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Mentre ci lasciavamo trasportare sulla zattera nel pianeta desertico, battendo le palpebre per difendere gli occhi dalla cruda luce del sole tipo G2 e bevendo acqua dalle ghirbe aria/acqua fatte con viscere di spettro artico, i nostri ultimi giorni su Sol Draconis Septem mi parvero un sogno che svanisce rapidamente.

Cuchiat e la sua banda si erano fermati a una cinquantina di metri dalla superficie (avevamo notato che nei tunnel l’aria si faceva sempre più rarefatta) e lì, nel frastagliato cunicolo di ghiaccio, ci eravamo preparati per la spedizione. Con nostro stupore i Chitchatuk si erano spogliati. Anche se per l’imbarazzo guardavamo da un’altra parte, avevamo notato che i Chitchatuk (anche le femmine, non solo i maschi) avevano corpi particolarmente muscolosi e massicci: parevano culturisti di un pianeta a gravità normale, appiattiti e compressi in esemplari più compatti. Cuchiat e la guerriera Chatchia avevano presieduto al nostro denudamento e alla preparazione per la superficie, mentre Chiaku e gli altri estraevano dalle sacche alcuni oggetti.

Osservammo i Chitchatuk e li imitammo nel rivestirci, con l’aiuto di Cuchiat e di Chatchia. Per i pochi secondi in cui fummo effettivamente nudi (usando come tappeto pellicce di spettro artico per non congelarci i piedi) fummo bruciati dal freddo. Poi indossammo una sottile membrana (la pelle interna degli spettri artici, venimmo a sapere più tardi) sagomata per adattarsi alle braccia, alle gambe e alla testa. Ma chiaramente per braccia, gambe e testa più piccole. Infatti era più che attillata: la membrana trasparente mi stringeva da tutte le parti, tanto da farmi sembrare una serie di palle di cannone in un involucro per salsicce. A. Bettik non aveva un aspetto migliore del mio. Dopo qualche istante capii che quelle membrane erano l’equivalente Chitchatuk delle tute spaziali… forse persino delle sofisticate dermotute che un tempo l’esercito dell’Egemonia usava nello spazio. Le membrane lasciavano passare il sudore e fornivano riscaldamento e raffreddamento, impedivano che i polmoni scoppiassero nel vuoto, che la pelle si screpolasse, che il sangue bollisse. Andavano calate sulla fronte e tirate sul mento, come un cappuccio, lasciando scoperti occhi, naso e bocca.

Cuchiat e Chatchia tolsero dalle sacche alcune maschere. Gli altri Chitchatuk le avevano già indossate. Erano evidentemente manufatti ottenuti dalla stessa membrana della tuta, con imbottiture di pelle di spettro artico cucite qua e là. Gli oculari erano ricavati dal cristallino degli occhi di spettro artico e offrivano una limitata capacità di vedere nel campo dell’infrarosso, come gli occhi delle vesti di pelliccia. Dal muso della maschera uscivano alcune spire d’intestino di spettro artico; Cuchiat cucì con cura a una delle ghirbe d’acqua l’estremità libera.

Quelle non erano semplici ghirbe, capii, vedendo che i Chitchatuk cominciavano a respirare da sotto la maschera: il braciere di pastiglie di combustibile liquefaceva il ghiaccio, ottenendo sia acqua sia gas atmosferico. I Chitchatuk avevano in qualche modo filtrato quella mistura d’atmosfera fino ad avere adeguate quantità d’aria respirabile. Provai a respirare attraverso la maschera… e mi lacrimarono gli occhi per la presenza, in quell’aria, di altri composti gassosi: una chiara traccia di metano e forse perfino d’ammoniaca. Ma era aria respirabile. Calcolai che una ghirba ne contenesse quantità sufficiente solo per un paio d’ore.

Sopra la tuta, indossammo la pelliccia di spettro artico. Cuchiat spinse più in basso del solito la testa della pelliccia e chiuse le zanne in modo da costringerci a guardare dalle lenti: la testa di spettro artico fungeva da rozzo casco sopra la tuta a pressione. Poi calzammo un paio di stivali di pelle di spettro artico, allacciati sui polpacci fin quasi al ginocchio. La pelliccia esterna allora fu rapidamente chiusa con alcuni colpi decisi dell’ago d’osso di Chiaku. La sacca d’acqua e la sacca d’aria pendevano da cinghie sotto la pelliccia, vicino a un lembo che poteva essere scucito e aperto rapidamente quando le sacche avevano bisogno d’essere riempite di nuovo. Chichticu, colui che portava il fuoco di pastiglie di combustibile, era continuamente indaffarato a liquefare atmosfera in acqua e aria, anche durante la marcia, e distribuiva le sacche di ricambio seguendo un ordine preciso, da Cuchiat (il primo) a me (l’ultimo). Almeno ora capivo la scala gerarchica della banda. Capii anche perché, quando in superficie c’era pericolo, la banda si disponeva in cerchio e proteggeva Chichticu, il portafuoco, che stava al centro. Non si trattava solo della sua importanza religiosa e simbolica. La sua costante vigilanza e il suo duro lavoro ci mantenevano in vita.

Mentre uscivamo dalla caverna nel vento turbinoso e sul ghiaccio della superficie, ci fu un’ultima aggiunta al nostro abbigliamento. Da un nascondiglio presso l’ingresso, Chiaku e gli altri recuperarono una provvista di lunghi pattini a lama, affilati come rasoi alla base, piatti e larghi in cima, che si adattavano perfettamente ai piedi. Anche i pattini furono allacciati mediante corregge di pelle. Quegli aggeggi erano un’efficace combinazione di pattini da ghiaccio e di sci da fondo. Percorsi goffamente dieci metri sul ghiaccio variegato, prima di capire che quei pattini erano artigli di spettro artico.

Avevo, lo confesso, una gran paura di cadere in quella gravità di 1,7 g, perché a ogni ruzzolone mi pareva di ricevere addosso l’equivalente di sette decimi di un altro Raul Endymion; ma ben presto imparammo il trucco per muoverci su quegli affari… e poi eravamo ben imbottiti. Alla fine, quando la superficie diventava troppo accidentata, usai uno dei tronchi della zattera come massiccio bastone da sci, procedendo come se fossi su una minizattera per una sola persona.

Mi piacerebbe avere un ologramma o una fotografia del nostro gruppo in quella gita. Con le pellicce, le tute, le sacche d’aria, i tubi, le lance d’osso, la mia carabina al plasma, gli zaini e gli artigli-sci, avevamo di sicuro l’aspetto di paleolitici astronauti della Vecchia Terra.

Andò tutto liscio. Sulla neve e sui sastrugi di cristalli di ghiaccio procedemmo più rapidamente di quanto non avessimo fatto nei tunnel. Se il vento soffiava da sud, cosa che accadde solo per una breve parte della . nostra marcia in superficie, potevamo allargare le braccia infagottate di pelliccia e lasciarci spingere sui tratti piani come se andassimo a vela.


Camminare sulla superficie d’atmosfera ghiacciata di Sol Draconis Septem aveva un’aspra ma memorabile bellezza. Quando il sole era alto, il cielo era vuoto e nero, come visto da una luna; ma un attimo dopo il tramonto, migliaia di stelle parevano spuntare all’improvviso. Durante il giorno le nostre vesti e le tute interne reagirono bene alle alte e basse temperature del quasi-spazio, ma era evidente che neppure i Chitchatuk sarebbero sopravvissuti al gelo della notte. Per fortuna mantenemmo una buona velocità e fummo obbligati a trovare riparo solo per un periodo di oscurità di sei ore: i Chitchatuk avevano progettato la partenza in modo che avessimo il vantaggio di una piena giornata di luce, prima di quella notte.

Non c’erano montagne né altre asperità più grosse di creste o ruscelli di ghiaccio, a parte le prime ore, quando il sole nascente colpì un oggetto ghiacciato a sud dalla nostra posizione. Quella, capii, era la punta del grattacielo di padre Glauco che sporgeva dal ghiaccio, molti chilometri più lontano. A parte quello, la superficie era così piatta che per un minuto mi domandai come facessero i Chitchatuk a orizzontarsi; ma poi vidi Cuchiat dare un’occhiata al sole e alla propria ombra. In quella breve giornata procedemmo sui pattini verso nord.

Sciando/pattinando, i Chitchatuk mantenevano una stretta formazione difensiva con al centro il portafuoco e stregone addetto al fuoco e alle sacche d’aria/acqua, ai lati guerrieri armati di lancia, Cuchiat all’avanguardia e Chiuaku (il vicecapo, capimmo ora) alla retroguardia, tanto impegnato a guardarsi alle spalle da pattinare quasi a ritroso. Ciascun Chitchatuk portava intorno alla veste di pelliccia una matassa di corda di spettro artico (durante la vestizione, anche noi eravamo stati equipaggiati allo stesso modo) e capii meglio lo scopo di tutte quelle corde quando Cuchiat si fermò di colpo e pattinò a est per evitare diversi crepacci che per me erano stati invisibili. Guardai in uno di essi (la fenditura pareva sprofondare nelle tenebre eterne) e cercai d’immaginare come ci si sarebbe sentiti a cadere in quell’abisso. Più tardi, quello stesso pomeriggio, uno degli esploratori scomparve in un’improvvisa e silenziosa esplosione di cristalli di ghiaccio… solo per riapparire un attimo dopo, mentre Chiaku e Cuchiat preparavano le corde di salvataggio. Il guerriero aveva bloccato la propria caduta, si era tolto i pattini e li aveva usati come ramponi da ghiaccio, scavandosi la strada su per la ripida parete della fenditura, come uno scalatore. Stavo imparando a non sottovalutare i Chitchatuk.

Quel primo giorno non scorgemmo spettri artici. Al tramonto capimmo, malgrado lo sfinimento, che Cuchiat e gli altri avevano smesso di pattinare verso nord e facevano un largo giro, scrutando giù nel ghiaccio come se cercassero qualcosa. Intanto l’esile vento ci sferzava con cristalli di ghiaccio. Se fossimo stati in tuta spaziale, sono convinto che il visore si sarebbe rigato e rovinato. Le pellicce e gli oculari di cristallino non mostravano di risentirne.

Finalmente Aichacut, che si era allontanato verso ovest, agitò il braccio (impossibile comunicare a voce, con le maschere e nel vuoto) e andammo tutti da quella parte; ci fermammo in un punto che non pareva diverso dal resto. Cuchiat ci segnalò di stare lontano, slegò l’ascia che gli avevamo regalato e iniziò a spaccare il ghiaccio. Quando lo strato superficiale cedette, vedemmo che non si trattava di un normale crepaccio ma dello stretto ingresso di una caverna. Quattro guerrieri impugnarono la lancia, Chichticu si unì a loro portando la lampada di braci e il gruppetto, preceduto da Cuchiat, strisciò nel foro, mentre noi e gli altri aspettavamo nella solita formazione difensiva.

Dopo qualche istante Cuchiat sporse la testa e a gesti ci segnalò di entrare. Impugnava ancora l’ascia e immaginai che dietro il visore di zanne e sotto la maschera avesse un largo sorriso. L’ascia era stato un dono importante.

Trascorremmo così la notte in una tana di spettro artico. Aiutai Chiaku a chiudere con neve e ghiaccio l’ingresso; poi, con blocchi e grossi frammenti turammo un altro metro di cunicolo e infine entrammo a guardare Chichticu che scioglieva pezzi di ghiaccio per riempire la tana d’aria sufficiente a respirare. Dormimmo affastellati insieme, ventitré individui del Popolo Indivisibile e i tre Viandanti Indivisibili, tenendo indosso le vesti di pelliccia e le tute, ma togliendo le maschere, respirando il gradito odore del sudore altrui. Il calore del mucchio ci tenne in vita durante la terribile notte, mentre tempeste di Coriolis e bufere catabatiche scagliavano frammenti di ghiaccio a velocità prossima a quella del suono… se suono ci fosse stato, in quel vuoto quasi assoluto.

Ricordo ancora un particolare della nostra ultima notte con i Chitchatuk. La tana di spettro artico era tappezzata, completamente tappezzata, di teschi e di ossa umane, incastonati nelle pareti del covo, con quella che pareva la cura d’un artista.


Durante il viaggio del giorno seguente non vedemmo spettri artici, né cuccioli né adulti; poco prima del tramonto ci togliemmo i pattini, li depositammo in una nicchia e imboccammo i tunnel di ghiaccio sopra il secondo teleporter. A una certa profondità ci trovammo di nuovo nell’aria imprigionata; allora ci togliemmo la maschera e la membrana-tuta e le restituimmo a Chatchia, ma con qualcosa di simile alla riluttanza: era come rinunciare al contrassegno d’appartenenza al Popolo Indivisibile.

Cuchiat parlò brevemente. Non riuscii a seguire la raffica di parole, ma Aenea tradusse: — Siamo stati fortunati… e qualcosa a proposito di quanto sia insolito non dover affrontare spettri artici nella traversata della superficie… ma, dice lui, la fortuna in un giorno quasi sempre porta alla sfortuna nel giorno appresso.

— Digli che mi auguro che si sbagli.

Vedere il fiume libero, con la foschia e il soffitto di ghiaccio, fu quasi un colpo. Eravamo tutti sfiniti, ma ci mettemmo subito al lavoro. Non era facile, calzando guanti di spettro artico, legare i tronchi accorciati e montare la zattera, ma i Chitchatuk lavorarono rapidamente per aiutarci e nel giro di due ore ottenemmo una versione sgraziata e ridotta della nostra precedente imbarcazione… senza albero maestro, senza tenda, senza focolare. Ma il timone era al suo posto e le pertiche, seppure più corte di prima e giuntate, avrebbero funzionato, pensavamo, in quel tratto poco profondo del Teti.

Il commiato fu più triste di quanto non avessi immaginato. Ciascuno abbracciò tutti gli altri almeno due volte. Sulle lunghe ciglia di Aenea c’erano frammenti di ghiaccio e ammetto d’avere sentito una profonda emozione bloccarmi la gola.

Poi fummo nella corrente (mi parve bizzarro, viaggiare senza muovere le gambe: avevo ancora nei muscoli e nella mente l’eco del movimento spinta-e-scivolata sui pattini-artigli di spettro artico) e vedemmo avvicinarsi il teleporter e la muraglia di ghiaccio; ci chinammo per passare sotto l’arcata sempre più bassa e all’improvviso ci trovammo… altrove.


A colpi di pertica avanzammo nel sole nascente. Ora il fiume era largo e calmo; la corrente, lenta ma continua. Le rive erano di pietra rossiccia, striate come un’ampia e graduale scalinata che emergesse dall’acqua; il deserto era di roccia rossastra, con piccoli arbusti gialli; anche i lontani lastroni dell’altura e dell’arcata erano di liscia pietra rossa. Tutto quel colore rossastro era acceso dall’enorme sole rosso che si levava alla nostra sinistra. La temperatura superava già d’un centinaio di gradi quella della caverna di ghiaccio. Ci schermammo gli occhi e ci togliemmo le pellicce di spettro artico, sistemandole come folti tappeti bianchi a prua della zattera. Gli strati di ghiaccio sui tronchi dapprima luccicarono, poi si sciolsero nel sole del mattino.

Fummo sicuri di trovarci su Qom-Riyadh ancora prima di consultare il comlog o la guida del Teti. Fu il deserto di roccia rossastra a darci l’indizio… ponti d’arenaria rosso vivo, colonne scanalate di pietra rossa che si ergevano contro il cielo rosa, delicati archi rossi che facevano sembrare insignificante il teleporter sempre più lontano. Il fiume scorreva lungo canaloni sovrastati a mo’ d’arco da quelle parabole di pietra rossa, poi curvava in una vallata più ampia dove il caldo vento muoveva la gialla artemisia e sollevava una polvere rossa che s’infilava nei lunghi, tubolari "peli" delle pellicce di spettro artico e ci entrava nella bocca e negli occhi. Verso mezzogiorno ci muovevamo attraverso una vallata più fertile. Canali d’irrigazione si dipartivano ad angolo retto dal fiume e basse palme gialle e caprifogli rosso magenta costeggiavano gli argini. Ben presto comparvero piccoli edifici e subito dopo vedemmo un intero villaggio di case ocra e rosa, ma nessuna persona.

— Come Hebron — mormorò Aenea.

— Non lo sappiamo — obiettai. — Forse la gente lavora da qualche parte fuori vista.

Mezzogiorno passò e fu pomeriggio, sempre più caldo… Qom-Riyadh, secondo la guida, aveva un giorno di ventidue ore. Per quanto i canali aumentassero di numero, le piante si moltiplicassero e i villaggi diventassero più frequenti, non c’era traccia d’esseri umani né di animali domestici. Due volte spingemmo a riva la zattera… una volta per attingere acqua da un pozzo artesiano e un’altra per esplorare un piccolo villaggio da cui proveniva un martellio che si udiva anche sul fiume. Era causato da una finestra a vasistas, rotta, che sbatteva al vento.

All’improvviso, con un grido di dolore, Aenea si piegò in due. Mi acquattai e con la pistola al plasma tenni sotto mira la via deserta, mentre A. Bettik accorreva al fianco di Aenea. Nella via non c’era nessuno. Non c’era movimento dietro le finestre.

— Niente, niente — ansimò Aenea, mentre l’androide la sorreggeva. — Una fitta improvvisa…

Accorsi anch’io, sentendomi sciocco per avere estratto la pistola. La rimisi nella fondina alla cintura, mi chinai, strinsi la mano di Aenea. — Cosa c’è, ragazzina? — Vidi che piangeva.

— Non… lo… so — riuscì a rispondere, fra i singhiozzi. — È avvenuto… qualcosa… di terribile… non so.

La portammo di peso alla zattera. — Per favore — mormorò Aenea, battendo i denti malgrado il caldo — andiamocene. Andiamo via di qui.

A. Bettik rizzò la microtenda, che ora occupava la maggior parte del pianale. Mettemmo all’ombra le pellicce di spettro artico, vi deponemmo la bambina e le demmo da bere un po’ d’acqua.

— È quel villaggio? — domandai. — Qualcosa, in quel villaggio, ti ha…

— No — disse Aenea, fra singhiozzi senza lacrime. La vedevo lottare contro ondate d’emozione che la travolgevano. — No… qualcosa di spaventoso… su questo pianeta, ma anche… dietro di noi.

— Dietro di noi? — Guardai fuori della tenda e a monte, ma vidi solo la vallata, l’ampio letto del fiume e il villaggio che rimpiccioliva, con le sue palme gialle squassate dal vento.

— Dietro di noi nel pianeta di ghiaccio? — domandò piano A. Bettik.

— Sì — riuscì a rispondere Aenea, prima di piegarsi in due per il dolore. — Fa… male.

Posai la mano sulla fronte di Aenea e sullo stomaco. La pelle era più calda del normale, anche tenendo conto del caldo della vallata e delle scottature solari sul viso e sulle braccia. Prendemmo dal mio zaino un medipac e le applicai un cerotto diagnostico. Il medipac indicò febbre alta, un dolore di livello 6,3 della scala algometrica, crampi muscolari e un elettroencefalogramma irregolare. Consigliò acqua, antinfiammatorio e l’intervento di un medico.

— C’è una città — disse A. Bettik, mentre il fiume girava intorno a un promontorio a picco.

Uscii dalla tenda per guardare. Le torri rosso-rosa, le cupole e i minareti erano ancora distanti, forse quindici chilometri nella vallata sempre più ampia, e la corrente del fiume non aveva nessuna fretta. — Resta con lei — dissi all’androide e mi spostai sulla destra per usare la pertica. La nostra zattera accorciata era molto più leggera della vecchia e ci muovemmo rapidamente con la corrente.


A. Bettik e io consultammo la guida macchiata d’acqua e decidemmo che la città era Mashhad, capitale del continente meridionale e sede della Grande Moschea, di cui ora vedevamo chiaramente i minareti, mentre il fiume passava fra villaggi sempre più grossi, quartieri periferici, zone industriali ed entrava nella città vera e propria. Aenea dormiva di un sonno inquieto. La febbre era aumentata e il medipac pulsava di spie rosse per suggerire l’intervento di un medico.

Mashhad era irrealmente deserta, come Nuova Gerusalemme.

— Mi pare di ricordare una voce secondo cui il sistema di Qom-Riyadh era caduto in mano agli Ouster più o meno nello stesso periodo in cui gli Ouster conquistarono la nebulosa Sacco di Carbone — dissi. A. Bettik lo confermò, dicendo che lui e Sileno, per tenersi al corrente, avevano seguito dalla città universitaria il traffico radio della Pax.

Ormeggiammo la zattera a un basso pontile e portai Aenea nell’ombra delle vie. Era una ripetizione di quanto accaduto su Hebron, ma stavolta io ero in buone condizioni e Aenea era priva di sensi. Presi l’appunto mentale d’evitare d’ora in poi i pianeti desertici, se potevo.

Le vie erano meno ordinate di quelle di Nuova Gerusalemme: veicoli da terra parcheggiati malamente e abbandonati sui marciapiedi, detriti spinti dal vento, finestre e porte spalancate alla sabbia rossastra e bizzarri tappetini stesi sui marciapiedi, nelle vie, sui prati morenti. Mi soffermai davanti al primo gruppo di tappetini, pensando che potessero essere tappeti hawking. Erano solo comuni tappeti. Orientati tutti nella stessa direzione.

— Tappeti di preghiera — disse A. Bettik, mentre tornavamo nell’ombra della via. Anche gli edifici più alti non superavano i minareti che spuntavano da una zona a parco con alberi tropicali. — La popolazione di Qom-Riyadh era quasi al cento per cento islamica — continuò l’androide. — Si dice che qui la Pax non abbia trovato spazio, nemmeno con la promessa della risurrezione. La gente non voleva avere niente a che fare col Protettorato.

Girai l’angolo, cercando sempre un ospedale o un segno che potesse condurci a un ospedale. Avevo contro il collo la fronte di Aenea: scottava. Il respiro della bambina era rapido e irregolare. — Credo che questo mondo fosse citato nei Canti - dissi. Mi pareva che la bambina non pesasse niente.

A. Bettik annuì. — Il signor Sileno parlò della vittoria sul cosiddetto Nuovo Profeta ottenuta qui dal colonnello Kassad circa trecento anni fa.

— Gli Sciiti ripresero il potere dopo il crollo della Rete, vero? — Guardammo in un’altra via trasversale. Cercavo una mezzaluna rossa, non il segno universale dell’aiuto medico, la croce rossa.

— Sì — confermò A. Bettik. — E si opposero violentemente alla Pax. Si pensa che abbiano accolto con favore gli Ouster, quando la flotta della Pax si ritirò da questo settore.

Guardai le vie deserte. — Be’, pare che gli Ouster non abbiano apprezzato l’accoglienza. Qui è come su Hebron. Dove credi che siano spariti tutti? Possibile che gli Ouster abbiano preso in ostaggio la popolazione di un intero pianeta e…

— Guardi, un caduceo — m’interruppe A. Bettik.

L’antico simbolo raffigurante un bastone alato con due serpenti intrecciati si trovava sulla finestra di un alto edificio. L’interno dello stabile era a soqquadro, ma pareva la sede di normali uffici, non un ospedale. A. Bettik si accostò a un’insegna digitale che srotolava linee di testo in arabo. E che borbottava con voce meccanica.

— Sai leggere l’arabo? — domandai.

— Sì. Capisco anche qualcosa della lingua parlata, che è il farsi. Al nono piano c’è una clinica privata. Oserei dire che dovrebbe avere un centro diagnostico e forse un robochirurgo.

Puntai alle scale, sempre tenendo in braccio Aenea, ma A. Bettik provò a vedere se l’ascensore funzionava. Il pozzo di vetro ronzò e una vettura a levitazione venne a fermarsi al nostro piano.

— Strano che ci sia ancora l’energia elettrica — dissi.

Salimmo al nono piano. Aenea si svegliò e cominciò a lamentarsi, mentre percorrevamo il corridoio piastrellato, attraversavamo un giardino pensile dove palme gialle e verdi frusciavano al vento, ed entravamo in una bella stanza a vetrate, con file di lettini robochirurgici e un’apparecchiatura diagnostica centralizzata. Scegliemmo il lettino accanto alla finestra, spogliammo la bambina, lasciandole solo la biancheria, e la mettemmo fra le lenzuola pulite. Sostituimmo con gli appositi filamenti i cerotti diagnostici del medipac e aspettammo che si accendessero i pannelli diagnostici. La voce sintetizzata parlava in farsi e una parte dei dati era scritta in arabo, ma c’era una banda in inglese della Rete e noi passammo su quella.

Il robochirurgo diagnosticò sfinimento, disidratazione e un insolito schema elettroencefalografico forse dovuto a un grave colpo alla testa. A. Bettik e io ci guardammo. Aenea non aveva ricevuto nessun colpo alla testa.

Autorizzammo la cura per lo sfinimento e la disidratazione e ci scostammo, mentre cinture di flussoschiuma fuoruscivano dai pannelli del letto, pseudodita cercavano la vena e un’endovenosa lasciava colare una soluzione salina e un sedativo.

Nel giro di qualche minuto la bambina dormiva serenamente. Il pannello diagnostico parlò in arabo e A. Bettik tradusse prima che io mi chinassi a leggere sul monitor. — Dice che il paziente dovrebbe trascorrere una buona notte di riposo e domattina si sentirà meglio.

Cambiai posizione alla carabina al plasma, che portavo legata sulla schiena. I nostri zaini impolverati erano sopra una delle sedie per i visitatori. Mi accostai alla finestra e dissi: — Esco a controllare la città prima che faccia buio. Per accertarmi che non ci sia nessuno.

A. Bettik incrociò le braccia e guardò il grande sole rosso sfiorare la cima degli edifici dall’altra parte della via. — Credo proprio che non ci sia nessuno — disse. — Qui è stato necessario un po’ più di tempo, ecco tutto.

— Per cosa è stato necessario un po’ più di tempo?

— Per ciò che ha portato via la gente. Su Hebron non c’era segno di panico né di lotta. Qui la gente ha avuto il tempo di abbandonare i veicoli. Ma i tappeti di preghiera sono l’indizio più sicuro. — Per la prima volta notai le sottili rughe sulla fronte dell’androide e intorno agli occhi e alla bocca.

— L’indizio più sicuro?

— Sapevano che stava per accadere qualcosa e hanno trascorso in preghiera gli ultimi minuti.

Posai contro la sedia la carabina al plasma e slacciai la falda della fondina. — Vado lo stesso a fare un giro — dissi. — Tieni d’occhio Aenea, nel caso si svegli, d’accordo? — Presi dallo zaino le ricetrasmittenti, ne diedi una all’androide, mi agganciai al colletto l’altra e sistemai il microfono a goccia. — Tieni aperta la frequenza comune. Farò rapporti di controllo. Chiamami, in caso di necessità.

A. Bettik era fermo accanto al lettino. Toccò delicatamente la fronte della bambina addormentata. — Sarò qui, quando Aenea si sveglierà, signor Endymion.


È curioso che ricordi con tanta chiarezza il giro di quella sera nella città abbandonata. L’insegna digitale di una banca diceva che c’erano 40 gradi, ma il vento secco del deserto di roccia rossastra portava via in fretta il sudore e il tramonto rossorosato aveva su di me un effetto calmante. Forse ricordo quella sera perché fu l’ultima notte del nostro viaggio, prima che tutto cambiasse per sempre.

Mashhad era un bizzarro miscuglio di città moderna e di bazar del tipo che compare nelle Mille e una notte, una meravigliosa serie di storie che Nonna soleva raccontarmi sotto il cielo stellato di Hyperion. Quel posto aveva intorno a sé un pungente odore di leggenda. Nell’angolo c’era un chiosco di giornali e uno sportello automatico di banca; appena si girava l’angolo, c’erano banchetti in mezzo alla via, con tendoni dai colori vivaci e montagne di frutta che marciva nei contenitori. Immaginavo benissimo il frastuono e il traffico di quel luogo… cammelli o cavalli o altri animali pre-Egira che giravano in tondo e battevano gli zoccoli, cani che abbaiavano, venditori che imbonivano e clienti che tiravano sul prezzo, donne in chador nero e burqa di trina che passavano con andatura flessuosa, mentre sui lati della via le inefficienti e barocche vetture rombavano e sputavano puzzolente monossido di carbonio o chetoni o qualsiasi robaccia velenosa con cui gli antichi motori a combustione interna ammorbavano l’aria…

Il mio sogno a occhi aperti fu interrotto all’improvviso da una musicale voce maschile le cui parole echeggiarono nei canyon di pietra e d’acciaio della città. La voce pareva provenire dal parco a un paio d’isolati alla mia sinistra; corsi da quella parte, mano sul calcio della pistola nella fondina già sbottonata.

«Hai sentito?» dissi nel microfono, senza smettere di correre.

«Sì» rispose nella cuffia A. Bettik. «La porta del balcone è aperta e qui il suono è assai chiaro.»

«Pare arabo. Puoi tradurre?» Ansimavo solo un poco, mentre terminavo la corsa di due isolati ed entravo nella zona del parco, dove la moschea dominava tutti gli edifici. Qualche minuto prima, avevo guardato in una delle vie trasversali e avevo visto gli ultimi raggi di sole dipingere la facciata laterale di uno dei minareti, ma ora quella torre di pietra era di un grigio smorto e solo i più alti cirri sfilacciati riflettevano la luce.

«Sì» disse A. Bettik. «Un muezzin chiama alla preghiera della sera.»

Dall’astuccio agganciato alla cintura presi il binocolo e scrutai i minareti. La voce proveniva da altoparlanti posti in una delle balconate che cingevano ogni torre. Lassù non c’era segno di movimento. Il ritmico grido tacque di colpo e nella piazza alberata gli uccelli ripresero a cinguettare tra le fronde.

«Molto probabilmente è una registrazione» disse A. Bettik.

«Ora controllo» replicai. Riposi il binocolo e seguii un sentiero di pietrisco negli ampi prati e fra le palme giallastre, fino all’ingresso della moschea. Attraversai una corte interna e mi soffermai davanti all’entrata della moschea vera e propria. Scorgevo l’interno, disseminato di centinaia di tappetini di preghiera. Eleganti colonne sostenevano raffinati archi di pietra screziata e nella parete più lontana una magnifica arcata incorniciava una nicchia semicircolare. A destra di quella nicchia c’era una scalinata protetta da una ringhiera di pietra meravigliosamente scolpita, che aveva in cima una piattaforma dal baldacchino di pietra. Prima d’entrare, descrissi a A. Bettik l’interno della moschea.

«La nicchia è il mirhab» disse l’androide. «Riservato al conduttore della preghiera, l’imam. La balconata alla destra della nicchia è il minbar, il pulpito. C’è qualcuno?»

«No» risposi. Vedevo la polvere rossastra sui tappetini di preghiera e sui gradini.

«Allora non c’è dubbio, la chiamata alla preghiera è una registrazione a tempo.»

Provai l’impulso di entrare in quel grande edificio di pietra, ma l’impulso fu cancellato dalla riluttanza a profanare un luogo sacro ad altri. Avevo provato la stessa sensazione da bambino, nella cattedrale cattolica della Punta del Becco, e da adulto, quando un amico della Guardia Nazionale voleva condurmi in uno degli ultimi templi gnostici Zen di Hyperion. Da ragazzo avevo capito che sarei sempre stato un estraneo, nei luoghi sacri: non ne avrei mai avuto uno mio personale, non mi sarei mai sentito a mio agio in quello di altri. Non entrai.

Tornai indietro per le vie sempre più fresche e più buie e trovai un viale fiancheggiato di palme, in un’attraente zona della città. Carretti a mano esponevano cibi e giocattoli in vendita. Mi fermai accanto a un carretto per la vendita di ciambelle fritte e annusai uno di quei dolci ad anello grandi come un braccialetto. Era andato a male da qualche giorno, non da settimane o da mesi.

Il viale sbucava sul lungofiume; girai a sinistra e attraversai la spianata per tornare nella via che mi avrebbe riportato alla clinica. Di tanto in tanto chiamavo A. Bettik per controllo. Aenea era sempre profondamente addormentata.

Le stelle erano rese fioche dalla polvere nell’atmosfera e la notte calava sulla città. Solo in pochi edifici del centro c’era luce (chi aveva portato via la popolazione, aveva di sicuro agito di giorno), ma imponenti lampioni a gas, di tipo antico, correvano lungo la spianata e la illuminavano. Se non fosse stato per uno di quei lampioni posto alla fine della via verso il pontile dove avevamo ormeggiato la zattera, probabilmente sarei tornato alla clinica senza vedere niente. Invece il lampione mi consentì di scorgere una figura, da più d’un centinaio di metri di distanza.

Sulla nostra zattera c’era qualcuno. Una figura immobile, molto alta, all’apparenza vestita di una tuta argentea. La luce del lampione ne traeva riflessi, come se la figura portasse una tuta spaziale cromata.

Sottovoce dissi all’androide di proteggere la bambina perché sulla zattera c’era un intruso ed estrassi pistola e binocolo. Mentre mettevo a fuoco le lenti, la luccicante figura argentea girò la testa dalla mia parte.

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