Capitolo quinto

Per svariati giorni Enin e Tull rimasero assenti dal villaggio. Gli altri pescatori uscivano in mare per brevi, pericolosi intervalli, e quando si ritrovavano alla locanda le loro storie erano piene di allarmanti descrizioni: le nuove, violente burrasche cui erano scampati; le strane, incredibili cose che avevano tratto dagli abissi. Ogni tanto, passando tra loro, Fiord udiva rapidi accenni a incantesimi e stregonerie, seguiti da improvvisi silenzi, come se tutti quanti si disegnassero, dietro i boccali di birra, il grande, potentissimo mago che in quel preciso momento Enin e Tull stavano convincendo a lasciare la città. Non si parlava più di oro, adesso, per timore che quella parola filtrasse da sotto la porta finendo negli avidi, curiosi occhi degli ospiti esterni. L’oro era a portata di mano, e i pescatori aspettavano, fiduciosi.

Poi, per qualche tempo, il villaggio fu invaso dalla gente più stramba. Carey si prese la briga di contare quattordici prestigiatori, sei indovini, nove sedicenti alchimisti, i quali (osservò acidamente) non sapevano neppure trasformare in spiccioli una moneta d’oro; quattro maldestre fattucchiere e un numero imprecisato di cenciosi stregoni, che coi loro sortilegi non avrebbero saputo forzare un chiavistello di porta, figuriamoci una catena magica.

I pescatori li accolsero con palese ostilità; e quelli, a loro volta, dopo aver scrutato i flutti tumultuosi senza discernere tracce d’oro né segno di draghi, non esitarono a sbeffeggiarli, trattandoli da visionari ubriachi. Uno dopo l’altro si trascinarono di nuovo in città; e i pescatori tornarono a ingobbirsi sui loro boccali di birra, deridendo la stupidità di Enin e Tull, e continuando a fantasticare sul luccicante tesoro che li aspettava da qualche parte, oltre gli spruzzi della risacca.

Persa com’era nei suoi pensieri privati, Fiord si era a malapena accorta di quell’eterogenea marmaglia di città, salvo quando le toccava scansare la palla di un giocoliere, o lo scheletrico gatto di una strega. E il mattino in cui cessarono finalmente le burrasche, a malapena si accorse dell’improvviso silenzio. Il sole gettava sui pavimento una chiazza di luce ormai insolita, e lei vi passava e ripassava il suo strofinaccio, come se fosse un’ennesima pozzanghera da ripulire. Era assorta a immaginare quel mondo subacqueo che Kir desiderava così disperatamente. Dove sarebbe andato, quella notte, se avesse trovato l’ingresso al freddo cuore del mare? In che cosa si sarebbe trasformato? Una creatura d’acqua e di perla, figlia della marea… Aggrottando la fronte, spazzò via il ricordo: le sue dita fra i capelli, il suo gelido bacio sulla guancia, il suo bisogno di lei, di un essere umano cui aggrapparsi.

In terraferma, se non altro, lei lo poteva toccare.

«Fiord!» disse Marli, e Fiord, sussultando, emerse dalle profondità dei suoi pensieri. «Sono venti minuti che lavori sulla stessa piastrella. Cerchi forse di arrivare dall’altra parte del mondo?»

«Oh!» Automaticamente spinse avanti il secchio, trovando Marli sulla sua strada.

«Tutto bene, ragazza?» chiese lei, immobile.

«Sì, sì, sto benissimo!»

«Sei così silenziosa, ultimamente.»

«Sto bene, ho detto!» ripeté Fiord.

«Pene d’amore, eh?» sorrise Marli, e si decise a spostarsi. «Quando hai finito l’atrio, vieni su ad aiutarmi nelle camere.»

Con un grugnito d’assenso, Fiord spinse avanti il secchio e tornò ad aggrottare la fronte, perdendosi di nuovo nei suoi pensieri: l’ondata d’acqua saponata che spedì lungo il pavimento si trasformò in spumeggiante marea.

Ci fu uno schianto improvviso. La porta si era spalancata per una vigorosa folata di vento, nel momento esatto in cui qualcuno vi si stava appoggiando per entrare. Alzando gli occhi, Fiord vide uno sconosciuto che perdeva l’equilibrio sulla viscida schiuma del sapone. Per un po’ si tenne in piedi, tra goffe piroette (e alle sue spalle, dietro la porta spalancata, Fiord notò finalmente le luminose schiere di nuvole e l’azzurro brillante del cielo), poi, con un ultimo frenetico annaspare di braccia, cadde lungo disteso per terra e scivolò lungo l’atrio, finché andò a sbattere contro il secchio, rovesciandolo, e fermandosi sotto la faccia sbigottita di Fiord.

Si fissarono l’un l’altra, naso a naso. Lo straniero giaceva supino, ansimando. Ammutolita, Fiord si accoccolò sulle ginocchia, con lo spazzolone a mezz’aria che gli gocciolava sulla testa.

Dopo un momento lo straniero sorrise. Era un giovanotto smilzo e dinoccolato, con lunghi capelli scuri e la pelle di un bruno lucente. Aveva occhi stranissimi: un vivido azzurro-verde-grigio, come le cangianti tonalità delle pietre sotto il sole. Si girò di fianco, sul pavimento inondato d’acqua, appoggiando il mento ad una mano.

«Chi sei?»

«Fiord.» Era così stupefatta che la voce le uscì quasi d’un balzo.

«Fiord? Come il fiordaliso?»

«Fiordaliso?» Era irresistibilmente attratta dai suoi occhi, come a volerne stabilire il colore. Ma sfuggivano a ogni definizione. «Cos’è?»

«Un fiore. Un bellissimo fiore azzurro.»

«Mai visto. Non sapevo neppure che esistesse.»

«Capisco.» La voce dell’uomo era ad un tempo profonda e leggera, e non aveva la tipica cadenza dei dialetti locali. Continuava ad osservarla con curiosità, senza badare all’acqua di cui era inzuppato. Il suo corpo era sottile ma muscoloso, e le mani, agili e forti, apparivano bizzarramente versatili, come se sapessero annodare una fune d’ormeggio o fare il fiocco ad un nastro con eguale disinvoltura. Vestiva con sobria semplicità, ma non come un pescatore né un contadino né un cortigiano del re — il cuoio della sua giubba era piuttosto logoro, e il bel mantello di lana mostrava macchie d’unto. Fece scoppiare una bolla di sapone, e aggiunse: «Da quel che ho sentito, gira voce che qui c’è bisogno di un mago.»

Fiord annuì stancamente, ricordando gli sbrindellati indovini e gli alchimisti, nei loro variopinti, sudici costumi. Poi, con un improvviso sospiro, lo fissò di nuovo negli occhi: ecco spiegata, pensava, la loro mutevolezza, quell’impressione di aver visto chissà quali paesi, chissà quali portenti. Il giovane le ricambiava lo sguardo senza batter ciglio. E mentre Fiord si chinava su di lui, quasi a voler cercare quei portenti, udì aprirsi una porta, come all’estremità del mondo.

«Fiord!»

Fiord fece un salto. Sospirando, lo straniero si alzò lentamente e rimase a gocciolare davanti allo sguardo allibito dell’oste.

«Buongiorno!» disse. «Io sono…»

«È tutto bagnato!»

«Sono tutto bagnato. Vero.» Passò una mano sugli abiti fradici, e immediatamente cessò lo sgocciolio; in un attimo fu asciutto anche il pavimento. E così la pozzanghera sulla soglia. «Mi chiamo Lyo. Sono un…»

«Sì» l’interruppe l’oste. Si precipitò a stringergli la mano, come se temesse di vederlo scomparire insieme all’acqua saponata di Fiord. «Sì. Lo è sul serio. Da questa parte, prego. Fiord, scendi in cucina e fa preparare la colazione per questo gentiluomo.»

«Non ho appetito, grazie» disse il mago.

«Una birra?»

«No» ripeté lui, inflessibile. «Voglio solo Fiordaliso… Fiord.» E al silenzio dell’oste aggiunse: «Provvederò che il suo lavoro sia fatto.»

«Ci conto» commentò l’oste con improvvisa ferocia. «Ma quella è una brava, innocente fanciulla, e ai maghi noi abbiamo promesso di pagarli in oro, e non in fiordalisi.»

Fiord strinse gli occhi, desiderando ardentemente che il pavimento si sollevasse sotto i suoi piedi, facendola sprofondare. Poi udì la risata di Lyo, e vide l’improvviso rossore che gli strisciava sotto la pelle bruna.

Il mago tese la mano all’oste: aveva una catenella d’oro al polso.

«Voglio solo che mi porti a vedere il drago.»

L’oste deglutì, fissando il braccialetto. E il braccialetto divenne una moneta d’oro nel palmo del mago.

«Ho bisogno di una stanza.»

«Certo, sua signoria. Qualcos’altro? Tutto quel che desidera.»

«Una barca.»

«Ci sarebbe il “Riccio di mare”» suggerì Fiord, come in una nebbia. «Ma gli servono i remi.»

Gli strani occhi del giovane scintillarono su di lei, sorridenti, curiosi: «E perché mai un “Riccio di mare” non possiede i remi?»

«Li ha persi quando mio padre è naufragato.»

Il mago restò in silenzio, per un attimo: pareva in ascolto di cose che lei non aveva detto. Poi le sfiorò gentilmente un braccio, l’accompagnò fuori: «Avrà i suoi remi» disse.

Fiord stringeva ancora tra le mani lo spazzolone; lui glielo tolse e io trasformò in un bel fiore azzurro: «Questo» disse il mago offrendoglielo «è un fiordaliso.»


Fece comparire due remi da chissà dove, con un gesto della mano staccò il fitto strato di incrostazioni che copriva lo scafo della barca, vi appoggiò l’orecchio in cerca di eventuali falle, e la dichiarò in grado di prendere il mare. Remando agilmente la condusse al largo, i lisci capelli che si arricciavano tra gli spruzzi, la faccia che ardeva più bruna sotto il sole. Un paio di foche balzarono dalle onde, inarcandosi con grazia; uccelli color della spuma giravano in lenti cerchi su di loro. Il mago salutò festosamente le foche, fischiò agli uccelli e alzò i remi per permettere a una medusa di fluttuare davanti alla prua. Pareva entusiasta della vita marina, come se fino allora ne avesse vissuta ben poca, e tuttavia si spinse audacemente molto più lontano di quanto Fiord fosse mai andata; così si avventurarono, sulla piccola fragile barca, varcando la soglia di quel mondo la cui vera vita, la cui autentica bellezza giacevano sotto la superficie, in luoghi proibiti ai loro occhi.

I pensieri di Fiord andavano a Kir, un altro segreto del mare. Gli aveva fatto una promessa: aiutarlo a trovare il sentiero per uscire dal mondo, per allontanarsi da lei. Ma dov’era il ponte fra terra e acqua, tra l’aria e gli abissi marini? Si chiuse nei suoi pensieri come in un mantello, vi si rannicchiò dentro, e quando finalmente ne emerse trovò gli occhi del mago, ora di un verde-bottiglia come l’acqua, posati sul suo viso.

Si agitò, in preda ad uno strano turbamento, quasi che le potesse cogliere i pensieri dalla mente come fiori di campo. Ma lui si limitò a chiederle, preoccupato: «Che c’è? Non ti piace il mare?»

«No.»

«Oh, scusami. Non dovevo chiederti di venire con me.»

«Non è quello. A starci così, in barca, non ho problemi. Quello che non mi piace sta sotto…» s’interruppe.

Fu lui a concludere la frase: «Sta sotto il mare.» Pareva sorpreso. «Cosa c’è sotto il mare, a parte i pesci, le balene, le alghe?»

«Nulla» mormorò Fiord, improvvisamente spaventata all’idea di raccontargli una storia che per il momento era poco più di un segreto nel cuore di un re.

«Allora cos’è che tu…» s’interruppe anche lui, e lasciò i remi per scompigliarle i capelli. Ritti a mezz’aria, i remi aspettavano pazientemente. «Capisco. È un segreto.»

Fiord annui, gli occhi sbarrati sui remi: «Stai forse… stai remando con le arti magiche?»

Parve offeso, mentre la prua del “Riccio” virava verso la costa e i remi sembravano tuffarsi nell’aria. Fiord scoppiò a ridere; e il mago sorrise, divertito. Afferrò i remi e li immerse nell’acqua: «No, Fiordaliso, non sto usando la magia… anche se la schiena, le spalle, le mani, ogni mio muscolo mi urla di uscire e camminare…»

«Sei in grado di farlo?» mormorò lei, trattenendo il fiato. «Potresti camminare sul mare?»

«Se potessi, non sarei qui a riempirmi le mani di vesciche. E poi, camminare sul mare è una faccenda molto speciale, da quel che so. Si cammina fuori dal tempo, si cammina fuori dal mondo, ci si trova in strane contrade: parole e frasi diventano solide, sott’acqua, come i rami del corallo, e si possono leggere le colonie di madrepore così come in terraferma si legge la storia» rise, cogliendo la sua espressione incantata.

«È vero?»

«Non lo so. Non ci sono mai stato.»

«Dove?»

«Nel paese in fondo al mare» tacque, osservandola con occhi stranamente malinconici. «Perché…» aggiunse poi, adagio «… perché vuoi sapere di quel paese?»

Fu quasi tentata di dirglielo, perché se lui conosceva quel paese, poteva conoscere il sentiero per raggiungerlo. Ma non era un segreto suo, era di Kir. «No» disse, bruscamente. Il mago si limitò ad annuire, accettando la sua risposta. Ma certamente non le credeva: Fiord ne era certa, e di nuovo dovette resistere all’impulso di raccontargli tutto. «Posso remare un po’ io» suggerì, invece. «Ho braccia forti, sai?»

Si scambiarono di posto. Non appena tuffati i remi nell’acqua, le onde parvero sollevarsi pigramente e il “Riccio” vi balzò leggero, senza fatica. Sorpresa, Fiord diede un altro colpo: era come remare in uno stagno tranquillo. Intuì allora che Lyo aveva gettato un pizzico di magia sui remi, per aiutarla, e non gliel’aveva detto.

Sì, avrebbe saputo spezzarla, quella catena.

«Com’è che sei diventato mago?» gli chiese, improvvisamente curiosa. «Sei nato con gli occhi già pieni di magia?»

Seduto di fronte al sole, Lyo aveva gli occhi pieni di luce. Sorrise: «La magia è come la notte, la prima volta che l’incontri.»

«La notte?» commentò Fiord, dubbiosa. Un colpo di remo le andò a vuoto, e il “Riccio” girò di mezzo cerchio.

«Un vuoto tenebroso, pullulante di forme…» fece scorrere le dita nell’acqua e il “Riccio” tornò a rivolgere la prua verso l’orizzonte. «Piano piano impari a convertire il buio in forme, in colori… Vedi cose che la maggior parte della gente non vede, e tuttavia sembrano nitide come il naso che hai sulla faccia. Non c’è nulla, al mondo, che non abbia la sua parte di magia: anche una conchiglia vuota, un grumo di piombo, una vecchia foglia morta… tu le guardi e impari a vederle, e poi a usarle, e dopo un po’ non ricordi più di aver mai visto il mondo in modo diverso. Ogni cosa si connette a qualcos’altro. Come quella catena d’oro, che congiunge l’aria con l’acqua. Dov’è che comincia, realmente? Sopra il mare? Sotto il mare? Chi lo sa, a questo punto? E quando l’avremo scoperto, non saremo più in grado di guardare il mare nello stesso modo. Capisci qualcosa, delle mie chiacchiere?»

Fiord annuì. Poi scosse la testa, e avvampò, pensando alle sgangherate ragnatele di filo e rametti che aveva gettato nel mare. Come aveva potuto illudersi che possedessero un briciolo di potere magico? Non c’era più magia in lei che in una scopa.

«Dov’è che hai imparato?» chiese, con tono aspro.

Gli occhi del mago erano di nuovo fissi su di lei, curiosi, come se le frugassero nella testa, in cerca di quei suoi puerili “malefici”.

Lo vide aprire la bocca per rispondere, e poi bloccarsi, spostare gli occhi in un punto alle sue spalle, le mani strette ai bordi della barca, la faccia immobile. Fiord capì quel che stava guardando. Ritrasse i remi sugli scalmi, e si voltò.

Poi Lyo si mise in piedi, sotto il vasto sguardo infuocato del drago. La flottiglia dei pescherecci distava un quarto di miglio, ma il drago era uscito a salutare loro due, la gran testa lucente a pelo d’acqua, il corpo che ondeggiava sotto la superficie come una fiamma.

Lyo mandò un fischio, e le pinne sopracciliari del mostro ebbero un fremito, a quel suono. «Ignus Dracus» mormorò. «Il drago di fuoco dei Mari del Sud. Sembrerebbe che si sia perso. No…» Tacque altri momenti, pensieroso. Il drago continuava a fissarlo, nel fulgore accecante della sua catena d’oro, un fulgore che faceva impallidire il sole di mezzogiorno.

Il mago tornò a sedersi, lentamente. La sua faccia aveva assunto un colore nuovo: probabilmente per i riflessi dell’oro, pensò Fiord. I pescatori stavano tirando a bordo le reti; conoscevano il “Riccio di mare”, e sapevano che solo qualcosa di terribilmente importante poteva spingere Fiord a una tale distanza dalla costa.

Nell’imminenza della magia. Fiord si sentì invadere da un fremito d’eccitazione: «Puoi spezzarla, quella catena?»

Lyo la guardò, senza vederla.

«La catena…» mormorò, dopo una lunga pausa. «Oh, sì. La catena è semplice.»

«Davvero?»

«È solo…» agitò una mano, stranamente floscia. «C’è solo un paio di… Qualcuno di voi ha pensato di chiedersi dove ha inizio quella catena? Chi l’abbia fatta, e perché?»

«Sì.»

«Allora?»

Fiord si strinse nelle spalle, evitando il suo sguardo: «Vogliono l’oro.»

«E il re? L’ha vista?»

Fiord lo fissò, sorpresa. Lo vide turbato: il colore dei suoi occhi aveva assunto una tonalità cupa. Kir, pensò, e mentre cercava di nascondere il pensiero le tornarono alla mente le sue parole: «La catena comincia nel cuore di mio padre». Ma era un segreto di Kir: non poteva rivelarlo.

«No» rispose, brevemente. La faccia del mago tornò a irrigidirsi, gli occhi puntati su di lei. Come faceva a sapere? si chiese Fiord, rituffando i remi nell’acqua; diede qualche colpo, per tenere la barca in posizione. Perché le aveva fatto quella domanda?

«Fiord» sussurrò Lyo. «Certe volte due grandi reami che dovrebbero esistere in tempi separati, su piani separati, s’intrecciano l’uno all’altro. È lì che iniziano le leggende. Si cantano canzoni, si ricordano nomi… Questa non è la prima volta.»

Fiord distolse lo sguardo, lasciando che il vento le soffiasse i capelli sul viso, la nascondesse agli occhi magici di Lyo. Pensò a Kir, al suo sangue che cercava di palpitare coi palpitare della marea, al suo segreto dolore, al segreto bisogno che tremava nei suoi occhi…

«Spezza quella catena, ti prego.»

«E poi?»

«Non lo so…» E aggiunse: «Ti pagheremo.»

Lyo la studiò a lungo, mentre i pescherecci si avvicinavano adagio, circondandoli: «È soltanto l’oro che vogliono, dunque?»

Fiord annuì, lo sguardo perso su un gabbiano di passaggio.

«Così diventeremo ricchi… E anche tu» gli ricordò, e Lyo ebbe uno strano gorgoglio nella gola.

Poi, in tono grave, disse: «Farò del mio meglio per renderci ricchi tutti quanti.» Si alzò di nuovo e cominciò a cantare: al drago.

I pescherecci si erano ormai raccolti intorno al “Riccio”, vicinissimi. I grandi, tondi occhi del drago non si mossero un momento dal viso di Lyo. Gli uccelli gli atterravano sulla testa, si tuffavano a cercare i pesci che costantemente l’accompagnavano: ma lui sempre immobile, ad ascoltare Lyo. Un paio di ondate investirono il “Riccio”, facendolo oscillare paurosamente: ma Lyo si limitò a spostare i piedi, come se fosse nato sulla barca e non l’avesse mai lasciata.

Le sue canzoni erano in strani linguaggi, parole e melodie che s’intrecciavano misteriosamente col vento e le onde e le strida degli uccelli. I pescatori aspettavano in silenzio, e di quando in quando davano di piglio ai remi, per non entrare in collisione tra loro: perché il fondale s’era inabissato, lontanissimo dal mondo in cui galleggiavano, e non c’era altro che il buio a cui ancorarsi.

A poco a poco i canti si fecero comprensibili. Erano filastrocche per bambini, notò Fiord, stupefatta. Filastrocche per insegnare l’alfabeto, le paiole, i versi degli animali. í pescatori si scambiavano occhiate dubbiose. Il drago scivolò più vicino: e ora i suoi occhi incombevano sul “Riccio” come tondi portali scarlatti.

E infine il mago tacque, rauco e sudato. Bevve un bicchiere di birra materializzatosi dal nulla, e i pescatori sorrisero: costui non era certo un pidocchioso indovino da quattro soldi.

«Il mio nome è Lyo» disse. «Quanto a lui…» indicò il mostro «… supporremo per il momento che si tratti di un Ignus Dracus, una specie di draghi che hanno origine nelle acque dei Mari del Sud, dove abbondano alghe e plancton. Questo esemplare, presumibilmente, è stato risucchiato nei gorghi del maelstróm che si forma per l’incontro fra le correnti calde provenienti da sud e quelle fredde che scendono dal nord» s’interruppe per bere un sorso di birra. I pescatori l’ascoltavano rispettosamente: alcuni si erano addirittura tolti il berretto. «In altre parole s’è perso… o almeno così supporremo per il momento: e questo spiegherebbe perché si trova da queste parti. Quanto alla catena, non è certo un tratto distintivo dell’Ignus Dracus; così come, del resto, non è una normale caratteristica di nessun tipo di animale marino che io abbia mai visto. Dato che ci tenete, provvederò a levargliela. Per un modesto compenso, naturalmente. Un compenso nominale. Un quarto del peso complessivo di quanto riuscirò a recuperare.»

Tornando a calcarsi i berretti sulla testa, i pescatori protestarono vigorosamente: «Un quarto di tutto quell’oro! Ma è… è…»

«Fino a questo punto è un quarto di nulla.»

«È un furto!»

«No» disse Lyo, cordialmente «è semplice avidità. L’oro mi piace molto. Prendere o lasciare. E ricordate: tre o quattro anelli da soli basterebbero ad arricchire l’intero villaggio. Non posso spingermi più di così.»

Altro silenzio.

«Un anello» grugnì qualcuno. «Un anello è per te. Il resto è nostro.»

Curva sul parapetto della barca, il mento appoggiato alle braccia, Fiord osservava il drago. Quella contrattazione sembrava divertirlo: volgeva pesantemente la testa a ogni nuova voce, attentissimo. Chi era, veramente? si chiedeva Fiord. Che cosa aveva visto il mago in quei suoi grandi, placidi occhi? Qualcosa che aveva a che fare con Kir?

Come poteva saperlo, il mago?

«Benissimo» lo sentì dire, alla fine. «Il primo anello è mio, e poi uno ogni cinque. Siamo d’accordo?» Aspettò. Alto nel cielo, un gabbiano lanciò un grido sgraziato. «D’accordo. E adesso… state zitti per un paio di minuti, non mi serve altro. Voglio solo… silenzio…»

Piano piano il “Riccio” si avvicinava al drago. Un’avanzata che appariva leggera, senza sforzi, eppure era contro corrente: guardando alle spalle di Lyo, Fiord vedeva all’opera una spinta magica.

Era intensamente concentrato: la pelle del viso sembrava sbiancare sotto l’abbronzatura. Gli occhi del drago erano diritti davanti a lui, portoni gemelli dal fuoco incessante, in cui il “Riccio” sembrava deciso a penetrare. Nel lucente riverbero dell’oro, gli occhi del mago ardevano come gemme.

La barca urtò adagio contro la catena. Non si levava un suono, intorno a loro, neppure di gabbiani. Lyo si protese verso il collo del drago, posò il palmo della mano sulla massiccia, sfavillante catena. Mano e faccia parevano trasfigurate: come se indossasse un guanto e una maschera d’oro.

E poi l’oro svanì. Fiord batté le palpebre, una volta, due volte. Era come se il sole fosse scomparso dal cielo. Il drago emise un suono, un rapido, sordo muggito; poi tuffò la testa sott’acqua, e si dileguò.

Tutt’intorno alle barche galleggiavano migliaia e migliaia di fiordalisi.

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