29

Quando ci colpirono, a varie centinaia di metri dal teleporter, fui sicuro che stavolta saremmo morti. Il campo di contenimento interno svanì nell’istante in cui i generatori furono colpiti, la muraglia di pianeta che guardavamo in alto si trovò improvvisamente e innegabilmente in basso e la nave cadde come un ascensore al quale avessero tagliato i cavi.

Mi riesce difficile descrivere le sensazioni che seguirono. Ora so che al posto dei campi interni entrò in funzione quello che è conosciuto come "campo d’urto" (nome davvero azzeccato, vi assicuro) e per i primi minuti mi sentii come se m’avessero infilato in un’enorme vasca di gelatina. In un certo senso, era proprio così. Il campo d’urto si dilatò in un nanosecondo e riempì ogni millimetro quadrato della nave, proteggendoci e mantenendoci assolutamente immobili mentre la nave spaziale si tuffava nel fiume, rimbalzava sul fondo fangoso, accendeva il motore a fusione creando un gigantesco pennacchio di vapore, proseguiva la corsa tra fango, vapore, acqua e detriti delle rive in implosione e infine eseguiva l’ultimo ordine: varcava l’arcata del teleporter. Il fatto che ci trovassimo sotto tre metri d’acqua ribollente non impedì al portale di funzionare. Più tardi la nave ci disse che, mentre la prua attraversava il portale, l’acqua più avanti e più indietro divenne all’improvviso vapore surriscaldato, come se una nave o un velivolo della Pax l’avessero colpita con un raggio al plasma. Ironicamente, fu il vapore stesso a deviare il raggio per i millisecondi necessari alla nave per completare l’attraversamento.

Nel frattempo, all’oscuro di questi particolari, rimasi a guardare. Avevo gli occhi aperti (non potevo chiuderli a causa della forza appiccicosa del campo d’urto) e guardavo dai monitor video posti lungo i piedi del letto e dalla punta dello scafo ancora trasparente, mentre il teleporter baluginava entrando in funzione e la luce del sole si riversava sul fiume, finché all’improvviso non fummo al di là della nube di vapore e sbattemmo di nuovo contro il fondo roccioso del fiume, urtando infine una spiaggia sotto un cielo azzurro e sotto il sole.

Allora i monitor si spensero e lo scafo divenne opaco. Per parecchi minuti restammo intrappolati in quell’oscurità da caverna, dove galleggiavo a mezz’aria, o avrei galleggiato, se non fossi stato bloccato dal gelatinoso campo d’urto. Ero a braccia larghe, la gamba destra piegata all’indietro nella posizione di chi corre, la bocca spalancata in un urlo muto e non potevo battere le palpebre. Sulle prime la paura di soffocare fu fortissima (il campo d’urto mi riempiva la bocca spalancata) ma presto mi resi conto che naso e gola ricevevano ossigeno. Il campo d’urto funzionava come le costose maschere osmotiche adoperate all’epoca dell’Egemonia per le immersioni marine a grande profondità: l’aria filtrava attraverso la massa del campo che premeva contro il viso e la gola. Non fu un’esperienza piacevole (ho sempre odiato l’idea di soffocare) ma sopportabile. Più sconvolgente fu l’oscurità e il senso di claustrofobia: avevo l’impressione d’essere invischiato in una gigantesca ragnatela. Durante quei minuti nel buio, pensai che la nave sarebbe rimasta lì per sempre, inutilizzabile, impossibilitata a spegnere il campo d’urto, e che noi tre saremmo morti di fame in quelle così poco dignitose posizioni, finché un giorno l’energia della nave si sarebbe esaurita, il campo d’urto sarebbe svanito e i nostri scheletri imbiancati sarebbero caduti con un acciottolio, rimbalzando nello scafo come ossicini lanciati da un’invisibile indovina.

Comunque, meno di cinque minuti dopo, il campo si eliminò lentamente. Le luci si accesero, tremolarono, furono sostituite dalle luci rosse d’emergenza, mentre noi venivamo gentilmente calati su quella che poco prima era stata la parete. Lo scafo divenne di nuovo trasparente, ma ben poca luce riuscì a penetrare tra il fango e i detriti.

Dalla mia posizione non ero riuscito a vedere A. Bettik e Aenea (si trovavano fuori del mio campo visivo bloccato) ma ora li vidi, mentre il campo li calava con me sullo scafo. Con sorpresa udii un urlo scaturirmi dalla gola e capii che era lo stesso urlo che avevo cercato d’emettere nell’attimo del disastro.

Per un momento tutt’e tre ci limitammo a stare contro la parete ricurva dello scafo e a massaggiarci braccia, gambe, testa, per assicurarci d’essere ancora interi. Poi Aenea parlò per tutti. — Merda santa! — disse. Si alzò sul pavimento ricurvo. Le tremavano le gambe.

— Nave! — chiamò l’androide.

«Sì, A. Bettik.» La voce aveva la calma di sempre.

— Sei danneggiata?

«Sì, A. Bettik. Ho appena completato l’esatta stima dei danni. Le bobine dei campi, i repulsori e i traslatori Hawking hanno riportato danni estesi, al pari della sezione di scafo di prua e di due delle quattro pinne caudali.»

— Nave — dissi, tirandomi in piedi a fatica e guardando dal muso trasparente della nave: dalla parete ricurva sopra di noi proveniva la luce del sole, ma gran parte dello scafo era opaco per il fango, la sabbia e altri detriti. L’acqua scura del fiume arrivava a due terzi dei fianchi e sciaguattava contro la nave. Pareva che ci fossimo arenati su un banco di sabbia, ma non prima di arare parecchi metri di fondo. — Nave, i tuoi sensori funzionano?

«Solo radar e sensori ottici.»

— Siamo inseguiti? Qualche nave della Pax ha varcato con noi il portale?

«No. Nel raggio del mio radar non ci sono bersagli inorganici a terra o in aria.»

Aenea andò alla parete verticale che era stata il pavimento coperto dal tappeto. — Neppure soldati? — domandò.

«No» rispose la nave.

— Il teleporter è ancora funzionante? — domandò A. Bettik.

«No. Il portale ha smesso di funzionare diciotto nanosecondi dopo il nostro passaggio.»

Allora mi rilassai un poco e guardai la bambina, per controllare che non fosse ferita. A parte i capelli in disordine e la luce d’entusiasmo negli occhi, pareva normale. Mi sorrise. — Allora, Raul, come usciamo da qui?

Guardai in alto e capii che cosa voleva dire. Il pozzo centrale si trovava circa tre metri sopra la nostra testa. — Nave? — dissi. — Puoi rimettere in funzione i campi interni quanto basta per farci uscire dalla nave?

«Mi spiace» rispose la nave. «I campi sono guasti e ci vorrà del tempo per ripararli.»

— Puoi metamorfosare un’apertura nello scafo sopra di noi? — Sentivo tornare la sensazione di claustrofobia.

«No, purtroppo. Al momento funziono a batteria e non dispongo dell’energia necessaria per metamorfosare. La camera stagna principale però funziona. Se riuscite a raggiungerla, vi apro il portello.»

Ci guardammo. — Magnifico — dissi poi. — Strisciare per trenta metri di nave dove ogni cosa è di traverso!

Aenea guardava ancora il pozzo della scala. — Qui la gravità è diversa… la sentite?

Solo allora me ne resi conto. Ogni cosa pareva più leggera. Forse l’avevo già notato e l’avevo attribuito a una variazione del campo interno… ma il campo interno non c’era più. Eravamo su di un mondo diverso, con gravità diversa! Mi ritrovai a fissare la bambina.

— Vorresti dire che possiamo volare fin lassù? — dissi, indicando il letto imbullonato alla "parete" e il pozzo della scala lì vicino.

— No, ma qui la gravità sembra inferiore a quella di Hyperion. Voi due mi lanciate lassù, io vi getto qualcosa e poi strisciamo fino alla camera stagna.

Andò proprio così. A. Bettik e io unimmo le mani, formammo una staffa, sollevammo Aenea fino al bordo del pozzo della scala, dove lei rimase in equilibrio, allungò la mano, tirò via dal letto la coperta penzolante, la legò alla ringhiera e lasciò cadere l’estremità verso di noi; A. Bettik e io ci tirammo su e tutt’e tre camminammo in precario equilibrio sul palo centrale del pozzo, reggendoci alla scala a chiocciola di lato e sopra di noi per mantenere l’equilibrio; a poco a poco avanzammo nella confusione illuminata di rosso… attraverso la biblioteca dove libri e cuscini erano caduti nella parte inferiore dello scafo nonostante le corde di ritegno negli scaffali, attraverso l’area della piazzola olografica dove lo Steinway era ancora al suo posto grazie ai bulloni di fissaggio ma dove i nostri bagagli erano rotolati in fondo alla nave. Qui facemmo una sosta, mentre mi calavo sul fondo dello scafo ingombro di roba per recuperare lo zaino e le armi lasciate sul divano. Mi agganciai alla cintura la rivoltella, lanciai agli altri la fune presa dallo zaino e mi sentii un po’ più pronto ad affrontare gli eventi.

Giunti nel corridoio, vedemmo che ciò che aveva danneggiato la zona motori più in basso aveva anche seminato il disordine negli armadi: alcuni tratti del corridoio erano anneriti e gonfiati verso l’esterno, il contenuto degli armadi era sparpagliato lungo le paratie lacerate. Il portello interno della camera stagna era aperto, ma ora si trovava alcuni metri sopra di noi. Fui costretto ad arrampicarmi nell’ultimo tratto verticale di corridoio e a lanciare la corda agli altri, restandomene acquattato sulla soglia del portello interno. Poi saltai sullo scafo esterno e mi tirai fuori, nella vivida luce del sole; infilai la mano nella camera stagna illuminata di luce rossa, trovai il polso di Aenea e tirai fuori la bambina. Un secondo dopo, feci la stessa cosa con A. Bettik. Solo allora ci guardammo intorno.

Un bizzarro mondo nuovo! Non riuscirò mai a descrivere il brivido d’eccitazione che mi percorse in quel momento: nonostante il disastro, nonostante la difficile situazione, nonostante tutto, in quel momento guardavo un mondo nuovo! L’effetto su di me fu molto più intenso di quanto non mi fossi aspettato in previsione di un viaggio interstellare. Il pianeta era molto simile a Hyperion: aria respirabile, cielo azzurro (anche se di una tonalità molto più chiara del lapislazzuli di Hyperion) riccioli di nuvole, il fiume dietro di noi (più ampio di quanto non fosse su Vettore Rinascimento) e sulle rive la giungla, estesa a perdita d’occhio sulla destra, interrotta dal portale coperto di rampicanti sulla sinistra. Davanti a noi, la prua della nave aveva davvero arato il fondo del fiume e si era arenata su di una lingua di sabbia; da lì la giungla ricominciava e ricopriva ogni cosa, simile a un verde e sbrindellato sipario su di uno stretto palcoscenico.

Ma per quanto la descrizione possa suonare familiare, tutto era bizzarro: gli odori nell’aria erano insoliti, la gravità pareva strana, la luce del sole era un po’ troppo vivida, gli "alberi" della giungla non somigliavano a niente che avessi visto (gimnosperme dalle foglie piumate, li avrei descritti in quel momento) e in alto stormi di fragili uccelli bianchi, di un tipo per me nuovo, agitavano le ali per volare via al rumore del nostro goffo ingresso in quel mondo.

Risalimmo a piedi lo scafo verso la spiaggia. La brezza arruffava i capelli di Aenea e mi gonfiava la camicia. L’aria portava pungenti aromi di spezie… tracce di cinnamomo e di timo, forse… ma più delicati e più intensi. Dall’esterno la prua della nave non era trasparente, ma a quel tempo non sapevo se la nave aveva reso di nuovo opaca la propria pelle oppure se dall’esterno non era mai trasparente. Anche rovesciato sul fianco, lo scafo era troppo alto e troppo ripido per consentirci di scendere scivoloni, ma per fortuna aveva scavato un profondo solco nella sabbia della spiaggia; sfruttai di nuovo la fune per calare a terra A. Bettik, poi calai Aenea e infine mi misi in spalla lo zaino (sormontato dalla carabina al plasma, ripiegata) e mi lasciai scivolare lungo lo scafo; rotolai sulla sabbia compatta per attutire il colpo.

I miei primi passi sopra un pianeta straniero… non furono passi, ma una bocca piena di sabbia.

Aenea e l’androide mi aiutarono a rialzarmi. Aenea scrutò lo scafo. — Come faremo a risalire? — domandò.

— Possiamo costruire una scala a pioli, trascinare fin qui un albero caduto, oppure — diedi un colpetto allo zaino — usare il tappeto hawking.

Rivolgemmo l’attenzione alla spiaggia e alla giungla. La spiaggia era stretta (solo alcuni metri, dalla prua della nave alla foresta) e formata di sabbia dai riflessi rossastri nella vivida luce del sole; la giungla era fitta e buia. Sulla spiaggia la brezza era fresca, ma sotto i fitti alberi il calore era palpabile. Venti metri più in alto le fronde delle gimnosperme frusciavano e ondeggiavano come antenne d’enormi insetti.

— Aspettate qui un minuto — dissi. Entrai al riparo degli alberi. Il sottobosco era fitto, costituito in massima parte di un tipo di felce rampicante, e il terreno era spugnoso per la notevole quantità di humus. La giungla odorava di umido e di marcio, ma l’odore era completamente diverso da quello delle paludi e degli acquitrini di Hyperion. Pensai agli acari-dracula e alle aguglie guerriere del mio piccolo, noioso pezzo di terre selvagge e guardai bene dove mettevo i piedi. Liane scendevano a spirale dai tronchi di gimnosperme e creavano un merletto nodoso davanti a me nella penombra. Capii che avrei dovuto aggiungere un machete al mio equipaggiamento base.

Non avevo percorso dieci metri quando all’improvviso un alto arbusto con grosse foglie rosse, un metro davanti al mio viso, si dissolse in un’esplosione di movimento e le "foglie" volarono via sotto il baldacchino della giungla: le coriacee ali delle creature facevano un rumore molto simile a quello delle grosse volpi volanti portate su Hyperion dalle navi coloniali dei nostri antenati.

— Maledizione — mormorai; a colpi e a spintoni mi aprii la strada per uscire da quell’umido intrico. Quando rimisi piede sulla spiaggia, avevo già la camicia a brandelli. Aenea e A. Bettik mi guardarono con ansia.

— È proprio una giungla — dissi.

Andammo al limitare dell’acqua, ci sedemmo sopra un ceppo parzialmente sommerso e guardammo la nostra nave spaziale. La poveretta pareva una grande balena arenata, come nei documentari sulla fauna selvatica della Vecchia Terra.

— Chissà se tornerà a volare — mormorai, rompendo una tavoletta di cioccolata e offrendone un pezzo alla bambina e all’androide.

«Oh, penso proprio di sì» disse una voce proveniente dal mio polso.

Confesso d’avere fatto un salto di dieci centimetri almeno. Mi ero dimenticato del braccialetto comlog.

— Nave? — dissi, alzando il polso e parlando direttamente nel braccialetto, come avrei fatto se avessi usato una radio portatile della Guardia Nazionale.

«Non è necessario parlare nel comlog» disse la nave. «Ricevo tutto con grande chiarezza, grazie. La domanda era: tornerò a volare? La risposta è: quasi certamente. Ho eseguito riparazioni molto più complesse, dopo l’arrivo nella città di Endymion, al mio ritorno su Hyperion.»

— Bene. Sono contento che tu possa… ah… riparare te stessa. Ti occorrono materiali grezzi? Parti di ricambio?

«No, grazie, signor Endymion. Per la maggior parte dei lavori basta utilizzare materiali esistenti e riprogettare alcune unità danneggiate. Le riparazioni non dovrebbero richiedere molto tempo.»

— Quant’è lungo, non molto tempo? — domandò Aenea. Terminò di mangiare la cioccolata e si leccò le labbra.

«Sei mesi standard» rispose la nave. «Salvo difficoltà impreviste.»

Ci scambiammo un’occhiata. Guardai la giungla. Ora il sole pareva più basso, i suoi raggi illuminavano di sbieco la cima delle gimnosperme e gettavano chiazze buie nella penombra sempre più fitta. — Sei mesi? — dissi.

«Salvo difficoltà impreviste» ripeté la nave.

— Qualche idea? — domandai ai miei due compagni.

Aenea si pulì le dita nel fiume, si spruzzò in viso un po’ d’acqua, si tirò indietro i capelli bagnati. — Siamo sul Teti — disse. — Andiamo a valle fino a trovare il prossimo teleporter.

— Puoi ripetere il trucchetto?

Lei si asciugò alla meglio il viso. — Quale trucchetto?

Gesticolai con noncuranza. — Oh, niente… far funzionare una macchina morta da tre secoli. Quel trucchetto lì.

Divenne seria. — Non ero sicura di poterlo fare, Raul. — Guardò A. Bettik, che ci guardava a sua volta, impassibile. — Giuro.

— Cosa sarebbe accaduto, se non ci fossi riuscita? — domandai, calmo.

— Ci avrebbero catturati — rispose Aenea. — Forse avrebbero lasciato andare voi due. Ma avrebbero portato me su Pacem. E nessuno avrebbe più avuto mie notizie.

Qualcosa, nel tono piatto, privo d’emozione, mi diede i brividi. — E va bene — dissi — ha funzionato. Ma come ci sei riuscita?

Aenea mosse la mano in quel lieve gesto che avrei imparato a conoscere bene. — Non lo so… con certezza — rispose. — Sapevo, dai miei sogni, che probabilmente il portale mi avrebbe lasciata passare…

— Ti avrebbe lasciata passare? — ripetei, stupito.

— Sì. Pensavo che mi avrebbe… riconosciuta. E così è stato.

Posai le mani sulle ginocchia e allungai le gambe, conficcando nella sabbia rossa i tacchi degli stivali. — Parli del teleporter come se fosse un organismo vivo e intelligente.

Aenea lanciò un’occhiata al portale mezzo chilometro più indietro. — In un certo senso, è proprio così. Difficile, spiegarlo.

— Ma sei sicura che i soldati della Pax non possano attraversarlo?

— Oh, certo! Il portale non si attiverà per nessun altro.

Inarcai il sopracciglio. — Allora come mai A. Bettik e io e la nave siamo passati?

Aenea sorrise. — Eravate con me.

Mi alzai. — Va bene, ci torneremo dopo. Per prima cosa occorre un piano. Facciamo subito un sopralluogo o prima prendiamo dalla nave le nostre cose?

Aenea guardò l’acqua scura del fiume. — E poi Robinson Crusoe si spogliò, raggiunse a nuoto la nave, si riempì le tasche di gallette e tornò a riva…

— Cosa? — dissi, alzando lo zaino e guardando la bambina, senza capire.

— Niente — disse lei, tirandosi in piedi. — Solo un vecchio libro pre-Egira che zio Martin soleva leggermi. Diceva sempre che i correttori di bozze sono degli asini incompetenti… anche mille e quattrocento anni fa.

Guardai l’androide. — Tu la capisci, A. Bettik?

L’androide mostrò quella lieve contrazione delle labbra che imparavo a riconoscere come sorriso. — Capire la signorina Aenea non rientra nei miei compiti, signor Endymion.

Sospirai. — Va bene, torniamo a bomba… Facciamo un sopralluogo, prima che scenda la notte, o recuperiamo la nostra roba?

— Voto per il sopralluogo — disse Aenea. Lanciò un’occhiata alla giungla sempre più scura. — Ma non là dentro.

— No — convenni. Tolsi dallo zaino il tappeto hawking e lo srotolai sulla sabbia. — Vediamo se su questo pianeta funziona. — Esitai, alzai il comlog. — Nave, come si chiama questo pianeta?

Seguì un secondo d’esitazione, come se la nave fosse occupata a rimuginare i suoi problemi. «Mi spiace, non posso stabilire quale pianeta sia, data la condizione dei miei banchi di memoria. I miei sistemi di navigazione potrebbero scoprirlo, naturalmente, ma dovrei vedere le stelle. Posso dirvi però che al momento in questa zona del pianeta non ci sono innaturali trasmissioni elettromagnetiche o microonda. Non ci sono neppure satelliti relè, né altri oggetti fatti dall’uomo, in orbita sincrona su di noi.»

— Va bene — dissi — ma dove siamo? — Guardai la bambina.

— Come potrei saperlo? — disse Aenea.

— Ci hai portati qui! — sbottai. Mi accorsi d’essermi spazientito con lei, ma in quel momento non me la sentivo, di portare pazienza.

Aenea scosse la testa. — Mi sono limitata ad attivare il teleporter, Raul. Il mio piano era semplice: allontanarmi dal Padre Capitano Vattelapesca e da tutte quelle navi. Nient’altro.

— E trovare il tuo architetto.

— Sì — disse Aenea.

Guardai la giungla e il fiume. — Non pare un luogo promettente per trovare un architetto. Immagino che tu abbia ragione… dovremo solo scendere il fiume fino al prossimo mondo. — Mi cadde l’occhio sul portale coperto di rampicanti da poco varcato. In quel momento capii perché ci eravamo arenati: in quel punto il fiume curvava a destra, a circa mezzo chilometro dal portale. La nave aveva mantenuto la direzione ed era finita nell’acqua bassa e poi sulla spiaggia.

— Un momento — dissi. — Non potremmo riprogrammare quel portale e usarlo per andare da un’altra parte? Perché dobbiamo cercarne un altro?

A. Bettik si scostò dalla nave per guardare meglio l’arco del teleporter. — I portali del Teti non funzionavano come i milioni di teleporter personali — disse con calma. — E non erano neppure progettati per funzionare come i portali del Grand Concourse né come i grandi teleporter spaziali. — Prese di tasca un librettino. Vidi il titolo: Guida per la Rete dei Mondi. — A quanto pare — continuò A. Bettik — il Teti fu progettato principalmente per lo svago e il vagabondaggio. La distanza fra i portali variava da qualche chilometro a parecchie centinaia…

— Centinaia di chilometri! — esclamai. M’ero aspettato di trovare il secondo portale al di là della prima curva del fiume.

— Sì — riprese A. Bettik. — L’idea, da quanto ho capito, era di offrire al viaggiatore un’ampia varietà di mondi, panorami, esperienze. A questo scopo si attivavano solo i portali a valle, che si autoprogrammavano secondo uno schema casuale: ossia i tratti di fiume sui diversi mondi erano di continuo mischiati come le carte di un mazzo.

Scossi la testa. — Nei Canti del vecchio poeta si dice che dopo la Caduta i fiumi furono tagliati, che si prosciugarono come buche d’acqua nel deserto.

Aenea sbuffò. — A volte zio Martin dice un mucchio di stronzate, Raul. Lui non ha mai visto che fine ha fatto il Teti dopo la Caduta. Zio Martin era su Hyperion, ricordi? Non è mai tornato nella Rete. Se l’è inventato.

Non fu il suo modo di parlare del massimo capolavoro letterario degli ultimi trecento anni e del leggendario poeta che l’aveva composto… ma a quel punto scoppiai a ridere e faticai a fermarmi. Tornato serio, vidi che Aenea mi fissava in modo bizzarro. — Stai bene, Raul? — mi domandò.

— Certo — risposi. — Sono solo felice. — Mi girai e con un gesto indicai insieme la giungla, il fiume, il portale… perfino quella balena arenata della nostra nave. — Per qualche ragione, sono solo felice.

Aenea annuì, come se capisse alla perfezione.

Mi rivolsi all’androide. — Il libro dice qual è questo mondo? Giungla, cielo azzurro, simile alla Vecchia Terra… nella scala Solmev, dovrebbe essere intorno al 9,5. Una valutazione ben poco frequente. Il libro lo elenca?

A. Bettik sfogliò le pagine. — Non ricordo che si parli di un mondo coperto di giungla, nelle parti che ho letto, signor Endymion. Più tardi lo leggerò tutto con maggior attenzione.

— Be’, penso proprio che bisognerà dare un’occhiata intorno — disse Aenea. Non vedeva l’ora d’esplorare il pianeta, era chiaro.

— Ma prima dobbiamo recuperare dalla nave alcune cose importanti — dissi. — Ho fatto un elenco…

— Perderemo delle ore — obiettò Aenea. — Il sole tramonterà, prima che finiamo.

— Tuttavia qui dobbiamo organizzarci — replicai, pronto a discutere.

— Se posso dare un suggerimento… — intervenne con calma A. Bettik. — Lei e la signorina Aenea potreste… ah… fare il sopralluogo, mentre comincio a recuperare gli oggetti indispensabili di cui si parlava. A meno che lei non ritenga più assennato dormire nella nave stanotte.

Guardammo la povera nave. Il fiume turbinava intorno allo scafo e proprio sopra il livello dell’acqua si scorgevano i resti anneriti e contorti delle superbe pinne caudali. All’idea di dormire in quella confusione illuminata dal rosso delle luci d’emergenza o nel buio totale dei livelli centrali, dissi: — Be’, nella nave saremmo più al sicuro, ma portiamo fuori la roba che ci serve per spostarci a valle del fiume e poi decidiamo.

Discussi con l’androide per qualche minuto. Avevo con me la carabina al plasma, nonché la .45 nella fondina alla cintura, ma volevo pure la doppietta cal. 16 che avevo messo da parte e le attrezzature da campeggio che avevo visto nel magazzino Attività Extra Veicolari. Non sapevo come saremmo scesi a valle… probabilmente il tappeto hawking poteva portare noi tre, ma non lo vedevo a trasportare anche il bagaglio; così decidemmo di disimballare tre delle quattro aerociclette conservate nelle nicchie sotto l’armadio delle tute spaziali. C’era anche una cintura di volo che ritenevo potesse venirci utile, nonché alcuni accessori da campeggio, come un termocubo, sacchi a pelo, materassi di flussoschiuma, torce laser per tutti e ricetrasmettitori a cuffia. — Oh, anche un machete, se lo trovi — dissi. — C’erano diverse scatole di coltelli e lame multiuso, nel piccolo armadio AEV. Non ricordo d’avere visto un machete, ma se ce ne fosse uno… portalo fuori.

A. Bettik e io andammo al limitare della giungla, trovammo un albero caduto sul bordo dell’acqua e lo trascinammo (con sudore e imprecazioni da parte mia) accanto alla nave, perché fungesse da scaletta per risalire lo scafo. — Ah, sì, guarda anche se in quella confusione c’è una scala di corda — dissi. — E un battello gonfiabile di qualche tipo.

— Nient’altro? — domandò ironicamente A. Bettik.

— No… be’, una sauna, se ne trovi. E un bar ben fornito. E una banda di dodici strumenti per ascoltare un po’ di musica mentre disimballiamo.

— Farò del mio meglio, signore — disse A. Bettik. Iniziò la scalata dell’albero-scaletta per giungere in cima allo scafo.

Provai un senso di colpa, nel lasciare ad A. Bettik tutto il lavoro pesante; ma scoprire quanto distava il prossimo teleporter pareva un’idea assennata e non avevo intenzione di lasciare che Aenea andasse da sola in ricognizione. La bambina si accomodò dietro di me e io toccai i disegni attivatori del tappeto, che divenne rigido e si alzò di alcuni centimetri sopra la sabbia bagnata.

— Fico — disse Aenea.

— Cosa?

— Fico, magnifico — spiegò Aenea. — Zio Martin diceva che era gergo giovanile, quando lui era un moccioso sulla Vecchia Terra.

Sospirai e toccai i fili di volo. Salimmo a spirale e ben presto ci trovammo al di sopra degli alberi. Ora il sole era decisamente basso, nella direzione che immaginai fosse l’ovest. — Nave? — chiamai nel braccialetto comlog.

«Sì?» Il tono della nave dava sempre l’impressione che l’avessi interrotta mentre era impegnata in qualche lavoro importante.

— Parlo con te o con la banca dati che hai scaricato nel comlog?

«Finché sarà a portata di trasmissione, signor Endymion, parlerà con me.»

— Qual è, questa portata? — Ci abbassammo a trenta metri dal fiume. Accanto al portello stagno spalancato, A. Bettik ci salutò agitando il braccio.

«Ventimila chilometri, oppure la curvatura del pianeta, se si presenta per prima» rispose la nave. «Come ho già detto, non ho localizzato alcun satellite relè intorno a questo pianeta.»

Toccai il disegno di partenza e cominciammo a volare a monte del fiume, verso l’arcata coperta di rampicanti. — Puoi parlarmi attraverso un portale di teleporter? — domandai alla nave.

«Un portale attivo? Come potrei, signor Endymion? Lei sarebbe ad anni luce di distanza.»

La nave aveva un modo tutto suo di farmi sentire stupido e provinciale. In genere ne apprezzavo la compagnia, ma confesso che non me la sarei presa troppo, quando ce ne saremmo andati.

Aenea si appoggiò alla mia schiena e mi parlò nell’orecchio, per superare il rumore del vento dovuto all’accelerazione. — Gli antichi portali erano attraversati da cavi a fibre ottiche — disse. — Funzionava. Ma non bene come l’astrotel.

— Perciò, se volessimo continuare a parlare con la nave una volta a valle del fiume, potremmo tendere cavi telefonici? — replicai, girando solo la testa.

Con la coda dell’occhio vidi che Aenea sogghignava. Però la sciocca battuta mi fece pensare. — Se con i portali non possiamo risalire il fiume, come troveremo la strada per tornare alla nave?

Aenea mi toccò la spalla. Il portale adesso si avvicinava rapidamente. — Percorriamo la fila fino a fare il giro — disse, superando il rumore del vento. — Il Teti era un grande cerchio.

Mi girai per guardarla bene in viso. — Scherzi, ragazzina? I mondi collegati dal Teti erano centinaia.

— Almeno duecento. Quelli di cui siamo a conoscenza.

Non capii l’ultima frase, ma sospirai di nuovo, mentre rallentavamo nei pressi del portale. — Se ogni tratto del fiume era lungo un centinaio di chilometri… sono ventimila chilometri di viaggio solo per tornare indietro.

Aenea rimase in silenzio.

Tenni sospeso il tappeto vicino al portale e per la prima volta mi resi conto di quanto fossero massicce in realtà quelle strutture. L’arco pareva fatto di metallo, con molti ghirigori, compartimenti, incavature (forse addirittura misteriose iscrizioni) ma la giungla aveva inviato viticci di rampicanti e licheni sulla parte superiore e sui lati del macchinario. Quella che all’inizio avevo ritenuto ruggine si rivelò una moltitudine di "foglie pipistrello" pendenti a grappoli dall’intrico di rampicanti. Mi tenni bene alla larga.

— E se si attiva? — dissi, mentre restavamo librati a un paio di metri dalla parte interna dell’arcata.

— Prova — rispose Aenea.

Spinsi avanti il tappeto, lentamente, quasi fermandolo quando arrivammo all’invisibile linea proprio sotto l’arco.

Non accadde niente. Attraversato in volo l’arco, girai il tappeto e tornai indietro. Il teleporter era semplicemente un ponte metallico pieno d’ornamenti che scavalcava il fiume.

— Morto — dissi. — Morto come i coglioni di Kelsey. — Era stata una delle frasi preferite di Nonna, usata solo quando pensava che i bambini non potessero udire, ma mi resi conto che c’era davvero una bambina a portata d’orecchio! — Chiedo scusa — dissi, girando la testa, rosso in viso. Forse avevo trascorso troppi anni nell’esercito o a lavorare con i barcaioli fluviali o a fare il buttafuori nelle case da gioco. Mi ero rincretinito.

Aenea rideva come una matta. — Raul — disse — non dimenticare che sono cresciuta facendo visita a zio Martin!

Tornammo alla nave e dall’alto salutammo A. Bettik, che in quel momento calava sulla spiaggia mucchi di roba. L’androide ci rispose agitando il braccio.

— Andiamo a valle per vedere quanto dista il prossimo portale? — dissi.

— Oh, certo!


Volando lungo il fiume vedemmo ben poche altre spiagge o interruzioni nella giungla: da tutte le parti alberi e rampicanti arrivavano ai bordi dell’acqua. Ero infastidito dal non sapere in quale direzione puntavamo, perciò tolsi dallo zaino la bussola inerziale e la misi in funzione. Su Hyperion la bussola era sempre stata la mia guida, anche se non si poteva fare affidamento sull’infido campo magnetico di quel pianeta, ma qui si rivelò inutile. Come per il sistema di guida della nave, la bussola avrebbe funzionato perfettamente, se avesse avuto il punto di partenza… lusso che si era perso nell’istante in cui avevamo attraversato il teleporter.

— Nave — dissi nel braccialetto comlog — puoi effettuare su di noi una lettura di bussola magnetica?

«Sì» fu l’istantanea risposta «ma senza conoscere con esattezza dove si trova il nord magnetico di questo pianeta, in realtà la direzione di viaggio sarebbe solo una stima approssimativa.»

— Dammi la stima approssimativa, per favore. — Feci una leggera virata per seguire l’ampia curva del fiume che si era di nuovo allargato e in quel punto probabilmente toccava un chilometro d’ampiezza. La corrente pareva veloce, ma non particolarmente infida. Il periodo di lavoro nelle chiatte sul Kans mi aveva insegnato a leggere il fiume alla ricerca di mulinelli, insidie nascoste, banchi di sabbia e simili: il fiume pareva facile da navigare.

«Puntate più o meno verso est-sudest» disse il comlog. «Velocità, sessantotto chilometri all’ora. I sensori indicano che il campo deflettore del tappeto hawking è all’otto percento. L’altitudine…»

— Va bene, va bene — tagliai corto. — Est-sudest. — Il sole calava alle nostre spalle: la rotazione del pianeta era analoga a quella della Vecchia Terra e di Hyperion.

Il fiume tornò rettilineo e io accelerai un poco. Nel labirinto di Hyperion avevo corso a quasi trecento all’ora, ma non avevo nessuna voglia di ripetere l’esperienza, se non era indispensabile. La carica dei fili di volo del tappeto aveva una buona durata, ma non c’era motivo di consumarla più rapidamente del necessario. Presi l’appunto mentale di ricaricare i fili dalle batterie della nave, prima della partenza, anche se avessimo scelto come mezzo di trasporto le aerociclette.

— Guarda! — disse Aenea, indicando qualcosa alla nostra sinistra.

Lontano, verso nord, illuminata dal sole chiaramente al tramonto, qualcosa di simile alla sommità di una mesa o a una costruzione umana molto grande sbucava dal baldacchino della giungla.

— Andiamo a dare un’occhiata? — disse Aenea.

Non ero del tutto uno sprovveduto. Avevamo un obiettivo, un limite di tempo (il tramonto del sole, per essere precisi) e mille altre ragioni per non correre rischi svolazzando intorno a bizzarre costruzioni. Per quanto potevamo saperne noi, la mesa o torre era il quartier generale della Pax sul pianeta.

— Certo — risposi, prendendomi mentalmente a calci: ero proprio un idiota. Ma virai a nord.

La mesa si trovava più lontano di quanto non sembrasse. Spinsi il tappeto hawking a duecento all’ora e tuttavia impiegammo dieci minuti buoni per arrivare nelle vicinanze.

«Mi scusi, signor Endymion» disse la voce della nave «ma a quanto pare siete usciti di rotta e ora andate a nord-nordest, con uno scostamento di circa 103 gradi dalla precedente direzione.»

— Vogliamo esaminare una torre, o affioramento roccioso, o che diavolo è, che sporge dalla giungla quasi direttamente a nord rispetto a noi — dissi. — La rilevi sul radar?

«Negativo» rispose la nave: credetti di cogliere di nuovo nel suo tono una certa ironia. «Il mio punto d’osservazione, qui conficcata nel fango, non è dei migliori. Qualsiasi cosa sotto un angolo di 28 gradi rispetto all’orizzonte si perde in immagini spurie. Voi vi trovate appena al di sopra del mio angolo di rilevamento. Ancora venti chilometri a nord e vi perderò.»

— Niente paura — dissi. — Diamo solo un’occhiata a quell’affare e torniamo subito al fiume.

«Perché?» domandò la nave. «Perché investigare una cosa che non ha niente a che fare col piano di viaggio a valle del fiume?»

Aenea si sporse e mi prese il polso. — Siamo esseri umani — disse nel comlog.

La nave non replicò.

La cosa, quando infine fummo vicini, si alzava a picco per cento metri sopra il baldacchino della giungla. La parte inferiore era circondata dalle gimnosperme giganti, tanto fitte da dare l’impressione che la cima fosse una rupe corrosa dalle intemperie che sporgesse da un mare verde.

Pareva naturale e artificiale insieme… o almeno modificata da chissà quale organismo intelligente. Era una torre larga circa settanta metri e pareva fatta di roccia rossastra, forse arenaria. Il sole al tramonto (solo una decina di gradi sopra l’orizzonte ora costituito dalla giungla) bagnava la rupe d’intensa luce rossa. Qua e là lungo le pareti est e ovest c’erano aperture che sulle prime ritenemmo naturali, scavate dal vento o dall’acqua; ma presto capimmo che erano artificiali. Sempre nella parete est c’erano delle nicchie, poste quasi alla giusta distanza l’una dall’altra per fare da gradini e da appigli per piedi e mani. Ma erano poco profonde, strette: la semplice idea di scalare quella rupe di cento e passa metri avvalendomi solo di quegli appigli mi fece contrarre le viscere.

— Possiamo avvicinarci ancora? — domandò Aenea.

Avevo mantenuto il tappeto hawking a circa cinquanta metri dalla rupe, mentre la costeggiavo. — Sarebbe meglio evitarlo — risposi. — Siamo già a tiro d’arma da fuoco. Non vorrei indurre in tentazione anche qualcuno armato solo di lancia o di arco e frecce.

— Con l’arco ci colpirebbero anche a questa distanza — commentò Aenea. Ma non insistette.

Per un istante credetti di scorgere un luccichio che si muoveva dentro una delle aperture ovali scavate nella roccia rossa, ma mi convinsi che era stato uno scherzo della luce del tramonto.

— Sei soddisfatta? — domandai a Aenea.

— A dire il vero, no — rispose lei. Si teneva aggrappata alle mie spalle, mentre il tappeto virava. La brezza mi arruffava i capelli e, quando girai la testa, vidi che quelli di Aenea, più lunghi dei miei, svolazzavano come una scia.

— Però dobbiamo tornare al lavoro — dissi, puntando in direzione del fiume e facendo accelerare il tappeto. Il baldacchino di gimnosperme pareva morbido, soffice e ingannevolmente continuo, quaranta metri più in basso: dava l’impressione che potevamo atterrarvi sopra, se necessario. Sentii una fitta di tensione al pensiero delle conseguenze, se si fosse presentata davvero la necessità di un atterraggio. "Però A. Bettik ha la cintura di volo e le aerociclette" mi dissi. "Può venire a prelevarci, se occorre."

Incrociammo il fiume, circa un chilometro a sudest del punto da dove eravamo partiti; avevamo una visuale di una trentina di chilometri verso l’orizzonte. Non si scorgevano portali.

— Da quale parte? — domandai.

— Andiamo avanti ancora un poco.

Virai a sinistra, tenendomi lungo il fiume, ma non sopra. Non avevamo visto segno di vita animale, a parte di tanto in tanto uno di quegli uccelli bianchi e quelle creature rosse, le piante-pipistrello. Pensavo ai gradini sulle pareti del monolito rosso, quando Aenea mi tirò per la manica e indicò qualcosa proprio sotto di noi.

Qualcosa di molto grande si muoveva appena sotto la superficie del fiume. Il riflesso dei raggi del sole sull’acqua ci nascondeva la maggior parte dei particolari, ma riuscii a scorgere la pelle coriacea, una sorta di coda uncinata e pinne o ciglia sui fianchi. La creatura era lunga da otto a dieci metri. S’immerse e noi la sorpassammo prima che potessi scorgere altri particolari.

— Pareva una manta fluviale — mi gridò Aenea da sopra la spalla. Volavamo di nuovo a gran velocità e il sibilo del vento contro il campo deflettore era rumoroso.

— Molto più grossa — dissi. Avevo bardato e guidato mante fluviali, ma non ne avevo mai visto una lunga e larga come quella. All’improvviso il tappeto hawking mi parve fragilissimo e inconsistente. Mi abbassai a trenta metri (sfioravamo gli alberi) in modo che una caduta non fosse necessariamente fatale, se l’antico tappeto avesse deciso di abbandonarci senza preavviso.

Virammo a sud lungo un’altra ansa, notammo che il fiume si restringeva rapidamente e poco dopo fummo accolti da un rombo e da una parete di spruzzaglia.

La cascata non era molto spettacolare (non superava i quindici metri d’altezza) ma la massa d’acqua era enorme, perché il fiume, ampio un chilometro, si ritrovava compresso fra dirupi rocciosi e si restringeva fino a un centinaio di metri, con un impressionante dispendio d’energia. Alla base della cascata c’era una serie di rapide sulle rocce trascinate a valle dalla corrente e poi un ampio bacino, dopo il quale il fiume tornava ad allargarsi ed era di nuovo relativamente placido. Per un attimo mi domandai come uno sciocco se la creatura fluviale scorta poco prima s’aspettasse quel salto improvviso.

— Non credo che troveremo il portale in tempo per tornare prima di notte — dissi alla bambina. — Ammesso che ce ne sia uno a valle.

— Per esserci, c’è — disse Aenea.

— Abbiamo percorso un centinaio di chilometri.

— A. Bettik ha detto che quella era la media delle sezioni del Teti — mi rimbeccò Aenea. — Su questo fiume potrebbero esserci due o trecento chilometri tra un portale e l’altro. Inoltre, lungo i vari fiumi c’erano numerosi portali. La lunghezza variava anche per sezioni di fiume sullo stesso pianeta.

— Chi te l’ha detto? — Mi girai a guardarla in viso.

— Mia madre. Era un’investigatrice privata, lo sai. Una volta, in un caso di divorzio, seguì il marito e l’amichetta per tre settimane lungo il Teti.

— Cos’è un caso di divorzio?

— Come non detto. — Si guardò intorno fino a trovarsi girata, con i capelli che le frustavano il viso. — Hai ragione, torniamo alla nave. Verremo da questa parte domani.

Eseguii l’inversione e accelerai verso ovest. Sorvolammo di nuovo la cascata e ridemmo per la spruzzaglia che ci bagnava il viso e le mani.

«Signor Endymion?» disse il comlog. Non era la voce della nave, ma quella di A. Bettik.

— Sì — risposi. — Stiamo tornando. Saremo lì fra venticinque o trenta minuti.

«Lo so» disse con calma l’androide. «Ero nella piazzola olografica e ho guardato la torre, la cascata e tutto il resto.»

Aenea e io ci scambiammo un’occhiata, con quella che era di sicuro un’espressione comica. — Vuoi dire che il comlog invia immagini?

«Naturalmente» intervenne la nave. «Ologrammi o video. Vi abbiamo seguito mediante ologrammi.»

«Però lo spettacolo è un po’ insolito» disse A. Bettik «perché al momento la piazzola è una rientranza nella parete. Ma non chiamavo per controllare i suoi movimenti.»

— Perché, allora?

«A quanto pare abbiamo un ospite» disse A. Bettik.

— Una grossa creatura fluviale? — domandò Aenea. — Una sorta di manta, ma più grossa?

«Non esattamente» rispose con calma A. Bettik. «L’ospite è lo Shrike.»

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