Il gatto nero grande e grosso prendeva il sole sul balcone, facendo le fusa e meditando su come si stava bene lì, a pancia all'aria sotto quei raggi tiepidi, con tutte e quattro le zampe ben ritratte e la coda distesa.
Nel preciso istante in cui si girava pigramente per farsi scaldare la schiena dal sole, sentì il sibilo provocato da un oggetto volante che non seppe identificare e che si avvicinava a grande velocità. Vigile, balzò in piedi sulle zampe e fece appena in tempo a scansarsi per schivare la gabbiana che cadde sul balcone.
Era un uccello molto sporco. Aveva tutto il corpo impregnato di una sostanza scura e puzzolente.
Zorba si avvicinò e la gabbiana tentò di alzarsi trascinando le ali.
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Vincendo la ripugnanza, il gatto le leccò la testa. La sostanza di cui era coperta aveva anche un sapore orribile. Mentre le passava la lingua sul collo notò che la respirazione dell'uccello si faceva sempre più debole.
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Si stava allontanando in direzione dell'ippocastano quando sentì che la gabbiana lo chiamava.
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Zorba pensò che la povera gabbiana stava delirando e che con un uccello in uno stato così pietoso si poteva solo essere generosi.
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Allora Zorba si rese conto che quella sfortunata gabbiana non solo delirava, ma era completamente pazza.
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Kengah guardò il cielo, ringraziò tutti i buoni venti che l'avevano accompagnata e proprio mentre esalava l'ultimo respiro, un ovetto bianco con delle macchioline azzurre rotolò accanto al suo corpo impregnato di petrolio.