31

— Affascinante — disse A. Bettik.

Non avrei scelto quella parola, che però per il momento bastava. La mia prima reazione fu diversa: incominciai a catalogare in negativo la nostra situazione. Non eravamo sul mondo giungla; non eravamo su di un fiume… da ogni parte l’oceano toccava il cielo notturno; non eravamo alla luce del giorno; non colavamo a picco.

La zattera galleggiava con sovrana indifferenza sui flutti di quel placido ma vasto oceano. Con l’occhio del marinaio notai che, se da una parte le onde lambivano un po’ più in alto i bordi della zattera, dall’altra il legno delle gimnosperme pareva galleggiare meglio. Mi misi in ginocchio accanto al timone, raccolsi nel palmo un po’ d’acqua e provai ad assaggiarla. Sputai subito e mi sciacquai la bocca, con l’acqua dolce della borraccia appesa alla cintura. Quel mare era molto più salato degli oceani di Hyperion.

— Uau! — disse Aenea sottovoce, fra sé. Immaginai che si riferisse alle lune sorgenti. Tutt’e tre erano gigantesche, arancioni, ma quella centrale era così vasta che perfino metà del suo diametro pareva riempire quello che ancora consideravo il cielo orientale. Aenea si alzò e la sua sagoma in piedi non arrivava nemmeno a metà della gigantesca semisfera arancione. Legai il timone e raggiunsi gli altri a prua della zattera. A causa del lieve rollio dei flutti, tutt’e tre ci reggevamo al palo verticale, al quale era ancora appesa la camicia di A. Bettik, agitata dalla brezza notturna. La camicia risplendeva candidamente alla luce delle lune e delle stelle.

Smisi per un momento di sentirmi marinaio e scrutai il cielo come se fossi un pastore. Le costellazioni che da bambino preferivo… il Cigno, il Bislacco, le Sorelle Gemelle, le Navi Coloniali, la Coppa Patria… mancavano oppure erano talmente distorte da risultarmi irriconoscibili. Però c’era la Via Lattea: la sinuosa autostrada della nostra galassia era visibile, dall’orizzonte increspato di marosi alle nostre spalle fino al punto dove si confondeva con il bagliore delle lune sorgenti. In genere le stelle erano molto più fioche, se nel cielo c’era una normale luna come quella della Vecchia Terra, altro che tre lune giganti. Pensai che un cielo privo di polvere, la mancanza di sorgenti luminose di qualsiasi genere e l’aria più rarefatta offrissero quell’incredibile spettacolo. Mi riuscì difficile immaginare quanto splendessero lì le stelle in una notte illune.

Ma dove ci trovavamo? Ebbi un presentimento. — Nave? — chiamai nel comlog. — Ci sei sempre?

Rimasi sorpreso, quando dal braccialetto giunse la risposta. «Le parti scaricate sono sempre qui, signor Endymion. In che cosa posso esserle utile?»

Aenea e A. Bettik staccarono lo sguardo dalla gigantesca luna sorgente e guardarono il comlog.

— Allora non sei la nave? — dissi. — Cioè…

«Se si riferisce al fatto di trovarsi in comunicazione diretta con la nave, la risposta è no» disse il comlog. «Le bande di trasmissione sono state tagliate nel momento in cui avete attraversato il portale. Tuttavia questa versione condensata della nave riceve dati video.»

Avevo dimenticato che il comlog possedeva fotorilevatori. — Puoi dirci dove ci troviamo? — domandai.

«Un minuto, prego» rispose il comlog. «Se solleva un pochino il braccio… grazie… eseguo una scansione del cielo e faccio il confronto con le coordinate di navigazione.»

Mentre il comlog elaborava, A. Bettik disse: — Ritengo di sapere dove ci troviamo, signor Endymion.

Anch’io pensavo di saperlo, ma lasciai parlare l’androide. — Questo pianeta pare adattarsi alla descrizione di Mare Infinitum. Uno dei vecchi mondi della Rete, ora parte della Pax.

Aenea non aprì bocca. Guardava ancora con aria rapita la gigantesca luna. Diedi un’occhiata alla sfera arancione che dominava il cielo e mi accorsi che nuvole color ruggine si muovevano sulla sua superficie polverosa. Guardai meglio e mi accorsi che le caratteristiche della superficie erano visibili: macchie brune che forse erano colate di lava, la lunga cicatrice di una vallata con affluenti, la traccia di campi di ghiaccio intorno al polo nord, un indefinibile irraggiamento di linee colleganti quelle che potevano essere catene montuose. Quel corpo celeste assomigliava un poco a un ologramma del pianeta Marte (prima che fosse terraformato) nel sistema della Vecchia Terra.

— Mare Infinitum dà l’impressione d’avere tre lune — diceva intanto A. Bettik — ma in realtà è il satellite di un vicino pianeta roccioso di dimensioni gioviane.

Indicai la luna polverosa. — Come quello?

— Proprio come quello. Ho visto delle fotografie… è disabitato, ma durante l’Egemonia i suoi giacimenti furono sfruttati a fondo.

— Anch’io ritengo che questo pianeta sia Mare Infinitum — dissi. — Ne ho sentito parlare da alcuni cacciatori venuti da altri mondi della Pax. Grande pesca d’alto mare. Dicevano che nell’oceano di Mare Infinitum c’è una sorta di creatura cefalocordata, munita d’antenne, che supera i cento metri: se non la catturano, inghiotte i pescherecci interi…

Chiusi subito il becco. Tutt’e tre scrutammo le acque scure come vino. Nel silenzio si udì il trillo del comlog: «Trovato! I campi stellari si accordano perfettamente con quelli della mia banca dati di navigazione. Vi trovate sul satellite di un mondo sub-gioviano intorno alla stella 70 Ophiuchi A, due-sette-virgola nove anni luce da Hyperion, uno-sei-virgola-quattro-zero-otto-due anni luce dal sistema della Vecchia Terra. Si tratta di un sistema binario, del quale 70 Ophiuchi A è la stella primaria, a zero-virgola-sei-quattro unità astronomiche, e 70 Ophiuchi B è la stella secondaria, a otto-nove UA. Poiché a quanto pare lì avete atmosfera e acqua, è ragionevole dire che vi trovate sulla seconda luna a partire dal mondo sub-gioviano 70 Ophiuchi A-primo, conosciuta ai tempi dell’Egemonia come Mare Infinitum.»

— Grazie — dissi al comlog.

«Ho altri dati d’astronavigazione…» cinguettò il braccialetto.

— Più tardi — tagliai corto e spensi il comlog.

A. Bettik tolse dal palo la camicia e la indossò. La brezza era robusta, l’aria era rarefatta e fredda. Presi dallo zaino il giubbotto isolante e gli altri recuperarono le giacche. L’incredibile luna continuò a levarsi nell’incredibile cielo stellato.


Il segmento del Teti su Mare Infinitum è un piacevole, seppur breve, interludio fra i tratti del fiume più orientati al divertimento diceva la Guida turistica alla Rete dei Mondi. Eravamo accoccolati intorno alla pietra focolare per leggere la paginetta alla luce della nostra ultima torcia-lanterna. La lampada non era indispensabile, perché lì il chiaro di luna aveva la stessa luminosità di un giorno rannuvolato su Hyperion. La colorazione viola del mare è provocata da una forma di fitoplancton sospeso nell’acqua e non dalla dispersione atmosferica che concede al turista tramonti così incantevoli. Se da un canto l’interludio su Mare Infinitum è molto breve (cinque chilometri di viaggio oceanico sono sufficienti per gran parte dei turisti del Teti) dall’altro include il Grill-Acquario di Gus, famoso in tutta la Rete. Non dimenticate di ordinare la maxigrigliata di mare, la zuppa di eptapodi e l’eccellente vino d’algagialla. Pranzate su una delle molte terrazze della piattaforma oceanica di Gus in modo da gustare uno dei favolosi tramonti di Mare Infinitum e l’ancora più favoloso sorgere delle lune. Anche se questo mondo è noto per le vuote distese oceaniche (non possiede né continenti né isole) e per l’aggressiva vita marina (i "Leviatani dalla bocca a lampada", per esempio) state pure tranquilli: la vostra nave turistica del Teti si manterrà al sicuro nella Corrente Mediolitoranea da portale a portale e sarà scortata da alcune motovedette del Protettorato di Mare Infinitum, cosicché il vostro breve intervallo acquatico, iniziato con un ottimo pranzo al Grill-Acquario di Gus, vi lascerà solo ricordi piacevoli. (Nota: Il segmento Mare Infinitum sarà escluso dal giro turistico del Teti in caso di tempo inclemente o di pericolose condizioni della fauna marina. In questo caso, non perdetevi quel magnifico mondo nel vostro giro seguente!)

Non c’era altro. Restituii il libro all’androide, spensi la lampada, andai a prua e scrutai l’orizzonte, usando gli amplificatori per la visione notturna, anche se la vivida luce delle tre lune li rendeva superflui. — Quel libro mente — dissi. — Da qui all’orizzonte ci sono almeno venticinque chilometri. Ma l’altro portale non si vede.

— Forse è stato spostato — disse A. Bettik.

— Oppure è affondato — suggerì Aenea.

— No no — dissi. Gettai nello zaino gli occhiali e mi sedetti con gli altri al tepore del termocubo. L’aria era fredda.

— È possibile che, come per altri segmenti del Teti, di questo tratto esistano una versione più lunga e una più corta — suggerì l’androide.

— Perché a noi tocca sempre la versione più lunga? — sbuffai. Cucinavamo la colazione: la lunga notte di tempesta sul fiume ci aveva fatto venire fame, anche se, sul mare al chiaro di luna, toast, cereali e caffè parevano piuttosto uno spuntino di mezzanotte.

Ben presto ci abituammo al rollio della zattera e nessuno di noi mostrò sintomi di mal di mare. Dopo la seconda tazza di caffè, mi sentii meglio sotto tutti i punti di vista. Qualcosa, nella guida turistica, aveva vellicato il mio spirito d’avventura. Ammetto, però, che non mi piaceva minimamente il "Leviatano dalla bocca a lampada".

— Ti diverti, vero? — mi disse Aenea, mentre stavamo seduti nella parte anteriore della tenda. A. Bettik, dietro di noi, badava al timone.

— Sì, penso di sì.

— Perché?

Allargai le braccia. — Andiamo all’avventura — risposi. — Ma nessuno si è fatto male…

— Ci siamo andati vicino, nella tempesta.

— Be’, sì…

— Non è l’unica ragione, vero? — Nella sua voce c’era una curiosità genuina.

— Mi è sempre piaciuta la vita all’aperto — risposi con sincerità. — Il campeggio. La lontananza dalle cose d’ogni giorno. Nella natura mi sento… non so… legato a qualcosa di più vasto. — Mi fermai, prima di mettermi a parlare come uno gnostico Zen ortodosso.

La bambina si sporse verso di me. — Mio padre scrisse una poesia su questo tema. In realtà, l’antico poeta pre-Egira da cui fu donato il cìbrido di mio padre, ovviamente; ma nella poesia c’era la sensibilità di mio padre. — Non riuscii a farle una domanda, perché lei proseguì: — Non era un filosofo. Era giovane, perfino più giovane di te, e provvisto di un vocabolario filosofico abbastanza primitivo, ma in quella poesia cercò d’esprimere gli stadi mediante i quali ci avviciniamo alla fusione con l’universo. In una lettera definì questi stadi "una sorta di Termometro del Piacere".

Ammetto d’essere rimasto sorpreso e un po’ stupito da quel breve discorso. Ancora non avevo udito Aenea parlare con tanta serietà di un qualsiasi argomento, né adoperare parole così difficili; e la parte relativa al "Termometro del Piacere" mi pareva vagamente sporca. Ma ascoltai, mentre lei proseguiva.

— Papà riteneva che il primo stadio della felicità umana fosse "un cameratismo con l’essenza" — disse a bassa voce. Vedevo che A. Bettik ascoltava, dal suo posto al timone. — Con questo — proseguì Aenea — papà indicava una reazione immaginativa e sensuale alla natura… proprio il genere di sensazione che hai descritto poco fa.

Mi lisciai la guancia, sentendo la barba lunga. Ancora qualche giorno senza radermi e avrei avuto una bella barba. Sorseggiai il caffè.

— In questa reazione alla natura papà includeva la poesia, la musica e l’arte — continuò Aenea. — Un modo fallibile, ma umano, di risonare con l’universo… la natura crea in noi questa energia di creazione. Per papà, immaginazione e verità erano la medesima cosa. Una volta scrisse: "L’immaginazione può essere paragonata al sogno di Adamo: Adamo si svegliò e lo scoprì vero".

— Non sono sicuro di capire quest’ultima parte — dissi. — Significa che la finzione è più vera… della verità?

Aenea scosse la testa. — No, credo che volesse significare… be’, nella stessa poesia c’era un inno a Pan…

Temuto apritore della porta misteriosa

che conduce alla conoscenza universale.

Soffiò sulla tazza di tè per raffreddare il liquido bollente. — Per papà, Pan divenne una sorta di simbolo dell’immaginazione… soprattutto dell’immaginazione romantica. — Sorseggiò il tè. — Sapevi, Raul, che Pan era l’allegorico precursore di Cristo?

Rimasi sorpreso: quella era la stessa bambina che due notti prima mi aveva chiesto di raccontarle storie di fantasmi. — Cristo? — dissi. Ero un prodotto del mio tempo: quanto bastava a trasalire a ogni traccia di bestemmia.

Aenea bevve il tè e guardò le lune. Sedeva col braccio sinistro intorno alle ginocchia sollevate. — Papà riteneva che alcune persone, non tutte, fossero mosse dalla propria reazione alla natura in modo da essere agitate da quella immaginazione primitiva, panica.

Sia quieta l’inconcepibile casetta

per solitàrie riflessioni; come scansa

concezione alla meta stessa del cielo,

poi lascia il cervello nudo: sia quieto il fermento

che nel diffondersi in questa terra di zolle smorte

dà a essa un tocco etereo… una nuova nascita:

sia quieto un simbolo d’immensità;

un firmamento nel mare riflesso;

un elemento che riempie l’infraspazio;

un ignoto…

Dopo questa recita, per un momento restammo in silenzio. Ero cresciuto ascoltando poesìe… rozze epiche di pastori, i Canti del vecchio poeta, l’Epica di Garden sul giovane Tycho e Glee e il centauro Raul… perciò ero abituato ai versi sotto il cielo stellato. Tuttavia, per la maggior parte le poesie da me ascoltate e imparate a memoria e amate erano più facili da capire.

Dopo un momento, interrotto solo dal lambire delle onde contro la zattera e dal fruscio del vento contro la tenda, dissi: — Così questa era l’idea che tuo padre aveva della felicità?

Aenea gettò indietro la testa, lasciando che i capelli si movessero nella brezza. — Oh, no — disse. — Solo il primo stadio della felicità nel suo Termometro del Piacere. C’erano due stadi più alti.

— Quali? — domandò A. Bettik. Nell’udire la voce bassa dell’androide trattenni un sobbalzo: avevo dimenticato che era con noi sulla zattera.

Aenea chiuse gli occhi e recitò ancora, con voce bassa, musicale, senza la cantilena di coloro che rovinano le poesie:

Ma ci sono

complicazioni più ricche di gran lunga

più autodistruttive, che conducono, per gradi,

all’intensità principale: la corona di queste

è fatta d’amore e d’amicizia e sta in alto

sulla fronte dell’umanità.

Lanciai un’occhiata alle tempeste di polvere e ai lampi d’origine vulcanica sulla luna gigantesca. Nuvole color seppia si muovevano lassù sul panorama arancione e terra d’ombra. — Allora sono questi gli altri suoi livelli? — dissi, un po’ deluso. — Prima la natura, poi l’amore e l’amicizia?

— Non proprio. Papà riteneva che la vera amicizia fra esseri umani fosse a un livello ancora più alto alla nostra reazione alla natura, ma che il massimo livello raggiungibile fosse l’amore.

Annuii. — Come insegna la Chiesa. L’amore di Cristo… l’amore dei nostri fratelli umani.

— No no — disse Aenea, sorseggiando il tè rimasto. — Papà si riferiva all’amore erotico. Al sesso. — Chiuse di nuovo gli occhi:

Or che ho gustato la dolce anima fino al nucleo

tutte l’altre profondità sono basse: essenze,

un tempo spirituali, sono come ripari fangosi,

intesi solo a render fertile la mia radice terrena

e a far sollevare ai miei rami un aureo frutto

nello splendore del cielo.

A queste parole, lo ammetto, non seppi che cosa dire. Sorbii dalla tazza le ultime gocce di caffè, mi schiarii la gola, scrutai per un momento le rapide lune e la Via Lattea sempre visibile e dissi: — E allora? Pensi che fosse consapevole di qualcosa? — Terminato di dirlo, mi sarei preso a calci. Parlavo a una bambina! Lei poteva anche declamare poesia… o antica pornografia, s’è per questo… ma non c’era modo che la capisse.

Aenea mi guardò. La luce delle lune rendeva luminosi i suoi occhi. — Penso — disse — che ci sono più livelli in cielo e in terra, Orazio, di quanti abbia sognato la filosofia di mio padre.

— Capisco — dissi, pensando: "Chi diavolo è, Orazio?".

— Mio padre era molto giovane, quando scrisse questi versi — disse Aenea. — Era la sua prima poesia e fu un fiasco. Ciò che lui voleva… ciò che voleva che il suo eroe pastore imparasse… era questo: quanto potessero essere esaltate queste cose… poesia, natura, saggezza, la voce di amici, imprese eroiche, lo splendore di luoghi bizzarri, l’attrazione dell’altro sesso. Ma si fermò prima di giungere alla vera essenza.

— Quale vera essenza? — domandai. La zattera si sollevava e ricadeva seguendo il respiro del mare.

Il senso d’ogni moto, forma e suono — mormorò la bambina. — … ogni forma e ogni sostanza/dritto fino al suo emblema e alla sua essenza…

Perché quelle parole mi erano così familiari? Impiegai un pezzo a ricordarlo.

La zattera continuò a navigare nella notte e nell’oceano di Mare Infinitum.


Dormimmo ancora; sorti i soli, facemmo un’altra colazione e dopo mi occupai di regolare il mirino e l’alzo delle armi. La poesia filosofica al chiaro di luna andava benissimo, ma armi che sparano dritto erano una necessità.

Né a bordo della nave, né dopo il disastroso atterraggio nel mondo giungla, non avevo avuto tempo di provare le armi da fuoco e mi sentivo nervoso a portare in giro armi mai provate e mai regolate. Nel breve periodo trascorso nella Guardia Nazionale e nei lunghi anni in cui facevo la guida nelle battute di caccia, avevo scoperto che conoscere a fondo un’arma è altrettanto (e forse più) importante di possederne una di ultimo modello.

La luna più grande non era ancora tramontata, quando spuntarono i due soli… prima il più piccolo del sistema binario, un vivido bruscolo nel cielo mattutino, che fece impallidire la Via Lattea fino a renderla invisibile e offuscò i particolari della grande luna, e poi il primario, inferiore in grandezza all’astro tipo Sole di Hyperion, ma luminosissimo. Il cielo si scurì, passò al blu oltremare e poi al blu cobalto, con due stelle che vi ardevano e, alle nostre spalle, una luna arancione che lo riempiva. La luce dei soli rendeva un disco nebbioso l’atmosfera del satellite e cancellava le caratteristiche della superficie. Intanto il giorno divenne tiepido, poi caldo, poi ardente.

Il mare si alzò un poco, i pigri flutti divennero onde regolari alte due metri che scossero un poco la zattera; ma erano intervallate quanto bastava a non darci troppo fastidio. Come promesso dalla guida turistica, il mare era di un viola intenso, sconvolgente, zigrinato da creste d’onda di un blu così scuro da sembrare nero e di tanto in tanto interrotte da letti d’algagialla o da spuma di un viola perfino più scuro. La zattera proseguì verso l’orizzonte, dove si erano levati i soli e le lune (lo considerammo l’est) e potevamo solo augurarci che la forte corrente ci portasse da qualche parte. Quando non eravamo sicuri che la corrente ci spingesse, facevamo scorrere in acqua una fune o gettavamo via un pezzetto di roba di scarto e guardavamo la differenza fra la spinta del vento e della corrente. Rispetto a noi, le onde si muovevano da sud a nord. Continuammo verso est.

Usai per prima la .45, dopo avere controllato che i proiettili fossero al loro posto nel caricatore. Temevo che, a causa dell’antiquata tecnica che prevedeva munizioni separate dal caricatore, avrei finito per dimenticarmi di ricaricare in qualche situazione incresciosa. Non avevamo molto da gettare in acqua come bersaglio, ma avevamo conservato alcuni contenitori di razioni, vuoti; ne lanciai in acqua uno, aspettai che fosse a una quindicina di metri e sparai.

La rivoltella provocò un fragore indecente. Le sparapiombo, lo sapevo, erano rumorose (ne avevo usate alcune, durante l’addestramento di base, perché i ribelli dell’Artiglio di Ghiaccio se ne servivano spesso), ma per la forza dell’esplosione a momenti lasciai cadere in acqua la rivoltella. Aenea, che guardava verso sud, immersa nei suoi pensieri, si spaventò e balzò in piedi; perfino il compassato A. Bettik trasalì.

— Chiedo scusa — dissi. Impugnai a due mani la pesante rivoltella e sparai un altro colpo.

Dopo avere usato l’equivalente di due caricatori delle preziose munizioni, ero sicuro di poter colpire qualcosa a quindici metri. A distanza maggiore… be’, mi augurai che il bersaglio avesse orecchie e si spaventasse per il frastuono.

Mentre aprivo la rivoltella, terminato di sparare, accennai di nuovo al fatto che quell’antica arma forse era appartenuta a Brawne Lamia.

Aenea la guardò. — Te l’ho già detto, non ho mai visto mamma impugnare una pistola.

— Forse l’ha prestata al Console, quando quest’ultimo tornò nei mondi della Rete — dissi, pulendo la rivoltella aperta.

— No — disse A. Bettik.

Mi girai a guardare l’androide, che se ne stava appoggiato al timone. — No? — ripetei, sorpreso.

— Sulla Benares vidi l’arma della signora Lamia — spiegò A. Bettik. — Era una pistola antiquata… di suo padre, credo… ma aveva il calcio di madreperla, il mirino laser ed era stata modificata per usare cartucce a fléchettes.

Oh — dissi. Be’, pensai, l’idea era stata interessante. — Almeno questa è stata conservata bene — soggiunsi. Probabilmente era stata tenuta in una scatola di stasi, altrimenti una rivoltella di mille anni non avrebbe funzionato. O forse si trattava di un’abile riproduzione trovata dal Console nel corso dei suoi viaggi. La cosa non aveva importanza, certo, ma ero sempre stato colpito dal… senso della storia, immagino lo chiamereste… che pareva provenire dalle antiche armi da fuoco.

Dopo provai la pistola a fléchettes. Mi bastò un colpo per capire che funzionava abbastanza bene, grazie. A trenta metri, la scatola di razioni esplose in migliaia di schegge di flussoschiuma. L’intera cresta d’onda sobbalzò e tremolò, come colpita da una pioggia d’acciaio. Le armi a fléchettes causavano sfracelli, rendevano difficile l’errore di mira ed erano eminentemente inique nei confronti del bersaglio… l’avevo scelta proprio per questo. Inserita la sicura, la riposi nello zaino.

La carabina al plasma era più difficile da regolare. Il mirino ottico a scatti mi permetteva di mettere a fuoco qualsiasi cosa, dalla scatola di razioni distante trenta metri all’orizzonte lontano venticinque chilometri; centrai al primo colpo la scatola, certo, ma non avrei saputo stabilire l’efficacia della carabina a distanze superiori: non c’era niente a cui sparare. In teoria una carabina al plasma può colpire qualsiasi cosa uno veda (non sono necessarie correzioni per compensare il vento o l’arco balistico) e io guardai col mirino a cannocchiale, mentre il colpo apriva un buco in onde distanti venti chilometri, ma la cosa non mi diede la stessa fiducia che m’avrebbe dato un colpo contro un vero bersaglio lontano. Alzai la carabina verso la gigantesca luna che ora tramontava alle nostre spalle. Attraverso il mirino a cannocchiale riuscivo appena a scorgere una montagna incappucciata di bianco (probabilmente anidride carbonica ghiacciata, non neve, pensai) e solo per dispetto sparai una raffica. La carabina al plasma era praticamente silenziosa, a paragone della sparapiombo: quando si premeva il grilletto, mandava il solito "colpo di tosse". Il mirino non era abbastanza potente da mostrarmi se avevo fatto centro e poi a simili distanze la rotazione dei due corpi celesti avrebbe influito non poco sulla traiettoria, ma sarei rimasto sorpreso se non avessi colpito la montagna. Le caserme della Guardia Nazionale erano piene di storie di fucilieri delle Guardie Svizzere che avevano distrutto pattuglie Ouster sparando da migliaia di chilometri contro un asteroide in avvicinamento o cose del genere. Il trucco, valido da millenni, era semplice: bastava vedere per primi il nemico.

Pensando a quelle storie, mentre ripulivo la doppietta dopo avere sparato un solo colpo di prova e la rimettevo a posto, dissi: — Oggi dobbiamo fare un po’ di ricognizione.

— Non credi che ci sia l’altro portale? — domandò Aenea.

Scrollai le spalle. — La guida parla di cinque chilometri fra l’uno e l’altro. Dalla notte scorsa ne avremo fatti almeno cento. Forse di più.

— Usiamo il tappeto hawking? — domandò Aenea. I soli cominciavano a bruciarle la pelle chiara.

— No, preferisco la cintura di volo — dissi. "Profilo radar minore, se qualcuno guarda" pensai, ma lo tenni per me. — E tu non vieni, ragazzina. Vado da solo.

Andai nella tenda, presi la cintura, mi agganciai l’imbracatura, estrassi la carabina al plasma e accesi la scatola di comando. — Merda, e allora? — sbottai. La cintura neppure tentò di sollevarmi. Per un istante fui sicuro di trovarmi in un mondo tipo Hyperion, con il suo pidocchioso campo EM; poi guardai l’indicatore di carica. Rosso. Vuoto. Piatto. — Merda — ripetei.

Sganciai l’imbracatura e tutt’e tre ci chinammo sull’inutile aggeggio; controllai i conduttori, il blocco batteria e l’unità di volo.

— È stata ricaricata prima di lasciare la nave — dissi. — Quando abbiamo ricaricato il tappeto hawking.

A. Bettik cercò di far girare un programma diagnostico, ma con energia zero neppure quello funzionava. — Il suo comlog dovrebbe avere lo stesso sub-programma — disse l’androide.

— Davvero? — replicai come uno sciocco.

— Permette? — A. Bettik indicò il comlog. Mi tolsi il braccialetto e glielo diedi.

L’androide aprì un minuscolo scomparto di cui non mi ero mai accorto, tolse un conduttore a perla su microfilamento e lo inserì nella cintura di volo. Ci fu un tremolio di spie luminose. «La cintura di volo è guasta» annunciò con la voce della nave il comlog. «Il blocco batteria si è scaricato circa ventisette ore prima del tempo. Ritengo che ci sia una falla nelle celle di magazzinaggio.»

— Grande! — sbottai. — Si può riparare? Tratterrà la carica, se ne troviamo una?

«Non quel blocco batteria» disse il comlog. «Ma ci sono tre batterie di scorta, nello scomparto AEV della nave.»

— Grande! — ripetei. Presi la cintura con l’ingombrante blocco batteria e l’imbracatura e gettai il tutto fuori bordo. L’aggeggio affondò nelle onde viola senza lasciare traccia.

— Qui tutto a posto — disse Aenea. Era già seduta a gambe incrociate sul tappeto hawking, sospeso venti centimetri sopra il pianale della zattera. — Vieni con me a dare un’occhiata in giro?

Non mi misi a discutere: mi sedetti sul tappeto, dietro di lei, incrociai le gambe e guardai Aenea toccare i fili di volo.


A circa cinquemila metri di quota, ansimando per la scarsità d’aria, ci sporgemmo dal bordo del piccolo tappeto: tutto pareva molto più spaventoso che non da sopra la zattera. Il mare viola era sconfinato, deserto; la nostra zattera era solo un puntino, un minuscolo rettangolo nero sul reticolo viola e nero del mare. Da quell’altezza le onde, che dalla zattera ci erano parse enormi, nemmeno si vedevano.

— Penso d’avere trovato un altro livello di quella reazione alla natura tipo "cameratismo con l’essenza" di cui scrisse tuo padre — dissi.

— Quale sarebbe? — domandò Aenea. Aveva i brividi per la gelida corrente d’aria. Indossava solo la maglietta e il giubbotto, come sulla zattera.

— Farsela sotto per la paura.

Aenea scoppiò a ridere. Devo dire a questo punto che amavo la risata di Aenea e ancora mi scaldo al pensiero. Era una risata sommessa, ma piena, priva d’imbarazzo, melodica all’estremo. Mi manca molto.

— Dovevamo mandare A. Bettik quassù al posto nostro — dissi.

— Perché?

— Per come si adatta alle ricognizioni ad alta quota. Evidentemente non ha bisogno di respirare ed è insensibile a certe piccolezze come la depressurizzazione.

Aenea si appoggiò a me. — Non è insensibile a niente — disse piano. — Solo, hanno progettato la sua pelle in modo che fosse un po’ più dura della nostra… può fungere da tuta a pressione per brevi periodi anche nel vuoto spinto… e lui può trattenere il fiato un po’ più a lungo di noi, ecco tutto.

La fissai. — Sai un mucchio di cose sugli androidi.

— No. Gliel’ho domandato. — Si spostò un po’ più avanti e posò le mani sui fili di volo. Volammo a "est".

Ero terrorizzato, lo confesso, al pensiero di perdere contatto con la zattera, di volare in tondo su quel pianeta-oceano finché il tappeto non avesse esaurito la carica: allora saremmo precipitati in mare, per finire probabilmente nelle fauci di un Leviatano dalla bocca a lampada. Nel programmare la bussola inerziale avevo indicato come punto di partenza la zattera e perciò, se non avessi perduto lo strumento (cosa poco probabile perché lo portavo appeso al collo) avremmo ritrovato la via del ritorno, d’accordo. Ma ero preoccupato ugualmente.

— Non allontaniamoci troppo — dissi.

— Va bene. — Aenea manteneva bassa la velocità (sui settanta orari, calcolai) ed era scesa di quota per rendere più facile la respirazione e meno intenso il freddo. Sotto di noi, la grande distesa circolare del mare era vuota fino all’orizzonte.

— A quanto pare i tuoi teleporter ci fanno brutti scherzi — dissi.

— Perché li chiami miei, Raul?

— Be’, sei l’unica che… riconoscono.

Aenea non replicò.

— Parlando seriamente — ripresi — pensi che ci sia un senso o un motivo nella scelta dei mondi dove ci trasportano?

Aenea girò la testa e mi guardò. — Sì — disse. — Penso proprio di sì.

Aspettai che proseguisse. A quella velocità, il campo deflettore era quasi inesistente, perciò il vento mi gettava sul viso i capelli della bambina.

— Quanto ne sai, della Rete? Dei teleporter?

Mi strinsi nelle spalle. — Erano operati dalle IA del TecnoNucleo. Secondo la Chiesa e i Canti di tuo zio Martin, i teleporter erano una sorta di trucco delle IA per usare i cervelli umani, i loro neuroni, come un gigantesco computer DNA. Le IA ci sfruttavano come parassiti ogni volta che transitavamo da un teleporter, giusto?

— Giusto.

— Così, ogni volta che varchiamo uno di quei portali, le IA, dovunque si trovino, si appendono al nostro cervello come grosse zecche gonfie di sangue, giusto?

— Sbagliato — disse Aenea. Si girò di nuovo verso di me. — Non tutti i teleporter furono costruiti o sistemati o tenuti in funzione dagli stessi elementi del Nucleo. I Canti di zio Martin parlano della guerra civile in seno al Nucleo, scoperta da mio padre?

— Sì — ammisi. Chiusi gli occhi nel tentativo di ricordare gli esatti versi del racconto orale. Era il mio turno di recitare. — Nei Canti, il cìbrido Keats, nella megasfera dello spazio dati del Nucleo, parla con una sorta di persona IA.

— Ummon — disse Aenea. — Era questo, il nome dell’IA. Mia madre viaggiò con mio padre nella megasfera una volta, ma fu… mio zio… il secondo cìbrido Keats, colui che ebbe con Ummon la chiarificazione finale. Continua.

— Perché? Di sicuro conosci meglio di me questa storia.

— No. Quando lo conobbi, zio Martin non aveva ripreso a lavorare ai Canti… Diceva di non avere la minima voglia di terminarli. Come descrive ciò che Ummon rivelò sulla guerra civile nel Nucleo?

Chiusi di nuovo gli occhi.

Per due secoli così rimuginammo

e poi i gruppi andarono

ciascuno per la sua strada:

gli Stabili, per mantenere la simbiosi;

i Volatili, per porre fine all’umanità;

i Finali, per rimandare ogni scelta

in attesa che nascesse il prossimo

livello di consapevolezza.

Allora infuriava il conflitto;

ora c’è vera guerra.

— Per te questo avveniva più di 270 anni standard fa — disse Aenea. — Era esatto, prima della Caduta.

— Già. — Scrutai il mare, nel caso ci fosse qualcosa di diverso dalle onde viola.

— Il poema di zio Martin spiega le motivazioni di Stabili, Volatili e Finali?

— Più o meno. È un passo difficile da seguire… nel poema, Ummon e le altre IA del Nucleo parlano mediante koan Zen.

Aenea annuì. — È quasi giusto.

— Secondo i Canti, le IA del Nucleo dette Stabili volevano continuare a fare i parassiti dei cervelli umani mentre noi adoperavamo la Rete. I Volatili volevano annientarci. E i Finali, immagino, se ne fregavano di noi, fintanto che potevano continuare a lavorare sull’evoluzione del loro dio-macchina… come lo chiamavano?

— L’IF — disse Aenea, facendo rallentare il tappeto e diminuendo la quota. — L’Intelligenza Finale.

— Sì. Bella roba esoterica. Cosa c’entra, col nostro attraversamento dei portali… ammesso di trovarne un altro? — In quel momento non credevo che l’avremmo trovato: il pianeta era troppo grande, l’oceano era troppo esteso. Anche se la corrente avesse spinto nella giusta direzione la nostra piccola zattera, le probabilità di finire nei cento metri d’arcata del portale erano così basse che non valeva nemmeno la pena di prenderle in considerazione.

— Non tutti i portali furono costruiti o tenuti in funzione dagli Stabili affinchè fossero… come avevi detto?… grosse zecche nei cervelli umani.

— Va bene. Chi altri costruì i teleporter?

— Quelli del fiume Teti furono progettati dai Finali. Erano un… esperimento, potrei definirlo… col Vuoto Legante. Questo è il termine del Nucleo… zio Martin l’ha usato nei Canti?

— Sì — risposi. Ora ci eravamo abbassati, volavamo a un migliaio di metri sopra le onde, ma non si vedeva né la zattera né altro. — Torniamo indietro — suggerii.

— D’accordo. — Consultammo la bussola e puntammo verso casa… se si poteva definire casa una zattera che faceva acqua da tutte le parti.

— Non ho mai capito che diavolo sia il "Vuoto Legante" — dissi. — Una sorta d’iperspazio usato dai teleporter, dove il Nucleo si teneva nascosto mentre ci sfruttava. Questa parte l’ho capita. Credevo che fosse stato distrutto, quando Meina Gladstone ordinò di far esplodere le bombe nei teleporter.

— Non si può distruggere il Vuoto Legante — disse Aenea, con tono remoto, come se pensasse ad altro. — Zio Martin come l’ha descritto?

— Tempo di Plack e lunghezza di Planck. Non ricordo esattamente… qualcosa su come combinare le tre costanti fondamentali della fisica… gravità, costante di Planck e velocità della luce. Ricordo che dava alcune piccolissime unità di lunghezza e di tempo.

— Circa 10-35 metri per la lunghezza — disse Aenea, accelerando un poco. — E 10-43 secondi per il tempo.

— Non mi dicono niente. Solo fottutamente piccolo e breve… scusa il linguaggio.

— Sei scusato — disse Aenea. A poco a poco riprendevamo quota. — Ma non era importante il tempo o la lunghezza. Era importante come venivano intessuti per formare… il Vuoto Legante. Mio padre provò a spiegarmelo, prima che nascessi…

Rimasi stupito per quella frase, ma continuai ad ascoltare.

— … hai sentito parlare delle sfere dati planetarie.

— Sì — dissi. Diedi un colpetto al comlog. — Questo gingillo dice che Mare Infinitum non possiede una sfera dati.

— Giusto. Ma molti mondi della Rete l’avevano. E l’insieme delle sfere dati formava la megasfera.

— Il mezzo dei teleporter… il Vuoto comesichiama… collegava le sfere dati, no? La FORCE e il governo elettronico dell’Egemonia, la Totalità, usavano tanto la megasfera quanto l’astrotel per tenersi in collegamento.

— Infatti. La megasfera in realtà esisteva in un sub-piano dell’astrotel.

— Non lo sapevo — ammisi. Nella mia vita l’astrotel per comunicazioni più veloci della luce non esisteva.

— Ricordi quale fu l’ultimo messaggio, prima che l’astrotel smettesse di funzionare durante la Caduta?

— Sì. — Chiusi gli occhi. Stavolta i versi del poema non mi vennero in mente. Avevo sempre ritenuto troppo vago il finale dei Canti e non mi ero interessato al punto da mandarlo a memoria, malgrado l’insistenza di Nonna. — Un oscuro messaggio del Nucleo — dissi. — Qualcosa come… lasciare la linea e smetterla di collegarsi.

— Il messaggio era: NON CI SARÀ ULTERIORE USO SCORRETTO DI QUESTO CANALE. DISTURBATE ALTRI CHE LO USANO PER SCOPI SERI. L’ACCESSO SARÀ RIPRISTINATO QUANDO AVRETE CAPITO A CHE COSA SERVE.

— Giusto. C’è nei Canti. Mi pare. E poi il mezzo iperstringa smise semplicemente di funzionare. Il Nucleo trasmise il messaggio e spense l’astrotel.

— Il Nucleo non trasmise quel messaggio — disse Aenea.

Ricordo il gelo che si diffuse dentro di me in quel momento malgrado il calore dei due soli. — Non lo trasmise? — ripetei come un idiota. — Chi fu, allora?

— Ottima domanda — disse Aenea. — Quando mio padre parlava della megasfera… il più ampio piano dati in qualche modo collegato al Vuoto Legante o tramite esso… soleva dire che era piena di leoni e tigri e orsi.

— Leoni e tigri e orsi — ripetei. Erano animali della Vecchia Terra. Non credo che abbiano preso parte all’Egira. Non credo che esistessero ancora, neppure sotto forma di DNA immagazzinato, quando la Vecchia Terra crollò nel suo buco nero, dopo il Grande Errore del ’38.

— Uh, mi piacerebbe incontrarli, un giorno o l’altro — disse Aenea. — Siamo arrivati.

Guardai da sopra la sua spalla. Adesso eravamo a un migliaio di metri di quota e la zattera pareva minuscola, ma era chiaramente visibile. A. Bettik, di nuovo a torso nudo nel caldo del mezzogiorno, reggeva il timone. Agitò il braccio. Tutt’e due rispondemmo al saluto.

— Speriamo che ci sia qualcosa di buono per colazione — disse Aenea.

— Altrimenti ci toccherà fermarci al Grill-Acquario di Gus.

Aenea si mise a ridere e iniziò a planare verso casa.


Al calar della notte, prima che spuntassero le lune, scorgemmo un tremolio di luci all’orizzonte. Ci precipitammo a prua e cercammo di capire che cosa c’era laggiù: Aenea usava il binocolo, A. Bettik gli occhiali notturni al massimo della potenza e io il mirino a cannocchiale della carabina.

— Non è l’arcata — disse Aenea. — Una piattaforma sull’oceano… molto grande… su una sorta di trampoli.

— Io vedo l’arcata, però — disse l’androide, che guardava alcuni gradi a nord della luce palpitante. Aenea e io scrutammo in quella direzione.

L’arcata era appena visibile, una corda di spazio negativo intagliata nella Via Lattea, proprio sopra l’orizzonte. La piattaforma, con i palpitanti fari di navigazione per i velivoli e le finestre illuminate che solo allora comparivano, era più vicina a noi di qualche chilometro. E si trovava fra noi e il teleporter.

— Maledizione — dissi. — Cosa sarà?

— Il locale di Gus? — suggerì Aenea.

Sospirai. — In questo caso, avrà un nuovo proprietario. Nell’ultimo paio di secoli c’è stata scarsità di turisti sul Teti. — Esaminai la piattaforma. — Un mucchio di piani — borbottai. — Varie navi alla fonda… pescherecci, scommetto. Una rampa per skimmer e altri velivoli. Mi pare di scorgere un paio di tòtteri legati laggiù.

— Cosa sono i tòtteri? — domandò Aenea, abbassando il binocolo.

Rispose A. Bettik. — Velivoli che utilizzano ali mobili, un po’ come gli insetti, signorina Aenea. Durante l’Egemonia erano abbastanza diffusi ma su Hyperion sono sempre stati rari. Mi pare che li chiamassero anche libellule.

— Li chiamano ancora libellule — dissi. — La Pax ne aveva alcuni su Hyperion. Ne ho visto uno che atterrava sulla piattaforma di ghiaccio di Ursus. — Alzai di nuovo il mirino e riuscii a scorgere le bolle a forma d’occhio nella parte anteriore delle libellule, illuminate dalla luce proveniente da una finestra. — Sono proprio tòtteri — confermai.

— Avremo qualche difficoltà a passare davanti alla piattaforma per raggiungere il portale senza farci vedere — notò A. Bettik.

— Presto — dissi, girandomi. — Smontiamo la tenda e l’albero.

Avevamo rizzato nuovamente la tenda per avere una sorta di riparo/parete sulla dritta della zattera verso poppa… un angolo riservato ai servizi igienici di cui non starò qui a parlare… ma ora la smontammo e la piegammo in un pacchetto grande come la mia mano. A. Bettik abbassò il palo di prua. — Il timone?

Diedi una rapida occhiata. — Lascialo. Non ha una sezione trasversale percettibile dal radar e non è più alto di noi.

Aenea esaminava ancora la piattaforma. — Per il momento non possono vederci — disse. — Siamo quasi sempre nel ventre d’onda. Ma quando saremo più vicino…

— E quando sorgeranno le lune… — aggiunsi.

A. Bettik si sedette accanto al focolare. — Se potessimo fare un largo giro per raggiungere il portale…

Mi grattai la guancia. — Già. Avevo pensato di usare la cintura di volo per rimorchiare la zattera, ma…

— Abbiamo il tappeto — disse Aenea, unendosi a noi accanto al termocubo. Senza la tenda, la zattera pareva vuota.

— Come agganciamo la fune di rimorchio? — obiettai. — Bruciamo il tappeto per praticarvi un foro?

— Se avessimo un’imbracatura… — cominciò l’androide.

— Ce l’avevamo, una bella imbracatura per la cintura di volo! L’ho data in pasto al Leviatano dalla bocca a lampada.

— Potremmo costruirne un’altra — proseguì A. Bettik — e legare la fune alla persona sul tappeto.

— Certo — obiettai — ma in aria il tappeto offre un ritorno radar più forte. Se laggiù fanno posare skimmer e tòtteri, hanno di sicuro un controllo del traffico, non importa quanto primitivo.

— Possiamo tenerci bassi — disse Aenea. — Mantenere il tappeto appena sopra le onde… più o meno alla nostra altezza.

Mi grattai il mento. — Possiamo — dissi. — Ma se facciamo un’ampia deviazione per tenerci fuori vista dalla piattaforma, prima d’arrivare al portale le lune saranno alte. Diavolo… sarà come puntare direttamente lì, in questa corrente. Alla luce delle lune ci vedranno di sicuro. E poi il portale dista dalla piattaforma poco più d’un chilometro. Quelli sono abbastanza in alto da vederci, appena saremo così vicino.

— Non sappiamo se ci cercano — disse Aenea.

Annuii. L’immagine di quel prete-capitano che aspettava proprio noi nel sistema di Parvati e su Vettore Rinascimento non mi abbandonava mai a lungo: il solino da prete sull’uniforme nera della Pax. Una parte di me s’aspettava che fosse sulla piattaforma, in attesa con soldati della Pax.

— Non importa poi molto se ci cercano — dissi. — Anche se vengono solo a salvarci, abbiamo una storia di copertura che regga?

Aenea sorrise. — Siamo usciti per una gita al chiaro di luna e ci siamo perduti? Hai ragione, Raul. Ci "salverebbero" e passeremmo il prossimo anno cercando di spiegare alle autorità della Pax chi siamo. Forse non ci cercano, ma sono sul pianeta…

— Sì — disse A. Bettik. — La Pax ha estesi interessi su Mare Infinitum. Da ciò che abbiamo spigolato mentre ci tenevamo nascosti nella città universitaria, da tempo qui è subentrata la Pax, per riportare l’ordine, creare gruppi di controllo delle fattorie marine e convertire al Cristianesimo della rinascita i sopravvissuti alla Caduta. Mare Infinitum era un protettorato dell’Egemonia; ora è una colonia della Chiesa.

— Brutta notizia — disse Aenea. Girò lo sguardo dall’androide a me. — Qualche idea?

— Credo di sì — dissi. Mi alzai. Avevamo parlato sottovoce, anche se ci trovavamo almeno a quindici chilometri dalla piattaforma. — Invece di tirare a indovinare chi c’è laggiù e che cosa combina, perché non andiamo a dare un’occhiata? Forse ci sono soltanto i discendenti di Gus e pochi pescatori addormentati.

Aenea emise un verso lamentoso. — Quando abbiamo visto le luci, sai cos’ho pensato che poteva essere?

— Cosa?

— Il gabinetto di zio Martin.

— Prego? — disse l’androide.

Aenea si batté a mani aperte le ginocchia. — Sul serio. Mamma diceva che quando Martin Sileno era un imbrattacarte di fama, ai tempi della Rete, aveva una casa multiplanetaria.

Corrugai la fronte. — Nonna mi ha parlato di quelle case. Teleporter fra una stanza e l’altra. Una sola casa con stanze in diversi pianeti.

— Decine di pianeti, per la casa di zio Martin, se bisogna credere a mia mamma. E zio Martin aveva il bagno su Mare Infinitum. Nient’altro che un pontile galleggiante e una tazza. Né pareti, né soffitto.

Guardai il moto ondoso dell’oceano. — Questo per l’identità con la natura — dissi. Mi diedi una manata sulla gamba. — Bene, vado, prima di perdere il coraggio.


Nessuno trovò da ridire, né si offrì di prendere il mio posto. Se l’avessero fatto, forse mi sarei lasciato convincere.

Mi cambiai e indossai i calzoni e il maglione più scuri che avevo; poi m’infilai sopra il maglione il giubbotto da caccia, di colore smorto, e mi sentii un po’ teatrale. "Il pivello dei commandos va alla guerra" borbottò la parte cinica del mio cervello. Le ingiunsi di fare silenzio. Tenni la cintura con la rivoltella, misi nella giberna agganciata alla cintura tre detonatori e un panetto d’esplosivo al plastico, m’infilai gli occhialoni per la visione notturna in modo che penzolassero senza dare nell’occhio dentro il collo del giubbotto quando non li usavo e mi sistemai all’orecchio gli auricolari di una ricetrasmittente, tenendo contro la gola il microfono subvocale. Aenea si mise l’altra apparecchiatura e provammo se funzionavano. Passai ad A. Bettik il comlog. — Quest’affare riflette troppo facilmente la luce — dissi. — E la voce della nave potrebbe mettersi a strillare stupidaggini sulla navigazione spaziale nel momento meno opportuno.

L’androide annuì e ripose nel taschino della camicia il braccialetto. — Ha un piano, signor Endymion?

— Ne farò uno quando sarò là — dissi, facendo sollevare il tappeto hawking sopra il pianale della zattera. Toccai Aenea sulla spalla… e il contatto mi parve all’improvviso simile a una scarica elettrica. Avevo già notato quell’effetto, quando le toccavo la mano: niente di sessuale, è ovvio, ma elettrico ugualmente. — Stai al coperto, ragazzina — le mormorai. — Griderò, se avrò bisogno d’aiuto.

Aenea mi guardò, seria. — Non servirebbe a niente, Raul. Non potremmo accorrere.

— Lo so, scherzavo.

— C’è poco da scherzare — mormorò lei. — Se non sarai con me sulla zattera quando varcherò il portale, rimarrai qui.

Il pensiero mi fece rinsavire, più di quanto non avesse fatto l’idea che mi sparassero. — Tornerò — mormorai. — La corrente ci porterà nei pressi della piattaforma in… tu cosa dici, A. Bettik?

— Un’ora circa, signor Endymion.

— Sì, lo pensavo anch’io. La maledetta luna dovrebbe spuntare più o meno per quell’ora. Troverò… troverò un modo per distrarli. — Diedi a Aenea un colpetto sulla spalla, rivolsi ad A. Bettik un cenno di saluto e spinsi sull’acqua il tappeto hawking.

Anche con l’incredibile luce delle stelle e col visore notturno era difficile pilotare il tappeto hawking per quei pochi chilometri che mi separavano dalla piattaforma. Dovevo tenermi il più possibile nei ventri d’onda, ossia dovevo volare più in basso delle creste. Lavoro delicato. Non avevo idea di che cosa sarebbe accaduto se avessi urtato una delle lunghe e lente onde… forse niente, o forse i fili di volo avrebbero fatto corto circuito… ma non intendevo certo scoprirlo.

La piattaforma pareva gigantesca. Dopo due giorni su quel mare, senza vedere altro che la zattera, la piattaforma era davvero gigantesca: un po’ d’acciaio, ma per la maggior parte altro materiale scuro, legno dall’aspetto; una ventina di piloni che la tenevano una quindicina di metri sopra le onde (questo dava l’idea di che cosa dovevano essere le burrasche sul quel mare e mi faceva sentire ancora più fortunato perché non ne avevamo incontrata nessuna) e una serie di piani, ponti e bacini più in basso dove dondolavano almeno cinque battelli da pesca, scale, compartimenti illuminati sotto quello che pareva il ponte principale, due torri (una delle quali munita di un piccolo riflettore parabolico radar) e tre rampe d’atterraggio per velivoli, due delle quali non erano state visibili dalla zattera. Ora vedevo almeno sei totteri, con le ali da libellula ripiegate, e due skimmer più grandi, sulla rampa circolare accanto alla torre radar.

Nel frattempo avevo escogitato un piano perfetto: creare un diversivo (per questo avevo portato i detonatori e il plastico… non molto, ma sufficiente a provocare almeno un incendio), rubare una libellula e poi varcare con quella il portale, se eravamo inseguiti, oppure usarla per trainare a grande velocità la zattera.

Era un buon piano, a parte un difetto: non sapevo pilotare un tòttero. Eventualità che non si era mai presentata, negli olodrammi da me visti nei teatri di Port Romance o nelle sale di ricreazione della Guardia Nazionale: gli eroi sapevano pilotare qualsiasi velivolo riuscissero a rubare… skimmer, EM, tòtteri, còtteri, aeronavi rigide, navi spaziali. Evidentemente avevo saltato l’Addestramento Basilare per Eroi; se fossi riuscito a entrare in uno di quegli affari, probabilmente all’arrivo dei soldati della Pax sarei stato ancora lì a rosicchiarmi le unghie e a fissare i comandi. Ai tempi dell’Egemonia, l’Eroe trovava di sicuro meno difficoltà… le macchine erano più intelligenti e compensavano così la sua stupidità. In pratica (ma mi sarebbe dispiaciuto confessarlo ai miei compagni di viaggio) non erano molti, i veicoli che sapevo guidare. Una chiatta. Un semplice camion, se del tipo in dotazione alla Guardia Nazionale di Hyperion. In quanto a pilotare velivoli… be’, ero stato felice, quando avevo visto che la nave spaziale non aveva sala comando.

Mi scossi da queste fantasticherie sulle mie manchevolezze come eroe e mi concentrai per superare le ultime centinaia di metri che mi separavano dalla piattaforma. Ora vedevo con chiarezza le luci: fari per velivoli accanto ai ponti d’atterraggio, una luce verde lampeggiante su ciascuno dei bacini per i pescherecci, finestre illuminate. Moltissime finestre. Decisi d’atterrare nella zona più buia della piattaforma, proprio sotto la torre radar del lato est, e spinsi il tappeto in un lungo, lento arco a filo d’onda, per avvicinarmi da quella direzione. Mi guardai indietro e quasi m’aspettai di vedere la zattera che s’avvicinava, ma quella era sempre invisibile.

"Speriamo che sia invisibile anche a loro" pensai. Ora udivo voci e risate: voci maschili, risate profonde. Pareva che lì ci fosse un gruppo dei miei clienti cacciatori, avvinazzati e allegri. Ma anche degli idioti con cui avevo fatto servizio nella Guardia Nazionale. Mi concentrai per tenere basso e asciutto il tappeto e per intrufolarmi sulla piattaforma.

«Sono quasi arrivato» subvocalizzai nel trasmettitore.

«Bene» mi bisbigliò all’orecchio Aenea. Avevamo stabilito che avrebbe solo risposto alle chiamate, a meno che non si verificasse un’emergenza dalla loro parte.

Sotto la piattaforma principale, da quel lato, vidi un labirinto di travi, di strutture longitudinali, di ponti secondari e di passerelle. A differenza delle scale ben illuminate sui lati nord e ovest, queste erano buie… passerelle d’ispezione, forse. Per far posare il tappeto scelsi la più bassa e la più buia. Spensi i fili di volo, tagliai con un colpo di coltello la fune che avevo portato con me, arrotolai il tappeto e lo legai nel punto di unione di due travi. Mentre rimettevo nel fodero il coltello e tiravo il giubbotto per coprirlo, immaginai all’improvviso di dover pugnalare qualcuno. Provai un brivido. A parte l’incidente dovuto all’attacco di Herrig, non avevo mai ucciso nessuno in uno scontro corpo a corpo. Pregai Iddio che la cosa non si ripetesse mai più.

Salii i gradini, provocando qualche cigolio, e mi augurai che il rumore fosse coperto dallo sciacquio delle onde contro i piloni e dalle risate. Percorsi due rampe, trovai una scala a pioli e la seguii fino a un portello. La botola non era chiusa a catenaccio. La sollevai lentamente, quasi aspettandomi di far cadere sulle chiappe una guardia armata.

Alzai piano piano la testa e vidi che mi trovavo nel ponte di volo sul lato della torre rivolto al mare. Dieci metri più in alto, l’antenna radar girava e oscurava una fetta di Via Lattea a ogni rotazione.

Mi tirai sul ponte, dominai l’impulso di camminare in punta di piedi e andai all’angolo della torre. Due enormi skimmer erano legati al ponte di volo, ma parevano bui e vuoti. Sul ponte inferiore vedevo i riflessi delle stelle sulle ali multiple dei tòtteri. La luce della nostra galassia brillava sulle buie bolle d’osservazione. Sentivo un formicolio fra le scapole, perché avevo l’impressione d’essere osservato, mentre passavo sul ponte superiore, applicavo un panetto d’esplosivo nel ventre dello skimmer più vicino, sistemavo un detonatore che potevo azionare con un’appropriata frequenza della mia ricetrasmittente, scendevo sul più vicino ponte di tòtteri e ripetevo l’operazione. Ero sicuro d’essere osservato da una delle finestre illuminate di quel lato, ma non ci furono allarmi. Con la massima indifferenza possibile, risalii senza far rumore la passerella e scrutai dall’angolo della torre.

Un’altra scala collegava il modulo della torre a uno dei sottostanti livelli principali. Lì le finestre erano molto luminose, coperte solo da schermature, non dalle imposte antiburrasca. Udii altre risate, qualche canto, rumori di pentole e padelle.

Inspirai a fondo, scesi la scala e attraversai il ponte, seguendo una passerella diversa per tenermi lontano dalla porta. Quando mi chinai per passare sotto le finestre illuminate, cercai di trattenere il fiato e di far rallentare i battiti del cuore. Se qualcuno fosse uscito da quella porta, si sarebbe trovato fra me e il nascondiglio del tappeto hawking. Toccai il calcio della .45 sotto il giubbotto e il risvolto della fondina, cercando di farmi venire pensieri coraggiosi. Mi venne solo il desiderio di tornare sulla zattera. Avevo sistemato gli esplosivi per creare un diversivo… cos’altro volevo? Non si trattava solo di curiosità, capii: se quelli non erano soldati della Pax, non volevo far scoppiare il plastico. I ribelli che mi ero arruolato per combattere nei ghiacciai dell’Artiglio usavano di preferenza bombe: bombe nei villaggi, bombe nelle caserme della Guardia Nazionale, pani d’esplosivo nei gatti delle nevi e in piccole imbarcazioni destinate tanto ai civili quanto ai militari. L’avevo sempre ritenuta una scelta detestabile, da vigliacchi. Le bombe non fanno discriminazioni, uccidono l’innocente e il soldato nemico. Era da sciocchi, lo sapevo, fare i moralisti a questo modo; mi auguravo che le mie piccole cariche non facessero altro che incendiare un velivolo deserto, tuttavia non le avrei fatte esplodere, se non fosse stato assolutamente indispensabile. Quegli uomini… e probabilmente donne e forse bambini… a noi non avevano fatto niente.

Con una lentezza dolorosa, assurda, sollevai la testa e scrutai dalla finestra più vicina. Diedi solo una rapida occhiata e abbassai di nuovo la testa. I rumori di tegami e padelle provenivano da una zona cucina ben illuminata… dalla cambusa, mi corressi, poiché quella era una nave, più o meno. Comunque là dentro c’erano cinque o sei persone, tutti maschi, tutti in età militare ma non in uniforme, a parte magliette e grembiuli, occupati a vuotare, impilare e lavare piatti. Ero giunto tardi per la cena.

Tenendomi contro la parete, percorsi piegato in due la passerella, scesi un’altra scala e mi fermai davanti a una fila di finestre più lunga. Lì, nascosto nell’ombra dell’angolo formato da due moduli, da alcune finestre lungo la parete rivolta a ovest potevo vedere l’interno senza dovermi accostare ai vetri. Si trattava di una sala mensa… o di una sorta di stanza da pranzo. Una trentina di persone, tutti uomini, sedeva ai tavoli, davanti a tazze di caffè. Alcuni fumavano sigarette di tabacco ricombinante. Almeno uno beveva whisky… o comunque un liquido color ambra, preso da una bottiglia. In quel momento non ne avrei rifiutato un goccio, qualsiasi cosa fosse.

Molti uomini erano in cachi, ma non sapevo se si trattava di una uniforme locale o solo dell’abbigliamento tradizionale di chi si dedica alla pesca sportiva. Non vidi uniformi della Pax… decisamente una buona cosa. Forse quella era solo una semplice piattaforma per la pesca, un albergo per ricchi stronzi d’altri pianeti che se ne fregavano di pagare un anno di debito temporale (in realtà, di farlo pagare agli amici e ai familiari) per l’emozione di uccidere qualche grossa ed esotica preda. Diamine, forse ne conoscevo addirittura qualcuno: pescatore adesso, cacciatore d’anatre quando aveva visitato Hyperion. Non mi venne voglia d’entrare per scoprirlo.

Un po’ più fiducioso, percorsi la lunga passerella, lasciando che la luce delle finestre mi colpisse. Non c’erano guardie, pareva. Nessuna sentinella. Forse non avremmo avuto bisogno di un diversivo… sarebbe bastato passare con la zattera davanti a quella gente, chiaro di luna o no. Loro sarebbero stati addormentati oppure occupati a bere e a ridere, noi avremmo solo seguito la corrente fin dentro il portale che scorgevo a meno di due chilometri verso nordest, un arco scuro appena accennato contro il cielo pieno di stelle. Giunti al portale, avrei lanciato un segnale su diversa frequenza già predisposta, non per far saltare il plastico, ma per disinnescare i detonatorì.

Guardavo ancora il portale, quando girai l’angolo e andai a urtare un uomo appoggiato alla parete. Altri due erano fermi alla ringhiera e uno di loro, con un binocolo a visore notturno, guardava lontano verso nord. I due erano armati.

— Ehi! — strillò l’uomo che avevo urtato.

— Chiedo scusa — dissi. Negli olodrammi non mi era mai accaduto di vedere una scena simile.

I due alla ringhiera portavano a bandoliera un minifucile a fléchettes su cui tenevano appoggiato il braccio, con quell’indifferente arroganza che i militari hanno professato per innumerevoli secoli. Nessuno dei due spostò il fucile in modo che la canna puntasse nella mia direzione. Il terzo, quello che avevo urtato, era stato interrotto mentre si accendeva una sigaretta. Ora agitò il fiammifero per spegnerlo, si tolse di bocca la sigaretta e mi lanciò un’occhiata di storto.

— Cosa fa qui fuori? — m’apostrofò. Era più giovane di me, forse sulla ventina standard, e indossava, lo vidi ora, una variante dell’uniforme della fanteria della Pax, con la striscia da tenente che su Hyperion avevo imparato a salutare. Parlava con una netta inflessione dialettale che non riconobbi.

— Prendo un po’ d’aria — risposi, con una scusa zoppicante. Una parte della mia mente pensò che un vero Eroe avrebbe già estratto la pistola e fatto fuoco. La parte più furba non prese neppure in considerazione un simile comportamento.

Anche l’altro soldato della Pax spostò la cinghia del fucile. Udii lo scatto della sicura. — È col gruppo Klingman? — domandò, nello stesso dialetto del commilitone. — O con gli Autery? — Non capii se avesse detto "autieri", "attori" o anche "autori". Forse la piattaforma era un campo di concentramento per cattivi scrittori. Forse tra me mi sforzavo di metterla sul ridere, mentre il cuore mi batteva così forte da farmi temere che avrei avuto un attacco cardiaco proprio davanti a loro.

— Klingman — dissi, cercando d’essere il più conciso possibile. Ero sicuro di non parlare il dialetto che si sarebbero aspettati.

Il tenente della Pax indicò col pollice la porta più in là. — Conosci le regole. Coprifuoco dopo il buio.

Annuii e cercai d’assumere un’aria contrita. Il bordo del giubbotto sfiorava la fondina appesa al fianco. Forse i tre non avevano visto la rivoltella.

— Andiamo — disse il tenente, movendo di nuovo il pollice verso la porta, ma girandosi per fare strada. I due soldati tenevano ancora la mano sul fucile a fléchettes. Se avessero sparato da quella distanza, per raccogliere i miei resti sarebbe bastato un cucchiaino.

Seguii il tenente lungo la passerella e varcai la porta: non ero mai entrato in una stanza più luminosa e più affollata di quella.

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