si diceva che l’ottimismo è una percezione del mondo vivace e gioiosa, in base alla quale l’uomo crede nel futuro, nel successo. È una buona cosa essere un linguista, tutto torna subito al suo posto. Rimane soltanto da combinare la percezione del mondo vivace e gioiosa con l’arrivo a bordo di un matto pericolosamente armato…

Prese dal bagagliaio il bisturi e i bioelementi e si diresse dallo zio Saša. Il vecchio stava accoccolato accanto al Ramforinch rosso.

— Zio Saša, — disse Vadim. — Ecco il suo nuovo bisturi e…

— Non c’è più bisogno, — disse lo zio Saša. Scivolò fuori da sotto il Ramforinch. — Grazie. Mi hanno regalato questo. — Diede una pacca al Ramforinch, sul fianco lustro. — Pare sia molto resistente, vero?

— Chi gliel’ha regalato?

— Un giovanotto vestito tutto di bianco.

— Ah, ecco, — disse Vadim. — Dunque era sicuro di venire con noi. Oppure aveva intenzione di farsi strada nella navicella a colpi di revolver?

— Cosa? — chiese lo zio Saša.

— Zio Saša, — disse Vadim, — sa che cos’è uno skorcer?

Skorcer? Sì, certo che lo so. È un dispositivo a microscarica delle macchine tessili automatiche. Per la verità, ora non ce ne sono più, ma mi ricordo che settanta anni fa… Ma perché, quel tizio in bianco è un ex tessitore?

— Forse è anche un tessitore, ma il suo skorcer, zio Saša, non è certo a microscarica.

Vadim tornò pensieroso nel suo cottage. A casa buttò le lenzuola nel condotto per la spazzatura, spense l’attrezzatura automatica domestica e, uscendo sulla veranda, scrisse a matita sulla porta «Partito per le vacanze. Si prega di non entrare». Poi, andò da Anton. Mentre metteva in ordine il cottage di Anton, continuava a riflettere. In fin dei conti non tutto era perduto. Di Tachorg, bisogna ammetterlo, ormai se ne aveva abbastanza. Pandora, per essere sinceri, era più che altro un posto di villeggiatura molto alla moda. C’era solo da meravigliarsi che ce l’avesse fatta a resistere per tre stagioni consecutive. Che vergogna, pensò con improvviso entusiasmo. Eppure c’è Stato un periodo in cui mi pavoneggiavo con una collana di denti di Tachorg al collo e descrivevo Pandora in termini entusiastici. Gettare in faccia a Samson il teschio di un Tachorg, che banalità! Samson merita di più, e Samson sarà immortalato. Un pianeta ignoto è un pianeta ignoto. Sui pianeti ignoti si aggirano belve ignote. Loro, poveracce, non sanno come si chiamano. Ma io lo so già. Là mi procurerò il primo «Samson non bipede a orecchie membranose» della storia oppure, diciamo, un «Samson a dentatura piena e schiena a gobbe»… Lanciare addosso a Samson il cranio di un Samson era una cosa che ancora non era stata fatta.

Quando ritornò nella radura, la navicella era pronta per la partenza. La cuspide non era più in direzione del sole, la brina sull’erba intorno era sparita.

Vadim si sedette sull’orlo del portello, con le gambe penzoloni. Guardò il cottage di Anton con la parete spalancata, le chiome verdi dei pini, le nuvole basse, su cui ora apparivano ora scomparivano degli spazi azzurri. Sì, amico Samson, fratello pentapode, pensava vendicativo. Forse contro qualche leone biblico te la puoi anche cavare, ma contro un linguista strutturale… È buffo, però; non mi sarebbe mai venuto in mente di andare a passare le vacanze su un pianeta ignoto, se non fosse stato per quel tizio in bianco. Che razza di retrogradi siamo, perfino noi linguisti strutturali! Siamo eternamente attirati da pianeti abitati…

Sulla radura apparve l’airedale Trofim. Guardò Vadim con occhi buoni e lacrimosi, sbadigliò, si sedette e cominciò a grattarsi dietro l’orecchio con la zampa posteriore. La vita era bella e varia. Ecco Trofim, pensò Vadim. Vecchio, sciocco, buono, ma — guarda un po’! — può ancora far paura… Ma forse, tutti i lunatici hanno paura dei cani che abbaiano? Vadim si mise a fissare Trofim. Ma perché ho deciso che Saul Repnin è un lunatico oppure com’è che si dice?… Perché una supposizione così complicata? Più semplice pensare che lo storico Saul non sia affatto uno storico, ma soltanto l’emissario di una razza di umanoidi sul nostro pianeta. Come Benny Durov su Tagora… Sarebbe bello: un intero mese di pianeti ignoti e di sconosciuti misteriosi… E come quadra tutto alla perfezione! Da solo non può lasciare la Terra, ha paura dei cani, ma ha bisogno di recarsi su un pianeta ignoto, in modo che mandino li un’astronave a prenderlo, su terreno, per così dire, neutrale. Torna a casa sua e racconta: dunque, così e così, sono brava gente, piena di ottimismo, e allacciano con noi normali rapporti fra umanoidi…

Vadim si riprese e gridò verso il corridoio:

— Anton, sono a bordo!

— Finalmente, — rispose Anton. — Pensavo che avessi disertato.

Da dietro gli alberi, agitando sgraziatamente la coda, apparve lo snello Ramforinch rosso che, ruggendo in modo strano, cominciò a disegnare intorno alla navicella un giro d’onore. Lo zio Saša aprì il portello e agitò qualcosa di bianco. Vadim salutò in risposta.

— Partenza! — avvertì Anton.

La navicella tremò e, saltellando dolcemente — Vadim fece appena in tempo a tirar dentro il piede — cominciò a sollevarsi in cielo.

— Dimka! — gridò Anton. — Chiudi un po’ l’oblò! C’è corrente.

Vadim salutò un’ultima volta lo zio Saša, si alzò e chiuse l’oblò.



II


Anton inserì il pilota cibernetico e, con le mani incrociate sul petto, guardò pensieroso lo schermo visore. L’astronave andava verso nord lungo il meridiano. Intorno c’era il cielo viola della stratosfera, e molto più in giù biancheggiava il velo opaco delle nuvole. Questo velo sembrava liscio e piano, e solo qua e là si indovinavano le voragini dei giganteschi imbuti delle stazioni macrometeorologiche. I meteorologi, dopo aver lasciato piovere sull’Europa settentrionale, stavano spingendo in trappola le nuvole.

Anton rifletteva sulle stranezze umane. Ricordava i tipi curiosi che aveva incontrato. Jakob Osinovskij, il capitano dell’Hercules, non poteva sopportare i calvi. Li disprezzava proprio. «E non riuscirete mai a convincermi, — diceva. — Mostratemi piuttosto un calvo che sia un vero uomo». Probabilmente, i calvi gli richiamavano delle associazioni poco piacevoli, ma non disse mai a nessuno quali. Non cambiò idea neppure dopo che divenne calvo anche lui nella catastrofe di Sarandak. Esclamava soltanto con visibile amarezza: «Sono l’unico! Ricordatevelo, l’unico fra loro!».

Walter Schmidt, della base Hatterija, aveva uno strano atteggiamento verso i medici. «I medici… — diceva a mezza bocca con imbarazzante disprezzo. — Ciarlatani erano e ciarlatani sono rimasti. Prima c’erano le ragnatele polverose e le sanguisughe, e ora il campo psicodinamico, di cui nessuno sa niente. A chi deve interessare che cosa c’è dentro di me? I cefalopodi vivono migliaia di anni senza nessun medico e sono i dominatori delle profondità…»

Volkov si chiamava Drednout, e lui ne era molto contento: Drednout Adamovič Volkov. Kaneko non mangiava mai vivande calde. Ralf Pinetti credeva nella levitazione e si allenava assiduamente… Lo storico Saul Repnin ha paura dei cani e non vuole vivere con gli uomini. Non mi meraviglierei se non volesse vivere con gli uomini proprio perché ha paura dei cani. Strano, vero? Ma non per questo diventerà peggiore.

Stranezze… Non c’è nessuna stranezza. Ci sono solo ineguaglianze. Testimonianze esteriori di un’incomprensibile attività tettonica nelle profondità della natura umana, dove la ragione lotta fino alla morte contro i pregiudizi, dove il futuro lotta con il passato. Ma noi vogliamo per forza che tutti intorno a noi siano uguali, proprio come noi, li immaginiamo a misura della nostra debole fantasia… in modo da poterli descrivere nelle funzioni elementari dell’immaginazione infantile: lo zio buono, lo zio avaro, lo zio noioso, lo zio che fa paura, lo scemo.

Ma per Saul non è affatto strano aver paura dei cani. E a Kaneko non sembra strano non sopportare niente di caldo. Così come a Vadim non verrà mai in mente che i suoi stupidi versetti a qualcuno possano sembrare non divertenti ma strani: a Galja, per esempio.

Prendiamo ora me. Ecco, io mi preparavo a partire per Pandora. Se lo avesse saputo, diciamo, il capitano Malyšev, mi avrebbe guardato meravigliato e avrebbe detto: «Se vuoi riposarti, non c’è posto migliore della Terra. Se invece hai deciso di lavorare un po’, allora occupati della stella nera EN 8742, che è la prossima in programma, oppure della superstella EN 6124 che, chissà perché, interessa agli specialisti di Tagora». E Malyšev avrebbe avuto ragione. E perché Malyšev mi capisse e smettesse di guardarmi meravigliato, avrei dovuto dirgli che ho nostalgia della compagnia di Dimka e che Dimka ha voglia di andare a sparare ai Tachorg.

Anton sogghignò. Perché tutto è così complicato? Al giorno d’oggi volano tutti su Pandora, e una volta Galja aveva detto che lì ci sarebbe andata. Ora organizzano così i voli interplanetari. E i programmi si cambiano altrettanto facilmente. Riuscirei a confessare a Malyšev che tutto il problema è Galja? Perché l’uomo non impara a vivere con semplicità? Da chissà quali patriarcali abissi senza fondo strisciano continuamente fuori vanità, amor proprio e orgoglio offeso. E c’è sempre qualcosa da nascondere, c’è sempre qualcosa di cui vergognarsi.

Anton guardò il mazzetto di garofani, posato davanti allo schermo. Ah! Galja! pensò. Soffiò sullo schermo e sul vetro appannato dal vapore scrisse col dito: «Ah! Galja!…». Le lettere sparirono in fretta; non fece neppure in tempo a mettere il punto esclamativo. Poi si adagiò di nuovo nella poltrona e per la centounesima volta cercò di risolvere il problema in modo logico: «Io amo una ragazza, la ragazza non mi ama, ma ha simpatia per me. Cosa fare?».

«In realtà, che cosa cambierebbe se lei mi amasse? Potrei abbracciarla e baciarla. Potremmo stare sempre insieme. Ne sarei orgoglioso. È tutto, mi pare. È sciocco, ma è tutto. Semplicemente avrei realizzato un desiderio. Come tutto sembra meschino, quando ci ragioni su in modo logico! E in un altro modo io non so ragionare. Sto diventando un uomo vuoto, un cinico». Immaginò Galja mentre parlava, il capo leggermente piegato, gli occhi ombreggiati dalle ciglia… Perché tutto è organizzato in modo così sciocco: si può salvare una persona da qualsiasi disgrazia di poco conto, da una malattia, dall’indifferenza, dalla morte, e solo da una disgrazia vera — dall’amore — niente e nessuno la può salvare… Si troveranno sempre migliaia di consiglieri, e ognuno darà un consiglio a se stesso. Sì, e quello che soffre, lo scemo, non vuole lui per primo che lo aiutino, ecco il terribile.

— Permette, dove sta andando? — chiese Saul a voce alta.

— Alla cabina di comando, — rispose Vadim.

— Aspetti! Noi, per la verità, non abbiamo ancora fatto conoscenza…

La porta della cabina di comando era aperta, Anton aveva sentito che nel quadrato si borbottava qualcosa a proposito di Tachorg, di boscaglie e della teoria delle successioni storiche. Ora si mise ad ascoltare attentamente.

— Lei, mi pare, si chiama Vadim! — disse Saul.

— Di regola, — rispose serio Vadim. — Ma a volte mi chiamano Super Strutturalista, a volte Toro Volante, e in casi particolari Dimočka.

— Vadim, dunque… E quanti anni ha?

— Ventidue anni locali-terrestri.

— Locali… Ah sì, certo… Come ha detto? Locali-terrestri?

— Sì. Con i vecchi anni siderali non ho nulla a che fare.

— Certo. Proprio così pensavo. E suo padre, scusi, chi sarebbe?

— Chi sarebbe? Probabilmente quello che è ora, un agronomo.

— Eh… Capisco, capisco… Per la verità è proprio quello che intendevo,

Subentrò una pausa.

— Un bellissimo tavolo, — disse timidamente Saul.

Di nuovo una pausa.

— È un buon tavolo. Solido.

— E sua madre?

— Mia madre? Fa il guardiano. Lavora in una stazione mesonucleare.

Si sentiva Saul tamburellare nervosamente sul tavolo con i polpastrelli.

— Non faccia così, Vadim, — disse. — Non deve farci caso… Certo, io parlo in modo strano, e probabilmente anche un po’ ridicolo… Sa com’è… Il mio modo di vita… Il mio, per così dire, modus vivendi… Io ho una specializzazione ben definita. Sono tutto nel XX secolo. Come si diceva una volta, sono un topo di biblioteca. Eternamente nei musei, eternamente con vecchi libri…

— È l’influenza dell’ambiente.

— Sì, proprio così. Sto raramente in compagnia di altri, e ora è capitato. Conosce il professor Arnautov?

— No.

— Un grandissimo specialista. Il mio oppositore ideologico. Mi ha chiesto di controllare alcuni aspetti della sua nuova teoria. Naturalmente non potevo rifiutarmi, vero? Ecco perché mi ètoccato abbandonare… lari e penati. Ecco… Ma sto sempre a parlare di me!… Lei, mi pare, fa il linguista strutturale?

— Sì.

— Un lavoro interessante?

— Perché, ci sono forse lavori non interessanti?

— Già, certo… E di che cosa si occupa?

— Mi occupo di analisi delle strutture. Ma senta, Saul, io mi sono staccato da tutto quello che è terrestre. Le racconto piuttosto qualcosa sui Tachorg.

— No, grazie, sui Tachorg non c’è bisogno. Meglio qualcosa sul suo lavoro.

— Saul, le ho già detto che mi sono staccato.

— Ma che cosa vuol dire mi sono staccato? Adesso non pensa affatto al lavoro?

— Al contrario. Ci penso sempre. Penso sempre al lavoro che mi occupa al momento. Ora sono supermagazziniere e secondo pilota, nel caso che Anton all’improvviso rimanga disidratato. Ma mi pare che questo già… Allora, adesso ho proprio voglia di guidare un po’ la navicella.

— Farà ancora in tempo a guidarla! E poi la pregavo di raccontarmi non i particolari del suo lavoro, ma gli aspetti esteriori, per esempio… cosa fa quando arriva al lavoro. Una giornata di lavoro.

— Bene. Una giornata lavorativa. Mi sdraio sul calcolatore e penso.

— Sì… Un momento. Sul calcolatore? Ah sì, capisco. Fa il linguista e si sdraia sul… E poi?

— Penso per un’ora. Penso per una seconda. Penso per una terza…

— E alla fine?

— Penso per cinque ore, non ne viene fuori niente. Allora mi alzo dal calcolatore e me ne vado.

— Dove?

— Allo zoo, per esempio.

— Allo zoo? Perché allo zoo?

— Così. Mi piacciono gli animali.

— E il lavoro?

— Il lavoro… Torno il giorno dopo e di nuovo comincio a pensare.

— E di nuovo pensa per cinque ore e poi se ne va allo zoo?

— No. Di solito la notte mi vengono delle idee, e il giorno dopo ci penso solo un po’ su. E poi si brucia il calcolatore.

— Così. E va allo zoo?

— Che c’entra ora lo zoo? Ci mettiamo a riparare il calcolatore. Lo ripariamo fino al mattino.

— E poi?

— E poi finisce il giorno feriale e comincia il giorno festivo. Tutti hanno gli occhi fuori delle orbite e una sola cosa in testa: ecco ora si rompe di nuovo e si comincia daccapo.

— Beh, va bene. Questi sono i giorni feriali. Però non si può mica sempre lavorare…

— No, non si può, — disse Vadim con rammarico. — Io, per esempio, non posso. Alla fine ti senti esaurito, e ti tocca divertirti.

— Come?

— Come capita. Io, per esempio, vado in barca a vela sul ghiaccio. Le piace andare in barca a vela sul ghiaccio?

— Eh… Non mi è mai capitato.

— Com’è possibile, Saul! Le farò assolutamente fare un giro. Qual è il suo indice di salute?

— Indice di salute? Sono assolutamente sano. E su che cosa lavora ora?

— Sulle aggregazioni di strutture isolate.

— E a che cosa serve?

— Cosa vuol dire a che cosa serve?

— Beh, chi è che ne ricaverà profitto?

— Tutti quelli a cui interessa. Ecco, ora progettano un radiotrasmettitore universale. Un radiotrasmettitore universale deve saper aggregare le strutture isolate.

— Dica, Vadim, ma qui sulla navicella si può ascoltare musica?

— Certamente. Che cosa le piacerebbe? Vuole I trilli di Scheer? Con questa musica guidare la navicella è una bellezza.

— E Bach?

— Oh, Bach! Mi pare che abbiamo anche Bach. Sa, Saul, deve essere molto piacevole ascoltare musica insieme a lei.

— Perché?

— Non so. È sempre piacevole ascoltare la musica con qualcuno che se ne intende. Le piace Mendelssohn?

— Conosce Mendelssohn?

— Saul! Mendelssohn è il migliore dei vecchi! Spero che le piaccia Mendelssohn. Per la verità la navicella non è il posto migliore per ascoltarlo. Non le pare?

— Probabile… Io di solito ascolto Mendelssohn stando nel mio comodo studio…

Gli si è sciolta la lingua finalmente, pensò Anton. Guardò l’orologio. La navicella entrava nella zona di decollo sotto il Polo nord. Sullo schermo, nella profondità viola affioravano i puntini scuri delle astronavi, che aspettavano il via. Anton gridò verso la porta:

— Scusate se vi interrompo. Presto decolleremo. Dimka, mostra a Saul come si utilizza la camera di azzeramento della forza di inerzia.

Anton inoltrò alla stazione di controllo la richiesta del programma di volo e trenta minuti dopo, durante i quali la navicella nuotò nella stratosfera insieme a una ventina di altre astronavi grandi e piccole, ricevette il programma con sette varianti per il viaggio di ritorno e il permesso di partenza per lo spazio. Allora chiese ai passeggeri di chiudersi nelle cabine, andò in cabina anche lui, inserì il programma di passaggio e diede alla navicella il comando di via.

Come sempre, Anton ebbe un forte senso di nausea. Un’onda infuocata gli attraversò il corpo, la faccia e la schiena si ricoprirono di sudore freddo. Lo sguardo imbambolato, seguiva la lancetta rossa che con violenti strappi segnalava sul quadrante i cambiamenti di curvatura dello spazio. Duecento riman… quattrocento… ottocento… mille e seicento riman al secondo… Lo spazio si avvolgeva sempre più stretto intorno alla navicella. Il nitido cono nero della navicella diventava sempre più fluttuante, si dissolveva lentamente e all’improvviso scompariva del tutto, e al suo posto divampava sul sole un’enorme bolla di aria solida. La temperatura per un raggio di cento chilometri si abbassava bruscamente di cinque-dieci gradi… Tremila riman. La lancetta rossa si fermò. La deritrinitazione ipsion finì e la navicella passò sul subspazio. Dal punto di vista di un osservatore terrestre adesso era “distesa” lungo tutto quel tratto di centocinquanta parsec che separavano il Sole da EN 7031. Ora bisognava tornare nello spazio normale.

Quando si esce dal subspazio c’è sempre il pericolo di trovarsi troppo vicino a una massa gravitazionale e, forse, persino al suo interno. Per la verità, questo pericolo è puramente teorico. Le probabilità sono di gran lunga inferiori a quelle che ha un paraca. dutista di andare a finire proprio nella canna fumaria dell’Ermitage, buttandosi su Leningrado dalla stratosfera. In ogni caso, né l’una né l’altra eventualità si sono mai verificate. La nave spaziale di Anton si inserì felicemente nello spazio normale alla distanza di due unità astronomiche dalla nana gialla EN 7031.

Anton trasse un sospiro di sollievo, si asciugò il sudore dalla fronte e uscì dalla camera di azzeramento. Nella cabina di piotaggio tutto era in ordine. Passò davanti al quadro di comando, gettò uno sguardo allo schermo visore e girò l’interruttore dell’autopiota subspaziale. Sul quadro di comando davanti allo schermo giaceva ancora il mazzetto di garofani. Anton si fermò. «Peccato», borbottò. Toccò i fiori con un dito e i petali si dissolsero in una polvere verdastra. «Poveracci, — pensò Anton. — Non ce l’hanno fatta. Già, e chi ce la fa?» Si ricordò dei suoi passeggeri e scese nel quadrato.

Lì si aprivano le porte di tutte le otto cabine e il portello che dava nel piano inferiore, dove si trovavano le dispense, una cucinasintetizzatore, la doccia e tutto il resto. Anton gettò un’occhiata al tavolo, alle poltrone, rimise a posto il coperchio del condotto per le immondizie e si diresse alla cabina di Vadim. Fece scattare la serratura della camera di azzeramento e Vadim cascò fuori. Era bianco e bagnato come un topo.

— Ti senti male? — chiese Anton comprensivo.

Vadim intonò con voce da basso:


Fischia il vento subspaziale

Un sibilo risuona ribelle

Perché è uscito tra le stelle

Il linguista superstrutturale.


Poi, si slanciò verso un divano e si sedette.

— Ecco perché non sono diventato astronauta, — disse con voce un po’ rauca e rovesciò la testa all’indietro.

— Lo dici ogni volta, — disse Anton. Vadim tacque. — Vado a liberare Saul, — aggiunse Anton.

— Hai sentito la nostra conversazione? — chiese Vadim, senza aprire gli occhi.

— Sì.

— Persona interessante, no?

— Non so, — disse Anton. — Secondo me è una persona nei guai.

— Certo! Se no, non l’avresti preso sulla navicella. Appena ci prepariamo per un viaggio noi due, tu subito ti metti a fare l’altruista. Aspetta, non te ne andare…

Anton si fermò sulla porta.

— Dici delle stupidaggini ed intanto Saul là, probabilmente, si sta sentendo male. Penso che lui sia un trasvolatore interpianetario ancora peggiore di te.

Vadim emise inaspettatamente un tragico sussurro:

— Cieco! Oh, cieco!… No, non te ne andare, anche io mi sento male… Davvero non hai ancora capito che tipo è?

— Che cosa intendi dire?

Vadim finalmente si mise seduto.

— Non capisce niente di linguistica, — disse. — Non te ne sei accorto?

— E tu di storia cosa ne capisci?

— E dice pure di essere un topo di biblioteca. Lo conosciamo tutti un topo di questo tipo. Si chiama Benny Durov. Parla un po’ di lui con i Tagoriani.

Anton sorrise involontariamente.

— Va bene, — disse. — Solo, tu cerca un po’ di controllarti. Io ti sopporto anche a grandi dosi, ma sugli estranei fai, a volte, un’impressione pessima. Un po’ meno ottimismo da puledro e un po’ più di tatto.

— Agli ordini, capitano, — disse serio Vadim. — Sarà fatto, capitano.

Anton uscì. Mentre girava intorno al tavolo, sorrise di nuovo; con Vadim non ti annoi mai. Nella cabina numero tre preparò prima di tutto il divano e solo dopo fece scattare la serratura, pronto ad afferrare il corpo che cadeva. Invece, dalla camera di azzeramento uscì del fumo azzurro. Anton indietreggiò.

— Che c’è, è già ora? — risuonò la voce di Saul da dietro le volute di fumo.

Anton aguzzò lo sguardo. Saul sedeva sulla sua cartella, messa verticalmente, e fumava una lunga pipa nera. Aveva un’aria distratta e bonaria.

— Non si sente male? — chiese Anton, indietreggiò e sedette sul divano.

— Niente affatto. Allora, si può uscire?

— Prego, — disse Anton.

Saul si alzò, prese la cartella e, chinandosi, uscì dalla camera.

— Siamo quasi in zona, — disse Anton. — Rimane solo da scegliere il pianeta e decidere dove sbarcare.

Saul sedette accanto a lui.

— Siamo lontani dalla Terra? — chiese.

— Centocinquanta parsec. Quasi al limite, per la nostra navicella.

Vadim berciò dalla sua cabina.

— Saul! Esiga un pianeta simile alla Terra! Non le piacerebbe mettersi lo scafandro e la maschera ad ossigeno. Potrebbe andare…

Anton si alzò e chiuse bene la porta.

— Per me va bene qualsiasi pianeta, — disse piano Saul. — Ma, naturalmente, sarebbe meglio uno dove si possa respirare. — Anton lo guardò attentamente. — Ma la cosa più importante è che non ci sia nessuno…

— Facciamo così, Saul, — disse Anton. — Le troveremo un pianeta. È facilissimo. Abbiamo a bordo una cupola abitabile per sei persone, abbiamo un bioplano, riserve di cibo per iniziare un ciclo e una buona ricetrasmittente. La aiuteremo a sistemarsi e ce ne andremo. Va bene?

Saul sedeva a capo chino.

— Sì, — disse rauco. — Così andrà bene. Sicuro.

— Bene, allora, — Anton spinse la porta, — vado nella cabina di pilotaggio, e lei… se ne ha voglia, venga anche lei.

Nella cabina di pilotaggio, Anton accese il catalogo di bordo e scorse le informazioni relative al sistema EN 7031. Le informazioni erano poco interessanti. Intorno alla nana gialla ruotavano quattro pianeti e due fasce di asteroidi. Quello più adatto a loro era il secondo pianeta: era simile alla Terra e si trovava alla distanza di un’unità astronomica e mezza dal suo sole. Anton diede l’effemeride al pilota cibernetico.

Dal quadrato giunsero delle voci.

— Come ha sopportato il passaggio, Saul?

— Quale passaggio? Non ho notato nessun passaggio.

— Proprio come pensavo.

— Come?

— Che non se ne sarebbe accorto. Vuole fare una doccia?

— No. C’è ancora molto?

— Probabilmente no. Sente? La navicella oscilla e il pavimento ondeggia sotto i piedi. Si sta mettendo in orbita. Andiamo nella cabina di pilotaggio?

— Ma non daremo fastidio?

— Certo che no. Siamo turisti. Su un’astronave da sbarco o di linea non ci farebbero entrare… Perché porta con sé la cartella?

— Mi è cara…

— Allora non la metta sul coperchio del condotto per l’immondizia.

Anton osservava attentamente l’immagine del pianeta sullo schermo di osservazione. Il pianeta era azzurro, come la Terra, coperto da una bianca coltre di nuvole, ma i contorni dei continenti erano diversi. Uno, il più grande, si stendeva lungo l’equatore; l’altro, un po’ più piccolo, arrivava fino al polo.

— Ecco il suo pianeta, Saul, — disse Anton e prese il foglio appena uscito dal terminale dell’analizzatore. — Un ottimo pianeta. Non c’è compressione. Le giornate sono di ventotto ore, la massa è pari al 110 % di quella terrestre. Non ci sono gas venefici. Molto ossigeno. Poca anidride carbonica, ma non si deve preoccupare.

Fissò Saul. Saul guardava il suo pianeta con una strana espressione. Le sopracciglia cespugliose si inarcarono. Sembrava che stesse lì lì per piangere. Anton era commosso.

— Compagni! — disse all’improvviso Vadim. — Diamo a questo pianeta il nome di Saul.

— Sia chiamato Saul! — disse Anton.

Tirò a sé il microfono del diario di bordo e dettò:

— Giorno giuliano 25-42-967. Il secondo pianeta del sistema EN 7031 viene chiamato Saul, in onore dello storico Saul Repnin, membro dell’equipaggio.

Tutto questo non aveva proprio nessun significato. Ai pianeti venivano dati i nomi di astronavi e di città, degli eroi letterari preferiti, di oggetti o semplicemente combinazioni fonetiche che suonavano bene. E chi non aveva abbastanza fantasia, prendeva un libro qualsiasi, lo apriva a una pagina qualsiasi, sceglieva una parola qualsiasi e la modificava a suo gusto. E allora veniva fuori qualcosa tipo Risolina, Rissaiolo o Palpebro.

Ma Saul ne fu incredibilmente colpito. Borbottò: «Grazie, grazie, amici», e strinse la mano di Vadim. Fu una cosa molto commovente.

Nel frattempo il pianeta diventava sempre più grande. Quando sullo schermo rimase solo il continente che si stendeva lungo l’equatore, Anton chiese:

— Allora, dove vuole scendere, Saul?

Saul indicò con il dito quasi il centro del pianeta. Ad Anton parve che lo facesse socchiudendo gli occhi.

— Compagni, — disse lentamente Vadim, — sarebbe meglio vicino al mare.

Era chiaro che aveva voglia di farsi un bagno. Nuotare nell’oceano di Saul, in onde che non avevano ancora mai bagnato un terrestre, che, forse, non avevano mai bagnato nessun essere vivente.

— V-va bene… atterriamo vicino alla costa, — disse incerto Saul. Guardò Anton. — Per i miei scopi, — tossicchiò, — la scelta del posto non è importante.

— Magnifico! — disse Vadim. Sedette svelto nella poltrona accanto a quella di Anton. — Basta! — annunciò. — Al capitano è venuta una paralisi, ed è stato portato in cabina in cattive condizioni. Il robusto e statuario secondo pilota ha preso il comando. — Appoggiò le dita sul contatto del pilota automatico, e la navicella perse subito quota. Il continente sullo schermo cominciò a contorcersi vertiginosamente. Vadim declamò:


Vedo tremar come un foglio bagnato

Ogni dispositivo aeronavale

Se il biocomando viene manovrato

Da me, superlinguista strutturale.


Saul fece cadere rumorosamente la cartella e si aggrappò alle spalle di Anton.

— Dimka, di’ almeno dov’è che sei diretto, — chiese Anton.

— Là, — rispose vago Vadim. — Dove le onde blu lambiscono la sabbia.

L’astronave si inclinò verso destra.

— Piano, piano, — disse Anton. — Sta’ calmo. Così finisci sulla terraferma.

— Sta’ a vedere.

— Frena! Guarda dove ti vai a cacciare!

— Vedo tutto.

— Oh, ci fai fare un bel capitombolo, disse Anton.

— Niente paura, niente paura, — ripeteva Vadim.

Lo schermo si oscurò. L’astronave era entrata nell’atmosfera. Divampò e scomparve fra le nubi dense un arcobaleno. Baluginarono delle macchie bianche e nere.

— Il vento ci sposta, — osservò Anton.

— Lo so…

— Stai perdendo il controllo dell’astronave!

Vadim disse in fretta:

— Smettila di dare ordini o non sono più tuo amico.

— Vadim, cerchi di non fallire il bersaglio, — disse allarmato Saul.

Il carosello sullo schermo cessò. Si avvicinò in fretta una distesa bianca, poi lo schermo si oscurò e si spense. L’astronave sobbalzò.

— Finito tutto, — disse Vadim. Si stiracchiò, facendo scrocchiare le dita.

— Cosa tutto? — chiese Saul. — Ci siamo fracassati?

— Siamo atterrati, — disse Anton. — Benvenuti su Saul.

— Però, lei guida proprio come un matto, — disse Saul a Vadim.

— Proprio vero, — concordò Anton. — Sai di quanto hai mancato il bersaglio, Dimka? Di un duecento chilometri. Ma hai fatto in tempo a spegnere lo schermo, bravo.

— Per abitudine, — disse Vadim noncurante.

Anton si alzò.

— A proposito, che cos’è questa storia del “foglio bagnato che trema”? — chiese.

Anche Vadim si alzò.

— Questa, Toška, è una storia un po’ misteriosa. Esiste una antica espressione idiomatica, «tremare come un foglio bagnato». Un foglio bagnato è una specie di braciere. Lo mettevano sul pavimento dei bagni, e quando aumentavano il vapore, cioè versavano acqua nel braciere, il foglio metallico rovente cominciava a vibrare.

Saul scoppiò inaspettatamente a ridere. Rideva forte e di gusto, asciugandosi le lacrime col palmo della mano e pestando a terra con gli stivali. Né Anton, né Vadim capirono il perché, ma dopo qualche minuto ridevano anche loro.

— Un’usanza divertente, vero? — disse Vadim, riprendendo fiato.

— Davvero, Saul, perché ride? — chiese Anton.

— Oh! — disse Saul. — Sono così contento di essere arrivato sul mio pianeta…

Vadim smise di ridere.

— In fin dei conti non sono mica uno slavista, — disse con dignità. — La mia specialità è l’analisi strutturale.

— Va bene, — disse Anton, — scendiamo a terra.

Uscirono tutti dalla cabina di piotaggio. Vadim, trattenendo Saul per il gomito, disse:

— Non è una mia deduzione. È l’ipotesi più diffusa.

— Non ha importanza, non ha importanza, — rispose in fretta Saul. Si fece serio. — Questa sua ipotesi è talmente lontana dalla verità, che non ho potuto trattenermi. Se l’ho offesa, mi scusi…

— E qual è la sua idea?

Saul disse irritato:

— Non esiste l’espressione: «tremare come un foglio bagnato». Esistono le espressioni: «tremare come una foglia» e «stracciarsi come un foglio bagnato». Ma come si fa a stracciare un foglio di metallo, bagnato o no? È ridicolo!

Anton aveva aperto la membrana dell’oblò. Un’aria gelida sferzò l’astronave. Saul spinse da parte Vadim e gridò:

— Aspettate! Fatemi passare, per favore!

Anton, che già stava col piede sulla soglia, si fermò. Saul, tenendo lo skorcer sopra la testa, si slanciò avanti.

— Vuole scendere per primo? — chiese Anton sorridendo.

— Sì, — borbottò Saul, — è meglio.

Si infilò nello stretto oblò e si fermò, bloccando l’uscita. Anton, che si era infilato dietro di lui, lo spingeva con la testa.

— Avanti, Saul, — disse.

Saul pareva pietrificato. Da dietro, Vadim tamburellava nervosamente sulla schiena curva di Anton.

— Ci faccia passare, Saul, — chiese Anton.

Saul finalmente si fece da parte e Anton uscì all’aperto. Tutt’intorno c’era la neve. E altra neve cadeva a grossi fiocchi pigri. La navicella si trovava in mezzo a colline rotonde tutte uguali, che si notavano appena nella pianura bianca. Dalla neve spuntavano fuori l’erbetta corta di un verde pallido e molti fiorellini azzurri e rossi. Ma, a dieci metri dall’oblò, giaceva un uomo che la neve andava lentamente ricoprendo.

III


Vadim uscì per ultimo dall’astronave e subito si rivolse a Saul:

— La cosa più semplice sarebbe di controllarlo sulle pagine di qualche antico vocabolario, Dal’ o Ušakov, per esempio. Ma a bordo…

A questo punto si accorse che Saul non lo ascoltava. Saul teneva lo skorcer pronto — con la canna sul braccio piegato — ed il suo viso era inquieto. Gli occhi correvano qua e là. Vadim si guardò svelto intorno e vide anche lui l’uomo.

— Guarda un po’, — disse, interdetto.

Anton si avvicinò all’uomo sdraiato a terra, mentre Saul rimaneva al suo posto. Possibile che l’abbia travolto con l’astronave durante l’atterraggio? — pensava Vadim atterrito. All’idea si sentì contorcere le viscere. Corse dietro Anton e si piegò anche lui sul corpo. Gli gettò solo un’occhiata, poi subito si alzò e cominciò a guardarsi in giro. Tutt’attorno si allungavano tetre colline ricoperte di neve e tutte uguali; il cielo era coperto di nuvole basse, e all’orizzonte si indovinavano i pallidi contorni di una catena di monti. Che pianeta triste, pensò.


E campi e montagne

Tutto pian piano la neve ha coperto…

E ora tutto è deserto…


Anton si inginocchiò e con cautela toccò la mano dello sconosciuto. La mano era piccola, bianca, con delle dita sottili che parevano di porcellana, le unghie lunghe avevano un riflesso d’oro.

— Allora? — disse Vadim e inghiottì.

Anton si alzò e con cura si levò la neve dalle ginocchia nude…

— È morto assiderato da qualche giorno. È anche molto deperito.

— Non c’è più speranza.

Anton annuì.

— Ormai è una pietra.

— Una pietra… — ripeté Vadim. — Come è possibile? Guarda, è solo un ragazzo… — si costrinse a guardare il viso del morto.

— Guarda, assomiglia a Valerij! Te lo ricordi Valerij?

Anton gli mise una mano sulla spalla.

— Sì, gli assomiglia.

— Mi sono così spaventato. Ho pensato di averlo urtato durante l’atterraggio.

— No, giace qui da almeno un paio di giorni. È caduto per la debolezza ed è morto assiderato.

— Ascolta, Anton, ma perché porta solo la camicia?

— Non lo so. Torniamo all’astronave.

Vadim non si mosse.

— Non capisco. Vuoi dire che non siamo i primi?

Si guardò intorno, cercando con gli occhi Saul. Saul non si vedeva.

— Anton, forse ti sei sbagliato? Forse si può ancora fare qualcosa?

— Andiamo, andiamo, Dimka.

— Ma, e lui…?

— Come faccio a saperlo? Andiamo.

Videro Saul. Scendeva lentamente lungo il pendio della collina, scivolando sulla neve bagnata. Rimasero fermi ad aspettare che si avvicinasse. Aveva un’aria tetra, sulle guance gli si scioglievano grossi fiocchi di neve. La neve gli arrivava alle ginocchia. Si avvicinò, si tolse di bocca la pipa spenta e disse:

— È una brutta faccenda, ragazzi. Là ce ne sono ancora quattro, — guardò il morto. — Pure loro seminudi. Che cosa pensate di fare?

— Torniamo all’astronave, — disse Anton, — e riflettiamo con calma.

Nel quadrato sedettero in poltrona e tacquero per un po’. Vadim tremava di freddo e, chissà perché, aveva molta voglia di parlare.

— Guarda un po’ che pianeta! — disse, serrando i muscoli delle mascelle. — Non ne avevo mai sentito parlare. Non si capisce niente. Chi sono? Da dove vengono? Eppure dicevano che qui non c’era mai stato nessuno. E soprattutto… un ragazzino. Un ragazzino qui come c’è finito? Tacque e chiuse gli occhi, cercando di scacciare la visione della faccia coperta di neve.

Anton si alzò e cominciò a girare intorno al tavolo, a capo chino. Saul riempì la pipa.

— Posso fumare? — chiese.

— Sì, prego, — disse Anton distratto. Si fermò. — Ora ecco cosa facciamo, — disse deciso. — Abbiamo un bioplano. Prendiamo cibi e vestiti e compiamo una perlustrazione intorno alla navicella. Sulle colline può essere che ci siano ancora dei vivi.

Nella voce gli risuonavano delle note dure sconosciute a Vadim. Vadim lo guardò con curiosità e Anton notò il suo sguardo.

— Vedete, compagni, — disse in tono più morbido, — la gita turistica non siamo riusciti a farla. Le circostanze, secondo me, sono eccezionali. Probabilmente mi toccherà dare ordini e a voi toccherà obbedire, — guardò Saul e allargò le braccia con aria colpevole. — Vede, Saul, non si può far altro…

— Sì, — disse Saul. — Sì. Certo. Sono pronto, capitano. Ordini pure.

— Ma hai già capito qual è la situazione? — chiese Vadim.

— Ne parliamo dopo, disse Anton. — Prima bisogna mettere in incubazione il bioplano. Vieni, Vadim.

Saul posò la pipa e si alzò pure lui, aggiustandosi sulla spalla la cintura della pistola.

— Grazie, Saul, ce la caviamo da soli, — disse Anton.

— Vorrei venire con voi, — disse Saul. — Non vi darò fastidio, capitano.

Tirarono fuori l’ovocellula e la misero sulla sommità della collina più lontana. La neve cadeva sempre più fitta, i fiocchi di neve solleticavano le guance, e Vadim se le strofinava nervosamente. Il vento soffiava e si sentiva freddo a star fermi a guardare Anton che senza fretta e con cura piazzava gli attivizzatori sulla superficie liscia dell’embrione meccanico. Il vento bruciava le braccia e le gambe nude, e Vadim pensò all’improvviso che, forse, chissà dove, al di là delle colline c’era altra gente che vagava a piedi nudi, incespicando nella neve alta, vestita solo di lunghe tuniche grige.

Anton si raddrizzò e soffiò sulle mani arrossate.

— Sembra che vada, — disse. — Controlla, Dima.

Vadim controllò la posizione degli attivizzatori. Era tutto in ordine. Ritornarono all’astronave. Saul veniva per ultimo; si teneva sempre dietro di loro. La navicella già accumulava energia, come una montagna nera si stagliava sul bianco, la cuspide inclinata seguiva l’invisibile EN 7031. Per la strada Vadim raccolse dei fiori che gli fecero pena, tanto erano miseri e pallidi.


E vivi e morti

pian piano la neve ha coperto

E tutto è ora deserto.


La neve cadeva sempre più fitta, e quando arrivarono all’astronave Saul disse:

— Presto tutto sarà ricoperto. Non sarebbe male fare l’autopsia.

— Perché, — disse Anton. — Ormai sono morti.

— Appunto. Bisognerebbe chiarire perché siano morti.

— Sono assiderati, — disse Anton. — E non abbiamo bisogno di nessuna autopsia.

— Mi sembrerebbe… — iniziò Saul, ma tacque e si infilò nell’oblò. Nel quadrato Anton disse:

— Cerchi di capire, io non sono un medico. Non… non voglio.

— Capisco, — disse Saul.

— Vadim, — disse Anton, — impacchetta le vettovaglie. Tutte le provviste disponibili. Saul, lei ha detto che sa cucire. Bisogna adattare le tute. Io prenderò i medicinali.

Le tute erano di misura unica, ma la differenza di altezza fra Saul e Anton era troppo grande. Bisognava accorciare la tuta di Anton e allungare quella di Saul. E fu subito chiaro che Saul non sapeva cucire. Si passava smarrito l’ago ultrasonico da una mano all’altra, gualciva e lisciava le tute, e guardava Anton con aria mortificata. Evidentemente, gli storici, seduti nei loro comodi studi, non avevano idea di cose così semplici. Probabilmente, quello che principalmente li interessava era come si faceva una volta. Toccò a Vadim prendere l’ago di Saul e mostrargli come funzionava. Con sua meraviglia, lo storico si dimostrò perspicace, e qualche minuto dopo ognuno assolveva il suo compito.

Saul disse, senza alzare la testa dal lavoro:

— Perché pensa, capitano, che ci siano ancora dei vivi?

— Non lo penso, — rispose Anton. — Lo spero.

Vadim finì di riempire il sacco, lo chiuse e sedette al tavolo.

— E quegli altri quattro, sono giovani pure loro? — chiese.

— Sì, — disse Saul. — Proprio dei ragazzi. Quasi degli adolescenti. Molto più giovani di voi.

— Cinque anni fa, — disse Vadim, — io e degli altri ragazzi volevamo prendere un’astronave e volare su Tagora. Naturalmente, non ce lo permisero… Forse, questi ci sono riusciti?

— Assurdo, — disse Anton. — L’astronave la può avere solo un pilota esperto. E che esperienza hanno questi… Dei ragazzini! Del resto è tutto assurdo. Hanno le unghie dorate! E delle strane camicie sul corpo nudo.. E la cosa più importante è: come hanno fatto a finire qui?

— Molto semplice, — disse Vadim. — Qualcuno si preparava a partire, ha lasciato l’astronave davanti a casa, loro si sono radunati di notte e sono partiti. Volevano fare gli esploratori. E qui sono scesi e si sono persi. È sopraggiunto il gelo. Ecco tutto.

— Quello che stai dicendo — disse Anton freddamente — è assolutamente impossibile. Anche se le cose fossero andate così, io lo avrei saputo certamente. Sono morti da qualche giorno. Sulla Terra avrebbero dato inizio a delle ricerche globali.

— E se fossero arrivati qui con qualcuno più anziano?

Anton tacque.

— Allora andiamo a cercare gli anziani, — disse alla fine.

— C’è una cosa che mi lascia perplesso, — disse Vadim. — Queste strane camicie…

— Non sono camicie, — disse Saul inaspettatamente.

I due si girarono verso di lui.

— Sono sacchi. Con dei buchi per la testa e le mani. Sono dei rozzi sacchi di juta. Ora non ce ne sono più, — sogghignò sinistramente. — Vede, Vadim, quei ragazzi avrebbero potuto procurarsi più facilmente uno skorcer od una batisfera, piuttosto che uno di quei sacchi. Perché c’erano molto, molto tempo fa. E non mi piace affatto che andassero in giro nudi e che invece dei vestiti avessero dei sacchi.

Vadim sentì che il cuore aveva smesso dibattere. Gli sembrava strano e terribile questo fatto dei sacchi di juta che erano esistiti tanto, tanto tempo fa. Aveva una sensazione non di pericolo, ma proprio di terrore. Come se all’improvviso davanti ai suoi occhi una persona cominciasse a invecchiare repentinamente, invecchiasse, invecchiasse e si mutasse in un vecchio rugoso e avvizzito. Si scrollò e la sensazione scomparve. Saul rivoltò la tuta, se la sollevò davanti con le braccia tese e la osservò.

— E perciò io non sono d’accordo con voi, — continuò. — Penso che siano indigeni. E… non so se mi capite… Al tempo dei sacchi di juta avvenivano delle strane cose. Mi pare che questi giovani siano stati spogliati e abbandonati qui nel deserto. Provi, Anton.

Anton prese la tuta.

— Dunque, secondo lei, su Saul esiste una civiltà? — chiese incerto. — Ed è ancora al tempo dei sacchi di juta?

— Come faccio a saperlo, capitano? Parlo solo di quello che vedo. Vedo dei sacchi di juta, so che sacchi di juta sulla Terra ai nostri tempi non ce ne sono. Dunque non sono dei terrestri. Forse, sono stati rapinati, o forse sono dei pellegrini. Dei fanatici. Andavano a venerare le sante reliquie, vestiti, secondo il voto, con dei sacchi, hanno smarrito la strada, sono capitati in una bufera di neve… Non so.

Tutto questo Vadim lo capiva poco. Tutte queste parole — «fanatici», «reliquie», «voto» — le conosceva, erano in qualche modo legate ai rituali religiosi, ma non avevano per lui nessun significato reale. Pensò di sfuggita, con ammirazione, che Saul evidentemente era un vero specialista. Ma non fu questo a colpirlo.

— Una civiltà, dunque? — disse. — Allora… Siamo venuti a fare una passeggiata e, fra una cosa e l’altra, abbiamo scoperto una civiltà! Non ci credo! — annunciò.

— Fra una cosa e l’altra, — disse Anton pensieroso. — Fra una cosa e l’altra? EN 7031 era nel programma di ricerca…

— Sì, l’hai detto. Ma la spedizione non ha avuto luogo.

— La spedizione non ha avuto luogo, ma, fra l’altro, EN 7031 si trova nell’elenco delle stelle situate sull’ipotetica rotta dei Nomadi dello Spazio.

— Non ho mai sentito parlare di un elenco simile, — disse Vadim.

— Esiste invece. L’elenco di Gorbovskij-Bader. Per cui, le possibilità di scoprire una civiltà c’erano, caro Vadim. E forse Saul ha ragione, sono dei ragazzi indigeni. Ma quale rapporto abbiano con i Nomadi dello Spazio, questo è un altro problema…

Vadim sedeva, con i gomiti appoggiati sul tavolo e tenendosi la testa con le mani. Ma che civiltà! Va bene, pensava, mettiamo pure che siano stati vittime dei banditi. Ma questa è una sciocchezza: dei ragazzi di sedici anni in buona salute si fanno spogliare senza opporre resistenza e, buoni buoni, muoiono congelati. Ma non sono certo dei fanatici! Si immaginò un fanatico. Era un vecchio calvo e macilento, con gli occhi da pazzo, e un’enorme catena arrugginita al collo. No, pensava. Ma che fanatici! Forse sono loro stessi dei Nomadi dello Spazio? Sì. Con dei sacchi di juta. Gli vennero in mente le costruzioni ciclopiche, lasciate dai Nomadi sul pianeta Vladislav, e fu colto da malumore, come gli accadeva sempre, quando si trovava alle prese con un problema per lui insolubile.

— Anton, — disse. — A che punto è il bioplano?

Anton guardò l’orologio.

— È ora, — disse. — Andiamo. Vestitevi e prendete uno zaino per uno.

— Vorrei una precisazione —, intervenne Saul. — Cosa dobbiamo cercare?

A Vadim parve che Anton tentennasse.

— Cercheremo altri infortunati.

Saul si abbottonò la tuta.

— E se, per fortuna, qui non c’è più nessun infortunato? Mi riferisco all’ipotesi dei rapinatori.

— Se ci trovassimo di fronte a questa ipotesi, non staremo certo a far cerimonie, — borbottò Vadim.

— In qualsiasi altro caso, — disse Anton chiaramente, — vi prego di non fare un movimento senza mio ordine.

Andò verso la porta.

— Non prendete un’arma? — chiese Saul.

— Non abbiamo bisogno di armi, — rispose Anton.

— Basta con i cadaveri qui, — disse Vadim.

Uscirono dall’astronave e subito sprofondarono nella neve alta. Il bioplano si vedeva appena, dietro la cortina bianca. Era un bioplano antigravitazionale Grillo, un’affidabile macchina a sei posti, molto popolare fra le truppe da sbarco e gli astronauti in esplorazione. Stava sul bordo di un’enorme fossa disgelata, da cui si innalzava un vapore denso, i suoi fianchi lisci erano ancora tiepidi e nella cabina faceva addirittura caldo.

Buttarono gli zaini nel bagagliaio e sedettero nella macchina sotto una cupola liscia e trasparente.

— Accidenti! — disse Anton all’improvviso. — Dimka, scusami, per favore. Probabilmente ti serve l’analizzatore per la traduzione.

— Per quale traduzione? — chiese Saul. Vadim si strofinò il mento.

— Dell’analizzatore posso anche fare a meno, — disse lentamente, — ma senza i mnemocristalli all’inizio non me la posso cavare. Bisogna che qualcuno faccia un salto all’astronave.

— Quanti te ne occorrono? — disse Anton, e intanto scendeva dal bioplano.

— Una coppia sarà sufficiente. Solo, prendila con le ventose, per non doverla tenere in mano.

Anton corse sulla neve fino all’astronave.

— Di che cosa stavate parlando? — si informò Saul.

— Ci sarà bisogno di entrare in contatto in qualche modo con la gente, sempre che riusciamo a trovarla, — rispose Vadim.

— E — Saul mosse leggermente le dita — ne parla come di una cosa da nulla?

Vadim lo guardò con aria meravigliata.

— E come ne dovrei parlare?

— Beh sì, certo, — disse Saul.

«Che strano tipo, — pensava Vadirn. — Possibile che tutta la vita se ne sia stato seduto nel suo studio ad ascoltare Mendelssohn?»

— Saul, — disse, — dopo i lavori di Sugimoto, entrare in rapporto con altri umanoidi è un problema puramente tecnico. Non si ricorda come Sugimoto riuscì a comunicare con gli abitanti di Tagora? Quella è stata una grande vittoria, se ne parlò e se ne scrisse molto…

— Ma certo! — disse con entusiasmo Saul. — Come si potrebbe dimenticarlo! Ma io pensavo, chissà perché, che… ne fosse capace solo Sugimoto.

— No, — disse Vadim con noncuranza. — Può farlo qualsiasi linguista strutturale.

Anton tornò, porse a Vadim la scatola con i cristalli e si sistemò al suo posto.

— Avanti, — disse e guardò Saul. — Che cosa è successo?

— Che cosa poteva succedere?

— Mi sembrava… Beh, non ha importanza. Avanti.

— Senti, — disse Vadim, guardando una collinetta di neve che si notava appena oltre la navicella. — Non è bello lasciarli così. Non sarà meglio seppellire prima quei ragazzi?

— No, — disse Anton. — A rigore, non ne abbiamo nemmeno il diritto.

Vadim capì. Non sono morti terrestri e non tocca a noi seppellirli secondo le nostre leggi. Afferrò il manubrio e accese il motore. Il bioplano decollò dolcemente e si tuffò nella bianca foschia.

Vadim sedeva, curvo come sempre, e muoveva appena appena il volante, per controllare la tenuta d’aria. La neve gli correva incontro. Vadim vide solo una cometa bianca dalle mille code, il cui nucleo gli navigava lentamente davanti agli occhi. Accese gli schermi radar.

— A che servono questi schermi? — chiese Saul da dietro.

Vadim spiegò:

— Non vedo niente, e inoltre la neve avrebbe potuto coprirli.

— Grazie, — disse Saul. — Ho capito.

Il bioplano uscì dalla tormenta di neve. Si trovava ora su una piana collinosa. Vadim aumentava a poco a poco la velocità, il motore fischiava sordo, e sotto la chiglia passavano vorticose le cime tondeggianti dei colli. Il cielo era tutto bianco, bassa sull’orizzonte, a destra, splendeva una macchia accecante, l’EN 7031, e a nord si distinguevano chiaramente i contorni di una catena montuosa. La macchia accecante si spostava lentamente verso destra e verso le loro spalle: il bioplano stava descrivendo un arco intorno all’astronave del raggio di dieci chilometri. Davanti, a destra e a sinistra c’erano solo colline, colline e ancora colline. Anton disse all’improvviso:

— Guardate, una mandria!

Vadim frenò e tornò indietro. Il bioplano rimase sospeso, immobile. In una gola fra le colline si muoveva svelto un gruppetto di animali. Si trattava di quadrupedi, di non grandi dimensioni, che sembravano cervi senza corna, e si sforzavano saltando di avanzare nella neve, rovesciando all’indietro le lunghe teste dalle narici nere. Le zampe sottili si incagliavano nella neve alta, e gli animali cadevano, rotolavano su se stessi, sollevavano nubi di polvere di neve, poi si rialzavano e riprendevano a correre, incurvandosi a ogni salto. Lasciavano dietro di sé solchi di neve smossa. E dietro a questo solco, con i lunghi colli chini, si affrettavano sulle lunghe zampe nude enormi uccelli simili a struzzi. Solo i becchi di questi uccelli erano diversi da quelli degli struzzi, poderosi, gobbi, con la terribile punta rivolta all’ingiù.

Vadim scese in picchiata e sorvolò la gola. La mandria continuò a correre sotto il bioplano, non lo notò nemmeno, ma gli uccelli — erano tre — si fermarono di scatto, si sedettero sulle zampe ripiegate e, sollevate le teste, spalancarono il terribile becco. Che battuta di caccia, pensò di sfuggita Vadim, che battuta di caccia si sarebbe potuta organizzare! Alzò di nuovo il bioplano e cominciò a manovrare a saliscendi. Si abbassò fin quasi a sfiorare i becchi mostruosi, che schioccarono con un colpo secco. Ora il bioplano compiva balzi di due chilometri, volando verso il cielo basso, e ogni volta la pianura si dispiegava sotto di loro, e si vedeva che per decine di chilometri intorno si stendeva un deserto nevoso.

— Le cose si mettono male, — borbottò Saul.

— Perché?

— Gli uccelli…

Ma guarda un po’ che civiltà, pensava Vadim. Ricerche non ne hanno organizzate. Hanno fatto uscire dei ragazzini nudi, disarmati. Qui, probabilmente, senza armi non si può fare nemmeno un passo. Eppure erano dei ragazzini coraggiosi…

Il bioplano terminò il giro di dieci chilometri, e ne iniziò un secondo con un raggio di venti chilometri. E subito Anton disse:

— Ecco da dove vengono… Piega a destra di trenta gradi!

Al margine della pianura, sotto una catena di monti grigio-azzurri, si scorgevano appena delle macchie scure di forma regolare.

— Sembra un grosso centro abitato, — disse Saul. — Avete un binocolo qui?

Il riflettore di bordo disperdeva la foschia, e Vadim, chino sul binocolo, distingueva il profilo di edifici, di mura menate e di cupole.

— Una città, — disse. — Che cosa facciamo?

— Una città? — fece eco Saul. — Curioso. E quanto dista?

— Circa quindici chilometri.

— Così, dunque, dalla città alla navicella ci sono trenta chilometri… Una persona allenata li potrebbe fare perfino a piedi nudi.

Vadim sussultò.

— Non ci tengo a provarlo, — borbottò.

Il bioplano, scrollato dalle raffiche di vento, stava ora a una ventina di metri da terra. Come è tutto assurdo, pensava Vadim. Dove sono le spedizioni di ricerca? Dove sono i bioplani e gli elicotteri con i volontari? La gente muore assiderata vicino alla città, e qui per un raggio di decine di chilometri non c’è anima viva, eccetto quegli uccellacci. E quegli uccelli qui non ci dovrebbero proprio essere. Avrebbero dovuto sterminarli da cento anni, e non organizzare così vicino una riserva naturale di rapaci. E perché Anton temporeggia? Perché non andiamo in città a mettere gli abitanti sulla strada della verità? In fin dei conti le formalità del primo approccio possono essere trascurate, vista la situazione. Si girò a guardare Anton.

Anton era incerto. Sedeva dritto, con gli occhi socchiusi e le labbra serrate. Aveva questa faccia quando risolveva fra sé e sé qualche problema di navigazione spaziale.

— Ebbene, capitano? — disse Vadim.

La faccia di Anton riacquistò l’espressione solita.

— Secondo le regole, — cominciò, — ora dovremmo tornar subito all’astronave. Ma… Va’ avanti. Rimani alla periferia. Tieniti più in alto.

Il bioplano in tre balzi fece la distanza che lo separava dalla città, e già alla fine del secondo Vadim capì che non si trattava di una città. In ogni caso, capì subito perché nessuno si preoccupava della sorte dei ragazzi scomparsi.

— Qui si è verificata un’esplosione tremenda, — borbottò Saul da dietro.

Il bioplano si fermò sopra il bordo di una buca gigantesca, che somigliava ai cratere di un vulcano attivo. La buca, ampia mezzo chilometro, era piena fino all’orlo di un pesante fumo che si muoveva. Il fumo era grigiastro, si stratificava pigramente e oscillava e doveva essere molto più pesante dell’aria, perché nemmeno una voluta si innalzava sopra la buca. Da lontano sembrava che non fosse fumo, ma qualcosa di liquido. Sui bordi della buca c’erano delle rovine, ricoperte di neve. Dai cumuli di neve sbucavano resti corrosi di pareti policrome, torri inclinate, costruzioni metalliche contorte, cupole sfondate.

Vadim guardava sbalordito. Saul biascicò:

— Beh, queste cose le conosciamo… Un bombardamento… I depositi sono saltati… e da poco tempo; il fumo non si è ancora disperso, là c’è qualcosa che brucia.

Vadim scosse il capo.

— In questa città non c’è vita. Gli abitanti sono scappati via. Strano che ne abbiamo trovato solo cinque.

— Gli altri sono lì, — disse Saul, guardando la buca.

— Questa non è una civiltà, è uno scandalo, — gridò Vadim.

— Ma che razza di imbecilli! Chi è che si mette a fare esperimenti con gli esplosivi in una città? Bisogna proprio essere l’ultimo…

Anton disse piano:

— Arrivano delle macchine…

Da nord giungeva fino alla buca il nastro di una strada, così sottile che si notava appena. Su di essa strisciavano fitti e senza fretta dei puntini neri. Aha, pensò Vadim, dunque non è ancora tutto perduto. Girò il bioplano e sorvolò la buca; videro una magnifica autostrada che finiva proprio dentro il fumo, e sull’autostrada una colonna senza fine di macchine occupava tutto il nastro stradale. In schiera compatta venivano da nord, solo da nord, macchine verdi basse, che parevano normali automobili a propulsione atomica, ma senza parabrezza; piccole macchine bianche e azzurre, che si trascinavano dietro una lunga coda di rimorchi vuoti; macchine arancioni che parevano sintetizzatori da campo; enormi cingolati neri a torre e piccole macchine con lunghe ali dispiegate. Tutte avanzavano in buon ordine sulla strada, mantenendo sempre la stessa distanza, e, una dopo l’altra, si nascondevano nel fumo grigio-azzurro della buca.

— Sono senza pilota, — disse Vadim.

— Sì, — disse Anton.

— Dunque, c’è qualcuno che le manda. Probabilmente per i lavori di ricostruzione. E troveremo della gente all’altro capo della strada… — Vadim si interruppe. — Senta un po’, Saul, — disse, — c’erano macchine del genere al tempo dei sacchi di juta?

Saul non rispose. Guardava in basso come incantato e in faccia gli si leggevano ammirazione ed entusiasmo. Alzò su Vadim gli occhi stralunati. Le sopracciglia cespugliose erano irte.

— Che tecnica! — disse. — Che processione epica! Che proporzioni grandiose! Non se ne vede la fine!

Vadim si stupì e guardò pure lui in basso.

— Ma che cosa c’è di straordinario? — chiese. — Ah! Le proporzioni! Sì, le proporzioni sono assurde. Per ricostruire la città basterebbe una dozzina di robot.

Guardò di nuovo Saul. Saul sbatté in fretta le palpebre.

— A me invece piace, — disse. — È molto bello. Possibile che non veda com’è bello?

— Vadim, — disse Anton, — segui la strada. Visto che abbiamo iniziato, cerchiamo di capirci qualcosa.

Vadim accelerò. In basso il torrente delle macchine si fuse in un nastro multicolore.

— Ecco, ora è bello, — disse Vadim. — Ma lei, Saul, non mi ha risposto. Sono compatibili i sacchi di juta con questa tecnica?

— E perché no? Dalle città distrutte la gente è scappata così com’era. Quanto la preoccupano quei sacchi di juta! I sacchi di juta sono esistiti per alcuni secoli. Sono una cosa comoda e di poco prezzo. Potevano servire per portare i ceppi, ad esempio.

— Quali ceppi?

— I ceppi di legno. Per riscaldare il bagno.

Vadim ricordò la storia del foglio bagnato e rimase zitto, guardando avanti. Non si vedeva la fine né della autostrada né della colonna di macchine. Da entrambi i lati della strada fino all’orizzonte si stendeva una pianura di neve intatta. Vadim accelerò ancora. Che razza di lavoro assurdo, pensava. Si gettano nel fumo come in un abisso. Calcolò le dimensioni approssimative della buca e la quantità di macchine che vi finivano dentro. Non aveva proprio senso. Comunque io non sono ingegnere. Un qualsiasi umanoide di Tagora — là erano tutti ingegneri — avrebbe detto che questa strada non era altro che un grande nastro trasportatore, che portava i pezzi di una macchina di medie dimensioni fino a un reparto sotterraneo di montaggio. E invece un pastore del pianeta Leonida avrebbe pensato che si trattasse di un gregge di animali, inviato dal pascolo al mattatoio.

— Anton, — chiamò. — Te lo immagini un Leonidiano al posto nostro?

Anton rispose:

— Un Leonidiano scemo direbbe che è tutto chiaro. E uno intelligente che i dati sono insufficienti.

Sì, i dati erano insufficienti. Tutte le macchine vanno verso sud e non ne torna indietro neppure una. Se veramente vanno a ricostruire la città, allora fungono loro da materiale di costruzione. E perché no?

— Sapete, — disse all’improvviso Saul, — ho addirittura un po’ di paura. Quanti chilometri abbiamo già fatto? Quaranta? E ci sono ancora macchine che vanno e vanno.

— Avrebbero fatto meglio ad utilizzare questa tecnologia per cercare i dispersi, — osservò Vadim.

— No, lei si sbaglia, — obiettò Saul. — In questi casi non ci si occupa del singolo individuo.

— Come sarebbe a dire, non del singolo individuo? Per chi ricostruiscono la città? A quei ragazzi la città non serve più…

Saul scosse la mano con aria seccata.

— Durante l’esplosione ne sono, probabilmente, morti a decine di migliaia di quei ragazzi. Peccato, certo, però non è il caso di occuparsi oltre di loro.

Vadim sussultò facendo sbandare il bioplano.

— Mi scusi, Saul, ma il suo comodo studio e la storia hanno avuto su di lei un effetto terribile. Lei fa dei ragionamenti inauditi. Adesso magari ci verrà anche a dire che il fine giustifica i mezzi.

— A volte li giustifica, — assentì Saul freddamente.

Vadim si trattenne. È un fossile di un’altra epoca, pensò. Ma prova un po’ a lasciarlo senza calzoni in mezzo alla neve, e vedrai come si offende che tutta la tecnologia del pianeta non corra in suo aiuto! A questo punto Vadim scorse una traversa e frenò bruscamente.

Il sentiero partiva dalla strada principale e andava verso oriente, zigzagando fra le colline.

— È la prima strada in un’altra direzione, — disse Vadim. — Cambiamo rotta?

— Non vale la pena, — disse Saul. — Che cosa potrebbe esserci di interessante?

Anton era indeciso. Ma come tentenna, pensò con ira Vadim. Sembra proprio un’altra persona.

— Allora? — disse. — Io propongo di continuare per la strada principale.

— Anch’io, — disse Saul. A tornare indietro facciamo sempre in tempo. Non è vero, Vadim?

— Va bene, vola dritto, — disse incerto Anton. — Vola dritto. Però… tenete presente… Va bene, vola dritto.

Vadim di nuovo slanciò il bioplano lungo la strada.

— Ma che cosa hai oggi, Anton? — gli chiese. — Sei incerto come un paladino al bivio: se vai a destra perdi il bioplano, se vai a sinistra, la vita…

— Avanti, guarda avanti, — rispose Anton con tono tranquillo.

Vadim si strinse nelle spalle e con ostentazione cominciò a guardare davanti a sé. Cinque minuti dopo vide una macchia grigia.

— Di nuovo una buca piena di fumo, — disse.

Era esattamente uguale a quella di prima. I bordi erano coperti di neve, su di essa ondeggiava pesantemente lo stesso fumo grigiastro, e dal fumo, come un torrente inesauribile, uscivano le macchine.

— Mi aspettavo di vedere qualcosa del genere, — disse Anton.

— Ma qui non c’è nessuno, — disse Vadim interdetto. — Ne sappiamo quanto prima.

Uno strano pensiero lo colpì. Guardò la bussola e impugnò il binocolo. Rovine lungo i bordi della buca non ce ne erano. Non era la stessa.

— Impressionante, — disse Saul. — Escono dal fumo e rientrano nel fumo.

— Torniamo indietro, — disse Vadim impaziente. Fissò Anton. Sul viso di Anton c’era di nuovo quella detestabile espressione indecisa.

— Scusi, — disse Saul, — ma come si fa ad ignorare un fenomeno tanto straordinario!…

— Ma dov’è il fenomeno! — esclamò Vadim. — Che cosa c’è da ammirare tanto? Un ingegnere privo di talento trasferisce le sue macchine attraverso il subspazio… Ha trovato il posto giusto per il trasporto-zero! Ha distrutto una città, questo scemo incapace… Ma si può sapere cosa stai a rimuginare, Anton?

— Mi pare che alzi un po’ troppo la voce, — disse Anton, guardando altrove.

— Beh, e allora? Cos’è, ti interessano i processi produttivi locali?

— Ma no… — rispose fiaccamente Anton. — Cosa vuoi che mi interessino?

Vadim girò insieme al suo sedile, si strofinò le mani sulle ginocchia e si mise a guardare alternativamente Anton e Saul. Anton aveva una faccia come se stesse per addormentarsi. Teneva addirittura le mani sullo stomaco e le dita incrociate. E Saul fissava Vadim con un’espressione di commossa ammirazione e di sorpresa. Teneva la bocca mezza aperta.

— Di che si tratta? — disse Vadim. — Che cosa avete subodorato tutti e due?

Saul trasalì.

— Ma certo! — esclamò. — Come ho fatto a non pensarlo subito! È tutto chiaro: abbiamo due buche ad una distanza di ottanta chilometri. Da una buca escono le macchine, percorrono ottanta chilometri su un’ottima autostrada e senza alcun effetto visibile entrano nella seconda buca. Dalla seconda buca attraverso un passaggio sotterraneo tornano alla prima…

Vadim sospirò con aria afflitta.

— No, non tornano nella prima, — disse. — Si tratta di un trasferimento adimensionale, capisce? — Ad ogni parola Saul faceva cenni affermativi col capo. — Un elementare trasporto adimensionale. Qualcuno utilizza questo posto per far percorrere alle macchine le distanze maggiori per la via più breve. Forse migliaia di chilometri, forse migliaia di parsec. Possibile che non sia chiaro?

— Ma no, perché, è tutto chiarissimo! — esclamò Saul. Aveva un’aria un po’ intontita. — Cosa c’è di incomprensibile? Un tipico trasferimento adimensionale…

— Sì, — assentì Vadim. — Ed a noi non interessa affatto. È la gente che dobbiamo cercare!

— Va bene, — disse Anton. — Cercheremo la gente. Torna indietro e segui la traversa.

Vadim girò il bioplano e ritornò indietro lungo la strada.

— Anton, ti senti male? — chiese dopo una pausa.

— Sì, mi sento male, — disse Anton. — Non dimenticare di confermarlo, se te lo chiedono…

— Chi lo deve chiedere?

— Lo chiederanno, — disse Anton. — Ci sarà… gente che si interesserà…

Vadim non insisté, era chiaro che tutto questo non aveva senso. Guardò le macchine in basso e poi il contachilometri.

— Sono degli automi primitivi, — borbottò. — Procedono sempre alla stessa velocità, sempre alla stessa distanza… Valeva la pena di spedirli attraverso il subspazio…

Apparve la strada trasversale.

— Come volo? — chiese Vadim. — Seguo il sentiero o taglio le curve?

— Segui il sentiero, — rispose Anton. — E scendi a bassa quota.

Vadim scese con piacere fin quasi a terra e seguì esattamente la strada. Gli piaceva molto andare veloce con brusche svolte. Di fianco, saltellando sulle asperità, correva sulla neve l’ombra affusolata del bioplano.

— Ecco di nuovo gli uccelli, — disse Saul furioso.

Davanti a loro, proprio sul sentiero, si trovavano alcuni mostri dalle zampe lunghe, simili a quelli visti prima. Scavavano delle fosse e raspavano nella neve smossa. Quando il bioplano si avvicinò, subito si accovacciarono sulle zampe, piegarono indietro i lunghi colli e spalancarono i becchi neri. Dai becchi pendevano dei brandelli.

— Che bestiacce schifose! — disse Saul con ribrezzo. Si girò sul sedile per guardare indietro. — Che cosa staranno disseppellendo?

Vadim capì all’improvviso cosa stessero disseppellendo, ma la cosa gli fece tanto orrore che preferì non credervi.

— Lei, Saul, non ha visto i Tachorg, — disse con allegria forzata. — In confronto ai Tachorg questi non sono che pulcini appena nati. Bisognerebbe ammazzarne uno, vero Anton?

— Sì, si può fare, — disse Anton.

Saul sedeva dritto.

— Non mi piace che stiano là a scavare, — disse cupo.

Nessuno rispose. Volarono in silenzio ancora per una decina di minuti. La neve sul sentiero era di uno schifoso color letame. Vi si vedevano delle tracce che non erano né di cingoli né di ruote, e a destra e a sinistra, sulla superficie innevata a tratti, si stendevano lunghe file di orme umane. Le colline tondeggianti che lo fiancheggiavano erano deserte. Qua e là dai cumuli di neve spuntavano esili arbusti e nere radici contorte, che sembravano mani adunche.

— Eccone un altro, — disse Saul.

Sulla sommità di una collina stava un uccello. Notato il bioplano, si slanciò impetuosamente in avanti, per tagliare loro la strada. Correva, agitando vertiginosamente le zampe, teneva aperte le piccole ali, tendeva il collo magro e con il becco quasi sfiorava la neve. Il piccolo occhio ardente fissava il bioplano.

— Non farà in tempo! — esclamò dispiaciuto Vadim.

Ma l’uccello fece in tempo. — Forza! — gridò Vadim soddisfatto. Il bioplano si scosse. Nell’aria volteggiò una zampa dagli artigli protesi. Anton e Saul si voltarono all’istante.

— Sta ancora ruzzolando! — comunicò Saul. — Un animale schifoso come pochi… Ma guarda… — esclamò meravigliato.

Vadim accese subito lo schermo retrovisore posteriore. L’uccello caduto si era già rimesso in piedi e, zoppicando, correva dietro al bioplano. Aveva l’aria furiosa. Presto rimase indietro e sparì dietro la curva.

— Se incontreremo della gente, — disse Vadim, — proporrò di sterminare queste bestiacce in tutta la vallata. Visto che da soli non ce la fanno… Che ne pensi, Toška?

— Si vedrà, — disse Anton.



IV


Le colline divennero via via più basse e all’improvviso si aprì davanti a loro un alto terrapieno coperto di neve. Anton notò subito le minuscole figure nere che si muovevano sul crinale. Beh, ci siamo, pensò, e disse:

— Fermati.

— Perché? — obiettò Vadim. — Non lo vedi che là c’è gente!

— Fermati, ti dico!

— Ecco, — brontolò scontento Vadim, ma obbedì.

Ora si gira e mi guarda con disapprovazione, pensò Anton. Che mi tocca fare…

Era in una situazione difficile. La possibilità di imbattersi in una civiltà sconosciuta era estremamente bassa, ma reale, e ogni astronauta conosceva le istruzioni della Commissione per le Relazioni Extraterrestri, che proibivano i contatti non ufficiali con civiltà sconosciute. Ora sarebbe stato sciocco tirarsi indietro, pensò. Avremmo dovuto abbandonare il pianeta Saul non appena abbiamo visto i cadaveri. Avremmo dovuto… Solo che nessuno lo avrebbe fatto. E però le istruzioni ci sono. E contemplavano fra l’altro proprio un caso come questo, quando hai nell’equipaggio uno che brucia dalla voglia di darsi da fare e uno che non si capisce cosa voglia. E tu stesso sei lacerato dalle contraddizioni. Era ormai quasi certo che nelle vicinanze c’erano migliaia di persone alle prese con una catastrofe. Eccole lì quelle persone che vagavano senza un senso per il crinale… E Dimka mi guarda con disapprovazione… E Saul guarda con curiosità eccessiva. Uno Storico con lo skorcer. Fra l’altro non mi devo dimenticare dello skorcer… E le istruzioni sono molto chiare e semplici: «Sono vietati i contatti informali con gli indigeni…». Era molto semplice: se, uscito dall’astronave, notava in giro segni di civiltà doveva «abbandonare immediatamente il pianeta, dopo aver cancellato con cura ogni traccia della sua presenza». Ed io invece ho lasciato un’enorme buca, quella dell’incubazione del bioplano, e, vicino alla buca, cinque cadaveri…

— Beh, cosa succede? — chiese Vadim. — Ti è presa la malinconia?

Ovviamente né i linguisti strutturali né gli storici sanno niente delle istruzioni. Se ne avesse parlato, probabilmente si sarebbero offesi: «Non siamo dei bambini! Sappiamo da soli quello che è giusto e quello che è sbagliato!».

A questo punto Anton si accorse che il bioplano scivolava lentamente in direzione del terrapieno. Prese una decisione.

— Sali sul crinale, — disse. — Mettiti il più lontano possibile dalla gente. Ancora una cosa: vi prego vivamente di non organizzare un gemellaggio fra civiltà.

— Non siamo dei bambini, — disse con dignità Vadim, aumentando la velocità.

Il bioplano con un balzo volò in cima al terrapieno. Vadim sollevò la cappotta, si sporse e fischiò sorpreso. In basso, oltre il terrapieno, si apriva una conca gigantesca, piena zeppa di uomini e di macchine. Ma Anton non guardava in basso.

Guardava con orrore e pietà un uomo curvo, livido di freddo, con addosso un sacco lacero di juta, che andava verso il bioplano, trascinando lentamente le gambe. Aveva la faccia variegata di cicatrici, le braccia e le gambe nude erano coperte di croste, i capelli sporchi erano appiccicati in ciocche disordinate. L’uomo gettò al bioplano uno sguardo indifferente e, superatolo, proseguì lungo il crinale. Quando inciampava, emetteva dei deboli gemiti. Non è un uomo, pensò Anton, somiglia soltanto ad un uomo…

— Signore Iddio! — esclamò rauco Saul. — Che cosa sta succedendo!

Allora Anton guardò in basso. Sul fondo della conca, sulla neve sporca e calpestata, in mezzo a decine di macchine di ogni genere brulicavano, sedevano, giacevano, vagavano o correvano degli uomini scalzi vestiti di sacchi grigi. Intorno a loro, al margine della neve intatta ce ne erano altri schierati in file irregolari. Erano moltissimi, centinaia, forse migliaia. Stavano ritti, con aria tetra, guardando in basso. Qua e là, nelle file, qualcuno era caduto, ma nessuno ci faceva caso.

Nella conca c’erano varie decine di macchine. Alcune erano parzialmente interrate, altre coperte di neve, ma Anton si accorse subito che erano uguali a quelle che avevano visto sulla strada. Qualche macchina si scuoteva freneticamente, senza comando né scopo apparente, schizzando intorno fango e neve.

Anton all’improvviso si rese conto che nella conca c’era un silenzio innaturale. Vi si trovavano migliaia di uomini, ma si sentivano solo i brontolii sordi delle macchine e qualche raro urlo lamentoso.

E la tosse. Di tanto in tanto qualcuno cominciava a tossire raucamente, soffocando e ansimando, come se gli cominciasse il raschio in gola. Immediatamente gli facevano eco decine di gole, e dopo qualche secondo la conca risuonava di secchi colpi di tosse. Per un po’ ogni movimento cessava, poi risuonavano dei gridi lamentosi, scatti bruschi come spari, e la tosse cessava…

Anton aveva ventisei anni, faceva l’astronauta da molto tempo e ne aveva viste di tutti i colori. Gli era capitato di vedere come si diventa invalidi, come si perdono gli amici, come si perde la fede in se stessi, come si muore; lui stesso aveva perso degli amici e lui stesso si era trovato ad agonizzare a tu per tu col silenzio indifferente, ma qui era una cosa completamente diversa. Qui c’era cupo dolore, tristezza e desolazione assoluta, qui si sentiva la disperazione indifferente di chi non spera più in nulla, di chi sa che, se cade, nessuno lo solleverà, di chi non ha assolutamente niente da aspettarsi se non la morte in mezzo a una folla noncurante. Non può essere, pensò. Si tratta veramente di una grande calamità. Non ho mai visto niente del genere.

— Non potremo mai aiutarli, — borbottò Vadim. — Migliaia di persone e noi non abbiamo nulla…

Anton si riprese. Venti astronavi da carico, pensò. Abiti. Cinquemila cambi di vestiario. Cibo, una decina di sintetizzatori. Un ospedale prefabbricato con sessanta padiglioni. Oppure è poco? Forse, non erano tutti qui? E forse non era successo solo qui?…

Bel lavoro avrei fatto se avessi ordinato di tornare dalla strada all’astronave, pensò con soddisfazione.

Stavano in silenzio senza uscire dal bioplano. Non si capiva che cosa stesse facendo la gente nel fondo della conca. Si davano da fare intorno alle macchine. Probabilmente, le macchine erano la loro speranza. Forse le volevano aggiustare o utilizzare per farsi portar via da quel deserto di neve.

Vadim sedette e accese il motore.

— Aspetta, — disse Anton. — Dove vai?

— Sulla Terra, — rispose Vadim. — Non ce la possiamo fare da soli.

— Spegni il motore. Calmati.

— Che cosa c’entrano i nervi? Con i nostri due panini, non li sfami di certo.

Anton prese lo zaino con le medicine e lo gettò fuori. Poi prese lo zaino con le cibarie.

— Prenda, — disse a Saul. — Vadim, prepara il tuo apparecchio traduttore. Devi tradurre.

— Perché? — disse Vadim. — Perché complichi tanto le cose? Perdiamo solo tempo e intanto, qui, ogni minuto ne muore uno.

Anton gettò fuori lo zaino con i viveri.

— Cerchiamo di sapere quanti sono. Di che cosa hanno bisogno. Tutto, insomma. Che cosa racconti se torni ora sulla Terra?

Vadim, senza dire una parola, balzò a terra e si mise in spalla lo zaino con le medicine. Anton rivolse a Saul uno sguardo d’attesa. Saul si sfilò la pipa di bocca.

— È tutto giusto, — disse, — ma non prenda i viveri.

— Perché? I più deboli li possiamo sfamare subito.

— Non faccia sciocchezze. Appena vedranno i viveri ed i vestiti, ci calpesteranno insieme agli zaini.

— Non sono per tutti, — insisté Anton, — spiegheremo che sono per i più deboli.

Saul lo guardò per qualche istante con una strana espressione di compatimento. Poi chiese:

— Lei sa cosa sia la folla?

— Prenda lo zaino, — disse piano Anton. — Che cosa sia la folla me lo spiegherà dopo.

Saul con un sospiro si mise lo zaino sulla spalla e fece per prendere lo skorcer rimasto sul sedile.

— No, questo lo lasci lì, — disse Anton.

— No, questo lo prendo, — ribatté Saul. E si mise a tracolla il cinturone con la fondina.

— La prego, Saul. Lei ha paura e potrebbe sparare.

— Certo che ho paura. Ho paura per voi.

— L’avevo capito, — disse Anton, paziente.

Saul fece per scendere.

— Saul Repnin, — disse Anton con voce metallica. — Mi dia l’arma!

Saul si sedette.

— Lei non sa sparare, — disse.

— So sparare, — disse Anton, guardandolo negli occhi.

Ogni volta è così, pensava con rabbia. Ogni volta, nel momento più importante qualcuno si fa prendere dai nervi. E bisogna cercare di farlo ragionare invece che mettersi al lavoro.

Saul consegnò lo skorcer. Anton se lo infilò alla cintura e balzò a terra accanto a Vadim che, zaino in spalla, testa china, si sistemava sulla tempia un cristallo mnemonico, e seguiva con curiosità le gesta del suo capitano.

— Allora prendo il terzo zaino, — disse Saul, come se non fosse successo niente.

— Sì, per favore, — disse Anton gentilmente.

Cominciarono a scendere nella conca.

— Se succede qualcosa, — disse Saul, — spari in aria. Scapperanno subito tutti.

Anton non rispose. Pensava al da farsi.

— Vadim, — chiamò. — Sarai capace di farti capire da loro?

— In qualche modo ci riuscirò. Piuttosto, ora dipende da te. Se tu fossi un medico vero, non mi preoccuperei affatto.

Sì, pensò Anton, se fossi un medico vero… Ovviamente sono degli umanoidi. E la loro anatomia, probabilmente, non è molto diversa dalla nostra. Ma per quel che riguarda la fisiologia…

Ricordò le terribili conseguenze provocate dal semplice iodio sugli umanoidi di Tagora.

— Sarebbe importante capire come funzionano le macchine, — disse Vadim preoccupato. — Li potremmo tirar fuori di qui. Forse, è proprio quello di cui hanno bisogno. Ma perché non li aiuta nessuno? Che razza di pianeta!… Non mi meraviglierei se scoprissimo che tutte le loro città sono state distrutte.

Erano già a metà della conca, quando Saul disse:

— Aspettate un momento.

Tutti si fermarono.

— Che cosa succede? — chiese Anton. — È stanco?

— No, — disse Saul. — Non sono mai stanco. — Guardava fisso in basso. — Vedete quella strana macchina da una parte? Quella lì, la più vicina. Sopra, c’è un uomo in grigio…

— La vedo, — rispose incerto Anton.

— Faccia uno sforzo… Lei ha occhi più giovani dei miei…

Anton aguzzò lo sguardo.

— C’è un uomo seduto, — disse e subito si interruppe. — Strano… — borbottò.

— C’è un uomo in pelliccia, seduto, — annunciò Vadim. — Ecco quello che vedo. Impellicciato fino agli occhi.

— Non ci capisco niente, — disse Anton. — Forse è malato?

— Forse, — disse Saul. — Ed ecco ancora due malati. È un po’ che li guardo. Solo sono molto lontani…

Sul lato opposto della conca, sullo sfondo bianco del cielo si delineavano due nere figurine villose. Stavano assolutamente immobili, a gambe larghe, e tenevano in mano delle lunghe aste sottili.

— Cosa hanno in mano? — chiese Vadim. — Delle antenne?

— Antenne? — ripeté Saul, aguzzando gli occhi. — Mi pare di aver capito che antenne sono…

Un grido acuto risuonò nella conca. Anton sussultò. Un motore emise un rombo assordante, cui fece coro una serie di grida lamentose, ed essi videro una enorme macchina, simile a un carro armato anfibio, che si mise a girare su se stessa e, all’improvviso, aumentando sempre di più la velocità, si slanciò proprio su una fila di uomini. Piccole figure umane balzavano fuori dalla torretta della macchina e cadevano torcendosi nella neve smossa. La fila non si mosse. Anton si coprì la bocca con le mani, per non urlare. Fra i rombi e il rumore di ferraglia echeggiò un alto grido lamentoso e, allora, la folla si serrò e marciò compatta verso il carro armato. Anton non resisté, chiuse gli occhi. Gli pareva che, oltre al rombo del motore, si sentisse un intollerabile scricchiolio umido.

— Dio mio… — borbottava piano Saul al suo fianco. — Oh, Dio mio…

Anton si impose di aprire gli occhi. Al posto del carro armato adesso c’era un’enorme piramide umana che avanzava lentamente, piegandosi sempre più su un fianco. Dietro di essa si stendeva sulla neve una vivida scia rossa. Intorno a questo groviglio di corpi c’era il vuoto. Solo quattro uomini impellicciati avanzavano lentamente in questo vuoto, senza staccarsi di un passo dal carro armato.

Anton volse macchinalmente lo sguardo verso gli uomini che reggevano le aste. Stavano fermi nella posizione di prima, del tutto immobili. Solo uno di loro, a un tratto, con un movimento lento passò l’asta da una mano all’altra e di nuovo ritornò immobile. Pareva che nemmeno facessero caso a ciò che succedeva in fondo alla conca.

Il rombo del motore si interruppe. Il carro armato era caduto di fianco e la gente stava strisciando via senza fretta. Allora Vadim, senza dire una parola, gettò il suo zaino giù per il pendio e con balzi da gigante lo seguì. Anton pure corse verso il basso. Mentre correva sentì Saul, che gli stava alle calcagna, che imprecava, sbuffando: «Ah, canaglie! delinquenti!…

Quando Anton arrivò al carro armato, gli uomini vestiti di sacchi avevano già formato una fila e gli uomini in pelliccia andavano avanti e indietro e gridavano con una voce sorda e lamentosa. Vadim, tirandosi dietro lo zaino sporco di fango e di sangue, strisciava fra i corpi sparsi sotto il carro armato, ed era disperato:

— Qui ci sono solo morti… Qui sono già morti tutti…

Anton si guardò intorno. Affannati, bagnati di sudore e di neve sciolta, appena appena coperti dai sacchi grigi a brandelli, gli uomini lo guardavano con occhi torbidi e immobili. E gli uomini in pelliccia, raccoltisi in gruppo da una parte, lo fissavano pure loro. Per un istante gli parve di avere davanti un antico quadro verista: centinaia di figure immobili lo fissavano con occhi vitrei.

Si riprese. I feriti che Vadim cercava erano di nuovo in fila. C’erano un vecchio alto e ossuto, col volto umido di sangue; un ragazzo che si stringeva al petto una mano piegata in modo innaturale; un uomo completamente nudo, dalla faccia grigia, che si stringeva il ventre con le dita dalle unghie dorate; un altro, con gli occhi chiusi, si stringeva una gamba, dalla quale usciva un nero zampillo di sangue… Tutti i vivi stavano in fila.

— Calma, — disse Anton a voce alta. Si chinò, aprì lo zaino dei medicinali ed estrasse un barattolo di colloide. Svitando il coperchio del barattolo si avvicinò all’uomo con la gamba ferita. Vadim lo seguiva con un rocchetto di cerotto a tampone.

— … È una brutta ferita… I muscoli sono a brandelli, il sangue ha quasi smesso di uscire. Perché non si siede?… Perché nessuno l’aiuta a reggersi? Ecco il colloide… Adesso bisogna mettere il cerotto… Mettio dritto, Vadim, non far uscire fuori il colloide… Ma perché stanno tutti in silenzio? Ecco, questo sta ancora peggio. Ha il ventre a pezzi… Praticamente è morto. Come fa a stare in piedi?… Questo si è slogato una mano; roba da poco… Tienigli fermo il braccio, Vadim! Più forte! Come mai non grida? Perché non grida nessuno? Là è caduto qualcuno… Ma aiutatelo ad alzarsi, voi che siete sani!…

Qualcuno lo toccò a una spalla e lui si voltò di scatto e si trovò davanti uno degli impellicciati. Aveva la faccia rubizza un po’ sporca, gli occhi socchiusi, il naso che gocciolava. Teneva le mani guantate di pelliccia incrociate sul petto.

— Salve, salve… — disse Anton. — Poi… Vadim, veditela tu.

L’uomo in pelliccia scosse la testa e cominciò a parlare in fretta, e subito Vadim gli rispose con un’intonazione molto simile. Quello tacque, guardò sorpreso Vadim, poi di nuovo Anton e si ritirò. Anton, con un gesto rabbioso, si aggiustò il pesante skorcer nella cintura, e si voltò verso un ferito che stava in piedi e si copriva il volto con le mani. E tutti quelli che stavano alla destra di Anton si coprivano il volto con le mani, eccetto quello, ormai morto, dalla faccia grigia, che continuava a tenersi il ventre.

— Non è niente, non è niente, — diceva Anton con tono gentile. — Abbassate le mani, non abbiate paura. Andrà tutto bene…

Ma in quello stesso istante si udì un’alta voce lamentosa, e tutti gli uomini vestiti di sacchi si voltarono subito verso destra. Quelli in pelliccia corsero a disporsi lungo vari punti della fila. Di nuovo si sentì la voce lamentosa e la colonna si mosse.

— Fermi! — gridava Anton. — Non fate sciocchezze!

Nessuno si voltò. La colonna si mosse, e tutti, mano a mano che arrivavano all’altezza di Anton, si coprivano la faccia con le mani. Solo l’uomo con il ventre a brandelli rimaneva fermo, finché qualcuno non lo sfiorò, e lui scivolò dolcemente sulla neve. La colonna si allontanò.

Anton interdetto si passò una mano umida sugli occhi e si guardò intorno. Vide l’enorme carro armato rovesciato, Saul fermo lì accanto, Vadim che guardava infuriato la colonna che si allontanava, e più di una decina di corpi sulla neve calpestata. E si fece del tutto silenzio, si sentivano solo dei rari lamenti in lontananza.

— Perché? — chiese Vadim. — Che cosa li ha spaventati?

— Noi, — disse Anton. — O meglio, le nostre medicine…

— Allora li inseguo e cerco di spiegare…

— Te lo proibisco nel modo più assoluto. Bisogna agire con molta delicatezza. Lei che cosa ne pensa, Saul?

Saul si mise sottovento e si accese la pipa.

— Cosa ne penso… — disse. — Che questo posto non mi piace per niente…

— Sì, — approvò Vadim. — C’è qualcosa di orribile, una tremenda sventura…

— Perché proprio una sventura? — disse Saul. — Chi sono, secondo voi, quei mascalzoni in pelliccia?

— Perché devono essere dei mascalzoni?

— Mi dica lei cos’altro potrebbero essere.

Vadim tacque.

— Ragazzoni sani e ben nutriti, in pelliccia, — disse Saul con una strana espressione, — ordinano alla gente di buttarsi sotto il carro armato. Non lavorano, guardano soltanto. Due di loro stanno in bella mostra sul terrapieno con una picca in mano. Secondo voi che cos’altro potrebbero essere?

Vadim tacque.

— Pensateci su, — disse Saul. — Ne vale la pena…

Anton disse, guardando in cielo:

— Si sta facendo buio. Andiamo a vedere la macchina, dato che siamo qui. Tanto prima o poi dovremo farlo…

— Andiamo, — disse Saul.

Anton chiuse con cura lo zaino dei medicinali, e si avviarono verso il carro armato. Vadim non si mosse. Guardava cupo il pendio, su cui strisciava lentamente una fila di puntini neri, la coda della colonna che stava finendo di oltrepassare il terrapieno.

Il portello ovale del carro armato era aperto. L’interno della macchina era diviso da una paretina membranosa. Anton accese una torcia e tutti e tre si misero a osservare le pareti ondulate della cabina, i giunti opachi del motore, certi specchi curvi piazzati su aste segmentate, che parevano canne di bambù, ed il pavimento curvo, tutto bucherellato, simile a una gigantesca schiumaiola.

— Ma che macchina curiosa, disse Saul, — dove saranno i comandi?

— Probabilmente ha un pilota cibernetico, — disse Anton distratto. — Ma no, è improbabile… c’è troppo spazio vuoto…

Si infilò nel vano motore. Si trattava di un meccanismo bionico piuttosto primitivo, con un alimentatore ad alta frequenza.

— Una macchina potente, — osservò Saul in tono pieno di rispetto. — Soltanto, come si fa a guidarla?

Ritornarono nella cabina.

— Ci sono dei buchetti, — borbottò Saul. — Dove sarà il volante?

Anton provò a infilare l’indice in uno dei buchi. Il dito non riusciva ad entrare. Anton provò allora con il mignolo. Sentì una breve puntura dolorosa, e in quello stesso istante nel motore qualcosa si mosse ruggendo.

— Ora è tutto chiaro, — disse Anton, osservandosi il mignolo.

— Che cosa è chiaro?

— Non possiamo guidare questa macchina… E anche loro non possono.

— E chi è che può farlo?

— Non posso esserne sicuro, ma credo che appartenga ai Nomadi dello Spazio. Non vede?… Questa macchina non è fatta per umanoidi.

— Davvero? — borbottò Saul.

Rimasero per un po’ fermi in silenzio davanti alla cabina, cercando di immaginarsi un essere che là dentro si sentisse a suo agio, così come loro si sentivano in poltrona, davanti ai quadranti e alle leve dei comandi.

— Chissà perché mi ero proprio figurato qualcosa del genere, — annunciò Saul. — Sarebbe stato veramente paradossale: sacchi di juta e trasferimento adimensionale…

— Vadim, — chiamò Anton.

— Che c’è? — rispose cupo Vadim, che stava ritto sul carro armato.

— Hai sentito?

— Ho sentito. Tanto peggio per loro… — Vadim fece un balzo, atterrando pesantemente nella neve. — È ora di tornare indietro, — disse. — Si sta facendo buio…

Si buttarono gli zaini in spalla e cominciarono a risalire il pendio.

Che pasticcio, pensava Anton. Macchine inutilizzabii dagli umanoidi. Umanoidi che non hanno più nulla di umano, che si sforzano di capire come si manovrino queste macchine. Perché èchiaro che cercano di manovrarle. Probabilmente, è la loro unica speranza… Ed è anche chiaro che non ne caveranno niente… E poi quei tipi strani in pelliccia…

— Saul, — disse. — Cosa sono le picche?

— Sono lance, — grugnì Saul.

— Lance…

— Lunghi bastoni con una punta di ferro, — rispose Saul con rabbia. — Hanno in cima una punta aguzza di ferro, spesso con una tacca. Servono a infilzare il prossimo. — Saul tacque, sospirando profondamente. — Se volete, posso anche spiegarvi che cosa sono le spade.

— Grazie, lo sappiamo già, — disse, senza voltarsi, Vadim che marciava in testa.

— Ognuno di quei banditi in pelliccia portava una spada in una custodia sulla schiena, — disse Saul. — Ascoltate ragazzi, fermiamoci un momento…

Si sedettero sugli zaini.

— Lei fuma troppo, — disse Anton. — Le farà male.

— Non c’è dubbio, — rispose Saul. — Mi rovinerò la salute.

Si fece buio del tutto. Il fondo della conca si riempì delle ombre del crepuscolo. In cielo sparirono le nuvole, apparvero le stelle. Sulla sinistra sfumava lo splendore verdastro del tramonto. Ad Anton si gelarono le orecchie e, con un brivido, pensò a quegli infelici che vagavano scalzi sulla neve scricchiolante. Ma dove erano diretti? Forse, da qualche parte nei dintorni, c’era un rifugio?… Eppure, soltanto ventiquattro ore prima lui e Dimka se ne stavano sulla veranda del cottage, faceva caldo, dal giardino veniva un profumo meraviglioso, le cicale frinivano, e lo zio Saša era venuto ad invitarli a provare una bibita preparata da lui… Perché Saul ce l’aveva tanto con gli uomini in pelliccia?

Saul si alzò con un sospiro e disse:

— Andiamo.

Salirono a bordo del bioplano, chiusero la cappotta, e Vadim subito girò l’interruttore dell’impianto di riscaldamento. Anton si sbottonò la giubba, tirò fuori lo skorcer caldo e lo buttò sul sedile accanto a Saul. Saul cercava rabbiosamente di scaldarsi le dita col fjato. Sulle sue sopracciglia folte si stava sciogliendo la brina.

— Ebbene, Vadim, — disse, — è arrivato a una conclusione?

Vadim sedette al sedile di guida.

— C’è tempo, — rispose. — Ora bisogna agire. C’è gente che ha bisogno di aiuto e…

— Perché ha deciso che ci sia gente che abbia bisogno di aiuto?

— Sta scherzando? — chiese Vadim.

— Non ho nessuna voglia di scherzare, — disse Saul. — Vorrei sapere perché lei non vuole cercare di capire quello che sta succedendo qui. Perché lei ripete sempre la stessa cosa: «Hanno bisogno di aiuto, hanno bisogno di aiuto»?

— Perché, secondo lei non ne hanno bisogno?

Saul balzò in piedi, ma batté la testa contro la cappotta e si rimise a sedere. Tacque per qualche secondo.

— Richiamo di nuovo la sua attenzione — disse alla fine — sul fatto importantissimo che laggiù, nella conca, non tutti avevano ugualmente bisogno di cibo e vestiti. Perché lì, nella conca, abbiamo visto anche uomini sani, ben nutriti e armati. A quanto pare, quelli si preoccupano della situazione molto meno di lei. Lei vuole aiutare i sofferenti. Benissimo. Ama, per così dire, anche chi ti è lontano. Ma non le sembra di entrare così in conflitto con gli ordinamenti locali? — Tacque, guardando fisso Anton.

— Non mi pare, — disse Vadim. — Non voglio considerare gli altri peggiori di me. È vero, là nella conca ci sono delle disuguaglianze. E quelle pellicce facevano rabbia. Ma sono sicuro che tutto questo ha una spiegazione umana. E, in ogni caso, il nostro aiuto non farà male a nessuno. — Riprese fiato. — E per quanto riguarda le picche e le spade, possono servire a scopo di protezione. O lei ha già dimenticato quei simpatici uccellini che abbiamo visto nella pianura?

Anton assentì pensieroso. Pensava a come era andata sull’astronave Flora. Per due settimane avevano rinunciato a metà della razione di ossigeno e non avevano mangiato né bevuto niente. Gli ingegneri stavano riparando gli impianti di sintesi, e loro gli avevano dato tutto quello che avevano. Ma il loro aspetto, alla fine della seconda settimana, era, probabilmente, non molto migliore di quello di questa gente…

Saul chinò il capo e con tristezza incrociò le dita fino a farle scrocchiare.

— Si finisce sempre per giudicare gli altri in base a noi stessi, — borbottò. — Come migliaia di anni fa.

Anton e Vadim aspettavano in silenzio.

— Siete dei bravi ragazzi, — disse piano Saul. — Ma ora non so, quando vi guardo, se esserne contento o mettermi a piangere. Non vi accorgete di quello che per me è del tutto evidente. Non ve ne posso fare una colpa. Ma permettetemi di raccontarvi una breve parabola. Tanto, tanto tempo fa degli extraterrestri — forse proprio i vostri Nomadi dello Spazio — dimenticarono sulla Terra un dispositivo automatico. Si componeva di due parti: un robot ed un apparecchio di telecomando. Il robot poteva essere anche diretto col pensiero. Queste cose rimasero sepolte in Arabia per qualche millennio. Ma poi l’apparecchio di telecomando fu trovato da un ragazzino arabo che si chiamava Aladino.[22] La storia di Aladino penso che la conosciate. Il ragazzino prese il dispositivo per una lampada. Mentre lo puliva, arrivò rombando, non si sa bene da dove, un grande robot nero, che magari sputava pure fuoco. Captò i pensieri semplici, in cui si esprimevano i semplici desideri di Aladino, e distrusse città e costruì palazzi. Potete immaginare cosa ne dedusse un ragazzino arabo, misero, sudicio ed ignorante. Il suo mondo era un mondo di maghi e stregoni, e il robot per lui era ovviamente un ginn, lo schiavo dell’apparecchio che sembrava una lampada. Se qualcuno avesse cercato di spiegargli che questo ginn era un oggetto, il ragazzino si sarebbe battuto fino all’ultimo respiro per difendere il suo mondo, per rimanere nell’ambito delle sue concezioni. E voi state facendo lo stesso. Difendete il vostro modo di vedere, sostenete la dignità dell’intelletto umano. E non volete capire che qui non si tratta di catastrofi naturali e tecniche, ma di un ben preciso stato di cose. Di un sistema, cari ragazzi. E non c’è da stupirsene. Solo due secoli e mezzo fa metà dell’umanità era convinta che la natura umana fosse fondamentalmente belluina, e motivi per pensarlo ce n’erano a sufficienza. — Fece stridere i denti. — Non voglio che vi immischiate in questa faccenda. Vi ammazzeranno. Dovete tornare sulla Terra e dimenticare tutto. — Guardò Anton. — Io invece rimarrò qui.

— Perché? — chiese Anton.

— Per me è necessario, — disse Saul lentamente. — Ho fatto una stupidaggine, e ora devo scontarla.

Anton pensò febbrilmente che cosa si potesse rispondere ad un tipo strano come quello.

— Lei, naturalmente, può rimanere, — disse alla fine. — Ma il problema non è questo. Non è solo questo. Anche noi rimaniamo. E per ora cerchiamo di rimanere insieme.

— Vi ammazzeranno, — ripeté Saul sconsolato. — Voi non sapete nemmeno sparare ad un uomo.

Vadim si diede un colpo sul ginocchio e disse con slancio:

— Noi la capiamo, Saul! Ma in lei è lo storico che parla, e anche lei non riesce ad uscire dall’ambito delle sue convinzioni. Nessuno ci ammazzerà. Non complichiamo le cose. Non abbiamo bisogno di ingegnose complicazioni. Siamo uomini, cerchiamo di comportarci da uomini!

— D’accordo, — disse stancamente Saul. — Ed ora mangiamo. Chissà che cosa succederà.

Anton non aveva voglia di mangiare, ma aveva ancora meno voglia di mettersi a discutere. E Saul probabilmente aveva ragione, e anche Vadim aveva ragione, e come sempre aveva ragione la Commissione per le Relazioni Interpianetarie. Comunque ora la cosa più necessaria erano le informazioni.

Vadim rimestava malvolentieri col cucchiaio in una scatola di conserve. Saul mangiava con grande appetito e parlava a bocca piena:

— Mangiate, mangiate. Alla base di ogni impresa c’è uno stomaco sazio.

Anton escogitava un piano di azione. Calamità naturale o sociale, sempre di calamità si trattava. E non si poteva non intervenire. Sarebbe stato sbagliato precipitarsi subito a casa implorando aiuto, ma sarebbe stato altrettanto sbagliato gettarsi a capofitto nell’azione, agitando un unico zaino di viveri… Gli dispiaceva per Saul, ma per ora Saul doveva essere messo da parte. Per prima cosa occorrevano le informazioni… Anton disse:

— Ora voleremo sulle tracce della colonna. Penso che ci debba essere un villaggio nelle vicinanze.

Saul approvò con la testa.

— Troveremo qualcuno che ragioni, — continuò Anton, — e tu Dimka ti farai raccontare tutto. E poi si vedrà.

— È giusto, — dichiarò Saul, leccando il cucchiaio, — ci occorre un prigioniero.

Per qualche secondo Anton restò interdetto: che cosa poteva essere un prigioniero? Poi si ricordò la frase di un vecchio romanzo:

«Vada, tenente, e non torni senza un prigioniero». Scosse la testa.

— Ma no, Saul, cosa c’entra un prigioniero? Dobbiamo comportarci in modo pacifico. Per ogni evenienza è meglio che lei rimanga indietro. Resti a bordo del bioplano. Lei non si è mai trovato in situazioni pericolose e ho paura che perda la testa.

Per qualche secondo Saul lo fissò con occhi vitrei.

— Sì, certo, — disse lentamente. — Sono, per così dire, un topo di biblioteca.

Era ormai notte quando il bioplano decollò, sorvolò la conca, e cominciò a seguire una pista che andava verso est. Sulla pianura si levava una piccola luna splendente, e a ovest si innalzava sopra la catena montuosa una stretta falce purpurea. La pista descrisse una curva intorno a un colle ed essi videro alcune file di baracche coperte di neve.

— Siamo arrivati, — disse Anton. — Scendiamo, Vadim.



V


Vadim fece atterrare il bioplano nella prima strada che capitò. Abbassò la cappotta, e nella cabina penetrò un odore ripugnante di escrementi, l’odore triste di una grande miseria. Su entrambi i lati della strada stavano delle baracche semidiroccate, del tutto prive di finestre. La luce lunare inargentava i mucchi di neve immacolata sui tetti piatti e faceva nereggiare in modo disgustoso i mucchietti di feci accanto alle porte. La strada era deserta, e si sarebbe potuto pensare che il villaggio fosse abbandonato, ma il silenzio era pieno di rantoli, sospiri e del crepitio soffocato della tosse secca.

Vadim guidò lentamente il bioplano lungo la strada. Il vento freddo gli bruciava il viso. Né sulla strada né nei vicoli scuri si vedeva un’anima.

— Si sono stancati, — disse Vadim. — Staranno dormendo. Bisognerà svegliare qualcuno. — Fermò di nuovo il bioplano. — Aspettatemi qui, vado a dare un’occhiata.

— Va bene, vengo anch’io, — disse Anton.

— Basta uno, — obiettò Vadim, balzando a terra. — Do un’occhiata e torno subito. Se qui non combino niente, proseguiremo.

Anton disse:

— Saul, aspetti qui. Torniamo subito.

— Non fate rumore, — li avvertì Saul.

Vadim si fermò incerto davanti ad un sentierino sporco che portava all’ingresso della baracca più vicina. Gli ripugnava percorrere quei pochi metri. Si guardò intorno. Anton gli stava già accanto.

— Beh, che cosa hai? — disse. — Va’ avanti.

Vadim si avviò deciso per il sentiero, scivolò e per poco non cadde. Gli veniva da vomitare, e camminava a testa alta per non vedere dove metteva i piedi. La porta si aperse scricchiolando, e ne cadde fuori un uomo, completamente nudo, lungo come una pertica. Ruzzolò sulla neve ghiacciata e sbatté contro la parete della capanna.

Vadim si chinò su di lui. Notò che era già irrigidito. Doveva essere morto da parecchio tempo. Quanti ne ho visti oggi, pensò Vadim. Nella capanna qualcuno tossiva, e all’improvviso un’alta voce stridente intonò una canzone. Pareva il grido di un animale. La voce cantava solo dei vocalizzi tetri, senza parole. Forse, in realtà, era un pianto.

Vadim si guardò di nuovo alle spalle. Sulla strada, accanto alla sagoma del bioplano si distingueva la silhouette immobile di Saul. Sotto la luna, la strada deserta, coperta di neve, appariva sinistra. Intanto, nella baracca, la voce stridula continuava a gemere e a lamentarsi. Anton diede a Vadim una leggera gomitata.

— Hai paura? — chiese sottovoce. Aveva la faccia bianca come quella di un assiderato.

Vadim non rispose. Spalancò la porta e accese una torcia. Una zaffata di fetore gli mozzò il fiato. Il cerchio di luce della torcia cadde su un umido pavimento di terra, coperto di pallida erba calpestata. Vadim vide decine di corpi piegati, stretti l’uno all’altro, un groviglio di smagrite gambe nude con degli enormi piedi, decine di volti scarniti, alterati dalle lunghe ombre, e decine di nere bocche spalancate. Dormivano sul nudo pavimento, l’uno sull’altro. Parevano accatastati in tanti strati, e tremavano nel sonno. Ma il lamento continuava senza interruzione. Vadim non notò subito il cantore, ma poi lo avvolse nel cerchio di luce. Accovacciato sulla schiena di alcuni dormienti, si era circondato con le braccia le ginocchia aguzze. Guardava la luce della torcia con occhi imbambolati e cantava muovendo le labbra screpolate.

— Ehi tu, — disse Vadim. — Ascoltami. Canterai dopo, ora dimmi qualcosa.

L’uomo non si mosse. Sembrava che non vedesse la luce e non sentisse le parole.

— Ehi, — ripeté Vadim. — Ascolta.

Il cantore emise all’improvviso un ultimo grido roco, cadde riverso e spirò. Subito si confuse con i dormienti, e Vadim non riuscì più a trovarlo. Inghiotti faticosamente, fece un passo avanti e diede una manata a una gamba nuda. Era una gamba gelata, morta. Vadim toccò un’altra gamba. Anche questa era gelata, morta. Allora si voltò barcollando e cadde addosso a qualcosa di tiepido e largo.

— Sta’ calmo, — disse la voce di Anton.

Vadim scosse il capo, tornando in sé. Si era completamente dimenticato di Anton.

— Non posso, — borbottò. — Qui non c’è speranza.

Anton lo prese per un gomito e lo condusse fuori. Il vento freddo parve a Vadim puro e inebriante.

— Non posso, — ripeté. — Qui sono tutti morti, stecchiti. — Si staccò da Anton e si avviò cauto per il sentiero. Saul stava come prima, immobile accanto al bioplano. Vadim si accorse che la torcia era ancora accesa. La spense, se la mise in tasca e salì sul bioplano. Saul lo guardava in silenzio. Anton si avvicinò, appoggiò i gomiti sul bordo dell’oblò ed anche lui si mise a fissare Vadim. Vadim appoggiò la fronte al volante e disse tra i denti:

— Non sono uomini. Non possono essere uomini. — Sollevò all’improvviso la testa. — Sono androidi! Uomini sono solo quelli che portano la pelliccia! Gli altri non sono che robot, terribilmente simili a uomini!

Saul sospirò profondamente.

— Non credo, Vadim, — disse. — Semmai sono uomini, terribilmente simili a dei robot.

Anton scavalcò l’orlo dell’oblò e sedette al suo posto.

— Coraggio, — disse. — Cerchiamo di non perdere tempo. Abbiamo bisogno di un prigioniero. — Diede una manata sulle spalle di Vadim. — Vada, tenente, e non torni senza un prigioniero.

Saul emise uno strano rumore, che poteva essere un singhiozzo od un sogghigno.

— Vuole che vada là dentro a scegliere qualcuno? — propose.

— Penso però che non è di loro che abbiamo bisogno.

— Allora di giorno lavorano e di notte muoiono, — ripeté ostinato Vadim. — Che invenzione mostruosa!

— Giusto, — disse Saul. — Un’invenzione mostruosa, e bisogna acciuffare uno degli inventori. In pelliccia.

Vadim guardò lungo la strada.

— L’ottimismo — disse — è una gioiosa sensazione di fiducia nell’avvenire, con cui l’uomo….

Nella luce lunare vide a un tratto una fila di ombre grigie, vestite di sacchi, che attraversava la strada.

— Guardate, — disse.

Gli uomini continuavano a passare, erano una ventina, e dietro di loro venivano due impellicciati con delle lunghe aste.

— Chi cerca, trova, — disse Saul con voce sinistra. — Basta raggiungere uno di quei due e prenderlo…

— Uno di quelli? — chiese Anton dubbioso.

— E lei vuole continuare a frugare le baracche? Le posso assicurare che gli impellicciati non vivono certo nelle baracche. Muoviamoci, se no li perdiamo…

Vadim sospirò e fece decollare il bioplano. Seguì lentamente la strada. E cercava di immaginare come avrebbero catturato un uomo spaventato e stupefatto, come lo avrebbero trascinato al bioplano e infilato nella cabina, mentre lui gridava e si agitava. Se qualcuno avesse tentato di fare altrettanto con lui, gliel’avrebbe fatto vedere… Tese l’orecchio. Saul stava parlando:

— Non preoccupatevi, lo prenderò io. So come fare. Non avrà il tempo neppure di fare un gesto.

— Lei mi ha capito male, — disse Anton paziente. — Gli atti di violenza sono da escludere nel modo più assoluto.

— Ascolti. Lasci fare a me. Lei combinerebbe solo guai. L’infilzerebbero con una picca e dovremmo dar battaglia…

E questo è il topo di biblioteca! pensò Vadim meravigliato.

Anton disse:

— Senta, Saul, il suo modo di fare non mi piace. Rimanga a bordo e non si azzardi a prendere nessuna iniziativa.

— Oh Signore! — sospirò Saul e tacque.

Vadim voltò in una strada laterale, ed essi videro in lontananza una graziosa casetta a due piani, intorno alla quale si affollavano parecchie persone, illuminate dal fuoco rosso delle torce. C’era un gruppetto di uomini vestiti di sacchi, e intorno a loro andavano e venivano gli uomini in pelliccia. Vadim avanzava molto lentamente, tenendo il bioplano nella parte buia della strada. Non aveva idea sul da farsi. Anton pure. In ogni caso, taceva.

— Ecco, qui vivono gli inventori, — disse Saul. — Vedete che casa calda e comoda! E lì vicino c’è anche il gabinetto. La cosa migliore è di acchiapparne uno quando va al gabinetto. A proposito, avete notato che non c’è nemmeno una donna?

La porta della casetta si spalancò. Ne uscirono due persone e si fermarono sulla veranda. Risuonò un lungo grido lamentoso. Il gruppetto degli uomini vestiti di sacchi si mosse, formò una fila e si diresse verso il bioplano. Accanto alla veranda si levarono contemporaneamente varie grida. Vadim si affrettò a frenare e a far atterrare il bioplano.

Guardava con gli occhi sbarrati e non capiva niente. Alle sue spalle Anton ansimava. Gli uomini nei sacchi arrivarono all’altezza del bioplano e proseguirono oltre a passo svelto. Vadim emise un grido di stupore. Una ventina di uomini scalzi fu aggiogata ad una grossa slitta, su cui si sdraiò un uomo in pelliccia, coperto di pelli fino alla vita e con un berretto, sempre di pelliccia, a forma di cono. In mano teneva una lunga picca dalla minacciosa cuspide dentellata. I volti degli uomini aggiogati alla slitta esprimevano gioia, ed essi gridavano con entusiasmo. Vadim si voltò a guardare Saul. Saul fissava a bocca spalancata lo strano convoglio.

— Ne ho abbastanza di indovinelli, — disse all’improvviso Anton. — Va’ dritto fino alla casa.

Vadim tirò con forza il freno e la casetta si precipitò incontro al bioplano. Gli impellicciati che stavano sulla veranda rimasero a guardare per qualche secondo la macchina che si avvicinava; poi, con velocità incredibile, si schierarono a semicerchio, puntando le picche. Sulla veranda, un grasso gigante villoso si mise a saltellare, emettendo i soliti urli lamentosi. Agitava in aria una larga lama lucente. Vadim fece atterrare il bioplano di fronte alle picche e uscì dalla cabina. Gli impellicciati arretrarono, stringendo il semicerchio. Le cuspidi delle picche erano rivolte contro il petto di Vadim.

— Pace! — disse Vadim e sollevò le braccia.

Gli impellicciati arretrarono ancora un poco. Dalle bocche uscivano nuvolette di vapore e puzzavano di caprone. Sotto i cappucci luccicavano occhi spaventati e denti scoperti. Il grassone sulla veranda fece un lungo discorso. Era incredibilmente alto e grasso. Anche la sua faccia, tremolante di grasso e lucida di sudore, aveva proporzioni straordinarie. Parlando si chinava, balzava in piedi, agitava la spada ora sotto i suoi piedi ora verso il cielo, e parlava con una voce lamentosa, effeminata e innaturalmente alta. Vadim ascoltava a capo chino. I cristalli mnemonici che portava sulle tempie registravano le parole e le intonazioni sconosciute e davano le prime, approssimative traduzioni. Parlava di minacce, di qualcosa di grande e possente, di terribili punizioni… Il grassone all’improvviso tacque, si asciugò con la manica la faccia sudata, e, ormai sfiatato, emise un gemito breve e secco. Nella sua voce si sentiva la sofferenza. Gli uomini con le picche all’istante si chinarono e cominciarono ad avanzare lentamente verso Vadim.

— Beh, è tutto chiaro, — disse Saul. — Cominciamo?

Appoggiò la canna dello skorcer sull’orlo dell’oblò.

— Fermo, Saul, — disse Anton. — Vadim, rientra in cabina!

— Ma di cosa si preoccupa? — disse Saul con ira. — Non vede che sono bestiacce immonde, delle SS! Dei rospi!

Gli impellicciati continuavano ad avanzare a piccoli passi. Quando le cuspidi luccicanti sfiorarono il petto di Vadim, questi fece un passo indietro, si voltò e risalì a bordo del bioplano.

— Una tipica lingua agglutinante, — dichiarò, sedendosi. — Hanno un vocabolario molto limitato. Comunque è chiaro che non vogliono la pace.

— Potremmo almeno spaventarli, — propose Saul. — Spariamo in aria e li vedremo calar le brache!

Anton chiuse il portello. Gli impellicciati tornarono verso la veranda e sollevarono le picche. Guardavano tutti il bioplano. Sulla faccia larga del grassone vagava un sogghigno di disprezzo.

— Ma insomma, — proruppe Saul. — Avete bisogno di un prigioniero, sì o no? Allora prendiamo il grassone! Sembra proprio un Raportführer!

— Ma cerchi di capire, — ribatté Anton esasperato, — se non vogliono avere a che fare con noi, è nei loro diritti! Che cosa possiamo farci?

— Avete o no bisogno di un prigioniero? — ripeté Saul. — Il vantaggio della sorpresa ormai l’abbiamo perso. Qui dovremo dare battaglia. Ma c’è ancora quel rospo schifoso che è partito in slitta.

Ma guarda che lessico! pensava ammirato Vadim. Proprio come uno del XX secolo. Che specialista in gamba! Guardò Anton. Anton era pallido e indeciso. Vadim non lo aveva mai visto in quello stato.

— Delle due l’una, — continuava Saul. — O vogliamo scoprire quello che sta succedendo qui oppure ce ne torniamo sulla Terra, per far posto ad esploratori un po’ più in gamba. E bisogna che ci spicciamo a decidere, fin tanto che ci puntano addosso solo picche…

Perdiamo tempo, pensò Vadim. Finora abbiamo solo perso tempo. E nelle baracche continuano a morire.

— Toška, — disse. — Raggiungiamo la slitta. Là c’è solo uno con la picca, sarà più facile. Gli togliamo la picca e lo facciamo salire a bordo della navicella.

— Stanno sghignazzando, quei rospi, — sbottò Saul, guardando da un finestrino.

Mostrò significativamente il pugno al grassone sulla veranda. Quello fece spallucce e agitò altrettanto significativamente la spada.

— Avete visto? — disse Saul con cupa allegria. — Ci capiamo, vero?

— Farò un altro tentativo, — disse Anton e spalancò il portello. Il grassone gridò. Uno dei suoi uomini, piegatosi all’indietro, scagliò con forza la picca. La cuspide di ferro slittò rumorosamente sul vetro. Saul addirittura si accoccolò.

— Te la sei voluta… — urlò di scatto.

Anton fece appena in tempo ad afferrargli il braccio, e i suoi occhi erano come due fessure nere.

— Ho capito, — disse con voce strozzata e sospirò. — Vadim, torna indietro!

Vadim voltò il bioplano.

— Trova la slitta! — ordinò Anton e si appoggiò allo schienale della poltrona. — Qui non scopriremo niente, — aggiunse. — Siamo davanti ad un muro di ottusità impenetrabile.

— Spari un colpo in aria, — disse Saul con noncuranza, — e potrà prenderli a mani nude.

Anton tacque. Il bioplano sorvolò la strada deserta ed in capo a qualche minuto volava sui campi.

— Le dico solo una cosa, — sbottò Anton. — Alla fine avremo di che vergognarci.

— Ma che cosa possiamo fare? — chiese Vadim. — Ci sono uomini che stanno morendo!

— Se almeno sapessi che cosa fare, — disse Anton. — La Commissione non ha previsto circostanze del genere.

Che Commissione? voleva chiedere Vadim, ma Saul parlò prima di lui:

— Ma la smetta di perder tempo. Se vuol fare del bene, lo faccia attivamente. Il bene deve essere più attivo del male, se non vuole arenarsi.

— Il bene, il bene, — brontolò Anton. — Chi ha voglia di essere uno sciocco zelante?

— Ha ragione, — disse Saul. — Ma almeno avrà la coscienza tranquilla.

Raggiunsero la slitta a cinque chilometri dal villaggio. Gli uomini correvano sulla neve intatta, inciampando e cadendo, e l’uomo in pelliccia, sdraiato sulla slitta, di tanto in tanto punzecchiava pigramente con la picca quelli più lenti.

— Scendo, — disse Vadim.

— Atterra davanti alla slitta, — ordinò Anton, — e parlaci. Saul, mi dia lo skorcer, e rimanga seduto. Quello non è un rospo schifoso ma un uomo.

— Va bene, — disse Saul. — Eccole lo skorcer. Ma se infilza Vadim con la picca? Invece di stare a chiacchierare…

Vadim disse:

— Gli toglierò la lancia. Poi taglieremo le corregge, e daremo cibo e vestiti a quei poveracci.

— Giusto, — disse Anton.

Il bioplano piombò a terra davanti al convoglio, e gli uomini-cavallo si arrestarono come pietrificati. Vadim saltò giù. Gli uomini vestiti di sacchi rimasero immobili, coprendosi il volto con le mani. Ansimavano pesantemente, con un sibilo. Mentre correva verso la slitta, Vadim gridò loro allegramente:

— È finita, amici! Adesso tornerete a casa!

Procedendo verso la slitta, si preparò a scansare la picca. L’uomo impellicciato si era messo in ginocchio e lo guardava con paura e stupore, reggendo la picca a bilanciere.

— Vieni, — gli disse Vadim, afferrando l’asta di legno.

L’uomo in pelliccia lasciò subito la picca ed estrasse una spada balzando in piedi.

— Ma no, sta’ calmo, — disse Vadim, gettando lontano la picca.

Improvvisamente l’impellicciato emise uno dei soliti urli, lunghi e lamentosi. Vadim lo afferrò per la mano che reggeva la spada, e lo tirò a sé. Si sentiva molto a disagio. L’impellicciato cercò di liberarsi, e Vadim lo afferrò più saldamente.

— Su, su, tutto andrà bene. Andrà tutto a posto, — diceva in tono persuasivo, distendendogli le dita sudate che stringevano l’elsa. La spada cadde nella neve. Vadim prese l’impellicciato per le spalle e lo condusse verso il bioplano, borbottando parole cortesi e sforzandosi di imitare la cadenza locale. Risuonò un grido di avvertimento di Saul e subito Vadim si sentì assalito. Mani deboli e tremanti lo afferrarono per il collo e per le gambe.

— Ma che siete ammattiti? — berciò Saul con rabbia. — Anton, li fermi!

L’impellicciato tornò di nuovo a divincolarsi con forza. Buttarono in testa a Vadim uno straccio fetido, ed egli non vide più nulla. Si reggeva a stento nel groviglio dei corpi, e abbrancava con tutte le sue forze l’uomo in pefficcia. Poi sentì una fitta acuta ad un fianco. Lasciò il suo prigioniero, scrollò le spalle e, liberatosi dagli assalitori, si strappò dalla testa il sacco maleodorante. Vide gli uomini sparsi sulla neve ed Anton che avanzava verso di lui, scavalcandoli. Si voltò e si trovò di fronte a un uomo nudo che brandiva la spada.

— Ma perché? — disse Vadim.

L’uomo gli assestò un colpo, ma non riuscì a tener dritta la spada, e diede a Vadim una piattonata su una spalla. Vadim gli diede una spinta, quello cadde nella neve e rimase immobile. Vadim raccolse la spada e, alzato il braccio, la gettò lontano. Si sentiva scorrere su un fianco qualcosa di caldo e umido. Si guardò intorno.

Gli uomini nella neve giacevano immobili, come morti. L’impellicciata era scomparso.

— Sei vivo? — gridò Anton ansimando.

— Vivissimo, — rispose Vadim. — Ma dov’è il prigioniero?

Vide Saul che avanzava verso di loro a grandi passi, trascinando per il bavero l’uomo in pelliccia.

— Voleva scappare! — annunciò. — Ma avete visto che razza di gente!

— Andiamocene via, — disse Anton.

Si avviarono verso il bioplano, scavalcando con cautela i corpi immobili. Saul tirò per il bavero il prigioniero, rimettendolo in piedi, e lo fece camminare spingendolo per la schiena.

— Cammina, carogna! — gli ordinò. — Avanti, grassone! Puzza da asfissiare, — annunciò. — Sarà un anno che non si lava.

Quando arrivarono al bioplano, Anton prese il prigioniero per una spalla e gli indicò la cabina. Quello scosse la testa con un gesto disperato, tanto che gli cadde il berretto. Poi si mise a sedere sulla neve.

— Credi che staremo a fare complimenti! — urlò Saul.

Sollevò il prigioniero per la pelliccia e lo scaricò oltre l’orlo dell’oblò. Il prigioniero cadde fragorosamente sul pavimento della cabina e non si mosse più.

— Puah, — disse Anton, — che razza di lavoro!

Prese i due zaini che stavano accanto al bioplano, e li trascinò fino alla slitta. Aprì lo zaino, tirò fuori tutti gli abiti e li dispose sulla neve. Fece lo stesso con le cibarie. Gli uomini parevano morti e solo piano piano ritiravano le gambe quando Anton passava vicino.

Vadim stava appoggiato stancamente ad una fiancata tiepida dell’apparecchio e guardava la neve sconvolta, la slitta rovesciata, i corpi contorti sotto la luce della luna. Senti Anton che diceva con voce tetra:

— Commissione per le Relazioni, dove sei?

Vadim si toccò il fianco. Il sangue scorreva ancora. Si sentì percorrere da un’ondata di debolezza e sofferenza ed entrò in cabina. Era andato tutto storto, tutto sbagliato. Il prigioniero giaceva bocconi, cingendosi la testa con le mani. A quanto pare si aspettava la morte e forse anche la tortura. Su di lui torreggiava Saul, che seguiva con aria feroce ogni suo movimento. Rientrò Anton e si infilò anche lui nella cabina.

— Che hai? — chiese.

Vadim parlava con difficoltà:

— Sai Toška, mi hanno ferito. Ora non sono più in grado di far niente.

Anton lo fissò per qualche secondo.

— Su, dài, spogliati, — ordinò.

— Bah! — brontolò con rabbia Saul.

Vadim si sbottonò il giubbotto. Aveva le vertigini e di quando in quando la vista gli si oscurava. Vide la faccia concentrata di Anton e la faccia addolorata di Saul. Poi sentì delle dita fredde che gli palpavano il fianco.

— L’ha accoltellato, — disse Saul. La sua voce pareva giungere da un’altra stanza. — Lei non ci ha proprio saputo fare. Io l’avrei preso con una mano sola.

— Non è stato lui, — balbettò Vadim. — È stato un altro… Un uomo nudo…

— Un uomo nudo? — disse Saul. — Questo non lo capisco nemmeno io.

Anton rispose qualcosa ma davanti agli occhi di Vadim guizzavano barbagli e cerchi luminosi ed egli perse i sensi.



VI


— Guardi, Anton, — disse Saul. — Anton! È svenuto, vede?

— Dorme, — rispose Anton, osservando attentamente la ferita. La ferita era sfilacciata e piuttosto profonda. La spada aveva colpito sotto le costole, e si era insinuata fra i fasci muscolari. Anton sospirò di sollievo. Saul, che gli stava alle spalle, sussurrò ansando:

— È grave?

— No, è una sciocchezza, — disse Anton. — Fra un’ora starà bene. — Scostò Saul. — Si sieda, per favore.

Saul rioccupò la sua poltrona e si mise a fissare con rabbia il prigioniero immobile. Anton aprì senza fretta uno zaino, tirò fuori un barattolo di colloide e ne spalmò sulla ferita una porzione abbondante. La pomata arancione divenne subito rosa, e si coprì di grinze rosee come la panna sul latte. Ecco il sangue, pensò Anton.

Dimka ha una salute di ferro! Guardò il volto di Vadim. Era un po’ più pallido del solito, ma calmo e disteso, come soleva esserlo nel sonno. E respirava, come sempre, col naso, profondamente e silenziosamente. Anton posò le dita ai lati della ferita e chiuse gli occhi.

Ogni pilota spaziale era tenuto ad apprendere i primi elementi di psicochirurgia. Praticamente ogni pilota sapeva incidere e ricucire il tessuto vivo, utilizzando la risonanza psicodinamica. Ciò richiedeva molta tensione e concentrazione. Negli ospedali si adoperavano i generatori neuronici, ma durante le spedizioni il pilota doveva valersi dei suoi soli mezzi mentali, come un antico stregone. Ogni volta Anton provava compassione per gli stregoni.

Sentì come in sogno che alle sue spalle Saul si agitava sospirando ed il prigioniero borbottava qualcosa fra i singhiozzi. Dal prigioniero veniva uno sgradevole odore acre che riempiva la cabina.

Anton aprì gli occhi. La ferita si era chiusa, spremendo fuori il colloide, ora c’era soltanto una cicatrice rosea. Basta così, pensò Anton. Altrimenti non riuscirò a guidare il bioplano. Era tutto bagnato.

— Ho finito, — disse, tirando il fiato.

Saul si alzò e guardò la ferita.

— Chi ci capisce è bravo, — brontolò. — Ma come ha fatto?

Anton si guardò intorno e sussultò. Dall’esterno, attraverso l’oblò, lo fissavano delle facce orribili, magre, dalle guance incavate e dalle labbra arricciate sui denti. Ispiravano una paura atavica, come morti che si fossero levati a dare un’occhiata dentro le case dei vivi. Anton si sentì percorrere da un brivido. Saul inarcò le sopracciglia folte e minacciò col dito. Mani ossute cominciarono a battere senza rumore sulla cappotta.

— Andate a casa! A casa! — disse forte Saul.

Anton cominciò a rivestire Vadim.

— Ora decolliamo, — disse.

— Li ammazzerete tutti.

Anton scosse la testa e occupò il sedile di primo pilota. Il bioplano vibrò e cominciò a sollevarsi lentamente. Le facce all’esterno scomparvero. Una lunga mano scheletrica dalle unghie rotte scivolò sul finestrino e scomparve a sua volta.

Girato il bioplano in direzione dell’astronave, Anton accelerò. Aveva fretta. Era già mezzanotte.

— Cosa ci avranno trovato in lui? — borbottava Saul. — È un nazista, un animale, l’ho visto io stesso come punzecchiava quegli uomini con la picca per farli andare più in fretta.

Anton taceva.

— Oh Signore! — esclamò Saul. — È pieno di bestiacce.

— Di che cosa?

— Di pidocchi, direi. Per prima cosa bisognerà lavarlo e disinfettare tutto…

Eccone ancora una, pensò Anton. Saul, come se indovinasse i suoi pensieri, aggiunse:

— Non si preoccupi, lo farò io. Speriamo che non crepi di paura quando farà il suo primo bagno.

Anton guidava il bioplano alla velocità massima, tenendosi a cento metri di quota. La piccola luna bianca si trovava quasi allo zenit, la falce rossa della seconda luna era già tramontata, ed un terzo satellite, roseo e piatto, si stava levando sull’orizzonte bianco. Vadim si scosse, sbadigliò rumorosamente e borbottò: — Mi hai curato? — e di nuovo si addormentò.

— Che cosa sta facendo? — chiese Anton. Era tanto stanco che non aveva voglia di voltarsi.

— Chi?

— Il prigioniero.

— Sta sdraiato. Puzza. Da parecchio non sentivo un puzzo simile…

Da un pezzo, pensò Anton. A me non è mai capitato di sentirlo. E ne avrei volentieri fatto a meno… Saul ha ragione: avevano fatto male ad invischiarsi in quella storia. Saul è in gamba. Si trattava veramente di un sistema. Era il sistema dello schiavismo. Schiavi e padroni. Però io avevo sempre pensato che gli schiavi devoti si incontrassero solo nei libri dozzinali… Lo schiavo devoto. Che schifo! Va bene, però ormai è fatta, per tirarsi indietro è tardi e faremmo anche la figura degli sciocchi. Se non altro scopriremo come stanno le cose. Sì, ma non era quello l’essenziale… Anche se avessi capito subito che cosa sta succedendo qui, non avrei certo potuto voltare le spalle… alla conca, dove le macchine schiacciavano gli uomini… a quel villaggio sudicio… Interessante, avrebbe tollerato il Consiglio Mondiale l’esistenza di un pianeta basato sullo schiavismo? Sentì improvvisamente tutta l’enormità del problema. Finora questa alternativa non si era mai presentata: si poteva o no intervenire nelle sorti di un altro pianeta? Gli abitanti di Leonida e di Tagora erano troppo diversi dagli uomini. La psicologia dei Leonidiani era ancora un mistero, e nessuno poteva dire quale fosse il regime sociale sul loro pianeta… Quanto agli umanoidi di Tagora, avevano da chiedere tanto poco alla natura, che non si capiva come avessero fatto a sviluppare la loro tecnica… Ma qui, su Saul, il problema era completamente diverso. Non c’era nessun altro posto in cui i rapporti sociali assumessero una forma tanto mostruosa e tuttavia, a quanto pareva, tanto universalmente accettata. I Sauliani parevano fratelli degli uomini, fratelli ancora molto giovani, immaturi e crudeli… E come se non bastasse ci si mettevano pure quelle stupide macchine degli alieni…

In lontananza, sulla piana azzurra comparve un puntolino nero. Ecco l’astronave, pensò Anton. E lì accanto, sotto la neve, c’erano i morti. Che strano, è passato appena un giorno e già mi sono abituato. Come se tutta la vita non avessi fatto altro che girare fra cadaveri nudi nella neve. L’uomo si adatta con facilità. Adattamento psicologico. Strano. Forse dipende dal fatto che in fin dei conti non sono uomini. Sulla Terra, sarei già diventato pazzo. No, sarei rimasto intontito…

Diminuendo la velocità, descrisse un cerchio intorno alla navicella.

Vedere il cono nero, che conosceva così bene, lo confortò. L’astronave sulle colline azzurre gettava due ombre dai contorni netti: una breve e nera, l’altra lunga e rossa. Il bioplano atterrò davanti all’entrata. La neve, gelando, aveva formato intorno alla nave un campo di ghiaccio. Anton si voltò verso Vadim e gli diede una manata sul ginocchio.

— Che c’è? — chiese Vadim con voce assonnata.

— Sveglia!

— Lasciami in pace…

— Alzati, Dimka. Siamo arrivati all’astronave.

— Adesso, — disse Vadim, aprendo le labbra con uno schiocco. — Ancora un minuto…

— Gli faccio il solletico? — propose Saul.

Vadim aperse subito gli occhi e si alzò.

— Ah sì, l’astronave… Capisco.

Uscirono sul ghiaccio scivoloso. L’aria gelata mozzava il fiato. Si sentiva Vadim che batteva i denti. Saul afferrò il prigioniero per il bavero. Che starà pensando quel poveretto? si chiese Anton.

— Salite, — disse Saul, — io lo porto direttamente al bagno. Entrarono nell’astronave, chiusero l’oblò e Anton, sospingendo Vadim, sali verso il quadrato. Vadim dormicchiava, battendo i denti. Dal piano inferiore risuonò un urlo terribile del prigioniero. Vadim si riscosse.

— Che cosa gli sta facendo? — chiese allarmato.

— Lo vuole lavare, — spiegò Anton. — È pieno di parassiti.

Si sentì la voce di Saul.

— Cammina con le tue gambe, la fatica non ti ammazzerà…

La porta del bagno sbatté. Anton e Vadim entrarono nel quadrato e si gettarono sulle poltrone.

— Cara, vecchia astronave, — disse Vadim. — Come si sta bene, come è pulita!

Anton stava ad occhi chiusi.

— Ti fa male? — chiese.

— Mi prude…

— Vuoi dire che va tutto bene… Senti, cosa ti occorre per lavorare?

— Il calcolatore, — rispose Vadim. — Metà della sua memoria interna. Entrambi gli analizzatori. Molto caffè per me e qualche leccornia per il prigioniero. Fra un paio d’ore te lo troverai qui davanti a parlare del senso della vita.

Dal piano inferiore giunsero di nuovo grida, rumore di oggetti smossi e scalpiccio di piedi nudi.

— Dove vai? — tuonò Saul. — Vieni qui… Sta’ fermo!

— Com’è bravo a lavarlo, — disse Vadim con ammirazione. — Forse gli è andato un po’ di sapone negli occhi… Però Saul sbaglia il tono della voce. Per il prigioniero gli urli non sono altro che implorazioni. Il tono di comando è questo: — e Vadim, allungato il collo, emise degli insopportabili strilli queruli.

— Sembri un gattino a cui abbiano pestato la coda, — disse Anton.

— Sì, è lo stesso tono!

— Va bene, ti lascerò la sala dei comandi… Ti porterò tutto il necessario.

Vadim lo scrutò con attenzione.

— Ma tu, caro mio, sembri un limone spremuto, — disse.

— Beh, un po’ lo sono… La tua ferita non era grave, ma mi sono stancato. Sai, stanca molto.

— Mettiti a dormire. Me la cavo da solo. Saul mi porterà tutto.

— Non preoccuparti, — disse Anton. — Questo è lavoro mio. Va’ a prepararti, — aggiunse scuotendo una mano.

Vadim si alzò.

— Ti consiglio di dormire un po’, — si avviò verso la sala dei comandi, ma ad un tratto si fermò. — Hanno poi preso i vestiti?

Lì per lì Anton non capì, ma poi disse:

— Per la verità non lo so… Non ricordo… Però erano molto arrabbiati con noi.

— Che razza di pasticcio! — disse Vadim. — Non ci capisco niente. Perché mi ha infilzato con la spada?

Scosse il capo e si diresse verso la sala dei comandi. Anton si addormentò subito. Sognò di essere andato in cucina, di aver preparato molto caffè, di aver portato la caffettiera e le conserve nella sala dei comandi, di essersi sentito dire di levarsi di torno, di essersene andato nella sua cabina e di essersi seduto al tavolino a scegliere il programma del volo di ritorno. Però aveva un gran sonno, e non riusciva a trovare altro che i programmi dei suoi voli precedenti. Poi Saul lo svegliò.

— Ecco, — disse Saul.

Davanti ad Anton c’era un biondino snello in calzoncini e in giubbotto sintetico, dagli occhi neri e spaventati.

— Le piace? — chiese Saul sarcastico.

Anton si mise a ridere.

— È una bella razza, — disse. — Salve, fratello minore.

Il fratello minore lo fissava con occhi tondi di paura. Sembra simpatico, pensò Anton.

— E questo lo aveva sotto la pelliccia, — disse Saul e posò sul tavolo un pacchetto rigido.

Il prigioniero fece per slanciarsi sul pacchetto.

— Altolà, — fece Saul con voce minacciosa. — Di nuovo! Ti faccio vedere io!

Il prigioniero rannicchiò la testa nelle spalle. Evidentemente, era riuscito a capire il tono di voce di Saul. Anton prese il pacchetto, lo guardò e lo aprì. In una busta di ottimo cuoio c’erano un foglio ripiegato varie volte, un disegno e qualche pezzo di cerotto insanguinato.

— Capisce? — disse Saul. — Hanno strappato i cerotti ai feriti.

Anton ricordò gli uomini maciullati e strinse i denti.

— Questo deve essere il rapporto — disse dopo una pausa — sul nostro arrivo. Vadim! — chiamò.

Il prigioniero improvvisamente si mise a parlare. Parlava in fretta, dandosi dei pugni sul petto. Il suo volto esprimeva terrore e disperazione, in strano contrasto con le intonazioni brusche e persino sarcastiche della sua voce. Vadim scese nella sala e si fermò alle spalle del prigioniero, tendendo le orecchie. Il prigioniero tacque e si coprì il volto con le mani.

— Guarda, Vadim, — disse Anton, porgendogli il foglio.

— Oh! — disse Vadim. — Una lettera! Magnifico! Questo ci riduce il lavoro a metà!

Prese il prigioniero per una manica e lo condusse nella sala dei comandi, guardando nel frattempo il foglio. Il prigioniero lo seguì docilmente. Saul studiava attentamente il disegno.

— Non sono uno specialista, — disse infine, — ma, secondo me, è uno schizzo esatto del carro armato che abbiamo ispezionato nella conca. Se lo ricorda?

Passò il disegno ad Anton. Il disegno era stato fatto con molta cura con inchiostro azzurro, ma sulla carta c’erano molte ditate. Era la pianta, probabilmente esattissima, della cabina del veicolo. Alcuni fori erano contrassegnati da rozze crocette rosse, altri erano cancellati. Anton sbadigliò e si stropicciò gli occhi. Ma guarda, pensò fiacco. Che bei disegni fanno gli schiavisti.

— Senta, capitano, — disse Saul, — vada a dormire. Tanto finché il nostro linguista non avrà finito, qui non c’è bisogno di lei.

— Crede?

— Ne sono sicuro.

La voce di Vadim dalla sala dei comandi ordinò:

— Caffè e marmellata.

— Arriva! — gridò Saul. — Vada Anton, vada.

— Non me ne vado, — disse Anton. — Resterò qui.

Abbassò le palpebre e smise di opporre resistenza. Dormì un sonno inquieto: di tanto in tanto si svegliava e apriva gli occhi. Vide Saul che passava in punta di piedi reggendo in una mano un barattolo vuoto e nell’altra una caffettiera. Vide poi Saul che portava un vassoio nella sala dei comandi, e nel quadrato giunse un odore di pomodoro. Poi Saul sedette al tavolo e si mise a succhiare la pipa vuota, fissando attentamente Anton. Dalla sala dei comandi giungevano voci monotone. «Su-o… Mu-u… Bu-u…» diceva Vadim, e l’analizzatore ripeteva meccanicamente: «Su-a… Ma-a… Bu-a… Lavorare, karosuu… Lavoratore, karobu… Diventare un lavoratore, karomuu…». Anton si addormentava e tornava a svegliarsi. La voce di Vadim aleggiava incomprensibile: «Rupe lucente, grande e possente… idai-hikari… tika — udo…», e la voce stridula del prigioniero correggeva: «Tiko-o… udo-o…». Vadim gridava: «Saul! Caffè!». «E già la terza caffettiera!» Saul borbottava scontento.

Poi Anton si svegliò e sentì che non aveva più voglia di dormire. Saul non era nella sala. Dal piano di sopra echeggiava la voce ormai rauca di Vadim: «Sorinaka-ba… torunaka-bu… capunori-cu…». Il prigioniero tubava qualcosa in risposta con voce di basso. Anton guardò l’orologio. Erano le tre del mattino, ora locale. Bravo il nostro superlinguista, pensò Anton con rispetto. Improvvisamente fu preso dall’impazienza. Bisognava concludere.

— Dimka! — gridò. — Come va?

— Ti sei svegliato? — rispose Vadim senza fiato. — Ora scendiamo. Aspettavamo che fossi pronto.

Saul si affacciò sulla soglia della sua cabina, dalla quale uscivano nuvole di fumo.

— È già ora? — si informò.

— Venga Saul, — disse Anton. — Ora cominciamo.

Saul sedette in poltrona e gettò sul tavolo il disegno. Dalla sala dei comandi scese barcollando il prigioniero. Aveva le guance sporche di marmellata. Si fermò senza guardare nessuno e cominciò a lanciare occhiate di canina venerazione verso Vadim, che stava scendendo con la grossa scatola lucida dell’analizzatore. Accostatosi alla tavola, Vadim posò l’analizzatore e crollò su una poltrona. Il suo volto esprimeva tripudio.

— Sono un genio! — comunicò con voce spenta. — Sono in-tel-li-gen-tis-si-mo! Sono una rupe grande e potente! Hikaritiko-udo!

A queste parole il prigioniero smise di leccarsi le dita e incrociò rispettosamente le braccia sul petto.

— Vedete? — esclamò Vadim, volgendo una mano nella sua direzione. Poi declamò:


Per qualsiasi occasione

C’è qui lo specialista:

L’astronave dispone

Del linguista superstrutturalista.


Anton lo guardò soddisfatto. Sulle tempie Vadim portava le piccole corna gialle dei cristalli mnemonici. Anche il prigioniero portava sulle tempie le piccole corna gialle dei cristalli mnemonici. Parevano dei giovani diavoli di buon carattere. No, il prigioniero sembrava piuttosto un vitello.

— Vi avverto, — dichiarò Vadim, — non bisogna rivolgergli domande astratte. È tonto come pochi. Ha una cultura da seconda elementare. — Si alzò e diede un paio di cristalli mnemonici sia a Saul che ad Anton. — Pensa solo in modo concreto. — Si girò verso il prigioniero: — Ringa bosi-ma?

«Vuoi della marmellata?», capì Anton.

Il prigioniero sorrise eccitato e di nuovo incrociò le braccia sul petto.

— Ecco, vedete? — disse Vadim. — Vuole dell’altra marmellata. Ma gli toccherà aspettare un po’. Cominciamo.

Anton rimase imbarazzato. Si era accorto improvvisamente di non avere la minima idea sul modo di condurre un interrogatorio. Vadim e Saul lo guardavano attendendo l’inizio. Il prigioniero si dondolava a destra e a sinistra con aria tetra.

— Come si chiama? — chiese Anton con la massima delicatezza. La diffidenza e l’indubbia paura del prigioniero lo mettevano a disagio.

Il prigioniero lo guardò stupito.

— Haira, — rispose smettendo di dondolare.

«Del dan dei colli», capì Anton.

— Molto piacere, — disse. — Mi chiamo Anton.

Lo stupore sul volto di Haira aumentò.

— Mi dica, per favore, Haira, che lavoro fa?

— Io non lavoro. Sono un guerriero.

— Vede, — disse Anton, — probabilmente lei si sente offeso per la violenza che siamo stati costretti ad usare nei suoi confronti. Ma la prego di non aversela a male. Non avevamo altra via d’uscita.

Il prigioniero appoggiò le braccia sui fianchi, sporse in fuori il labbro inferiore e si mise a guardare oltre Anton. Saul tossicchiò e si mise a tamburellare sul tavolo con le dita.

— Non deve aver paura, — continuò Anton. — Non le faremo nulla di male.

Il volto del prigioniero assunse un’espressione chiaramente altezzosa. Guardatosi intorno, si spostò, andò a sedersi al fianco di Anton e accavallò le gambe. Si sente a suo agio, pensò Anton. È un bene. Vadim, semisdraiato sulla poltrona, osservava la scena con soddisfazione. Saul smise di tamburellare con le dita e cominciò a battere la pipa sul tavolo.

— Vorremmo rivolgerle alcune domande, — continuò Anton in tono più sollevato, — perché ci è indispensabile sapere che cosa stia succedendo qui.

— Marmellata, — proferì Haira con voce sgradevole. — Ed in fretta.

Vadim ridacchiò divertito.

Such a little pig![23] — disse.

Anton arrossì e sbirciò Saul. Saul si alzò lentamente. Il suo volto era immobile e annoiato.

— Perché non mi portano la marmellata? — si informò Haira senza rivolgersi a nessuno in particolare. — Adesso sarò io a far domande e voi tenete chiuso il becco. Ed oltre alla marmellata, portatemi anche delle coperte, perché questo sedile è duro.

Subentrò il silenzio. Vadim smise di ridacchiare e guardò con disappunto l’analizzatore.

Do you think — chiese Anton confuso — we could better bring him some jam?[24]

Saul, senza rispondere, si avvicinò lentamente al prigioniero. Il prigioniero sedeva impassibile. Saul si rivolse ad Anton.

You have taken the wrong way, boys, — disse. — It won’t pay with SS-men . — Abbassò lentamente la mano sul collo di Haira. Sul volto di Haira balenò l’inquietudine. — He is a pitekantropos, that’s what he is, — continuò dolcemente Saul. — He mistakes your soft handling for a kind of weakness.[26]

— Saul, Saul! — disse Anton allarmato.

Speak but English,[27] — si affrettò ad ammonirlo Saul.

— Dov’è la marmellata? — chiese incerto il prigioniero.

Saul lo rimise in piedi con un violento strappo. Il volto di Haira perse le ultime tracce di impassibilità. Saul cominciò a girare lentamente intorno a lui, fissandolo da capo a piedi. Ma che spettacolo, pensò Anton con disgusto e con involontaria paura. Saul aveva un’espressione tutt’altro che gradevole. Haira, invece, aveva di nuovo incrociato le braccia sul petto e sorrideva servilmente. Saul tornò senza fretta alla sua poltrona e sedette. Haira ora non aveva occhi che per lui. Nella sala regnava il silenzio assoluto.

Saul si mise a caricare la pipa, lanciando di quando in quando a Haira brevi occhiate di traverso.

Now I interrogate, — disse. — And you don’t interfere. If you choose to talk to me, speak English.[28]

— Agreed,[29] — disse Vadim e girò una manopola dell’analizzatore. Anton fece un cenno affermativo.

What did you do to that box?[30] — chiese Saul insospettito.

Took measares, — rispose Vadim. — We don’t need him to learn English as well, do we?[31]

O.K., — disse Saul. Si accese la pipa. Haira lo guardava atterrito, movendo il capo per evitare le zaffate di fumo.

— Nome? — domandò Saul accigliato.

Il prigioniero sussultò e curvò le spalle.

— Haira.

— Che grado hai?

— Quello di portatore di lancia e di guardiano.

— Chi è il tuo capo?

— Kadaira. («Del clan dei turbini», capì Anton.)

— Che grado ha?

— È un portatore di ottima spada e capo del corpo di guardia.

— Quanti guardiani ci sono nel campo?

— Una ventina.

— Quanti uomini ci sono nelle baracche?

— Nelle baracche non ci sono uomini.

Anton e Vadim si scambiarono un’occhiata. Saul proseguì senza cambiare espressione.

— Chi vive nelle baracche?

— I condannati.

— Ed i condannati non sono uomini?

Il volto di Haira espresse una sincera meraviglia. Invece di rispondere, abbozzò un sorrisetto.

— Va bene. Quanti condannati ci sono nel campo?

— Moltissimi. Nessuno li ha mai contati.

— Chi ha mandato qui i condannati?

Il prigioniero parlò a lungo e con tono ispirato, ma Anton capì soltanto:

— Li ha mandati la Grande Rupe Potente, la Battaglia Scintillante, colui che posa un piede nel cielo e che vivrà quanto le macchine.

— Oh, — disse Saul, — conoscono la parola “macchine”…

— No, — si intromise Vadim, — sono io che conosco la parola “macchine”. Lui si riferisce ai veicoli che sono nella conca e sull’autostrada. Quanto alla Grande Rupe con tutto quel che segue, credo che sia un re indigeno.

Il prigioniero ascoltò questo dialogo con un’espressione di sconsolata ottusità.

— Va bene, — disse Saul. — Continuiamo. Qual è la colpa dei condannati?

Il prigioniero si rianimò e di nuovo cominciò a parlare a lungo e molto, e di nuovo Anton capì ben poco.

— Ci sono dei condannati che hanno tentato di usurpare il posto della Rupe Potente, altri che hanno preso oggetti altrui, altri hanno ucciso, altri hanno desiderato strane cose…

— Capito. E chi ha mandato qui i guardiani?

— La Grande Rupe Potente, che posa un piede sulla terra.

— Perché?

Il prigioniero tacque.

— Ti ho chiesto cosa stanno a fare qui i guardiani.

Il prigioniero taceva. Aveva addirittura chiuso gli occhi. Saul sbuffò con aria feroce.

— Allora che cosa fanno i condannati?

Il prigioniero, senza aprire gli occhi, scuoteva la testa.

— Parla! — esplose Saul, facendo sobbalzare Anton.

Commissione per le Relazioni, pensava amaramente, dove sei?

Il prigioniero gemeva lamentoso.

— Se ve lo dico, mi ammazzano.

— Ti ammazziamo noi, se non lo dici, — promise Saul. Tirò fuori dalla tasca un coltello a serramanico e lo fece scattare. Il prigioniero cominciò a tremare.

— Saul! — disse Anton. — Stop it.[32]

Saul si mise a pulire la pipa con il coltello.

Stop what?[33] — si informò.

— I condannati fanno muovere le macchine, — proferì Haira con un filo di voce. — I guardiani osservano.

— Che cosa osservano?

— Come si muovono le macchine.

Saul prese il disegno e lo mise sotto il naso del prigioniero.

— Spiegami tutto, — ordinò.

Haira parlò a lungo, perdendo spesso il filo, mentre Saul lo correggeva e lo sollecitava. A quanto pareva le autorità locali tentavano di scoprire il modo di guidare le macchine. La ricerca veniva condotta con metodi assolutamente barbari. Ai condannati veniva ordinato di premere le dita sui fori, sui bottoni, sui tasti e sulle varie parti del motore e di guardare che cosa succedeva. Nella maggioranza dei casi non succedeva niente. Spesso le macchine esplodevano. Raramente cominciavano a muoversi, schiacciando e mutilando chi capitava loro a tiro. Infine, in rarissimi casi, si riusciva ad imprimere loro un movimento regolare. Nel corso del lavoro, i guardiani restavano oltre il limite di sicurezza, ed i condannati facevano la spola fra loro e le macchine, per comunicare quali fori e quali bottoni avrebbero premuto. Tutto questo veniva riportato con cura nei disegni.

— Chi fa i disegni?

— Non lo so.

— C’era da aspettarselo. Chi porta i disegni?

— Grandi capi su degli uccelli.

— Intende dire quelle simpatiche bestiole che già conosciamo, — spiegò Vadim. — Si vede che qui li addomesticano.

— A chi servono le macchine?

— Alla Grande Rupe Potente, alla Battaglia Scintillante, a colui che posa un piede nel cielo e vivrà quanto le macchine.

— E che se ne fa delle macchine?

— Chi?

— La Rupe.

Il prigioniero rimase interdetto.

— Si tratta di un titolo, Saul, — disse Vadim. — Lo deve dire per intero.

— Va bene. Che se ne fa delle macchine la Grande Rupe Potente, con un piede sul cielo… o sulla terra? Accidenti a lui, non me lo ricordo… E che vivrà… e che vivrà…

— Quanto le macchine, — suggerì Vadim.

— Che stupidaggine, — brontolò Saul seccato. — Che c’entrano le macchine?

— Si tratta di un titolo, — spiegò Vadim. — Simboleggia l’eternità.

— Vadim, mi faccia un favore. Glielo chieda lei a che gli servono le macchine.

— A chi?

— Ma a quella maledetta rupe!

— Dica semplicemente — disse Vadim — la Grande Rupe Potente.

Saul sbuffò e posò la pipa sul tavolo.

— Allora, che cosa se ne fa delle macchine la Grande Rupe Potente?

— Nessuno sa cosa faccia la Grande Rupe Potente, — rispose con dignità il prigioniero.

Anton non resse e scoppiò a ridere, Vadim gli fece eco, stringendo i braccioli della poltrona. Il prigioniero li guardò esterrefatto.

— Da dove arrivano i disegni?

— Da dietro le montagne.

— Cosa c’è dietro le montagne?

— Il mondo.

— Quanti abitanti ha il mondo?

— Moltissimi. Non è possibile contarli.

— Chi porta le macchine nella conca?

— I prigionieri.

— Da dove?

— Da dove la strada è dura. Lì ci sono moltissime macchine. — Il prigioniero ci pensò su e aggiunse: — È impossibile contarle.

— Chi costruisce le macchine?

Haira sorrise sorpreso.

— Non le costruisce nessuno. Ci sono e basta.

— Ma da dove sono venute?

Haira pronunciò un discorso. Parlando, si soffregava il volto, si lisciava i fianchi, volgeva lo sguardo al soffitto. Strabuzzava gli occhi e a volte si metteva persino a cantare. La storia era pressappoco questa.

Molto tempo prima, quando non era ancora nato nessuno dei viventi, dalla luna rossa erano cadute delle grosse casse. Nelle casse c’era l’acqua, un’acqua densa, rossa e appiccicosa come marmellata. Dapprima quest’acqua aveva costruito una città. Poi aveva scavato in terra due buchi e li aveva riempiti di fumo mortale. Poi l’acqua si era trasformata in una solida strada fra i due buchi e dal fumo erano nate le prime macchine. Da allora un buco generava le macchine e un buco le divorava e sarebbe stato sempre così.

— Ma questo lo sapevamo già, — disse Saul. — E se i condannati non vogliono far muovere le macchine?

— Vengono uccisi.

— Da chi?

— Dai guardiani.

— Ne hai uccisi anche tu?

— Sì, tre, — disse orgoglioso Haira.

Anton chiuse gli occhi. È un ragazzo, pensava. Un ragazzo simpatico. Ed è orgoglioso di una cosa del genere.

— Come li hai uccisi? — chiese Saul.

— Uno l’ho ucciso con la spada. Ho fatto vedere al mio capo che ero capace di tagliare a metà un corpo con un colpo solo. Adesso sa che sono capace. Il secondo l’ho ammazzato con un pugno. Ed il terzo me lo sono fatto gettare e l’ho colto al volo con la lancia.

— Da chi te lo sei fatto gettare?

— Dagli altri condannati.

Saul tacque per un po’.

— Ci si annoia, — disse il prigioniero. — Il mio servizio è molto nobile ma è noioso. Non ci sono donne. Non c’è nessuno con cui intrattenersi in una conversazione intelligente. Ci si annoia, — ripeté e sospirò.

— Perché i condannati non scappano?

— Scappano. Ma non ha importanza. Nella pianura ci sono la neve e gli uccelli. Sui monti vigilano altri guardiani. Chi è intelligente non scappa. Tutti hanno voglia di vivere.

— Perché alcuni hanno le unghie dorate?

Il prigioniero disse sussurrando:

— Erano uomini di grande ricchezza. Ma volevano cose strane, alcuni volevano persino prendere il posto della Grande Rupe Potente. Sono schifosi come carogne, — disse ad alta voce. — La Grande Rupe Potente, la Battaglia Scintillante li manda qui con tutti i loro parenti. Eccetto le donne, — aggiunse con rammarico.

— Sapete, — disse Saul, — non sto in me dalla voglia di impiccarlo insieme a tutti gli altri portatori di spada e di lancia che si trovano in questa pianura. Ma, purtroppo, non servirebbe a niente. — Si riempì di nuovo la pipa. — Non ho più nulla da chiedere. Continuate voi, se volete.

— Non potete impiccarci, — disse in fretta Haira che era impallidito. — La Grande Rupe Potente, che posa un piede nel cielo, vi punirebbe.

— Gli sputo sopra alla tua Rupe, — disse Saul, fumando la pipa. Gli tremavano le dita. — Beh, l’interrogate o no?

Anton scosse il capo. In vita sua non si era mai sentito tanto nauseato. Vadim si avvicinò ad Haira e gli strappò dalle tempie i cristalli mnemonici.

— Che cosa facciamo? — chiese.

— Ecco l’uomo, — disse pensosamente Saul. — Prima di arrivare a ciò che siamo noi deve passare per queste cose e per molte altre ancora. Per quanto tempo rimane una bestia, anche dopo aver imparato a camminare con due sole zampe e ad usare gli arnesi da lavoro! E questi qui possiamo ancora scusarli, in fin dei conti non hanno la più pallida idea di cosa sia la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. Arriverà anche il loro turno. Li vedremo salvare la civiltà con le camere a gas. Li vedremo trasformati in filistei che porteranno il mondo ad un passo dalla catastrofe. Però sono soddisfatto. In questo mondo regna il medioevo, questo è assolutamente chiaro. Tutti questi titoli pomposi, le unghie dorate, l’ignoranza… E ciò nonostante c’è già qualcuno che desidera strane cose. Com’è bello! C’è qualcuno che desidera strane cose! Naturalmente un uomo del genere fa paura. Anche lui dovrà percorrere un lungo cammino. Lo bruceranno sul rogo, lo squarteranno, lo getteranno in galera, lo rinchiuderanno dietro il filo spinato… Sì. — Tacque.

— Però che impresa! — esclamò. — Vogliono impadronirsi delle macchine e non hanno idea di cosa siano! Ve ne rendete conto? Deve averlo progettato una mente audace. Ora naturalmente finirebbe qui fra i condannati. Ora il progetto è già diventato routine. Fa venire in mente il culto degli antenati… Mi sa che adesso nessuno si chiede più quale sia lo scopo, al più crede che sia un pretesto per tenere aperti questi lager. Eppure una volta è stato un lampo di genio… — Tacque e concentrò la sua attenzione sulla pipa. Anton disse:

— Perché la vede così nera, Saul? Non è necessario che ci siano camere a gas o roba simile. Siamo arrivati noi.

— Noi! — Saul si mise a ridere. — Cosa possiamo fare noi? Eccoci qui in tre, e tutti e tre vogliamo fare del bene attivamente. E che cosa possiamo fare noi? Certo possiamo andare dalla Grande Rupe a fare i parlamentari della ragione e a chieder loro di rinunciare allo schiavismo e di dare al popolo la libertà. Ci prendono per il fondo dei pantaloni e buttano pure noi nella conca. Oppure possiamo indossare delle tuniche bianche e recarci in mezzo al popolo. Lei, Anton, farà la parte di Cristo. Vadim farà l’apostolo Paolo ed io, naturalmente, farò San Tommaso. E ci mettiamo a predicare il socialismo e, magari, riusciamo pure a fare qualche miracolo. Qualcosa del genere del trasporto-zero. I farisei locali ci faranno impalare, e la gente che volevamo salvare ci tirerà lo sterco in faccia…

Si alzò e si mise a girare intorno al tavolo. — È vero, abbiamo lo skorcer. Possiamo, per esempio, toglier di mezzo i guardiani, mettere tutta quella gente nuda in colonna, e aprirci con loro un varco attraverso i monti, bruciare i sovrani ed i vassalli insieme coi loro castelli e i loro titoli altisonanti, e radere al suolo le città dei farisei. Alla fine verremo tolti di mezzo da un ammutinamento o da una congiura, e dopo un po’ di caos il potere passerà a qualche setta di sadducei. Ecco quello che possiamo fare noi.

Si rimise a sedere. Anton e Vadim sorridevano.

— Noi non siamo tre, disse Anton. — Noi, caro Saul, siamo venti miliardi. Probabilmente siamo venti volte più numerosi degli abitanti di questo pianeta.

— Beh, e allora? — disse Saul. — Vi rendete conto di quello che volete fare? Volete infrangere le regole dello sviluppo storico! Volete cambiare il corso naturale della storia! Ma lo sapete che cos’è la storia? È l’umanità stessa! E se si spezza la spina dorsale della storia, la si spezza all’umanità.

— Nessuno ha intenzione di spezzare schiene, — protestò Vadim. — C’è stato un periodo in cui intere popolazioni e paesi hanno fatto un salto dal feudalesimo al socialismo. E non si è rotta nessuna schiena. Di che cosa ha paura, Saul? Di una guerra? Non ci sarà nessuna guerra. Arriveranno due milioni di volontari, costruiranno una bella città, chi vorrà potrà venire a vederla! Troverà medici, insegnanti, ingegneri, scienziati, artisti… E se vuole seguire il nostro esempio? Certo! È proprio quello che vogliamo! Che cosa potrà fare un gruppetto di feudatari pidocchiosi contro di noi? Certo, ci vorrà un po’ di tempo. Bisognerà lavorare sodo, cinque anni almeno…

— Cinque! — disse Saul, alzando le braccia. — E perché non centocinquantacinque! Evviva gli illuministi! I populisti! I populisti in trasferta! Ma questo è un pianeta, ve ne rendete conto? Non è un gruppo, un popolo, nemmeno un paese. È un pianeta! È un pantano di ignoranza e copre un pianeta intero! Artisti, scienziati! E che farete, quando vi toccherà sparare? E toccherà a lei sparare, Vadim, quando qualche lercio monaco porterà sul rogo la sua ragazza perché fa la maestra… E toccherà a lei, Anton, sparare quando dei giovinastri dal casco arrugginito bastoneranno a morte il suo amico medico! E allora andrete in bestia e da coloni diventerete colonialisti…

— Il pessimismo — disse Vadim — è una triste sensazione di sfiducia nell’avvenire e nel successo.

Saul lo fissò feroce per qualche secondo.

— C’è poco da scherzare, — disse alla fine. — È una cosa seria. Il comunismo è prima di tutto un’idea! E un’idea non semplice. Che è stata conquistata col sangue. E che non si insegna in cinque anni con i buoni esempi. Lei vuole riversare l’abbondanza su gente nata e cresciuta nella schiavitù, per cui l’egoismo è una seconda natura. E sapete cosa ne verrà fuori? O che la vostra colonia farà da balia ad un intero pianeta di grassi fannulloni, che non hanno il minimo stimolo ad agire, oppure si farà avanti un energico farabutto che si servirà dei suoi bioplani, dei suoi skorcer e di tutto il resto per farla sloggiare, poi terrà per sé tutta l’abbondanza ed in questo modo rimetterà in carreggiata la storia…

Saul sollevò con un gesto violento il coperchio dello scarico delle immondizie, e si mise a vuotare rabbiosamente la pipa.

— No, cari miei, per il comunismo bisogna soffrire, bisogna combattere con lui, — indicò Haira con la pipa, — con i sempliciotti come lui. Bisogna sopraffare prima le loro picche, poi i loro moschetti, poi ancora le loro Schmeisser.[34] E non è ancora tutto. Quando finalmente avranno buttato le armi a terra e si saranno gettati nel fango ai vostri piedi, non sarete che all’inizio. Ecco che comincia la vera lotta. Non per il pezzo di pane, ma per il comunismo! Allora lo dovrete sollevare dal fango, ripulire…

Saul tacque e si lasciò andare contro la spalliera della poltrona.

Vadim si grattava pensosamente la nuca.

Anton disse:

— Lei capisce meglio la situazione, Saul, dato che è uno storico. Vadim, come sempre, ha detto la prima sciocchezza che gli è passata per la mente. In due o in tre non risolveremo mai questo problema, neppure teoricamente. Ma noi sappiamo tutti una cosa: non è mai avvenuto che l’umanità si ponesse un obiettivo e non riuscisse a raggiungerlo.

Saul borbottò qualcosa di incomprensibile.

— Come andranno le cose in concreto… — Anton si strinse nelle spalle. — Se ci sarà bisogno di sparare, impareremo di nuovo come si faceva una volta, e spareremo. Secondo me, però, se ne potrà fare a meno. Potremmo invitare, ad esempio, quelli che desiderano strane cose sulla Terra. Cominceremo da loro. Probabilmente, saranno ben contenti di andarsene da qui…

Saul alzò in fretta gli occhi e li riabbassò subito.

— No, — disse. — Questo no. Un vero uomo non vorrà andarsene. Quanto agli altri… — alzò di nuovo gli occhi e guardò in faccia Anton. — La Terra non ha bisogno di loro. A chi serve un disertore?

Chissà perché tacquero tutti. E chissà perché Anton si accorse di provare un’inesplicabile compassione e paura per Saul. Senza dubbio Saul aveva qualcosa che lo tormentava. Ma doveva trattarsi di qualcosa al di fuori dell’ordinario, di insolito, come era lui stesso, come erano le sue parole e il suo modo di fare.

Vadim esclamò con finta vivacità:

— Ehi, ma ci siamo dimenticati di una cosa! Perché quegli oppressi mi sono venuti addosso con la spada? Bisogna capire il perché!

Corse accanto ad Haira, cui già si piegavano le ginocchia per la stanchezza e per i cattivi presentimenti e gli applicò di nuovo sulle tempie i cristalli mnemonici.

— Di’ un po’, pitecantropo, — disse. — Perché i condannati che ti portavano a spasso ci si sono gettati addosso? Eri il loro beniamino, per caso?

Haira rispose:

— Per ordine della Grande Rupe Potente, della Battaglia Scintillante, di colui che posa un piede nel cielo e che vivrà quanto le macchine, i condannati vengono rinchiusi qui fino a quando le macchine non saranno scomparse…

— Cioè per sempre, — commentò Vadim.

— … ma se uno dei condannati riesce a far muovere una macchina, viene graziato e torna di là dai monti. Quelli che mi portavano, tornavano a casa. Erano già quasi uomini. Al posto di blocco avrei dovuto lasciarli liberi e proseguire a dorso d’uccello. Mi hanno difeso perché volevano vivere. Ma non ci sono riusciti e perciò verranno ammazzati. — Sbadigliò nervosamente e aggiunse: — Se il sole si è già levato, allora li hanno già giustiziati.

Anton balzò in piedi, facendo rovesciare la poltrona.

— O Signore! — disse Saul, e fece cadere la pipa.



VII


Il portatore di lancia del clan dei colli fu messo a sedere fra Saul e Anton. Era di nuovo avvolto nella sua pelliccia, che ora odorava di disinfettante, e sedeva immobile, limitandosi a storcere inquietamente il naso: si stava annusando. Erano le cinque del mattino, stava spuntando una smorta alba gelata. Faceva molto freddo.

Vadim guidava in silenzio il bioplano, mantenendosi sulla massima velocità. Pensava solo a una cosa: «Faremo in tempo o no?». Almeno quei poveracci avessero rinviato di un poco il loro rientro al villaggio! Ma si rendeva conto che non avevano dove andare. La loro unica possibilità di salvezza era cercare di commuovere il capo dei guardiani con la descrizione della loro eroica difesa del suo messaggero. Ma quel bestione, pensò amaramente Vadim, non si sarebbe commosso. Se il bioplano non fosse arrivato in tempo, li avrebbe ammazzati tutti. Immaginò se stesso nell’atto di consegnare Haira al grasso portatore di ottima spada, per poi dirgli: Kairame sorinata-mu karo-sika!, ecco il tuo uomo! — ed ordinare con voce stridula: Tatimata-ne korisa!, non osare di uccidere questi liberi! Non faceva che ripetersi in mente queste frasi, tanto che alla fine avevano perso per lui ogni significato. Oltre tutto non sarebbe stato così facile. Forse avrebbe dovuto avere una lunga conversazione. Ma difficilmente il portatore di spada sarebbe stato d’accordo a farsi applicare alla lurida testa di comandante i cristalli mnemonici. Vadim lanciò un’occhiata di sbieco alla scatola lucida dell’analizzatore. L’avrebbe fatto lavorare. Non per nulla si era sobbarcato il trasporto di quel peso di un quarto di quintale dall’astronave al bioplano.

Anton chiese:

— E cosa diceva il messaggio?

Vadim estrasse di tasca un foglietto spiegazzato e glielo tese, senza voltarsi.

— Leggi ciò che ho scritto fra le righe con la matita. È la traduzione fatta dall’analizzatore e riveduta da me.

Anton prese il foglietto e cominciò a leggere sottovoce:

«Alla Ruota Radiosa dalla pelliccia d’oro, al portatore di terribile dardo, al primo servo ai piedi del trono della Grande Rupe Potente, della Battaglia Scintillante, di colui che posa un piede nel cielo e che vivrà quanto le macchine, ai tuoi piedi getta questo rapporto l’umilissimo guardiano del clan dei turbini, portatore di ottima spada.

1) la grande macchina “soldato-cupola” è entrata in movimento quando sono stati toccati il quinto ed il quarantasettesimo foro. Il movimento è stato rapido, rettilineo ed incontenibile.

2) su una macchina mai vista sono giunti tre uomini, che non sanno parlare, non portano armi, ignorano i regolamenti e desiderano strane cose. Non conoscendo la loro natura, resto in attesa di direttive.

3) Il carbone sta finendo, ma per incapacità ed inesperienza non siamo in grado di applicare la tua clemente direttiva riguardo all’utilizzazione dei cadaveri per il riscaldamento.

Allegati:

a) lo schema della grande macchina “soldato-cupola”;

b) campioni della stoffa incollata dagli sconosciuti sopra le ferite dei criminali».

— Sì, non c’è niente di nuovo, — concluse Anton.

— Qui siamo in piena età feudale, — disse Saul. — Non perda tempo a far cerimonie, se non si vuole poi ritrovare con una picca nella pancia.

Ma chi ha voglia di stare a far cerimonie, pensava Vadim. E certo non per via delle picche. Il prigioniero all’improvviso si agitò sul sedile e implorò con rozza voce di basso:

Ringa

— Sentu! — sibilò lentamente Vadim.

Il prigioniero restò impietrito.

— Vuole ancora della marmellata, — disse Vadim.

— Si rassegnerà, — disse Saul. — «Mangiare e bere, spaccare il muso…»

Non fa niente, — disse Vadim. — Vedrete che finirà anche lui per desiderare strane cose.

— Vadim, passami un paio di cristalli, — chiese Anton. — Voglio parlare con lui.

— Prendimeli dalla tasca destra, — rispose Vadim, senza voltarsi.

— Ascolta, Haira, — disse Anton. — Se ti riportiamo al villaggio, il tuo capo lascerà liberi quelli che ti hanno difeso?

— Sì, — rispose in fretta Haira. — Ma voi mi riportate al villaggio?

— Certo che ti riportiamo, — disse Anton. — Ti aspettavi che ti ammazzassimo?

Vadim gettò un’occhiata indietro. Haira aveva ripreso la sua aria altezzosa.

— Il capo è severo, — disse. — Forse non li lascerà liberi e li rimanderà a lavorare nella conca. Però voi potete sperare di restare in vita. Può darsi che vi lasci addirittura liberi di andarvene, se gli darete dei doni preziosi. Ne avete?

— Ne abbiamo, — rispose distrattamente Anton. — Abbiamo tutto.

— Che cosa sta dicendo? — brontolò Saul. — Vadim, dove sono i miei cristalli? Ah, eccoli…

— Forse ci toccherà veramente riscattarli, — proferì Anton sovrappensiero. — Non scateneremo certo una zuffa… Non ne ho nessuna voglia.

Haira si mise di nuovo a parlare, e la sua voce era ferma e stridula.

— E a me darete questo giubbotto, — indicò la casacca di Saul.

— E questa cassa, — mostrò l’analizzatore. — E tutta la marmellata. Tanto vi leveranno tutto, prima di mandarvi nelle baracche. Avete fatto bene a decidere di non scatenare una zuffa. Le nostre lance sono aguzze e dentellate, e quando vengono ritirate dopo il colpo, si tirano dietro tutte le interiora del nemico. E prenderò anche queste scarpe. E anche queste. Perché tutto ciò che si trova fra la terra e il cielo appartiene alla Grande Rupe Potente. E prenderò anche questo.

Haira tacque, sovrappensiero. Vadim, che si stava divertendo di cuore, si girò a guardarlo. Anton guardava attento dal finestrino, era chiaro che non aveva sentito. Haira, seduto per terra, a gambe incrociate, gli guardava le scarpe. Saul fissava Haira, reggendosi sulla tempia uno dei cristalli. Dalla faccia si vedeva che era furibondo. Colta un’occhiata di Vadim, abbozzò malamente un sorriso. Haira continuò, col tono di chi sta spiegando qualcosa:

— Quando vi svestiranno, non dimenticate di dire che questo, — e mostrava col dito, — e questo e questo sono roba mia. Sono stato io il primo.

— Sta’ zitto, — disse piano Saul.

— Sta’ zitto tu, — ribatté Haira con dignità. — Altrimenti ti bastoneremo a morte.

— Saul, — disse Anton. — La smetta. Non faccia il bambino…

— Sì, è stupido, — commentò Haira. — Ma ha una bella casacca.

Ma guarda, è proprio sicuro di averci in pugno, pensò Vadim. Vede già come ci denuderanno, come ci spingeranno nella conca, come dormiremo sul pavimento di terra coperto di feci, e staremo sempre zitti, e lui ci farà correre scalzi sulla neve e ci punzecchierà con la sua picca, e ci darà dei ceffoni per farci correre più in fretta.

E intorno a noi, uomini che pensano solo a se stessi, che sognano solo di infilare il dito in quel foro che metta in moto la macchina, e allora saranno aggiogati, felici e contenti, a una slitta che porteranno al di là dei colli nevosi, sollecitati dalla punta della picca, per raggiungere la libertà di cui si può godere ai piedi del trono della Grande Rupe… Vadim si morse il labbro con tanta violenza da vedere le stelle. Vorrei fargliela io la festa, pensò con odio. Era uno strano sentimento, l’odio. Lo riempiva di gelo e gli faceva tendere i muscoli. Non gli era mai capitato prima di odiare qualcuno. Sentì che alle sue spalle Saul sbuffava feroce e Haira miagolava una canzone.

In basso comparve la conca fangosa. Sul fondo erano sparse in disordine le macchine, divenute assurdi e barbari strumenti d’umiliazione e di morte. Era colpa degli alieni, pensò Vadim. Ma che cosa gli si poteva rimproverare? Non erano nemmeno umanoidi. Erano acqua del cielo… Marmellata…

Scese di quota e, frenando, seguì la strada fino alla casetta dei guardiani. Haira, riconosciuto il posto, proruppe in strilli di gioia che neppure il potente analizzatore riuscì a interpretare.

Davanti alla casetta c’era una folla. La neve luccicava nella luce verdastra dell’alba. Gli ex graziati, nudi e miserevoli, erano raccolti in gruppo nella neve, e aspettavano a capo chino. Intorno a loro, appoggiati alle picche, a gambe larghe, stavano i guardiani in pelliccia. Sulla veranda torreggiava il portatore di ottima spada. Teneva l’ottima spada vicino all’orecchio e faceva scorrere il polli. ce sul filo della lama. Quando si accorse del bioplano che scendeva, restò immobile, con la bocca spalancata.

Vadim fece atterrare il bioplano proprio davanti alla veranda. Aprì l’oblò e gridò:

Kaira-me sorinata-mu! Tatimata-ne kori-su!

Abbandonò il posto di pilotaggio, prese Haira per la vita e lo mise in piedi sui gradini della veranda. Il capo abbassò la spada e chiuse la bocca con uno scatto secco. Haira curvò la schiena e gli si accostò rapidamente a piccoli passi.

— Com’è che non ti hanno ancora ammazzato? — chiese il capo stupito.

Haira incrociò le braccia sui petto e tubò in risposta:

— È avvenuto quel che doveva avvenire! Ho raccontato loro della grandezza e della potenza della Grande Rupe, della Battaglia Scintillante, di colui che posa un piede nel Cielo e che vivrà quanto le macchine, ed essi si sono bagnati addosso per la paura. Mi hanno nutrito con un cibo gustoso e mi hanno parlato come dei sottoposti e sono venuti qui per inchinarsi al tuo cospetto.

I portatori di lancia si erano rispettosamente raccolti presso la veranda. Soltanto i condannati nudi non si erano mossi, aspettando rassegnati l’esecuzione. Il comandante rinfoderò la spada con pomposa lentezza. Non guardò più il bioplano. Si mise ad interrogare Haira in tono calmo e indifferente.

— Dove vivono?

— Hanno una grande casa nella pianura. Molto calda.

— Dove hanno preso questa macchina?

— Non so. Probabilmente sulla strada.

— Dovevi dirgli che tutto il cielo e tutta la terra appartengono alla Grande Rupe Potente.

— Gliel’ho detto. Ma le scarpe, una giubba e una cassa lucente appartengono a me. Non lo dimenticare poi, mio glorioso e forte.

— Sei uno stupido, — disse il capo con disprezzo. — Tutto appartiene alla Grande Rupe Potente. E tu avrai solo quello che ti spetterà. Dov’è il messaggio?

— Me l’hanno preso, — disse Haira, deluso.

— Due volte stupido. Questo ti costerà la pelle.

Haira si rabbuiò. Il capo lanciò un’occhiata vaga nello spazio fra Vadim ed Anton e disse:

— Che mostrino le scarpe.

Saul ringhiò e fece per uscire dal bioplano.

— Calma, calma, — disse Anton.

Il capo si soffiò melanconicamente il naso con le dita.

— E che cibo hai mangiato? — chiese.

— Marmellata. Cioè una specie di marmellata. È dolce e rallegra il palato.

Il capo parve riaflimarsi un poco.

— E ne hanno molta di questa roba?

— Moltissima! — gridò con entusiasmo Haira. — Però non farmi battere.

— Ho deciso, — disse il capo. — Che tornino a casa e mi portino tutta la marmellata e tutto il cibo che hanno. Non hanno carbone?

Haira guardò interrogativo Anton. Anton disse brusco:

— Esigi la libertà di quei condannati!

— Che dice? — chiese il capo.

— Chiede di non uccidere quei delinquenti.

— E come fai a capire quello che dice?

Haira indicò con entrambe le mani i cristalli mnemonici sulle sue tempie.

— Se ci si appoggia queste cose alla testa, si capisce il linguaggio degli altri come se fosse il proprio.

— Dammele, — ordinò il capo. — Anche queste sono proprietà della Grande Rupe Potente.

Tolse i cristalli ad Haira e dopo qualche tentativo infruttuoso riuscì ad applicarseli alla fronte. Anton disse subito:

— Lascia immediatamente liberi questi uomini che hanno meritato la libertà.

Il capo lo guardò stupito.

— Non puoi parlare così, — disse. — Ti perdono perché sei un plebeo e non conosci la mia lingua. Ora va’ a prendere tutto e ricordati di portare anche la lettera ed il disegno. — Si voltò verso i portatori di picche che l’ascoltavano con rispetto e urlò: — Che cosa volete voi qui, necrofili? Volete annusare le loro brache? Le brache di tutti quelli che parlano con me puzzano nello stesso modo! Andate a lavorare! Portate questa marmaglia nella conca. Via! Via!

I portatori di picche corsero via ridacchiando. Gli ex liberati, sospinti da loro, li precedevano lungo la strada. Il capo appioppò ad Haira un manrovescio che voleva essere amichevole e gli ordinò di levarsi di torno. Haira barcollò sotto il colpo e si precipitò a casa. Rimasto solo, il capo volse lo sguardo prima al cielo poi alle baracche, sbadigliò a lungo e rumorosamente, lanciò un’occhiata al bioplano, sputò a terra, e disse con voce annoiata, guardando altrove:

— Fate come vi ho detto. Tornate a casa e portatemi qui tutta la marmellata e gli altri cibi e andate nella conca, se volete restare vivi.

Vadim guardava quell’enorme corpo sudicio e provava una strana debolezza in tutte le membra. Si sentiva come se stesse tentando di scalare in sogno una ripida parete scivolosa. Anton gli mormorò ad un orecchio:

— Sta’ attento, Dimka. Non è un ragazzino come Haira.

— Non resisto più, — disse Saul con una strana voce incolore.

— Adesso lo strozzo.

— Glielo proibisco assolutamente, — disse Anton.

Il capo gridò, rivolgendosi verso la porta aperta:

— Arrostiscimi la carne, Haira, necrofio! E scaldami il letto! Oggi sono di buon umore. — Poi si volse di profilo rispetto al bioplano, alzò l’indice sporco e si mise a dire, guardando verso le montagne: — Adesso siete ancora istupiditi e impietriti per la paura. Però dovete sapere che in futuro, quando parlerete con me, sarete tenuti a inchinarvi e a premervi le palme delle mani sul petto. E non mi dovete guardare, perché siete plebei ed il vostro sguardo è immondo. Oggi vi perdono, ma un’altra volta vi farò bastonare. E un’altra cosa dovete tenere bene in mente, che le massime virtù sono l’obbedienza ed il silenzio. — Si infilò l’indice in bocca e cominciò a stuzzicarsi un dente. Il suo discorso divenne quasi incomprensibile. — Quando tornerete con la marmellata, il messaggio ed il disegno, vi svestirete e lascerete tutto sulla veranda. Io non verrò fuori. Poi andrete nelle baracche a prendere un camiciotto ai morti. Ne potete prendere solo uno a testa. — Sghignazzò all’improvviso. — Con due sudereste, quando siete al lavoro. Se volete, potete anche spogliare i vivi, ma solo quelli che hanno le unghie dorate…

Dalla porta aperta fece capolino Haira.

— Tutto è pronto, mio forte e glorioso, — comunicò.

— La vostra sorte non sarà cattiva, — continuava il capo. — La Grande Rupe Potente ha bisogno di uomini che sappiano muovere le macchine. Quando li avrà, potrà finalmente cominciare la guerra per la conquista delle terre che gli spettano di diritto! Ed allora la Grande Rupe Potente, — alzò di nuovo l’indice, — la Battaglia Scintillante, colui che posa un piede nel cielo e che vivrà quanto le macchine…

— Porco! — urlò Saul con voce assordante. Accanto alla testa di Vadim brillò la canna del disintegratore.

— Non deve farlo! — tuonò Anton.

Saul scostò Vadim e si impadronì del volante.

— Ah, non devo farlo? — gridò. — E che cos’è che devo fare? Aver pazienza e aspettare finché non spariscono le macchine? Va bene!

Uno strappo tremendo fece cadere Vadim fra i sedili. Saul aveva avviato il bioplano senza chiudere l’oblò. Si udì uno schianto. Una trave spezzata passò sopra la cabina. Il vento gelato fischiava nelle orecchie, il bioplano rollava paurosamente, e Vadim fece appena in tempo a vedere il capo rannicchiato carponi sulla veranda, con le enormi natiche rivolte verso il cielo, mentre il tetto della casa, rivoltato e ridotto in pezzi, crollava nel mezzo della strada. Vadim cercò di chiudere l’oblò. L’oblò non si chiudeva.

— Saul! — gridò Vadim. — Rallenti!

Saul non rispose. Guidava il bioplano lungo la strada, sulla quale già marciavano le colonne dei condannati diretti alla conca. Sedeva curvo, nascondendosi il volto sotto la piccola visiera del berretto. Teneva lo skorcer sulle ginocchia. Il bioplano procedeva a strappi irregolari, il vento contrario cercava di rovesciarlo.

Vadim continuava a tentare di chiudere l’oblò con una mano sola. Con l’altra reggeva la cassetta dell’analizzatore che gli era caduta sulle ginocchia. Saul mormorava fra i denti:

— Farabutti!… canaglie… boia… Volete le macchine? Ve le do io le macchine!… Volete terre da conquistare? Eccovi le terre!…

Vadim riuscì finalmente ad appollaiarsi su un sedile, e si guardò intorno. Il bioplano puntava diritto sulla conca. Anton, stringendosi ai braccioli della poltrona, con gli occhi socchiusi per le raffiche di vento, fissava la schiena di Saul.

— Vuoi la marmellata? — ringhiava Saul. — Te la do io la marmellata!… I dolciumi… necrofili…

Sopra la conca il bioplano puntò verso l’alto. Saul smise di imprecare, si sporse fuori e sparò in basso con lo skorcer. Vadim si tirò indietro. Dalla conca si levò un’accecante fiammata violetta, accompagnata da un lacerante fragore di tuono, mentre il bioplano proseguiva.

Vadim, tendendosi al punto di far scricchiolare le ossa, riuscì finalmente a chiudere l’oblò. Nella cabina si ristabilì il silenzio.

— Gli farò cambiare idea riguardo all’eternità, — disse Saul e tacque.

— Ma forse non ce n’è bisogno, — propose timidamente Vadim. Non riusciva ancora a capire cosa volesse fare Saul, come potesse arrabbiarsi sul serio con quegli uomini ottusi ed ignoranti.

Il bioplano ruggiva sopra le cime dei colli, sollevando nubi di polvere di neve. Saul era un pessimo pilota, dava troppo gas al motore, sottoponendolo ad uno sforzo inutile. Dietro l’apparecchio si formò una densa scia di brina. Alcuni uccelli tentarono di inseguire e intercettare il bioplano, ma scomparvero subito nel vortice di neve. Alle loro spalle si innalzava verso il cielo una colonna di fumo.

— È un peccato, è un vero peccato… — riprese Saul, — che non si possa eliminare con un colpo solo tutta l’ottusità e la crudeltà senza distruggere anche l’uomo… Beh, leviamo di mezzo almeno una stupidità in questo paese infinitamente stupido!…

— Sta volando verso l’autostrada? — chiese Anton con calma.

— Sì, e non cerchi di fermarmi.

— Non ci penso nemmeno, — disse Anton. — Però stia attento.

Ora Vadim aveva capito e si mise a guardare lo skorcer. A quanto pare, pensò, ora comincerà qualcosa che non riuscirò mai a descrivere… e nemmeno a capire.

Sull’autostrada tutto era come prima. Come il giorno prima e come cento anni prima, le macchine procedevano senza rumore in file uniformi. Uscivano dal fumo e rientravano nel fumo. E così si poteva continuare all’infinito. Ma Saul fece atterrare il bioplano ad una ventina di metri di distanza, abbassò la cappotta e appoggiò la canna dello skorcer sul bordo.

— Non sopporto nulla di eterno, — disse con calma inattesa, e fece fuoco.

Il primo colpo centrò una grande macchina che pareva una tartaruga. La corazza volò in pezzi come un guscio d’uovo e la piattaforma si mise a girare su se stessa, travolgendo e fracassando i piccoli veicoli verdi che la seguivano.

— È impossibile cambiare le leggi della storia… — disse Saul.

Una gigantesca torre nera, montata su ruote, s’incendiò con un boato. Un’altra torre si rovesciò, ostruendo una parte della strada.

— … però si può correggere qualche errore storico, — continuò Saul, mirando.

Il lampo violetto della scarica di milioni di volt esplose sotto una macchina arancione, che pareva un sintetizzatore da campo, e ne fece volare in alto i frantumi.

— … anzi è necessario correggere questi errori, — terminò Saul, senza smettere di sparare. — Il feudalesimo è già di per sé abbastanza sporco.

Poi tacque. A destra il cumulo dei rottami roventi andava crescendo. A sinistra, per la prima volta, forse, da migliaia di anni, la strada era libera. Passavano soltanto macchine isolate che avevano trovato per caso un varco nella cortina di fuoco. Poi il cumulo fiammeggiante crollò fragorosamente, sollevando una colonna di cenere e scintille, e nuove file di macchine si riversarono sull’autostrada coperta di nubi di fumo. Saul bestemmiò, impugnando di nuovo lo skorcer. Rimbombarono nuove scariche. Altre macchine si incendiarono. La montagna di rottami arroventati riprese a crescere. Si levarono pesanti nembi neri, attraversati da fontane di scintille. Dalle nuvole di fumo cadevano fiocchi lanuginosi di cenere. La neve diventava nera e fumigava. Sull’autostrada si era sciolta.

Vadim sedeva, tenendo ferma coi piedi la cassetta dell’analizzatore, e chiudeva gli occhi, rabbrividendo ad ogni sparo. Infine si abituò e smise di sbattere le palpebre. Per molte volte di seguito rivide la stessa scena: sull’autostrada la montagna fiammeggiante tornava a crescere, poi crollava di nuovo, spargendo intorno relitti ardenti ed espirando rumorosamente vampate di calore insopportabile, mentre le macchine continuavano ad arrivare in un flusso incontenibile, incuranti di queste distruzioni. Non se ne vedeva la fine.

— Credo che basti, Saul! — disse Anton.

Poteva fare a meno di dirlo, pensò Vadim. Saul smise di sparare — aveva finito i proiettili — e si era ripiegato su se stesso con la testa fra le braccia. La canna rovente dello skorcer era puntata verso il cielo. Vadim guardò la testa e le mani di Saul, coperte di fuliggine, e sentì la sua enorme stanchezza. Non capisco, pensò. Non è servito a niente. Povero Saul. Povero Saul.

— È la storia, — disse Saul con voce rauca, senza sollevare la testa. — Non si può fermare niente.

Si raddrizzò e guardò i ragazzi.

— Dovete scusarmi, — disse. — Il cuore non ha retto. Non ne ho potuto fare a meno. Dovevo fare qualcosa.

Restarono a guardare a lungo la strada. Le macchine si susseguivano, una fila dopo l’altra, spingendo via i rottami, e facendo turbinare la cenere. Ben presto tutto tornò come prima, a parte una macchia purpurea, che si raffreddava lentamente sull’autostrada, e la neve sporca tutt’intorno, e a lungo non si dissolse la cortina di fumo, oltre la quale tremolava, rosso e deformato, il disco della stella nana EN-7031.

Saul chiuse gli occhi e disse qualcosa di incomprensibile:

— Sono come i forni… Se distruggiamo solo i forni, ne verranno costruiti degli altri, e saremo al punto di prima.

Non lontano risuonarono grida lamentose, odiosamente familiari. Vadim volse il capo controvoglia. Sul sentiero che finiva nell’autostrada c’era una folla di uomini ischeletriti, vestiti di sacchi. Intorno a loro si agitavano indaffarati i portatori di picche, avvolti nelle pellicce. Che cosa cercano qui? si chiese Vadim con apatia. I guardiani fecero uscire dalla folla, spingendolo con i bastoni delle picche, uno di quegli infelici. Tremando e guardandosi alle spalle, questi oltrepassò la neve annerita e raggiunse l’autostrada. Una gigantesca torre lucente avanzò senza fretta verso il condannato. Egli guardò terrorizzato i guardiani, che gli urlarono qualcosa a proposito delle braccia. Il condannato chiuse gli occhi e spalancò le braccia. La macchina lo schiacciò e passò oltre. Saul si alzò. Lo skorcer cadde sul pavimento con un tonfo sordo.

— Voglio spaccargli il muso, — disse Saul. Le dita gli si piegavano e tornavano a distendersi.

Anton lo trattenne per la casacca.

— Parola d’onore, non serve.

— Lo so, — Saul si rimise a sedere. — Credete che non lo sappia? Ma perché non posso fare niente? Perché non sono riuscito a fare niente né qui né là?

I guardiani spinsero sulla strada un altro condannato. Il primo fu lasciato steso dov’era, piatto come un sacco vuoto. Il secondo spalancò le braccia e andò a mettersi davanti ad una piattaforma rossa, sormontata da una scatola cubica. La piattaforma rallentò e si arrestò a due passi da lui. I guardiani gridarono. Il condannato sollevò le braccia e cominciò a retrocedere verso il sentiero. La macchina rossa lo seguì come incatenata. Raggiunto il sentiero, procedette dietro di lui in direzione della conca, sobbalzando pesantemente sulle asperità. Intanto sull’autostrada sfilavano senza interruzione altre macchine.

— Ho fatto una sciocchezza, — disse amaramente Saul. — Sgridatemi. Comunque qui si dovrà cominciare con qualcosa del genere. So che tornerete qui. Ebbene, ricordatevi che bisogna sempre cominciare con ciò che semina il dubbio… Ma perché non mi rimproverate?

Vadim si limitò a sospirare, rabbrividendo. Anton rispose con dolcezza:

— Perché mai, Saul? Lei non ha fatto nulla di male. Ha fatto soltanto strane cose.



VIII


— Dimka, — disse Anton, — va’ a vedere come sta Saul.

Vadim si alzò e uscì dalla sala dei comandi. Scese nel quadrato ed andò a dare un’occhiata nella cabina di Saul. Era piena di fumo. Saul giaceva sul divano, nella stessa posizione in cui l’avevano messo dopo il salto subspaziale. Vadim gli si sedette accanto e gli toccò la fronte. Scottava. Saul borbottava confusamente:

— Gallette… abbiamo bisogno di gallette… Ma perché mi portate le forbici? Sono da sarto… non sono mica forbicine da manicure… Io vi chiedo le gallette… e voi mi portate le forbici… — sussultò all’improvviso e riprese con voce stridula: — Zum befail, signor capoblocco… Nossignore, stiamo ammazzando i pidocchi.

Vadim gli accarezzò una mano inerte. Stringeva il cuore guardare Saul. Addolora sempre vedere in tali condizioni un uomo forte e sicuro di sé. Saul aprì lentamente gli occhi.

— Ah… — disse. — Vadim… Dimoška… Non devi credere chissà che cosa… Gli interrogatori non sono mai una cosa piacevole… Non devi pensar male di me… Tornerò… È stato semplicemente un momento di debolezza… Ma adesso mi sono un po’ riposato e tornerò… Sbarrò gli occhi. Vadim lo guardava con compassione.

— Stiamo bruciando di nuovo… — borbottò Saul. — Bruciamo come legna. Stepanov sta bruciando! Presto, nel bosco, nel bosco!

Vadim sospirò e si alzò. Si guardò intorno. Nella cabina c’era un terribile disordine. La strana borsa di Saul era caduta sui pavimento, aprendosi. Il contenuto si era sparpagliato: strane cartelle di cartone grigio, piene di fogli, decorate con la raffigurazione stilizzata di un uccello con le ali spalancate. Una si era aperta ed i fogli si erano sparsi per tutta la cabina. Anche sul tavolino c’erano dei fogli. Vadim voleva mettere un po’ d’ordine, ma si accorse che Saul si era addormentato. Allora uscì in punta di piedi e chiuse piano dietro di sé la porta.

Anton era seduto davanti al quadro dei comandi con le dita posate sui contatti, e guardava pensieroso lo schermo visore. Sullo schermo passavano lentamente cime di pini, lontane case illuminate, e le luci rosse degli impianti.

— Sta male, — disse Vadim. — Delira. Però adesso si è addormentato.

Si sedette sul bracciolo di una poltrona e si mise a guardare una parete coperta di disegni raffiguranti figure umane ed oggetti.

— Avrei potuto fare a meno di sporcare la parete, — disse. — Avrei potuto chiedere un po’ di carta a Saul. A quanto pare la sua borsa ne è piena. A proposito, Haira si mise a singhiozzare di paura, quando cominciai a fare questi disegni…

— Sai, Dimka, — disse Anton sovrappensiero. — Saul è senz’altro un tipo strano, ma non capisco come abbia fatto ad arrivare alla sua età senza mai farsi sottoporre al blocco biologico… — scosse il capo.

— Quale malattia credi che abbia?

— Ti ho già detto che non lo so. Haira gli avrà attaccato qualche infezione.

Vadim si immaginò quale tipo di infezione Haira potesse attaccare, fece una smorfia e scivolò nella poltrona.

— Saul mi piace, — dichiarò. — Ha i suoi strampalati punti di vista e li sostiene. Ed è tanto misterioso che mi entusiasma. Non ho mai sentito un delirio tanto incomprensibile.

— Ma chi hai mai sentito delirare?

— Che c’entra! Ho letto qualcosa in proposito. Fra l’altro, Saul ha detto che la sua fuga dalla Terra è stata il frutto di un momento di debolezza e che adesso, dopo essersi riposato, tornerà indietro. Mi fa piacere per lui, Toška.

— Te l’ha detto mentre delirava?

— No, per un po’ è tornato in sé. — Vadim guardò lo schermo. L’astronave stava sorvolando la borgata Chibiny. — Quanto tempo ti sembra sia passato da quando siamo partiti?

— Mille anni, — disse Anton.

Vadim ridacchiò.

— Non sono state vacanze monotone. Ne abbiamo viste di belle, non è vero? — sorridendo beatamente si mise a ricordare gli episodi eroici che avrebbe raccontato l’indomani a Nelly e Samson. Avrebbe battuto Samson senza dover esibire crani: sarebbe bastata la cicatrice.

— Peccato, — disse a voce alta.

— Che cosa?

— Peccato che mi abbia colpito al fianco. Una cicatrice in faccia, dalla tempia sinistra al mento, sarebbe stata un’altra cosa. Te la figuri?

Anton lo guardò.

— Sai, Dimka, — disse, — credo che non riuscirò mai ad abituarmi alle tue uscite.

— Non pensarci Anton. Non sei stato male neanche tu. Eri solo un po’ troppo indeciso, incerto… Racconterò a Galja che bravo comandante tu sia!

Anton fece una smorfia.

— No, è meglio che non racconti nulla, — fece una pausa. — Davvero si vedeva che non sapevo che pesci prendere?

— Secondo me, sì.

— Cerca di capire, non sapevo come comportarmi. Non mi ero mai trovato davanti ad un rompicapo come questo. Ne ho viste di tutti i colori, ma non mi era mai capitato di finire in una situazione in cui si debba fare qualcosa e non si possa far niente. Volevo migliorare qualcosa, ma capivo che non potevo combinare che guai… Era naturale che fossi sulle spine.

Vadim guardava la borgata.

— Però sei stato lo stesso un bravo comandante. Non ti avevo mai visto in questa parte… Chissà cosa starà facendo Haira? Mi sa che è sdraiato sulle pellicce puzzolenti e pensa alle belle scarpe che ha avuto a portata di mano… Di’, non puoi accelerare?

— No, qui è vietato.

— E tu dai retta ai divieti?… Fai pilotare me.

— Non se ne parla nemmeno, — disse Anton. — Ne ho già combinate abbastanza per perdere la patente di pilota.

— E che cosa hai combinato?

— Lasciamo perdere… Quel che è fatto è fatto. Puoi star certo che il pianeta Saul mi rivedrà non come pilota patentato, ma come mediocre dilettante di medicina.

Vadim si meravigliò. Che cosa avevano mai fatto? Soltanto il possibile ed il necessario. In fin dei conti non erano che in tre. Se fossero stati una ventina, avrebbero disarmato le guardie e l’avrebbero fatta finita. In ogni caso, di che cosa potevano essere rimproverati? Certo, avevano danneggiato il gruppo incaricato di trasportare Haira. Ma chi l’avrebbe potuto prevedere? C’era poco da dire: avevano compiuto un ottimo lavoro di esplorazione. Ne erano usciti con onore. Ora si trattava di rimboccarsi le maniche e di trovare le persone adatte. Per prima cosa, sarebbe stato costituito un comitato. Ovviamente, lui ed Anton ne sarebbero stati membri. Saul si sarebbe lasciato convincere. Non si poteva fare a meno di Saul: la presenza di uno scettico era indispensabile. Inoltre era combattivo e risoluto: i suoi studi sul XX secolo gli avevano modellato il carattere. Avrebbero preso anche Samson. Benché linguacciuto, era pur sempre un ottimo ingegnere. Nelly, da attrice qual era, avrebbe incantato i Sauliani. Un altro membro indispensabile era Grigorij Barabanov. Intanto faceva l’insegnante, e poi conosceva una caterva di altri insegnanti, che sembravano proprio brave persone… Ed il medico? C’era bisogno di un medico… Non poteva essere che in quella caterva di insegnanti non se ne trovasse nessuno specializzato in medicina. E c’era bisogno anche di cacciatori. Sì, erano indispensabili per sterminare quegli uccellacci dal becco ricurvo. Vadim ridacchiò. E poi il comitato avrebbe rivolto un appello a tutta la Terra…

A Vadim l’idea della vastità del progetto dava delle piacevoli vertigini. Sarebbero partite intere squadre di astronavi Delta, stracariche di giovani audaci, di medicinali, di sintetizzatori di cibo. Sarebbero state trasportate tonnellate di embrioni meccanici, che in mezz’ora si sarebbero trasformati in case, bioplani, stazioni meteorologiche ed altro ancora. Lui, Vadim, avrebbe trovato mille, diecimila, centomila nuovi amici!

— La flotta spaziale è in missione, — annunciò Anton.

— Come?

— Ho detto, la flotta spaziale è in missione. Ho fatto i conti: per cominciare, sarebbe necessario mandare una dozzina di astronavi Spettro. Però tutte le cinquantaquattro Spettro esistenti sono concentrate presso la EN-117 per il salto al di là della Macchia Cieca.

— Ne costruiremo delle altre, — decise Vadim.

Anton gli lanciò un’occhiata in tralice.

— Vaneggi, tanto per cambiare… Comunque, Dimka, è difficile che ti lascino tornare su Saul.

— Come sarebbe a dire: che mi lascino?

— Molto semplice. Il pianeta Saul non ha bisogno di ventenni pasticcioni ma di specialisti seri. Credi che la Terra possa privarsi di tanti specialisti?… E questo non è che la metà del problema.

— Forza! — l’incitò Vadim. — Parlami dell’altra metà.

Anton sospirò.

— Da un paio di centinaia di anni c’è un ente che non fa parlare molto di sé. È la Commissione per le Relazioni Extraterrestri. Senza il suo benestare nessun astronauta può pilotare niente. In questa Commissione non ci sono pasticcioni. C’è gente seria ed intelligente, che sa vedere le conseguenze.

Anton non scherzava, ma per ogni evenienza Vadim gli chiese:

— Dici sul serio?

— Altro che! — Anton fece scorrere un dito sui comandi ed aggiunse:

— Magari ti faccio guidare durante l’atterraggio, per consolarti… No, meglio di no. Ne ho abbastanza di cadaveri.

La navicella atterrò delicatamente nella stessa radura da dove era decollata trentanove ore prima. Anton spense il motore e per un po’ rimase seduto, accarezzando il cruscotto.

— Ebbene, — disse, — prima di tutto occupiamoci di Saul.

Vadim, rabbuiato, guardava dritto davanti a sé. Anton accese la ricetrasmittente di bordo e si collegò al servizio di pronto soccorso.

— Ambulatorio numero undici barra undici, — disse una tranquilla voce di donna.

— Abbiamo bisogno di un epidemiologo, — disse Anton. — Un uomo si è ammalato dopo una visita ad un pianeta di tipo terrestre.

Per qualche minuto la radio tacque. Poi una voce stupita chiese:

— Scusi, come ha detto?

— Vede, — spiegò Anton, — il malato non era stato sottoposto al blocco biologico.

— Strano. Va bene… la sua posizione?

— Eccola.

— Grazie, l’ho segnata. Saremo lì fra dieci minuti.

Anton guardò Vadim.

— Non prendertela, superstrutturalista, passerà. Andiamo da Saul.

Vadim si alzò lentamente. Scesero nel quadrato e videro subito che la porta della cabina di Saul era aperta. Saul e la sua borsa erano scomparsi. Lo skorcer giaceva sul tavolino.

— Ma dov’è? — chiese Anton.

Vadim corse verso l’uscita. Il portello era spalancato. Giungeva dall’esterno il frinire dei grilli nella tiepida notte serena.

— Saul! — chiamò Vadim.

Non rispose nessuno. Vadim non sapeva che fare. Camminò un poco sull’erba morbida. Dove poteva essere andato Saul, malato com’era? Chiamò di nuovo:

— Saul!

E di nuovo nessuno rispose. Soffiava un venticello caldo che accarezzava il volto di Vadim.

— Dimka, — chiamò Anton a voce bassa, — vieni qui.

Vadim tornò verso l’oblò illuminato. Anton gli tese un foglio di carta.

— Saul ha lasciato un biglietto, — disse. — L’aveva messo sotto lo skorcer.

Era un pezzo di grossolana carta grigia, coperta di ditate sporche. Vadim lesse:

«Cari ragazzi! Vi chiedo scusa per avervi ingannato. Non sono uno storico. Sono solo un disertore. Sono scappato fra voi perché volevo salvarmi. Voi non capireste. Mi era rimasto soltanto un caricatore e mi sentivo giù di morale. Ma ora me ne vergogno e torno indietro. Ma voi ritornate su Saul e fate il vostro dovere, io farò il mio. Ho ancora un caricatore intero. Vado. Addio. Il vostro S. Repnin».

— Senti, ma è proprio malato, — disse Vadim, sconcertato. — Corriamo a cercarlo!

— Leggi dall’altra parte, — disse Anton.

Vadim voltò il foglio. A grosse lettere storte c’era scritto:


Al Signor Raportführer Oberscharführer delle SS Wirth

da parte del detenuto n. 658617 capoblocco del n. 6


Rapporto


Riferisco che, a quanto risulta dalle osservazioni da me raccolte, il detenuto N. 819360 non è il criminale comune noto come Saul, ma un ex ufficiale delle forze corazzate dell’Armata Rossa, di nome Savel Petrovič Repnin, raccolto dalle forze dell’esercito tedesco presso Ržev in stato di incoscienza. Mi risulta che stia preparando un’evasione e che faccia parte del gruppo di cui ho parlato nel mio rapporto del mese di luglio del corrente anno 1943. Riferisco inoltre che questo gruppo prepara…


Qui il testo si interrompeva. Vadim guardò Anton.

— Non capisco, — disse.

— Nemmeno io, — disse piano Anton.

Una luce violenta illuminò la radura. L’elicottero sanitario Ogonëk stava scendendo lentamente verso l’astronave.

— Spiega tutto al dottore, — disse Anton con un sorrisetto ironico. — Io mi devo mettere in contatto col Consiglio.

— Che cosa gli spiego? — brontolò Vadim, guardando il pezzo di carta.


Il detenuto n. 819360 giaceva bocconi, col volto immerso nel fango al margine della strada. Stringeva ancora il calcio di una Schmeisser.

Se l’è cavata con poco, — disse con rincrescimento Ernst Brandt, ancora pallido. — Mio Dio, ho visto le schegge del parabrezza volarmi in faccia…

— Questa carogna ci faceva la posta, — disse l’Obersturmführer Deibel.

Si guardarono intorno. In mezzo alla strada stava ferma l’automobile mimetizzata. Il parabrezza era andato in pezzi, dal sedile anteriore, impigliato nel cappotto, pendeva in fuori l’autista morto. Due soldati portavano via, reggendolo per le braccia, un ferito urlante.

— Deve essere uno di quelli che hanno ucciso Rudolf, — disse Ernst. Fece leva con la punta di uno stivale sotto la spalla del cadavere e lo rivoltò bocconi.

— Donnerwetter, — disse. — Ma questa è la borsa di Rudolf!

Deibel, storcendo il faccione grasso, si chinò, spingendo in fuori l’immenso deretano. Le guance flaccide gli sussultarono.

— Sì, è la sua borsa, — mugolò. — Povero Rudolf. Salvare la pelle nella battaglia di Mosca per poi buscarsi la pallottola di un pidocchioso detenuto…

Si raddrizzò e volse lo sguardo verso Ernst. Ernst Brandt aveva una stupida faccia rubizza e lucenti occhi neri. Deibel si voltò.

— Prendi la cartella, — borbottò, fissando tristemente l’orizzonte, dove, fra gli alberi, si intravedevano le grosse ciminiere dei forni crematori, che diffondevano un nauseabondo fumo grasso.

Ed il detenuto n. 819360 con gli occhi morti spalancati fissava il basso cielo grigio.

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