Nacquero tutti lo stesso giorno — il 6 ottobre dell’anno 38 — cinque bambine e otto bambini, robusti, dalle voci stridule, in tutto e per tutto sani neonati umani. Al momento della loro venuta alla luce era tutto già pronto. Li accolsero e li esaminarono luminari della medicina, membri del Consiglio Mondiale e consulenti della Commissione dei Tredici; li ripulirono e li fasciarono e quello stesso giorno li inviarono sulla Terra in una navicella approntata appositamente. La sera, in tredici orfanotrofi, sparpagliati in tutti e sei i continenti, bambinaie premurose già si occupavano dei tredici orfanelli postumi che non avrebbero mai visto i loro genitori, la cui unica madre da quel momento in poi sarebbe stata solo l’intera umanità. La storia della loro origine era già stata preparata da Rudolf Sikorski in persona e, con permesso speciale del Consiglio Mondiale, era stata inserita nel GSI.
Il destino di Lev Vjačeslavovič Abalkin, così come il destino dei suoi dodici fratelli e sorelle uterini, fu da quel momento programmato per molti anni a venire, e per molti anni non differì in nulla dal destino di centinaia di milioni di suoi comuni coetanei terrestri.
Così come fanno tutti i neonati, dapprima se ne stette sdraiato, poi cominciò a muoversi gattoni, poi a stare in piedi e, infine, a camminare. Lo circondavano altri neonati come lui, e di loro si occupavano adulti premurosi, come in centinaia di migliaia di altri orfanotrofi del pianeta.
Per la verità, ebbe fortuna come pochi. Lo stesso giorno in cui lo portarono all’orfanotrofio, prese servizio come semplice medico osservatore Jadwiga Michailovna Lekanova, uno dei più importanti specialisti al mondo di psicologia infantile. Chissà perché le era venuta voglia di scendere dalle sommità della scienza pura e di ritornare al punto da cui aveva iniziato alcuni decenni prima. E quando il seienne Lev Abalkin fu trasferito insieme a tutto il suo gruppo nella scuola-internato 241 di Syktyvkar, Jadwiga Michailovna decise che era ora di lavorare con i bambini in età scolare, e si trasferì come medico osservatore in quella stessa scuola.
Lev Abalkin crebbe e si sviluppò come tutti gli altri bambini, incline, forse, a una leggera malinconia e introversione, ma non si scostava dalla norma del suo tipo psichico né presentava possibili anomalie. Le cose andavano altrettanto bene per quanto riguarda il suo sviluppo fisico. Non si distingueva dagli altri né per una maggior robustezza, né per una forza eccezionale. In breve, era robusto, sano, in tutto e per tutto un ragazzo normale, che si distingueva fra i suoi compagni di scuola, in massima parte slavi, solo per i capelli lisci blu-neri, di cui era molto fiero e che cercava di farsi crescere fino alle spalle. Fu così fino al novembre dell’anno 47.
Il 16 novembre, durante un normale controllo, Jadwiga Michailovna scoprì sulla piegatura del gomito destro di Lev un piccolo livido con un leggero gonfiore. I lividi dei ragazzini non sono una gran rarità, e Jadwiga Michailovna non vi diede alcuna importanza e, ovviamente, se ne sarebbe scordata se una settimana dopo, il 23 novembre, non fosse risultato che il livido non solo non era scomparso, ma si era stranamente trasformato. Non lo si poteva più chiamare livido, era piuttosto qualcosa di simile ad un tatuaggio, un piccolo segno marrone giallastro dalla forma di una lettera «Ž» stilizzata. Un prudente interrogatorio dimostrò che Lev Abalkin non aveva idea di come e perché gli fosse venuto. Era chiaro che, semplicemente, non si era accorto che gli fosse spuntato qualcosa alla piegatura del gomito destro.
Dopo qualche incertezza, Jadwiga Michailovna ritenne suo dovere informare di questa piccola scoperta il dottor Sikorski. Il dottor Sikorski accolse l’informazione senza il minimo interesse, tuttavia alla fine di dicembre chiamò all’improvviso Jadwiga Michailovna al videofono e si informò su come stavano le cose con il neo di Lev Abalkin. «Senza variazioni», rispose un po’ sorpresa Jadwiga Michailovna. «Se per lei non è un problema, — chiese il dottor Sikorski, — fotografi il neo in modo che il ragazzo non se ne accorga, e mi mandi la fotografia.»
Lev Abalkin fu il primo dei “trovatelli” a cui era apparso il segno alla piegatura del gomito destro. Durante i successivi due mesi i nei, che avevano forme più o meno bizzarre, erano comparsi anche ad altri otto “trovatelli” in condizioni assolutamente uguali: un livido con gonfiore all’inizio, nessuna causa esterna, nessuna sensazione di malattia e, dopo una settimana, un segno marrone-giallastro. Alla fine dell’anno 48 «il marchio dei Nomadi» lo portavano tutti e tredici. Ed allora fu fatta una scoperta veramente sorprendente e terribile che diede luogo al concetto di “detonatore”.
Chi sia stato il primo a introdurre questo concetto ora non è più possibile stabilirlo. Secondo Rudolf Sikorski, definiva la sostanza della cosa come non si sarebbe potuto fare più precisamente e più minacciosamente. Ancora nell’anno 39, un anno dopo la nascita dei “trovatelli”, gli xenotecnici che si occupavano di smontare l’incubatrice vuota avevano trovato al suo interno una lunga scatola di ambra, che conteneva tredici dischi grigi con alcuni segni sopra. All’interno dell’incubatrice furono trovati altri oggetti ancora più misteriosi della scatola.astuccio, e perciò nessuno vi prestò particolare attenzione. L’astuccio fu trasportato al Museo delle Civiltà Extraterrestri, e venne descritto in un volume segreto, Materiali sul sarcofago-incubatrice, come un elemento del sistema di conservazione della vita, superò felicemente il fiacco assalto di uno studioso che si sforzava di capire cosa fosse e a che cosa potesse servire, e poi venne messo nel settore specifico, già sovraffollato, degli oggetti di cultura materiale di uso ignoto, dove fu fortunatamente dimenticato per dieci interi anni.
All’inizio dell’anno 49, l’aiutante di Rudolf Sikorski per l’affare “trovatelli” (chiamiamolo, per esempio, Ivanov) entrò nello studio del suo capo e gli mise davanti un proiettore, acceso sulla pagina 211 del sesto volume dei Materiali sul sarcofago. Sua Eccellenza guardò e rimase di stucco. Davanti a lui c’era la fotografia dell’«elemento di conservazione della vita 15156A»: tredici dischi nelle nicchie dell’astuccio di ambra. Tredici bizzarri geroglifici, quegli stessi su cui aveva ormai smesso di lambiccarsi il cervello, che conosceva benissimo da tredici fotografie di tredici piegature di gomiti infantili. Un segno su ogni gomito. Un segno su ogni disco. Un disco per gomito.
Non poteva trattarsi di un caso. Doveva significare qualcosa. Qualcosa di molto importante. La prima mossa di Rudolf Sikorski fu di chiedere immediatamente al museo quell’«elemento 15156A» per nasconderlo nella sua cassaforte. A tutti. A se stesso. Aveva paura. Aveva semplicemente paura. E la cosa più terribile era che non riusciva nemmeno a capire perché avesse paura.
Anche Ivanov era spaventato. Si scambiarono un’occhiata e si capirono senza bisogno di parole. Davanti ai loro occhi stava lo stesso quadro: tredici bambini-bombe abbronzati, pieni di graffi, urlando allegramente, saltellano e giocano nell’acqua dei ruscelli, si arrampicano sugli alberi nei vari angoli dell’orbe terrestre, e qui, a due passi, tredici detonatori aspettano la loro ora in un silenzio sinistro.
Fu un momento di debolezza, naturalmente. Infatti non era accaduto nulla di terribile. Anzi, non c’era nessun motivo per ritenere che quei dischi, con quei segni, fossero detonatori per bombe che avrebbero dato vita a un programma misterioso. Erano semplicemente abituati a pensare il peggio, non appena si trattava dei “trovatelli”. Ma anche se questo panico della fantasia non li avesse ingannati, perfino in questo caso non era finora accaduto niente di terribile. In qualsiasi momento i detonatori potevano essere distrutti. In qualsiasi momento potevano essere prelevati dal museo e inviati in capo al mondo, alla periferia dell’Universo abitato e, in caso di necessità, ancora più lontano.
Rudolf Sikorski telefonò al direttore del museo e gli chiese di mettere il pezzo esposto numero tal dei tali a disposizione del Consiglio Mondiale, e di mandarlo a lui, Rudolf Sikorski, nel suo studio. Ottenne, un po’ sorpreso, un rifiuto, indubbiamente gentile, ma inequivocabile. Si scoprì (Sikorski non ne aveva la minima idea) che i pezzi esposti nei musei, e non solo in quello delle civiltà extraterrestri, ma in qualsiasi museo della Terra, non vengono dati né a individui singoli, né al Consiglio Mondiale e nemmeno al Signore Iddio. Perfino se il Signore Iddio avesse avuto bisogno di lavorare con il pezzo numero tal dei tali, si sarebbe dovuto recare al museo, mostrare l’attestato corrispondente e là, all’interno delle mura del museo, compiere le ricerche indispensabili, per le quali del resto, a lui, il Signore Iddio, sarebbero state create le condizioni indispensabili: laboratori, qualsiasi tipo di apparecchiatura, consultazioni e così via.
La cosa aveva preso una piega inattesa, ma il primo shock fu superato. In fin dei conti era un bene che a una bomba, per riunirsi al suo detonatore, occorresse per lo meno “l’attestato corrispondente”. Ed in fin dei conti solo da Rudolf Sikorski dipendeva fare in modo che il museo si trasformasse in una cassaforte, solo di misura più grande. E poi, che diavolo! Come faceva la bomba a sapere dove si trovava il detonatore e che esisteva? No, no, era stato un momento di debolezza. Uno dei pochi momenti del genere della sua vita.
Si occuparono con impegno dei detonatori. Uomini scelti all’uopo, dotati degli attestati e delle raccomandazioni necessari, condussero nei laboratori del museo, Ottimamente attrezzati, un ciclo di esperimenti attentamente elaborati. I risultati di questi esperimenti potrebbero essere definiti in tutta coscienza zero, se non si fosse verificata una strana, e persino, per dirla chiaramente, tragica circostanza.
Con uno dei detonatori fu condotto un esperimento di rigenerazione. L’esperimento diede risultati negativi: a differenza di molti oggetti appartenenti alla cultura materiale dei Nomadi, il detonatore numero 12 (segno “M” gotica), una volta distrutto, non si ricreò. Ma due giorni dopo, nelle Ande del nord, finì sotto una frana un gruppo di scolari dell’internato Templado, ventisette ragazze e ragazzi con il loro insegnante. Molti furono i contusi ed i feriti, ma tutti rimasero in vita, eccetto Edna Lasko (cartella personale n. 12, segno “M” gotica).
Ovviamente, poteva essere un caso. Ma gli studi sui detonatori furono interrotti e, attraverso il Consiglio Mondiale, si riuscì a vietarli.
E ci fu ancora un caso, ma molto dopo, ormai nel 62, quando Rudolf Sikorski, soprannominato il Nomade, era residente su Sarakš.
Il fatto è che, proprio grazie alla sua assenza dalla Terra, un gruppo di psicologi che facevano parte della Commissione dei Tredici riuscì ad ottenere il permesso di svelare parzialmente il mistero della sua personalità a uno dei “trovatelli”. Per l’esperimento venne scelto Kornej Jašmaa (numero 11, segno “Elbrus”). Dopo un’accurata preparazione gli fu raccontata tutta la verità sulle sue origini. Solo sulle sue. E di nessun altro.
Kornej Jašmaa terminava allora la Scuola dei Progressori. A giudicare dagli esami, era un uomo dallo stato mentale oltremodo stabile e dalla forte volontà, insomma una persona fuori del comune sotto tutti gli aspetti. Gli psicologi non si erano sbagliati. Kornej Jašmaa accolse l’informazione con sorprendente sangue freddo: evidentemente, il mondo circostante lo interessava molto di più del mistero delle sue origini. Il prudente avvertimento degli psicologi, che in lui, probabilmente, era inserito un programma nascosto che, in qualsiasi momento, avrebbe potuto indirizzare la sua attività contro gli interessi dell’umanità, non lo turbò minimamente. Confessò sinceramente che, sebbene si rendesse conto del fatto di costituire un pericolo potenziale, non ci credeva affatto. Accettò volentieri di sottoporsi ad autosservazioni regolari, comprendenti, fra l’altro, un esame giornaliero con un indicatore emozionale, e propose persino un’approfondita mentoscopia. In breve, la Commissione poteva essere soddisfatta: per lo meno uno dei “trovatelli” era diventato un alleato forte e consapevole della Terra.
Venuto a conoscenza di questo esperimento, Rudolf Sikorski dapprima si arrabbiò, ma poi decise che, in ultima analisi, questo esperimento poteva risultare utile. Fin dapprincipio aveva insistito sul mantenimento del segreto della personalità dei “trovatelli”, prima di tutto per ragioni di sicurezza della Terra. Non voleva che, quando (e se) il programma si fosse messo in moto, oltre a quel programma subconscio, avessero a disposizione anche notizie del tutto coscienti su loro Stessi e su quello che avveniva in loro. Avrebbe preferito che cominciassero a darsi da fare non sapendo cosa cercare e compiendo, inevitabilmente, azioni sciocche e strane. Ma in fin dei conti, per il controllo era persino utile avere uno (ma non di più!) dei “trovatelli” che possedesse le più complete informazioni su se stesso. Se il programma esisteva indubbiamente doveva essere organizzato in modo che nessuna consapevolezza riuscisse a dominarlo. Altrimenti per i Nomadi non sarebbe valsa la pena ingolfarsi in un affare disperato. Ma, senza dubbio, il comportamento di un uomo informato del programma avrebbe dovuto essere molto diverso da quello degli altri.
Tuttavia gli psicologi non ci pensavano proprio a fermarsi ai risultati conseguiti. Ringalluzziti dal successo avuto con Kornej Jašmaa, tre anni dopo (Rudolf Sikorski si trovava ancora a Sarakš) ripeterono l’esperimento con Thomas Nielson (numero 02, segno “Stella Obliqua”), guardiano del parco naturale di Gorgona. I risultati furono molto positivi ed effettivamente, per alcuni mesi, Thomas Nielson continuò a lavorare con buoni risultati, evidentemente per nulla turbato dal segreto della sua personalità. Si trattava di un uomo piuttosto flemmatico e non incline a manifestare le sue emozioni.
Eseguiva con precisione tutte le procedure raccomandate per l’autosservazione, parlava della sua posizione persino con un certo pesante senso dell’umorismo che gli era proprio, ma rifiutò categoricamente di sottoporsi a mentoscopia, adducendo per questo delle ragioni puramente personali. Però, centoventotto giorni dopo l’inizio dell’esperimento, Thomas Nielson perì nella sua Gorgona in circostanze che non escludevano la possibilità del suicidio.
Per la Commissione in genere e per gli psicologi in particolare fu un colpo terribile. Il decrepito Pakin annunciò la sua uscita dalla Commissione, abbandonò l’istituto, gli allievi, i familiari e si ritirò in volontario esilio. E, il centotrentaduesimo giorno, il collaboratore del COMCON-2, incaricato in particolare del controllo mensile dell’astuccio d’ambra, riferì in preda al panico che il detonatore numero 02, segno “Stella Obliqua”, era assolutamente sparito, senza lasciare dietro di sé nella nicchia, foderata di fibre semoventi di pseudoepitelio, nemmeno un granello di polvere.
Ora, l’esistenza di un legame a dir poco semi-mistico fra ciascuno dei “trovatelli” ed il detonatore corrispondente era indubbia. Così come era indubbio, per tutti i membri della Commissione, che, nel prossimo futuro, i terrestri non sarebbero riusciti a venire a capo di questa storia.