Dal rapporto di Lev Abalkin (operazione “Mondo morto”)


Nell’oscurità la città sembrava piatta, come un’antica stampa. La muffa luccicava opaca nel profondo dei neri antri delle finestre, e nei rari giardinetti e sulle aiuole balenavano piccoli e smorti arcobaleni: si sono dischiusi nella notte boccioli di fiori sconosciuti. Si è colpiti da aromi lievi ma irritanti. Da sotto i tetti scivola fuori e si libra sul viale la prima luna, un’enorme falce coperta di tacche, che diffonde sulla città una sgradevole luce arancione.

In Ščekn questa luminosità suscita un disgusto inspiegabile. Gli getta ogni momento sguardi di disapprovazione e ogni volta apre e chiude convulsamente le fauci, proprio come se avesse voglia di ululare e si trattenesse. Questo è ancora più strano, perché nel suo pianeta natale, Sarakš, non si può vedere la luna per via della rifrazione atmosferica, e con la luna terrestre ha sempre avuto un rapporto di completa indifferenza, almeno per quanto ne so io.

Poi notiamo i bambini.

Sono due. Tenendosi per mano, vagano silenziosi per il marciapiede, come se cercassero di nascondersi nell’ombra. Vanno nella stessa direzione in cui andiamo io e Ščekn. A giudicare dai vestiti sono dei maschietti. Uno è più alto, sugli otto anni, l’altro è molto piccolo, avrà quattro o cinque anni. Evidentemente hanno appena svoltato, provenienti da una stradina laterale, altrimenti li avrei già visti da lontano. È già parecchio che camminano, sono molto stanchi e muovono a stento le gambe… Il più piccolo non cammina più, si trascina soltanto, appoggiandosi alla mano del più grande. Il più grande porta a tracolla una borsa, e la sistema continuamente, perché gli sbatte sulle ginocchia.

Il traduttore traduce con una voce secca e indifferente:

«… Sono stanco, mi fanno male i piedi… Cammina, ti ho detto… Cammina… Non sei buono… Pure tu non sei buono, scemo… Serpente con le orecchie… Tu sei una coda di topo velenoso…». Così. Si sono fermati. Il più piccolo leva la mano da quella del più grande e si siede. Il più grande lo solleva per il bavero, ma il piccolo si siede di nuovo, e allora il grande gli dà uno schiaffo. Dal traduttore arrivano di nuovo parole come «topo», «serpente», «animale puzzolente» e così via. Poi il più piccolo si mette a singhiozzare forte, ed il traduttore tace incerto. È ora di farsi avanti.

— Salve, ragazzi, — dico con le sole labbra.

Mi ero avvicinato molto, ma solo ora loro si accorgono di me. Il più piccolo smette all’istante di piangere, mi fissa con la bocca spalancata. Il più grande mi fissa pure lui, ma di sottecchi, con ostilità, e tiene le labbra strette. Mi accoccolo davanti a loro e dico:

— Non abbiate paura. Sono buono. Non vi farò niente di male.

So che i canali di traduzione non ridanno l’intonazione, e perciò cerco di scegliere parole semplici, che li tranquilllizzino.

— Mi chiamo Lev, — dico. — Vedo che siete stanchi. Volete che vi aiuti?

Il più grande non risponde. Continua a guardarmi di sottecchi, con molta diffidenza e accortezza, mentre il più piccolo si interessa subito di Ščekn e non gli leva gli occhi di dosso. Evidentemente lo trova strano e al tempo stesso interessante. Ščekn, con l’aria più mite del mondo siede un po’ in disparte, con la grande testa girata.

— Siete stanchi, — dico. — Volete bere e mangiare. Ora vi do qualcosa di buono…

Ed a questo punto il più grande sbotta. Loro non sono affatto stanchi, e non hanno bisogno di niente di buono. Ora sistema quel serpente dalle orecchie di topo, e poi proseguiranno. E chi li disturberà, si prenderà una pallottola nella pancia. Ecco.

Molto bene. Nessuno li vuole disturbare. Ma dov’è che vanno?

Vanno dove è necessario andare. Ma dove? Forse facciamo la stessa strada? Allora si potrebbe portare sulle spalle il serpente dalle orecchie di topo…

Alla fine tutto si sistema. Mangiano quattro tavolette di cioccolata e bevono due bottiglie di tonico. Nelle piccole bocche entra anche mezzo tubetto a testa di frutta compressa. La tuta arcobaleno di Lev viene osservata con attenzione e (dopo breve, ma estremamente energica discussione) è permesso di accarezzare una volta (solo una!) Ščekn (assolutamente non sulla testa, ma solo sul dorso). A bordo, da Vanderchuze, piangono tutti di commozione, e si sente un gran chiasso. Poi si chiarisce quanto segue.

I ragazzi sono fratelli. Il più grande si chiama Ijadrudan, il più piccolo Pritulatan. Vivono piuttosto lontano da qui (dove precisamente non si riesce a capire), con il padre, in una grande casa bianca con la piscina in cortile. Fino a poco tempo fa con loro stavano due zie ed un fratello più grande — di diciotto anni — ma ora sono morti tutti. Da allora il padre non li prese più con sé quando andava a procurarsi il cibo, cominciò ad andare solo, mentre prima la famiglia andava tutta insieme. Intorno c’erano molte cose da mangiare; là c’era quello, lì c’era quell’altro (non si riuscì a precisare). Ogni volta che usciva il padre lasciava quest’ordine: se prima di sera non fosse ritornato, dovevano prendere il Libro, arrivare a questo viale e andare sempre dritti finché non fossero arrivati a una bella casa di vetro, che brilla nell’oscurità. Ma non dovevano entrare nella casa, dovevano sedersi lì accanto ed aspettare, finché non fosse arrivata gente che li avrebbe condotti là dove avrebbero trovato il padre, la madre e tutti. Perché di notte? Perché di notte per la strada non si fanno brutti incontri. Si fanno solo di giorno. «No, noi non abbiamo visto nessuno, ma abbiamo sentito spesso che fanno suonare dei campanelli, cantano canzoni e ci vogliono far uscire di casa. Una volta papà e il nostro fratello maggiore avevano preso i fucili e avevano cacciato loro una pallottola nella pancia…». No, non sanno altro e non hanno visto altro. Per la verità, tanto tempo fa erano venuti a casa degli uomini con i fucili e tutto il giorno erano stati a discutere con papà e con il fratello maggiore, ma poi la mamma e le zie si erano intromesse. Si erano messi tutti a gridare forte, ma alla fine papà aveva avuto la meglio, quella gente se ne era andata, non si era fatta più vedere…

Il piccolo Pritulatan si addormenta subito, non appena lo prendo sulle spalle. Ijadrudan, invece, rifiuta qualsiasi aiuto. Mi permette solo di sistemare meglio la sua borsa con il Libro ed ora, con aria indipendente, mi cammina accanto con le mani infilate nelle tasche. Ščekn corre avanti, senza prender parte alla conversazione. Con il suo atteggiamento vuoi dimostrare la sua completa indifferenza a quello che accade, ma anche lui come noi è incuriosito dalla logica supposizione che la meta dei bambini — un edificio luminoso — non sia altro che il nostro obiettivo “Macchia-96”.

Che cosa sia scritto nel Libro Ijadrudan non lo sa dire. In questo libro tutti gli adulti scrivevano ogni giorno quello che succedeva. Che Pritulatan era stato morso da una formica velenosa. Che l’acqua all’improvviso era cominciata ad uscire dalla piscina, ma che papà era riuscito a fermarla. Che la zia era morta aprendo una scatola di conserve, la mamma la guardava, ma la zia era già morta… Ijadrudan non aveva letto il Libro, sa leggere male e non gli piace, non è molto portato per la lettura. Invece Pritulatan è molto portato, ma è ancora piccolo e non capisce niente. No, non si sono mai annoiati. Come ci si può annoiare in una casa dove ci siano cinquecentosette stanze? E ogni stanza è piena delle cose più curiose, cene sono persino di quelle che nemmeno papà sa dire che ci stanno a fare. Solo non avevamo nemmeno un fucile. I fucili ora sono una rarità. Forse nella casa accanto avrebbero potuto trovare un fucile, ma papà aveva assolutamente proibito di uscire in strada… «No, papà non ci faceva sparare col suo fucile. Diceva che non era una cosa per noi. Ecco, quando arriveremo alla casa che splende e le brave persone che incontreremo là ci avranno condotto dalla mamma, allora potremo sparare quanto vorremo… Ma forse sei tu che ci porti dalla mamma? Allora perché non hai il fucile? Sei una brava persona, ma non hai il fucile, e invece papà diceva che tutte le brave persone hanno il fucile…».

— No, — rispondo. — Non ti so portare dalla mamma. Sono straniero qui e anch’io vorrei incontrare delle brave persone.

— Peccato, — dice Ijadrudan.

Arriviamo in piazza. L’obiettivo “Macchia-96” da vicino assomiglia ad una gigantesca, antica scatola di cristallo azzurro in tutto il suo barbaro splendore, che luccica di pietre preziose e di pietre dure. Una luce uniforme di colore bianco-azzurro proviene dal suo interno e rischiara l’asfalto screpolato, dove fra le crepe sono spuntate nere erbacce, e le facciate morte delle case che circondano la piazza. Le pareti di questo straordinario edificio sono del tutto trasparenti, e all’interno brilla e si rimescola l’allegro caos del rosso, dell’oro, del verde, del giallo, tanto che non ti accorgi subito della grande porta spalancata che invita a entrare, a cui conducono alcuni bassi gradini…

— Giocattoli!… — mormora con venerazione Pritulatan e comincia a dimenarsi, scivolando giù dalle mie spalle.

Solo allora mi accorgo che la scatola è piena non di pietre preziose ma di giocattoli multicolori, centinaia e migliaia di giocattoli coloratissimi, di pessimo gusto: enormi bambole dipinte a colori vivaci, mostruose automobiline di legno e un’enorme quantità di minutaglia colorata, che è difficile distinguere a questa distanza.

Il piccolo Pritulatan comincia subito a pregare e a fare la lagna, per entrare in quella casa incantata: «Non vuol dire niente che papà l’ha proibito, entriamo solo per un minuto, ecco prendiamo quel camion e poi ci mettiamo ad aspettare le brave persone…». Ijadrudan cerca di interromperlo, dapprima con le parole, e poi, quando si accorge che non serve, torcendogli un orecchio, e alla fine non si capisce più quello che dice. Il traduttore getta con indifferenza nello spazio che ci circonda un sacco intero di «serpenti dalle orecchie di topo», a bordo da Vanderchuze fanno baccano, esigono che ritorni la calma, e all’improvviso tutti, compreso il bravo Pritulatan, si azzittano.

Dall’angolo più vicino appare all’improvviso l’aborigeno armato di prima. Camminando piano e silenziosamente sugli sprazzi azzurri, tenendo la mano sul fucile, che gli pende a tracolla, si dirige proprio verso i bambini. Non guarda nemmeno me e Ščekn. Prende saldamente per la mano sinistra Pritulatan che si è acquietato, e il raggiante Ijadrudan per la destra, e li conduce, attraverso la piazza, dritti fino all’edificio luminoso: alla mamma, al papà, all’infinita possibilità di sparare quanto si vuole.

Li seguo con lo sguardo. Pare che tutto vada come deve andare, ma allo stesso tempo c’è un particolare, un dettaglio insignificante che rovina il quadro. Un piccolo punto oscuro…

— L’hai riconosciuto? — chiede Ščekn.

— Che cosa? — rispondo irritato, perché non riesco a liberarmi da questo invisibile bruscolino che mi rovina tutto l’effetto.

— Spegni la luce in quell’edificio e spara una decina di cannonate…

Quasi non lo sento. All’improvviso ho capito cos’è questo bruscolino. L’aborigeno si allontana, tenendo i bambini per mano, e vedo il fucile che oscilla sul suo petto, al ritmo dei suoi passi, come se fosse un pendolo. Destra, sinistra… Non può oscillare così. Non può ondeggiare così facilmente di qua e di là un grosso fucile, che non pesa meno di otto chili. Così può oscillare solo un fucile giocattolo, di legno o di plastica. Quel “brav’uomo” non ha un fucile vero…

Non faccio in tempo a finire il mio pensiero. L’aborigeno ha un fucile giocattolo. Gli aborigeni tirano di precisione. Forse è un fucile giocattolo che proviene dal padiglione… Spegni la luce in quel padiglione e spara con il cannone… È proprio un padiglione così… No, non faccio in tempo a finire nessuno di questi pensieri.

Da sinistra cadono giù mattoni, con un crepitio frana sul marciapiede una cornice di legno. Dall’orribile facciata di una casa a sei piani, la terza dall’angolo, sottosopra, di traverso, dalle nere orbite delle finestre scivola una grande ombra gialla, scivola così leggera, così impalpabile, che non si può credere che dietro di lei franeranno dalla facciata lastre di intonaco e frammenti di mattoni. Vanderchuze grida in modo terribile, a due voci strillano sulla piazza i bambini, ma l’ombra è già sull’asfalto, pure essa impalpabile, semitrasparente, enorme. Il folle movimento di una decina di zampe quasi non si distingue, e in questo guizzare si oscura, gonfiandosi e cadendo, un lungo corpo articolato, davanti a sé, in alto, le chele prensili, su cui sta un immobile sprazzo di luce laccato…

Mi accorgo di avere in mano lo skorcer, il revolver disintegratore. Passo al telemetro automatico, preoccupato solo di misurare la distanza fra il granchio-ragno e le figurette infantili, che scappano di traverso per la piazza. (Da qualche parte c’è anche l’aborigeno con il suo fucile giocattolo, lui pure corre a tutta birra, rimanendo un po’ indietro rispetto ai bambini, ma non gli bado) La distanza diminuisce rapidamente, tutto è chiaro, e quando il granchio-ragno si trova sulla mia traiettoria, sparo.

In quel momento è a una distanza di venti metri. Non mi è capitato molto spesso di sparare con lo skorcer, e sono emozionato dal risultato. Il lampo rosso violetto mi acceca per un istante, ma faccio in tempo a vedere che il granchio-ragno esplode. In un attimo. Tutto intero, dalle chele fino alla punta delle zampe posteriori. Come una caldaia a vapore surriscaldata. Si sente un breve tuono, l’eco si riflette e rotola per la piazza, e al posto del mostro si gonfia una nube compatta, a vederla si direbbe dura, di vapore bianco.

Tutto è finito. La nuvola di vapore si scioglie con un fischio leggero, le grida di panico e il calpestio si smorzano in fondo a una stradina buia, mentre la preziosa scatoletta del padiglione, come se niente fosse stato, continua a splendere al centro della piazza nella sua barbara grandiosità…

— Lo sa il diavolo, che razza di bestiaccia sia, — borbotto. — Da dove è sbucata, a cento parsec[18] da Pandora? E tu di nuovo non hai fiutato niente?

Ščekn non fa in tempo a rispondere. Esplode un colpo di fucile, l’eco arriva fino alla piazza, e subito dopo il primo, un secondo. In un punto molto vicino. Si direbbe quasi da dietro l’angolo. Beh, è chiaro, da quella stradina, dove sono corsi tutti…

— Ščekn, tieniti sulla sinistra, non ti sporgere, — ordino correndo.

Non capisco che cosa sia successo in quella stradina. Probabilmente un altro granchio-ragno si è avventato sui bambini… Allora, il fucile non era giocattolo? E in questo istante dall’oscurità emergono e si fermano, sbarrandoci la strada, tre persone. E due di loro sono armate di fucili veri, e due canne sono puntate proprio contro di me.

Si vede tutto molto bene nella luce bianco-azzurra: un vecchio canuto di alta statura, con un’uniforme grigia dai bottoni scintillanti, e ai suoi fianchi, un po’ indietro, due vigorosi giovanotti con i fucili spianati, anche loro in uniforme grigia, e cartucciere in vita.

— Molto pericoloso… — sussurra Ščekn nella lingua dei Testoni. — Ripeto: molto pericoloso!

Rallento il passo e con un certo sforzo mi impongo di far sparire lo skorcer nella fondina. Mi fermo davanti al vecchio e chiedo:

— Cosa è successo ai bambini?

Le canne dei fucili sono puntate proprio contro il mio stomaco. Contro la pancia. I giovanotti hanno delle facce dure e spietate.

— I bambini sono al sicuro.

Ha gli occhi chiari e addirittura allegri. Non ha in volto quella pesante cupezza che hanno invece i giovanotti armati. Il viso è rugoso, tipico delle persone anziane, ma non privo di una certa dignità. Però, potrebbe essere solo un’impressione; forse invece del fucile ha in mano un bastone lucido e tornito con cui si dà dei leggeri colpetti sul gambale dell’alto stivale.

— A chi avete sparato?

— Ad una persona cattiva. — La radiotrasmittente traduce la risposta.

— Siete voi allora le brave persone con i fucili? — chiedo.

Il vecchio marca le sopracciglia.

— Le brave persone? Che cosa significa?

Gli riferisco quello che mi ha spiegato Ijadrudan. Il vecchio annuisce.

— Capito. Sì, siamo noi quelle brave persone. — Mi squadra da capo a piedi. — Ma a voi le cose, vedo, non vanno male… Un apparecchio traduttore sulle spalle… Anche noi ce li avevamo, ma enormi, grandi come una stanza… Ed armi come le vostre non ne abbiamo mai avute. È stato bravo a fare a pezzi quell’essere cattivo! Come con un cannone. Siete atterrati da molto?

— Ieri, — rispondo.

— Noi invece non siamo riusciti a mettere in moto le nostre macchine volanti. Non c’era nessuno che lo sapesse fare. — Di nuovo mi guarda fisso. — Sì, siete stati proprio bravi. Ed invece qui da noi, come vede, è un disastro. Come ci siete riusciti? L’avete respinta? Oppure avete trovato un rimedio?

— Qui il disastro è proprio totale, — dico tenendomi sulle difensive. — Sono qui da un giorno intero e ciò nonostante non capisco nulla…

Mi rendo conto che mi sta prendendo per qualcun altro. Per ora, forse, è la cosa migliore. Solo bisogna stare molto, molto attenti…

— Non capisce nulla, — dice il vecchio. — È molto strano… Davvero da voi non è successo niente del genere?

— No, — rispondo. — Non è successo.

Il vecchio se ne esce all’improvviso con una lunga frase, a cui il traduttore risponde lentamente: «Lingua sconosciuta».

— Non capisco, — dico.

— Non capisce… Eppure mi pareva di non parlar male la lingua di Transmontania.

— Non vengo da lì, — ribatto. — Non ci sono mai stato.

— Da dove viene?

Prendo una decisione.

— Per ora non ha importanza, — dico. — Non parliamo di noi. Da noi va tutto bene. Non abbiamo bisogno di aiuto. Parliamo di voi. Ho capito poco, ma una cosa è evidente: avete bisogno di aiuto. Di quale aiuto, precisamente? Di che cosa avete bisogno per prima cosa? E che cosa sta succedendo qui? Ecco quello di cui ora dobbiamo parlare. Sediamoci, è tutto il giorno che sto in piedi. Possiamo trovare un posto dove sederci a parlare tranquillamente?

Per un po’ mi scruta in viso in silenzio.

— Non vuole dire da dove viene… — esclama alla fine. — Va bene, è un suo diritto. Lei è più forte. Però è una sciocchezza. Tanto io so: lei viene dall’Arcipelago del Nord. Non vi hanno toccato solo perché non si sono accorti di voi. Avete avuto fortuna. Ma vorrei chiederle: dove eravate, quando ci facevano marcire vivi?

— Non siete i soli a cui sia capitata una disgrazia, — ribatto con sincerità. — Solo, ora è il vostro turno.

— Che bellezza! — dice. — Andiamo a sederci e parliamo.

Entriamo nell’androne della casa di fronte, saliamo al primo piano e ci ritroviamo in una stanza sporca, dove ci sono solo: un tavolo al centro, un enorme divano alla parete e due sgabelli accanto alla finestra. Le finestre danno sulla piazza, e la stanza è illuminata dalla luce bianco-azzurra del padiglione. Sul divano c’è qualcuno che dorme avvoltolato in un cappotto lustro. Sul tavolo ci sono dei barattoli di conserve e una grande borraccia metallica.

Appena entrato nella stanza, il vecchio si mette a far ordine. Fa alzare quello che dorme e lo caccia via di casa. Uno degli accigliati giovanotti riceve l’ordine di fare la guardia e si mette sullo sgabello accanto alla finestra, dove poi rimane seduto tutto il tempo, senza perder mai d’occhio la piazza. Il secondo giovanotto accigliato apre abilmente i barattoli di conserve, e poi si mette accanto alla porta, appoggiandosi con la schiena allo stipite.

Vengo invitato a sedermi sul divano, poi avvicinano il tavolo e vi dispongono sopra i barattoli. Nella borraccia c’è acqua comune, abbastanza pulita, che sa però di ferro. Anche S&kn non viene dimenticato. Il soldato che è stato sbattuto giù dal divano gli mette davanti, sul pavimento, un barattolo aperto. Ščekn non rifiuta. Per la verità, non mangia le conserve, ma va alla porta e, previdente, si mette accanto alla sentinella. Poi si gratta con cura, bofonchia, si lecca, per farsi credere un cane comune.

Intanto il vecchio prende l’altro sgabello, si siede di fronte a me e comincia il colloquio.

Prima di tutto il vecchio si presenta. Naturalmente è un pezzo grosso, e non un pezzo grosso qualunque, ma un dirigente, qualcosa del tipo «governatore di tutto il territorio e delle regioni annesse». Sotto la sua giurisdizione si trovano tutta la città, il porto ed una dozzina di tribù, che vivono nel raggio di cinquanta chilometri. Che cosa avviene al di là dei confini di quest’area lui lo sa poco, ma immagina che sia più o meno lo stesso. Il numero complessivo di abitanti della sua regione ora non è più di cinquemila persone. Nella regione non esiste industria, e nemmeno una parvenza di agricoltura organizzata. C’è, è vero, un laboratorio in periferia. Un buon laboratorio, un tempo uno dei migliori del mondo, e lo dirige a tutt’oggi Draudan in persona («… strano che lei non ne abbia sentito parlare… anche lui ha avuto fortuna. È longevo come me…»), ma là non sono arrivati a nulla in questi quaranta anni. Ed è chiaro che non combineranno nulla.

— E perciò, — conclude il vecchio, — non continuiamo a girare intorno alle cose, e non mettiamoci a contrattare. Pongo solo una condizione: se possono esser curati, allora che lo siano tutti. Senza eccezione. Se questa condizione vi sta bene, tutto il resto potete stabilirlo voi. Come volete. Accetto senza discutere. Se no, allora è meglio che ci lasciate in pace. Certo, noi periremo tutti, ma anche voi non avrete pace fintanto che uno di noi sarà ancora vivo.

Taccio. Aspetto ancora che il Quartier Generale mi suggerisca qualcosa. Ma anche lì pare che non ci capiscano nulla.

— Vorrei ricordarle — dico alla fine — che continuo a non capire che cosa succeda qui.

— Allora faccia delle domande! — esclama brusco il vecchio.

— Lei ha detto: curare. Qui c’è un’epidemia?

La faccia del vecchio si fa di pietra. Mi fissa a lungo negli occhi, e poi estenuato si appoggia con i gomiti sul tavolo e si strofina con le dita la fronte.

— Gliel’ho già detto: non giri intorno alla questione. Non abbiamo intenzione di contrattare. Dica in modo chiaro e semplice: avete una medicina? Se l’avete, dettate pure le condizioni. Se no, non abbiamo niente da dirci.

— Così non faremo un passo avanti, — dico. — Partiamo invece dal presupposto che io non sappia assolutamente nulla. Sono stato in letargo per quaranta anni, per esempio. Non so che malattia avete, non so che medicina vi serve…

— E anche dell’Invasione non sa nulla? — chiede il vecchio, senza aprire gli occhi.

— Quasi niente.

— E del Rapimento Generale non sa niente?

— Quasi niente. So che se ne sono andati tutti. So che vi sono coinvolti in qualche modo dei forestieri venuti dallo spazio. Niente altro.

— Fo-re-stie-ri… dallo Spa-zio… — ripete con difficoltà il vecchio in russo.

— Uomini venuti dalla Luna… dal cielo… — dico.

Digrigna i forti denti giallastri.

— Né dal cielo e né dalla Luna. Da sottoterra! — dice. — Allora, qualche cosa la sa…

— Ho attraversato la città. E ho visto molto.

— E da voi non è successo proprio nulla? Nulla?

— Non c’è mai stato niente di simile, — affermo deciso.

— E non si è accorto di niente? Non si è accorto della fine dell’umanità? La smetta di mentire! Che cosa si propone di ottenere con queste menzogne?

— Lev! — mi sussurra sotto il casco la voce di Komov. — Fai la parte del cretino!

— Sono un subalterno, — annuncio seccamente. — So solo quello che mi spetta sapere! Faccio solo quello che mi viene ordinato di fare! Se mi ordinano di mentire, mento, ma ora non mi è stato dato nessun ordine del genere.

— E quale ordine le è stato dato?

— Fare una perlustrazione nella sua regione e comunicare tutte le circostanze.

— Che sciocchezza! — esclama con stanco disprezzo il vecchio. — Va bene. Facciamo come vuole lei. Chissà perché vuole che le racconti cose che già sa… Va bene. Stia a sentire.

Pare che colpevole di tutto fosse la razza di schifosi Non-uomini, che si era sviluppata e moltiplicata nelle viscere del pianeta. Quattro decenni prima questa razza aveva dato inizio all’invasione della popolazione locale. L’invasione iniziò con una pandemia senza precedenti, che i Non-uomini diffusero contemporaneamente su tutto il pianeta. Finora non erano ancora riusciti ad identificare il microbo della pandemia. I sintomi della malattia erano questi: a cominciare dall’età di dodici anni, bambini assolutamente normali cominciavano ad invecchiare velocemente. Il tempo di sviluppo dell’organismo umano fino al raggiungimento del punto critico di accrescimento aumentava in progressione geometrica. Ragazzi e ragazze di sedici anni sembravano dei quarantenni, a diciotto anni cominciava la vecchiaia, e pochissimi erano quelli che arrivavano ai vent’anni.

La pandemia infuriava da tre anni, quando i Non-uomini per la prima volta resero nota la loro esistenza. Proposero a tutti i governi di organizzare il trasferimento della popolazione nel “mondo confinante”, cioè da loro, nelle viscere della Terra. Promisero che là, nel mondo confinante, la pandemia sarebbe scomparsa da sola, e allora milioni di persone spaventate si precipitarono in pozzi speciali da dove, ovviamente, nessuno era più tornato. Così, quaranta anni prima, era perita la civiltà locale.

Certo, non tutti credettero e non tutti si spaventarono. Rimasero intere famiglie e gruppi di famiglie, intere comunità religiose. Nelle tremende condizioni della pandemia continuarono la loro lotta senza speranza per l’esistenza e per il diritto di vivere così come avevano vissuto i loro antenati. Tuttavia, i Non-uomini non lasciarono in pace neanche questa misera percentuale della popolazione. Organizzarono una caccia continua ai bambini, a quest’ultima speranza dell’umanità. Invasero il pianeta di “gente cattiva”. All’inizio erano delle imitazioni di uomini, dall’aspetto di zii ridanciani e tutti dipinti, con campanelli tintinnanti e che cantavano allegre canzoncine. I bambini sciocchi li seguivano con gioia e sparivano per sempre nei “bicchieri” d’ambra. Nelle piazze principali apparvero negozi di giocattoli che brillavano nella notte. Il bambino vi entrava e spariva senza lasciar traccia.

— Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Ci siamo armati: negli arsenali abbandonati c’erano molte armi. Insegnammo ai bambini a temere “la gente cattiva”, e poi a spararle contro con il fucile. Distruggemmo le cabine e sparammo contro i negozi di giocattoli, finché non ci rendemmo conto che era più saggio mettere a guardia delle sentinelle che bloccassero i bambini poco accorti sulla soglia. Ma questo fu solo l’inizio… I Non-uomini, con inesauribile inventiva, buttavano alla superficie sempre nuovi tipi di caccia-bambini. Apparvero “i mostri”. È quasi impossibile colpirli quando calano su un bambino. Apparvero gigantesche farfalle a vivaci colori; calavano sul bambino, lo avvolgevano con le ali e sparivano con lui. Queste farfalle non possono essere colpite dalle pallottole. Infine, l’ultima novità: sono apparse delle canaglie che non si distinguono in nulla da un comune combattente. Queste prendono semplicemente per mano il bambino che non sospetta nulla e lo portano con sé. Alcune di loro sanno persino parlare…

— Sappiamo benissimo che non abbiamo praticamente speranza di sopravvivenza. La pandemia non si arresta, e noi all’inizio speravamo proprio in questo. Solo un uomo su centomila non viene contagiato. Ecco, io, per esempio, e Draudan… e ancora un ragazzo. Lo conosco da quando è nato, ora ha diciotto anni e ne dimostra diciotto… Se non lo sapevate ora lo sapete. Se lo sapevate, allora tenete presente che noi capiamo perfettamente la nostra posizione. E siamo pronti ad accettare qualsiasi vostra condizione. Siamo pronti a lavorare per voi, siamo pronti a sottometterci a voi… Qualsiasi condizione, tranne una: curare tutti o nessuno. Niente élite, niente prescelti!

Il vecchio tace, tira a sé il boccale con l’acqua e beve avidamente. Il soldato che sta alla porta si appoggia ora su una gamba ora sull’altra e sbadiglia, coprendosi la bocca con il palmo della mano. A vederlo si direbbe che abbia venticinque anni. Ma in realtà? Tredici? Quindici? Un adolescente…

Siedo immobile, cercando di mantenere un volto impassibile. Inconsciamente mi aspettavo qualcosa del genere, ma quello che ho sentito da un testimone oculare che ha sofferto tutto questo, chissà perché, non mi entra in testa. I fatti che il vecchio mi ha esposto non li metto in dubbio, ma è come in sogno: ogni elemento preso singolarmente ha senso, ma tutti insieme sembrano proprio assurdi. Forse il problema Sta nel fatto che mi turbinava dentro un’idea preconcetta sui Nomadi in carne e ossa, incondizionatamente accettata da noi sulla Terra?

— Come fa a sapere che si tratta di Non-uomini? — chiedo. — Li ha visti? Lei personalmente?

Il vecchio ansima. Ha una faccia terribile.

— Darei metà della mia inutile vita per vedermene davanti almeno uno, — geme con voce rauca. — Ecco, con queste mani… Io stesso… Ma, ovviamente non li ho visti. Sono troppo accorti e vigliacchi… E forse non li ha visti nessuno, eccetto quei maledetti traditori del governo quaranta anni fa… Ma, secondo quanto si dice, non hanno nessuna forma, sono come l’acqua o come il vapore…

— Allora non si capisce, — dico. — Perché degli esseri che non hanno forma debbono attirare alcuni miliardi di persone nel sottosuolo?

— Maledizione! — il vecchio alza la voce. — Sono NON UOMINI! Come possiamo decidere noi due di che cosa abbiano bisogno i Non-uomini? Forse, di schiavi. Forse, di cibo… Forse, di materiale da costruzione per le loro canaglie. Che differenza fa? Hanno distrutto il nostro mondo! E anche ora non ci danno pace, ci avvelenano come topi…

E a questo punto il suo viso si contorce in modo terribile. Con agilità notevole per la sua età scatta verso la parete opposta, facendo rovesciare con rumore lo sgabello. In un batter d’occhio, tiene già con entrambe le mani un grosso revolver nichelato puntato proprio contro di me. I guardiani assonnati si svegliano e, con la stessa espressione di incredulità e di terrore in viso, sembrano all’improvviso proprio dei bambini e, senza perdermi d’occhio, si aggirano disordinatamente alla ricerca delle loro armi.

— Che cosa succede? — chiedo, cercando di non muovermi.

La canna nichelata traballa, e le sentinelle, trovate alla fine le armi, all’unisono riempiono i caricatori.

— Il tuo sciocco vestito è riuscito a funzionare, — sussurra Ščekn nella sua lingua. — Non ti si vede quasi. Solo il viso. Non hai forma, come l’acqua od il vapore. Comunque il vecchio non ha più l’intenzione di sparare. Lo levo di mezzo comunque?

— Non c’è bisogno, — dico in russo.

Il vecchio finalmente ritrova la voce. È più bianco della parete e parla balbettando, non per la paura, naturalmente, ma per l’odio. È proprio un vecchio possente.

— Maledetto lupo mannaro sotterraneo! — dice. — Metti le mani sul tavolo! La destra e la sinistra! Ecco, così…

— C’è un equivoco, — dico arrabbiato. — Non sono un lupo mannaro. Ho un vestito speciale, che mi può rendere invisibile. Solo che funziona male…

— Ah, il vestito? — esclama ironico il vecchio. — Nell’Arcipelago del Nord hanno imparato a fare vestiti invisibili!

— Nell’Arcipelago del Nord hanno imparato a fare molte cose, — ribatto. — Mettete via, per favore, le armi e cerchiamo di chiarire le cose con calma.

— Sei uno stupido, — dice il vecchio. — Anche se sei riuscito a vedere le nostre carte. Non c’è nessun Arcipelago del Nord… Ti ho capito subito, solo non riuscivo a capacitarmi di una tale sfacciataggine…

— Quanto intendi sopportare ancora? — sussurra Ščekn. — Tu occupati del vecchio, e io dei due giovani…

— Spara al cane! — ordina il vecchio alle guardie, senza staccarmi gli occhi di dosso.

— Te lo faccio vedere io il “cane”! — sbotta Ščekn nella più pura parlata locale. — Vecchio testardo chiacchierone!

A questo punto i nervi dei ragazzi non reggono, e comincia la sparatoria.



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