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Per tre settimane restammo con i Chitchatuk, sul mondo ghiacciato di Sol Draconis Septem, e in quel tempo riposammo, ci riprendemmo, girammo con loro nei tunnel di ghiaccio dell’atmosfera ghiacciata, imparammo qualche parola e qualche frase della loro difficile lingua, andammo a trovare padre Glauco nella città sepolta, ci avvicinammo furtivamente agli spettri artici e fummo da loro furtivamente avvicinati, e facemmo quel terribile viaggio a valle del fiume.

Ma corro troppo. È facile correre, nel racconto, soprattutto per la crescente probabilità d’inalare cianuro al prossimo respiro. Ma basta: questa storia finirà quando finirò io, non prima, e importa poco se finirà a questo punto o alla conclusione o a metà strada. La racconterò come se mi fosse concesso di raccontarla tutta.

Il nostro primo incontro con i Chitchatuk rischiò di concludersi in tragedia per noi e per loro. Avevamo smorzato le torce e ce ne stavamo acquattati nel buio del tunnel di ghiaccio, carabina al plasma carica e pronta, quando la più fioca delle luci comparve dalla curva seguente e grosse sagome non umane girarono l’angolo. Accesi la torcia e il suo raggio illuminò una scena spaventosa: tre o quattro grossi animali… pelliccia bianca, artigli neri lunghi come la mia mano, bianche zanne ancora più lunghe, occhi lucenti e rossastri. Quelle creature si muovevano nella nebbiolina provocata dal loro stesso respiro. Portai alla spalla la carabina e spostai su fuoco rapido il selettore.

— Non sparare! — gridò Aenea, afferrandomi il braccio. — Sono esseri umani!

Il grido bloccò la mano non solo a me, ma anche ai Chitchatuk. Lunghe lance d’osso erano comparse dalle pieghe delle bianche pellicce e le nostre torce illuminavano punte acuminate e braccia alzate nel gesto di scagliare la lancia. Ma il grido di Aenea parve bloccare tutti, un attimo prima dell’esplosione di violenza.

Allora vidi le pallide facce sotto le visiere di zanne di spettro artico: facce larghe, dal naso tozzo, pallide al punto da parere albine, ma fin troppo umane, come umani erano i lucenti occhi scuri che ci guardavano. Abbassai la torcia in modo che la luce non desse fastidio.

I Chitchatuk erano grossi e muscolosi, ben adattati all’estenuante gravità di Sol Draconis Septem, e parevano ancora più massicci, avviluppati in quel modo nelle pellicce di spettro artico. Presto avremmo scoperto che ciascuno di loro indossava la metà anteriore della pelle di uno spettro artico, testa compresa, per cui i neri artigli penzolavano sotto le mani e le zanne ricoprivano il viso come una saracinesca di sbarre affilate. Scoprimmo pure che i cristallini oculari degli spettri artici, anche senza i complessi nervi che consentivano a quei mostri di vedere nell’oscurità quasi totale, funzionavano ancora come semplici occhiali a visore notturno. Tutto ciò che i Chitchatuk indossavano e portavano con sé proveniva dagli spettri artici: lance d’osso, corde di cuoio grezzo ricavato dagli intestini e dai tendini, coperte e giacigli, perfino i due soli manufatti che possedevano… un braciere di forma conica, appeso a corregge, contenente le braci che illuminavano loro la via, e un affare più complicato, d’osso, composto di ciotola e d’imbuto, che serviva per sciogliere sul braciere il ghiaccio e ricavarne acqua. Solo più tardi scoprimmo che i Chitchatuk, già di notevole stazza, parevano ancora più grossi e gibbosi a causa degli otri che portavano sotto la pelliccia, sfruttando il calore corporeo per mantenere liquida l’acqua.

L’immobilità durò un buon minuto e mezzo, prima che Aenea avanzasse di un passo e il Chitchatuk di nome Cuchiat (venimmo a sapere più tardi che così si chiamava) la imitasse. Cuchiat parlò per primo: un torrente di suoni rauchi che parevano lo schianto di enormi ghiaccioli fracassati contro una superfìcie dura.

— Mi spiace, non capisco — disse Aenea. Guardò noi.

Guardai A. Bettik. — Riconosci questo dialetto? — L’inglese della Rete era stato il linguaggio standard per tanti di quei secoli che faceva un effetto quasi sconvolgente, udire parole che non avessero un significato. Anche tre secoli dopo la Caduta, secondo i forestieri venuti su Hyperion, molti dialetti planetari e regionali erano tuttora incomprensibili.

— No, non lo riconosco — disse A. Bettik. — Signor Endymion, potrei suggerirle… il comlog?

Risposi con un cenno d’assenso e recuperai dallo zaino il braccialetto comlog. I Chitchatuk mi osservarono con diffidenza, continuando a parlare tra loro, occhi attenti nel caso si trattasse di un’arma. Si rilassarono un poco, quando alzai il bracciale a livello degli occhi e lo accesi.

«Sono attivato e aspetto la domanda o l’ordine» trillò il braccialetto incrostato di ghiaccio.

— Ascolta queste frasi — dissi, mentre Cuchiat riprendeva a parlare. — Riesci a tradurle?

Il guerriero abbigliato da spettro artico fece un breve e rumoroso discorso.

— Allora? — dissi al comlog.

«Questo linguaggio o dialetto non mi è noto» trillò dal comlog la voce della nave. «Conosco varie lingue della Vecchia Terra, compreso l’inglese pre-Rete, il tedesco, il francese, il danese, il giapponese…»

— Lascia perdere — lo interruppi. I Chitchatuk fissavano il ciarliero braccialetto, ma i loro occhi neri, dietro la griglia di zanne, non mostravano timore né superstizione… solo curiosità.

«Suggerirei» continuò il comlog «che mi tenesse acceso per alcune settimane o mesi, mentre si parla questa lingua. Allora raccoglierei un data base da cui sarebbe possibile ricavare un lessico semplice. Sarebbe inoltre preferibile…»

— Grazie lo stesso — dissi, spegnendolo.

Aenea mosse un altro passo verso Cuchiat ed esprimendosi con la mimica spiegò che avevamo freddo ed eravamo sfiniti. Indicò a gesti che volevamo mangiare, coprirci e dormire.

Cuchiat emise un grugnito e discusse con gli altri. Ora nel tunnel si accalcavano sette Chitchatuk (avremmo in seguito imparato che gli elementi dei loro gruppi di caccia, come pure delle bande più numerose, formavano sempre un numero primo). Alla fine, dopo avere parlato separatamente a ciascuno dei suoi, Cuchiat ci rivolse un breve discorsetto, girò nel corridoio in salita e ci fece segno di seguirlo.

Scossi dai brividi, chini per la gravità del pianeta, sforzandoci di vedere dove mettevamo i piedi, nella fioca luce delle loro braci (avevamo spento le torce per risparmiare le batterie), accertandoci che la bussola inerziale funzionasse e che lasciasse la sua digitale scia di briciole, seguimmo Cuchiat e i suoi verso l’accampamento dei Chitchatuk.


Erano creature generose. Diedero a ciascuno di noi una veste di pelle di spettro artico, altre pellicce sotto cui dormire, brodo di spettro riscaldato sul piccolo braciere, acqua dagli otri tenuti contro il corpo e piena fiducia. I Chitchatuk, apprendemmo presto, non facevano guerre fra loro. Non concepivano l’idea di uccidere un altro essere umano. In sostanza i Chitchatuk (popolazione locale che da quasi mille anni si andava adattando a quell’ambiente di ghiaccio) erano gli unici superstiti della Caduta, delle pestilenze virali e degli spettri artici. Ricavavano da questi ultimi tutto il necessario e (da quanto riuscimmo a intuire) i mostruosi spettri artici dipendevano per il cibo unicamente dai Chitchatuk. Ogni altra forma di vita (in ogni caso, marginale) era precipitata sotto la soglia di sopravvivenza dopo la Caduta e il fiasco del progetto per terraformare il pianeta.

I primi giorni trascorsi con loro furono dedicati a dormire, mangiare e fare tentativi di comunicazione. I Chitchatuk non avevano villaggi permanenti nel ghiaccio: dormivano alcune ore, ripiegavano le vesti e si spostavano nell’alveare di tunnel. Quando scioglievano il ghiaccio per ricavarne acqua (il loro unico uso del fuoco, poiché le braci non bastavano a scaldarli) appendevano al soffitto il braciere conico, mediante tre corregge, in modo da non lasciare per terra tracce rivelatrici.

La tribù, banda, clan (chiamatela come volete) si componeva di ventitré persone e all’inizio fu impossibile dire se ci fossero anche delle donne. I Chitchatuk erano sempre avviluppati nelle pellicce e le sollevavano quel poco che bastava a non sporcarle quando urinavano o defecavano in una delle fenditure nel ghiaccio. Solo nel nostro terzo periodo di sonno, quando vedemmo la donna di nome Chatchia copulare con Cuchiat, fummo sicuri che la banda aveva anche una componente femminile.

A poco a poco, mentre nei due giorni seguenti giravamo e parlavamo con loro nella costante semioscurità dei tunnel, cominciammo a riconoscerli e imparammo i loro nomi. Cuchiat, il capo, malgrado la voce che pareva un rombo di valanga, era un uomo gentile, pronto a sorridere con le labbra e con gli occhi. Chiaku, il suo vice, era il più alto della banda e portava una pelliccia di spettro artico con una traccia di sangue, una sorta d’onorificenza, come apprendemmo in seguito. Aichacut era l’arrabbiato del gruppo: spesso ci guardava di storto e manteneva sempre le distanze. Ritengo che, se il capo dei cacciatori fosse stato Aichacut, il giorno del nostro primo incontro ci sarebbero stati morti sul ghiaccio.

Cuchtu era una sorta di stregone; aveva il compito di girare intorno alla nicchia o al tunnel dove avremmo dormito, mormorando incantesimi e premendo sul ghiaccio il palmo delle mani, dopo essersi tolto i guanti di pelle di spettro artico. Secondo me, cacciava via i cattivi spiriti. Aenea suggerì ironicamente che forse faceva solo ciò che facevamo anche noi… cercava una via d’uscita da quel labirinto di ghiaccio.

Chichticu portava il braciere e si mostrava chiaramente orgoglioso dell’onore riservatogli. Le braci erano per noi un mistero: continuavano a emettere luce e calore per giorni… settimane… eppure non erano mai rincalzate né rinnovate. Solo quando incontrammo padre Glauco chiarimmo il mistero.

La banda non comprendeva bambini; comunque per noi era difficile stabilire l’età dei Chitchatuk. Cuchiat era chiaramente più anziano di molti altri… il suo viso era una ragnatela di rughe che si dipartivano dalla radice del naso a spatola, largo e schiacciato… ma con nessuno di loro riuscimmo a discutere la questione dell’età. Capivano che Aenea era una bambina, o almeno una giovane adulta, e la trattavano come tale. Le donne del gruppo (lo notammo dopo averne riconosciute tre) ricoprivano i ruoli di cacciatore e di sentinella, a turno con gli uomini. Anche se diedero pure ad A. Bettik e a me l’onore di montare la guardia mentre la banda dormiva (tre persone armate stavano sempre sveglie) i Chitchatuk non chiesero mai a Aenea di fare il suo turno. Ma era chiaro che la trovavano simpatica e che si divertivano a parlare con lei, usando quella combinazione di semplici parole e di gesti complicati che fin dal paleolitico ha fatto da ponte per superare le distanze fra i popoli.

Il terzo giorno Aenea riuscì a far capire che voleva tornare al fiume. Sulle prime i Chitchatuk rimasero perplessi, ma i segni e le poche parole già imparate bastarono a Aenea per trasmettere il concetto: il fiume, la zattera galleggiante, l’arcata del teleporter sepolta nel ghiaccio (a questo reagirono con grandi esclamazioni) e poi la muraglia di ghiaccio e la risalita del tunnel e l’incontro con i nostri amici Chitchatuk.

Quando Aenea propose di andare al fiume tutti insieme, nel giro di qualche minuto la banda raccolse le pellicce giaciglio, le infilò nelle sacche di pelle di spettro artico e si mise in marcia con noi. Per una volta procedevo in testa, seguendo l’ago luminoso della bussola inerziale che indicava le numerose svolte, curve, salite e discese percorse nei tre giorni di vagabondaggio.

Se non fosse stato per i nostri cronometri, mi sembra giusto dirlo, nei tunnel di ghiaccio di Sol Draconis Septem il tempo sarebbe scomparso. L’immutabile fioca luce proveniente dal braciere d’osso, il luccichio delle pareti di ghiaccio, l’oscurità davanti a noi e dietro di noi, il gelo opprimente, i brevi periodi di sonno e le lunghe ore di fatica per percorrere i tunnel portando sulla schiena il peso della gravità del pianeta… tutto si combinava per distruggere il nostro senso del tempo. Ma secondo il cronometro, fu nel tardo pomeriggio del terzo giorno da quando avevamo abbandonato la zattera che scendemmo l’ultimo tratto di cunicolo e tornammo al fiume.

Fu una triste scena: l’albero maestro spezzato e i tronchi scheggiati, la prua quasi sommersa per l’accumulo di ghiaccio, la lanterna imbiancata da una patina di brina, il senso di vuoto e d’abbandono dell’imbarcazione priva della tenda e delle attrezzature. I Chitchatuk rimasero affascinati e mostravano un’animazione che non avevamo mai visto in loro dal giorno del nostro incontro. Usando funi di pelle intrecciata, Cuchiat e alcuni altri si calarono sulla zattera ed esaminarono attentamente ogni cosa: la pietra focolare, le lanterne metalliche, la fune di nylon adoperata per legare i tronchi. La loro animazione era tangibile e mi resi conto che in una società dove un unico tipo d’animale (abile predatore, oltretutto) rappresentava l’unica fonte di materiali da costruzione, d’armamento e di vestiario, la zattera era un vero e proprio tesoro di materie prime.

Avrebbero potuto tentare di ucciderci e di appropriarsi di quella ricchezza, ma i Chitchatuk erano gente generosa e neppure la cupidigia poteva modificare la loro convinzione che tutti gli esseri umani erano alleati, proprio come tutti gli spettri artici erano nemici e prede. Fino a quel momento non avevamo ancora visto uno spettro artico… a parte, è logico, le pelli che ora portavamo sopra i nostri vestiti, poiché le pellicce erano incredibilmente calde e in capacità isolante rivaleggiavano con la termocoperta, tanto che avevamo rimesso negli zaini parte dell’abbigliamento. Ma se allora eravamo all’oscuro della potenza e della fame degli spettri artici, ben presto le avremmo sperimentate.

Ancora una volta Aenea trasmise il concetto di noi che galleggiavamo lungo il fiume e attraversavamo l’arcata. Descrisse a gesti la muraglia di ghiaccio… la indicò… e poi mostrò la continuazione del nostro viaggio sul fiume fino alla seconda arcata.

Questo animò maggiormente Cuchiat e la sua banda; i Chitchatuk cercarono di parlarci senza usare il linguaggio dei segni e c’investirono di frasi che alle nostre orecchie parvero cascate di ciottoli. Visto che non riuscivano a spiegarsi, si girarono e parlarono animatamente fra loro. Alla fine Cuchiat avanzò di un passo e ci rivolse una breve frase. Udimmo la parola "glauco" ripetuta varie volte (l’avevamo già notata nei loro discorsi, perché pareva estranea alla loro lingua) e quando Cuchiat gesticolò verso l’alto e ripeté il segno per indicare che tutti salivamo verso la superficie, concordammo volentieri.

E così, ciascuno infagottato in pelliccia di spettro artico, la schiena piegata sotto il peso dello zaino e dell’estenuante gravità, strusciando i piedi sul ghiaccio duro come roccia, ci dirigemmo alla città sepolta dove avremmo incontrato il prete.

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