CAPITOLO DECIMO: Una gatta, un gatto e un poeta

Zorba prese la via dei tetti fino alla terrazza dell'umano prescelto. Quando vide Bubulina sdraiata fra i vasi, sospirò prima di miagolare.

<>.

<> domandò allarmata la gatta.

<>

La gatta gli fece cenno di sì con la testa.

Zorba saltò sulla terrazza e si sedette sulle zampe posteriori. Bubulina si avvicinò per annusarlo.

<> approvò la gatta.

<> la avvertì Zorba.

Una dolce melodia arrivava fino sulla terrazza.

<> commentò Zorba.

<<È Vivaldi. Le quattro stagioni. Cosa vuoi da me?>> chiese Bubulina.

<> rispose Zorba.

<> rispose la gatta.

<> implorò Zorba.

<> chiese Bubulina con diffidenza.

<> rispose Zorba deciso.

<> miagolò Bubulina con il pelo ritto. <>

<>

Dentro casa l'umano batteva sui tasti della macchina da scrivere. Si sentiva felice perché stava per finire una poesia e i versi nascevano con stupefacente facilità. All'improvviso dalla terrazza gli arrivarono i miagolii di un gatto che non era la sua Bubulina. Erano dei miagolii stonati, che però sembravano avere un certo ritmo. Un po' seccato un po' incuriosito, uscì sulla terrazza, e dovette strofinarsi gli occhi per credere a quello che stava vedendo.

Bubulina si tappava le orecchie con le zampe anteriori e davanti a lei un gatto nero grande e grosso, seduto sul fondoschiena e col dorso appoggiato a un vaso, si teneva la coda con una delle zampe davanti come se fosse un contrabbasso, mentre con l'altra fingeva di suonare le corde, lanciando contemporaneamente dei miagolii snervanti.

Una volta riavutosi dalla sorpresa, non riuscì a soffocare l'ilarità, e appena si piegò in due premendosi la pancia per le troppe risate, Zorba ne approfittò per intrufolarsi dentro casa.

Quando l'umano, continuando a ridere, si voltò, vide il gatto nero grande e grosso seduto su una poltrona.

<> disse l'umano.

<> ribatté Zorba nel linguaggio degli umani.

L'umano aprì la bocca, si tirò un ceffone e appoggiò la schiena alla parete.

<> esclamò l'umano.

<> lo esortò Zorba.

<> disse l'umano lasciandosi cadere sul divano.

<> spiegò Zorba.

L'umano si portò le mani alla testa e si tappò gli occhi ripetendo 'è la stanchezza, è la stanchezza'. Ma quando tolse le mani, il gatto nero grande e grosso era ancora sulla poltrona.

<< Sono allucinazioni. Vero che sei un'allucinazione?>> chiese l'umano.

<> assicurò Zorba. <>.

<> chiese incredulo l'umano.

<> propose Zorba.

<> disse l'umano.

<> lo corresse Zorba.

<> insisté l'umano.

<> tornò a correggerlo Zorba.

<> gridò l'umano.

<> chiese Zorba.

<> rispose l'umano.

<< Allora posso andare al sodo>> propose Zorba.

L'umano annuì, ma gli chiese di rispettare il rituale di conversazione degli umani. Servì al gatto una scodella ai latte, e poi si accomodò sul divano con un bicchiere di cognac fra le mani.

<> disse l'umano, e Zorba gli riferì la storia della gabbiana, dell'uovo, di

Fortunata, e degli infruttuosi sforzi dei gatti per insegnarle a volare.

<> domandò Zorba dopo aver concluso il suo racconto.

<> rispose l'umano.

<> chiese conferma Zorba.

<> lo esortò l'umano.

<> osservò Zorba.

<> disse l'umano.

<> si scusò Zorba.

Allora l'umano andò alla sua scrivania prese un libro e cercò tra le pagine.

<

Ma il loro piccolo cuore

— lo stesso degli equilibristi per nulla sospira tanto

come per quella pioggia sciocca

che quasi sempre porta il vento,

che quasi sempre porta il sole>>.

<> miagolò Zorba saltando giù dalla poltrona.

Si dettero appuntamento a mezzanotte davanti alla porta del bazar, e il gatto nero grande e grosso corse via a informare i suoi compagni.

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