CAPITOLO DECIMO

Si svegliò con un sussulto, il cuore che gli batteva forte, gli orecchi ancora feriti dall’eco della voce che lo aveva strappato al sonno; gli parve che indugiasse strana, né di uomo né di donna, fra le pareti della torre. Qualcuno lo stava scuotendo per una spalla e pronunciava il suo nome, qualcuno tanto a lui familiare che la reazione di Morgon non fu per nulla sorpresa: — Mi hai chiamato? — chiese. Poi le sue mani si sollevarono di scatto, attanagliando le braccia dell’arpista.

— Deth!

— Avevi un incubo.

— Sì. — I muri della stanza, il fuoco e il silenzio tornarono solida realtà intorno a lui. Le sue mani si rilassarono lentamente e ricaddero. L’arpista aveva uno spolverio di neve sul mantello e sui capelli; allentò la cinghia dell’arpa che portava a tracolla e la appoggiò contro il muro.

— Ho preferito aspettarti anonimamente a Kyrth, piuttosto che qui ad Harte; Danan non sapeva che io fossi ancora in città, così non te l’ha detto. — La sua voce, sempre così flemmatica, si addolcì. — Ci hai messo molto più tempo di quanto mi sarei atteso.

— Mi sono sperduto in una tormenta. — Si raddrizzò e si passò le mani sulla faccia. — È stato allora che ho incontrato Har, e… — Sollevò bruscamente lo sguardo in quello dell’arpista. — Tu mi stavi aspettando? Tu aspettavi che… Deth, da quanto sei qui?

— Due mesi. — L’uomo si tolse il mantello; grumi di neve sfrigolarono nel fuoco. — Ho lasciato Herun il giorno successivo alla tua partenza, e ho risalito il corso dell’Ose senza mai fermarmi fino a Kyrth. Ho detto a Danan che probabilmente saresti arrivato in città, e l’ho pregato di indirizzarti dove ho preso alloggio, poi… ho aspettato. — Tacque un istante. — Ero molto preoccupato.

Morgon studiò il suo volto. — Avevo tutte le intenzioni di tornare a Hed — mormorò. — Questo ti avevo detto. E tu non potevi sapere che io sarei invece venuto qui; non dopo due mesi, non in pieno inverno.

— Ho preferito confidare che avresti preso questa decisione.

— E perché?

— Perché se tu avessi voltato le spalle al tuo nome, agli enigmi cui devi rispondere… se fossi tornato a Hed da solo, indifeso, per rassegnarti alla morte che sapevi sarebbe presto arrivata… allora non avrebbe avuto nessuna importanza dove fossi io, se al Monte Erlenstar o sul fondo del mare. Ho vissuto per mille lunghi anni, e riesco a riconoscere una condanna quando me la vedo davanti.

Morgon chiuse gli occhi. Quella parola, rimasta a fremere nell’aria fra di loro come una nota d’arpa, parve sciogliere qualcosa dentro di lui. Le sue spalle si abbassarono. — Condanna! Anche tu la vedi. Deth, io ho toccato il suo teschio e la sua falce a Osterland. Io ho ucciso Suth.

Per la prima volta da quando lo conosceva, la voce dell’arpista fu un ansito sbalordito: — Tu hai fatto cosa?

Lui riaprì gli occhi. — Scusami. Intendevo dire che è morto per colpa mia. Har mi aveva salvato la vita in quella tormenta, così io ricambiai con una promessa, sorvolando sul fatto che è poco saggio promettere incautamente qualcosa al Lupo-Re. — Gli mostrò le palme delle mani; le cicatrici biancheggiarono nella luce del fuoco. — Ho imparato ad assumere la forma-vesta. E ho vagato insieme ai vesta per due mesi, con Hugin, il figlio di Suth, che ha capelli bianchi e occhi rossi. Infine ho trovato Suth dietro il Monte Fosco, sotto forma di un vecchio vesta, sempre privo dell’occhio che perse in una gara di enigmi. È morto là.

— Com’è morto?

Le mani di Morgon si strinsero con forza sui braccioli della sedia. — Gli ho domandato perché fuggì da Lungold. Gli ho citato la terza interpretazione del Fondatore, chiedendogli di aiutarmi, visto che lui sapeva… lui sapeva… E Suth ha fatto la sua scelta: ha tentato di rispondermi. Ma in quel tentativo è morto. Con le sue ultime forze ha attirato il mio volto contro il suo, là ai confini del mondo, dove c’è soltanto un eterno niente fatto di neve e di vento… e là è morto, assassinato, l’unico mago mai visto da un essere umano in sette secoli. Io ho sentito sulla faccia il suo ultimo respiro, e con esso la sua ultima parola, come un enigma la cui risposta mi riempie di terrore.

— Quale parola?

— Ohm. Ghisteslwchlohm. Il Fondatore di Lungold ha ucciso Suth.

Morgon sentì di nuovo l’ansito con cui l’arpista trattenne il respiro. Gli occhi dell’uomo s’incupirono, la sua faccia era rigida. Disse: — Io ho conosciuto Suth.

— Conoscevi anche il Maestro Ohm. E hai detto di aver incontrato Ghisteslwchlohm. — Lo afferrò per un braccio, con forza. — Deth, il Maestro Ohm e il Fondatore di Lungold sono la stessa persona?

— Ti condurrò a Monte Erlenstar. Poi, se non sarà il Supremo a rispondere a questa domanda, e sempre che egli me ne dia il permesso, ti dirò ciò che mi hai chiesto.

Morgon annuì. In tono più calmo disse: — Mi sto domandando quanti altri maghi siano ancora vivi, e come i poteri di Ghisteslwchlohm possano controllarli. Mi chiedo anche perché mai il Supremo non fa niente.

— Forse perché i suoi interessi sono volti al Reame, e non alla scuola dei maghi di Lungold. O forse ha già cominciato a fare qualcosa in proposito, ma con metodi per noi imperscrutabili.

— Spero che sia così. — Prese il boccale di vino che Deth aveva riempito per lui e bevve un sorso. Dopo un po’ riprese: — Deth, Har mi ha dato cinque enigmi che a sua volta aveva avuto da Suth. E ha suggerito che ne cercassi le risposte, visto che non avevo niente di meglio in cui impegnare la mia vita. Uno di essi è: chi verrà alla fine del tempo e cosa porterà? Io presumo che colui che verrà sia il Portatore di Stelle. Dunque io sono venuto, anche se non ho la minima idea di cosa dovrei portare. Tuttavia ciò che mi tormenta non è chi, o cosa, ma quando. La fine del tempo. Mentre salivo fin qui ad Harte a piedi, con Danan, ho ripensato alle città in rovina sulla Piana del Vento ed a Pian Bocca di Re, e al fatto che nessuno sa cosa fu a distruggere i Signori della Terra. La cosa è successa molto prima dell’Anno dell’Insediamento. Noi abbiamo trovato quelle immense rovine già sconnesse dalle radici delle piante che vi crescevano in mezzo, e abbiamo fatto l’ipotesi che una guerra sia scoppiata e poi terminata, lasciando come prova di sé soltanto le pietre sparse ovunque. E abbiamo data per certa anche l’ipotesi che i maghi fossero morti. A quanto ne so io, l’unica cosa che potrebbe distruggerci tutti sarebbe la morte del Supremo. E qualunque sia la forza che ha annientato i Signori della Terra, la mia paura è che essa stia aspettando l’occasione di sfidare l’ultimo di loro… l’ultimo dei Signori della Terra.

— Penso anch’io che sia abbastanza probabile — disse tranquillamente Deth. Si chinò sul focolare e aggiustò la posizione di un ciocco fra le fiamme. Un nugolo di scintille si levò nell’aria sotto i colpetti dell’attizzatoio.

— Il Supremo non ha mai spiegato cosa distrusse quelle due città?

— Mai, da quando posso ricordare. Una volta, a Caithnard, uno dei Maestri mi disse d’aver viaggiato fino alla dimora del Supremo per fargli proprio questa domanda, dal momento che è compresa nella loro lista degli enigmi senza risposta. Il Supremo si limitò a dirgli che le città erano già deserte e in rovina ancor prima che egli imponesse le leggi relative al governo della terra nel Reame.

— Sarebbe come dire che lui non lo sa, oppure che non vuole parlarne.

— È molto difficile che egli non lo sappia.

— Allora perché… — S’interruppe. — Soltanto il Supremo potrebbe spiegarci il Supremo. Dunque dovrò domandarlo a lui.

Deth lo fissava pensosamente. — Avrei anch’io una domanda — disse sottovoce. — A Herun te la feci, e preferisti non rispondermi. Ma adesso tu porti sulle mani il marchio dei vesta, hai riconosciuto il tuo nome, e ti stai applicando a questo mistero come un Maestro. Mi piacerebbe fartela ancora.

Al ricordo, Morgon si strinse nelle spalle. — Oh, quella?

— Qual è stato il motivo che ti ha convinto così all’improvviso a lasciare Herun per tornartene a casa?

— È stato qualcosa di cui Corrig aveva preso la forma. E la risata che vidi nei suoi occhi quando lo uccisi. — Innervosito si alzò e andò alla finestra, fissando gli occhi nel buio che circondava Isig.

Alle sue spalle l’arpista chiese: — Quale forma?

— Una spada. Con tre stelle sull’elsa. — Si volse, a denti stretti. — Ci ho pensato, e la conclusione a cui sono giunto è che nessuno, neppure il Supremo stesso, può costringermi a reclamarla.

— Questo è vero. — Il tono dell’arpista era impassibile, ma c’era una ruga fra le sue sopracciglia. — Non hai mai pensato di chiederti dove Corrig possa averla vista?

— No. Non m’interessa.

— Morgon. I cambiaforma sanno che ti appartiene, e che inevitabilmente finirai per trovarla, come hai trovato l’arpa, perfino se tu non volessi mai reclamarla. E quando questo accadrà essi saranno là, in attesa.

Nel silenzio della stanza si udiva solo il lieve scoppiettio della legna nel camino. Morgon scosse le spalle. — Ormai sono vicino al Monte Erlenstar… e quella spada può essere dovunque.

— Forse. Ma una volta Danan mi ha detto che Yrth forgiò segretamente una spada, e che non la mostrò mai a nessuno, secoli prima di costruire l’arpa. Dove poi la nascose, è un mistero. Una sola cosa è certa: disse di averla sepolta sotto lo stesso luogo in cui la forgiò.

— E dove… — Tacque. Nella sua mente balenò nitida l’immagine di quell’arma, e fu costretto a riconoscere il tocco di un maestro nella forma pura della lama. Non c’era nulla di casuale, di meramente decorativo, nella sicurezza con cui le tre stelle splendevano sull’elsa. Erano gravide di significato. Il suo sguardo s’incupì come se conoscesse già la risposta. — Dove fu forgiata?

— Qui. Sul Monte Isig.


Poco dopo Morgon si mise l’arpa a tracolla e scese insieme a Deth, per parlare con Danan. Seduto presso il camino del grande salone silenzioso, con accanto a sé i suoi figli e i suoi nipoti, il Re della montagna accolse il loro ingresso con un sorriso.

— Venite a sedervi qui, Deth. Oggi, quando vi ho mandato a chiamare, non sapevo se foste ancora a Kyrth o se aveste deciso di sfidare il Passo. Non si può dire che vi piaccia mettervi in mostra. Morgon, vi presento mia figlia Vert. Questo è mio figlio Ash, e i piccoli… — S’interruppe, facendo sedere sulle ginocchia una bambinetta che gli era venuta accanto. — Sono i loro figli. Non vedono l’ora di ascoltare la vostra arpa.

Morgon sedette, un po’ imbarazzato. Ash era alto ed elegante, con gli stessi occhi del padre; snella, delicata, la sorella aveva lunghi capelli del colore della corteccia di pino; i loro bambini erano una dozzina, di tutte le età. E ognuno di loro lo fissava con grande curiosità.

La donna, Vert, si volse a lui con tono di finta disperazione. — Mi dovete proprio scusare, ma Bere ha voluto venire, e dopo di lui anche tutti gli altri. E dove vanno i miei ragazzi va anche Ash, e così… spero che non vogliate farci caso. — Poggiò una mano su una spalla di un ragazzo dagli occhi grigi simili ai suoi, con nerissimi capelli ribelli. — Questo qui è Bere.

Un’altra testa nera apparve d’un tratto accanto alle ginocchia di Morgon: una bambinetta alta un soldo di cacio e appena in età di camminare da sola. Lo fissò con grandi occhi seri, ma subito inciampò goffamente e gli si aggrappò ai pantaloni. Mentre la mano di lui si affrettava a sorreggerla, rispose con calore al suo sorriso.

Ash disse: — Questa piccoletta è di Vert, si chiama Suny. Mia moglie è a Caithnard; e il marito di Vert, che fa il mercante, è in viaggio di affari ad Anuin, cosicché dei nostri bambini ne facciamo un sol mucchio. Non so come faremo a separarli senza confonderli, dopo.

Morgon s’era quasi incantato a carezzare la testa della piccola, che gli stava ostinatamente aggrappata alle ginocchia. Sollevò lo sguardo, perplesso. — Siete venuti tutti quanti per sentirmi suonare?

Ash annuì. — Ve ne prego. Se a voi non spiace. Quell’arpa e la storia della sua costruzione sono una leggenda, qui a Isig. Quando ho sentito che eravate qui e che l’avevate con voi, quasi non volevo crederci. Mi sarebbe piaciuto portare tutti gli artigiani di Kyrth a vederla, ma mio padre è riuscito a impedirmelo.

Morgon sciolse i lacci della custodia dell’arpa, e le piccole dita di Suny li afferrarono con curiosità; Bere le sussurrò: — Suny… — Poi, vedendo che la bambina non lo ascoltava venne accanto a Morgon e la prese in braccio. Conscio dell’intensa aspettativa dipinta sui loro volti, Morgon mormorò con lieve imbarazzo: — Sono due mesi e più che non la suono.

Nessuno aprì bocca. Mentre estraeva l’arpa dalla custodia le tre stelle avevano raccolto la luce del fuoco emettendo un magico bagliore; le lune d’avorio sembravano parlare un loro linguaggio silenzioso, nei liquidi riflessi degli intarsi d’argento. Sfiorò una corda; la nota echeggiò pura e dolce nel silenzio, esitante come una domanda. Sentì qualcuno trattenere il respiro con un piccolo ansito.

Una mano di Ash si mosse quasi involontariamente verso le stelle; la riabbassò. — Chi ha fatto questo intarsio?

— Zel di Hicon, a Herun… non ricordo il suo nome completo — rispose Danan. — Era un allievo di Sol. Ma il disegno era stato eseguito da Yrth.

— E Sol intagliò queste stelle. Posso vederle? — pregò Ash. Morgon gli passò l’arpa. Le parole dell’uomo avevano fatto risvegliare qualcosa in un angoletto della sua mente, ma non fu capace di definire quella fuggevole sensazione. Bere si sporse sulla spalla di Ash, a bocca aperta, mentre l’uomo esaminava lo strumento; Suny riuscì finalmente ad allungare una mano sulle corde, e il ragazzo indietreggiò tenendola in braccio con più fermezza.

Vert protestò: — Ash, smettila di contare tutte le sfaccettature delle pietre preziose. Vogliamo sentirla suonare.

Riluttante Ash restituì l’arpa a Morgon, che la imbracciò senza molto entusiasmo. Il tono di Vert si fece dolce, come se gli avesse letto nel pensiero: — Suonateci qualcosa che voi amate. Suonate una canzone di Hed.

Morgon si sistemò l’arpa sulle ginocchia. Per qualche istante le sue dita restarono inerti a contatto delle corde, quindi corsero su di esse negli accordi iniziali di una delle ballate che conosceva meglio. Il tono ricco e caldo delle note che lui solo poteva suonare riuscì a rilassarlo; perfino quella semplice ballata d’amore, mille volte cantata dalle fanciulle di Hed, sembrava aureolarsi di un’antica dignità. Mentre suonava gli giunse alle nari il profumo del legno di quercia che bruciava nel camino davanti a lui, e per un attimo esso divenne ai suoi occhi il caminetto della sua casa ad Akren. La canzone gli dava un tal senso di pace che fu certo, d’istinto, della tranquillità che regnava anche in Hed quella notte: la quiete delle campagne addormentate sotto la neve, le case silenti, e il placido sonno degli animali nelle loro calde stalle. Quella sensazione gli distese i lineamenti, scacciando dal suo volto la tensione e la stanchezza. Poi due pensieri si riunirono sulla superficie della sua mente, come pezzi di un incastro che andassero a posto con ineluttabile semplicità, e si fermò. Le sue dita s’irrigidirono immobili sulle corde dell’arpa.

Uno dei presenti ebbe un mormorio di protesta. Poi attraverso l’ombra che lo aveva rinchiuso d’improvviso come in un bozzolo udì la voce di Deth: — Che ti succede?

— Sol. Non fu ucciso dai mercanti perché la paura gli impedì di nascondersi a loro nella Cava dei Perduti. Fu assassinato… nello stesso modo in cui vennero assassinati i miei genitori, e anche il Morgol Dhairrhuwyth… dai cambiaforma! Sol entrò nella caverna e poi ne uscì di nuovo, per morire sulla soglia a causa di ciò che aveva visto. E ciò che i suoi occhi videro là dentro fu la spada stellata di Yrth.

Gli altri lo fissarono immobili, perfino i bambini, con occhi resi inespressivi dallo stupore. Vert rabbrividì come se una corrente gelida l’avesse sfiorata, a Ash, già dimentico della gioia che gli aveva dato l’ascolto dell’arpa, esclamò: — Quale spada?

Morgon si volse a Danan. Il Re aveva aperto la bocca ma taceva, con lo sguardo offuscato da lontane memorie. — Quella spada… ora ricordo. Yrth la forgiò in segreto; disse di averla seppellita. Io non la vidi mai, né la videro altri. Questo accadde moltissimo tempo fa, prima della nascita di Sol, quando avevamo appena aperto le miniere più alte. Non ripensai più a quell’arma. Ma voi come potete sapere dov’è? O che aspetto abbia? O che Sol fu ucciso a causa sua?

Le dita di Morgon strinsero con forza il legno dello strumento; i suoi occhi si abbassarono sulle corde come se loro linee dritte ordinassero i suoi pensieri. — So che esiste una spada che ha sull’elsa tre stelle, identiche alle stelle di quest’arpa; so anche che i cambiaforma l’hanno vista. I miei genitori vennero fatti annegare nella traversata da Caithnard a Hed mentre mi portavano questo strumento. Il Morgol Dhairrhuwyth fu ucciso quando viaggiò attraverso Passo Isig per trovare la risposta a un enigma riguardante tre stelle. Il mago Suth è morto a Osterland una settimana fa perché sapeva troppo su quelle stelle e cercava di parlarne con me… — Ash sollevò le mani per interromperlo.

— Suth è stato ucciso? Suth?

— Sì.

— Ma come? Chi l’ha ucciso? Io ero convinto che fosse morto.

Morgon ebbe un gesto vago. I suoi occhi cercarono quelli di Deth. — Questa è una domanda che dovrò fare al Supremo. Credo che Yrth decise di nascondere la spada nella Caverna dei Perduti perché sapeva che nessuno avrebbe mai osato metter piede in quel posto. E sono convinto che Sol non venne assassinato dai mercanti, bensì dai cambiaforma o… o da chiunque fosse quello che ha ucciso Suth, perché anch’egli sapeva troppo su quelle stelle. Io non conosco la vostra montagna, Danan, ma potete scommettere che un uomo inseguito da degli assassini non fuggirebbe mai da quella parte.

Il silenzio che seguì fu incrinato soltanto dal crepitio del focolare, e dal sospiro di uno dei bambini che s’era addormentato sul tappeto. A parlare, inaspettatamente, fu Vert:

— Questa è una cosa che ha sempre stupito anche me — disse sottovoce. — Perché Sol fuggì in quel vicolo cieco, quando conosceva la montagna tanto bene che avrebbe potuto dileguarsi come nebbia lungo sentieri ignoti a qualsiasi straniero? Tu ricordi, Ash, che da bambini noi…

— Il modo di scoprirlo c’è! — ringhiò Ash, scattando in piedi. Ma l’immediato — No! — di Danan precedette quello di Morgon.

Il Re della montagna stabilì, secco: — Lo proibisco! Non intendo perdere un altro Erede. — Ash lo fronteggiò un istante, rigido, con le labbra serrate, poi la sua decisione si dissolse in una smorfia e tornò a sedersi. Danan emise uno stanco borbottio: — D’altra parte, cosa potrebbe venircene di buono?

— La spada, sempre che sia là, appartiene a Morgon. Lui vorrà…

— Io non la voglio affatto — dichiarò Morgon.

— Ma è tua — insisté Ash. — Se Yrth l’ha fatta per te…

— Non ricordo che mi sia mai stato domandato se volevo una spada. O un destino. Tutto ciò che desidero è di arrivare a Monte Erlenstar senza essere ammazzato… e questa è una ragione in più per non scendere in quella caverna. Inoltre, poiché si da il caso che io sia il Principe di Hed, non voglio presentarmi armato davanti al Supremo.

Ash aprì la bocca, e poi la richiuse. Danan mormorò: — Suth… — Uno dei bambini cominciò a piangere, in tono triste e capriccioso. Vert si volse a cercarlo con gli occhi.

— Sotto la tua sedia, è Kess — la informò Ash. Esaminò le facce stanche e annoiate degli altri. — Faremmo meglio a metterli a letto. — Si chinò ad afferrare uno dei pargoletti, che seduto sul tappeto si sfregava gli occhi insonnolito, e se lo mise in spalla come un sacco.

Mentre il figlio si voltava, Danan lo ammonì: — Ash!

I loro sguardi s’incrociarono ancora. Ash disse, con calma. — Hai la mia promessa. Ma credo che sia ormai tempo di aprire quella caverna. Non avrei mai detto che ci fosse una trappola mortale nel cuore di Isig — aggiunse rivolto a Morgon, mentre Vert lo affiancava trascinando via quanti più bambini poteva. — Comunque, grazie per aver suonato.

Morgon li seguì con lo sguardo intanto che si allontanavano coi più piccoli in braccio. Il gruppo svanì oltre la debole luce delle torce. Abbassò gli occhi sull’arpa, tornando ad avvertire un sapore amaro in bocca, quindi con gesti meccanici ripose lo strumento nella custodia. Deth e Danan avevano cominciato a chiacchierare sottovoce fra loro. Allorché lui si volse di nuovo il Re della montagna disse: — Morgon, Sol… non importa chi l’abbia ucciso, è nella tomba da trecento anni. C’è qualcosa che io possa fare per aiutarvi? Se volete quella spada, ho un esercito di minatori a vostra disposizione.

— No. — Il volto di lui s’indurì, pallido nella luce del focolare. — Lasciate che io me la veda da solo col mio destino, finché posso. Da Caithnard a Isig tutti non hanno fatto che spingermi avanti, e non mi pare che ne sia venuto nulla di positivo.

— Sarei disposto a prosciugare tutto l’oro dei filoni di Isig per aiutarvi.

— Lo so.

— Oggi pomeriggio, mentre camminavo con voi, non mi sono accorto che portavate le cicatrici-vesta. È cosa rarissima da vedere in chiunque, soprattutto in un Principe di Hed. Galoppare coi vesta dev’essere un’esperienza affascinante.

— Lo è. — Il suo tono s’era raddolcito, al ricordo della tranquillità e del silenzio delle nevi, nella zona dei laghi freddi. Poi rivide il volto contratto di Suth, gli parve di risentire le mani che lo attraevano verso il suo respiro di morente, e con una smorfia cercò di scacciare quelle immagini.

— È in quella forma che prevedete di valicare il Passo?

— Questa era la mia idea, supponendo che sarei stato solo. Ora… — Gettò un’occhiata interrogativa a Deth.

— Per me non sarebbe facile — ammise l’arpista. — Ma neppure impossibile.

— Credi che potremmo partire domani?

— Se vuoi. Ma, Morgon, penso che dovresti riposare qui un giorno o due. Viaggiare sul Passo di Isig in pieno inverno sarebbe faticoso anche per un vesta, e a guardarti direi che in Osterland hai dato fondo alle tue energie.

— No. Non posso perdere altro tempo. Non posso.

— E allora andremo. Ma fatti una buona nottata di sonno. Lui annuì. Poi si volse a Danan con un sospiro. — Vi prego di scusarmi.

— E di cosa, Morgon? Per avermi ricordato un dolore vecchio di trecento anni?

— Anche per questo. Ma mi spiace di non aver suonato per voi nel modo in cui quest’arpa meritava d’esser suonata.

— Non eravate dell’umore adatto.

Morgon risalì lentamente le scale della torre, sentendo per la prima volta da che la possedeva il peso dell’arpa sulla schiena. Mentre girava sull’ultima rampa si domandò se Yrth s’era adattato ad arrampicarsi fino in cima a quelle scale ogni notte, o se invece sapeva praticare l’arte invidiabile del trasferimento istantaneo per muoversi da un luogo all’altro magicamente. Raggiunto il pianerottolo scostò la tenda, entrò in camera, e qui scoprì che qualcuno lo stava attendendo davanti al caminetto.

Era Bere, il figlio di Vert. E prima che Morgon si riprendesse dalla sorpresa gli propose, senza preamboli: — Io vi guiderò alla Caverna dei Perduti.

Morgon lo fissò ammutolito. Il ragazzo era giovanissimo, non dimostrava più di dieci o undici anni, ma con spalle robuste e un volto così composto da apparire grave. Lo sguardo scrutatore di cui venne fatto oggetto non lo mise minimamente in imbarazzo. Infine Morgon oltrepassò la soglia, lasciando ricadere la tenda dietro di sé; si tolse l’arpa dalle spalle e sedette.

— Non dirmi che sei già stato là! — borbottò.

— So dov’è. Una volta ho perso la strada, mentre esploravo. Ho cominciato a scendere dentro la montagna, sempre più in basso, un po’ perché prendevo tutte le curve sbagliate, e un po’ perché avevo deciso che se m’ero perduto tanto valeva vedere cosa c’era laggiù.

— E non avevi paura?

— No. Avevo fame. Sapevo che Danan o Ash mi avrebbero ritrovato. Io posso vedere nel buio, è un dono che mi viene da mia madre. Voi e io possiamo andarci senza luce, tranquillamente… salvo che nella caverna. Là avrete bisogno di una torcia.

— Perché sei così ansioso di portarmi laggiù?

Il ragazzo fece un passo verso di lui, corrugando le sopracciglia. — Voglio vedere quella spada. Non avevo mai visto niente di simile alla vostra arpa. Elieu di Hel, il fratello di Raith, Nobile di Hel, venne qui due anni fa; ora sta cominciando un lavoro un po’ dello stesso genere, come intagli e disegni, ma la vostra arpa è la cosa più bella su cui io abbia posato gli occhi. Devo vedere a tutti i costi il lavoro artistico che Yrth ha fatto sulla spada. Danan fabbrica spade per nobili o Re di An e di Ymris, e sono anche molto belle. Io sto imparando il lavoro con Ash e con Elieu; e Ash dice che un giorno sarò un maestro artigiano. È per questo che voglio imparare tutto ciò che posso.

Morgon si appoggiò allo schienale. D’improvviso non riuscì a negare un sorriso divertito a quel giovane artista così serio e deciso. — Tutto questo suona molto ragionevole. Ma tu hai sentito cosa ho detto a Danan di Sol.

— Sì. Ma io conosco ogni uomo di questa fortezza; nessuno ha qualche motivo per cercare di ammazzare voi. E se ci andiamo con cautela, nessuno lo verrà mai a sapere. Non sarà necessario che prendiate la spada… se volete, potrete stare sulla porta ad aspettarmi. Dentro, voglio dire, perché… — Un angolo della sua bocca si contrasse nervosamente. — Ammetto che l’idea di entrare là da solo mi fa paura. Ma fra tutti quelli che conosco voi siete l’unico che potrebbe venire con me.

Il sorriso scomparve dagli occhi di Morgon; si alzò di scatto, a disagio. — No. Tu sbagli. Io non voglio venire con te. Mi hai pur sentito quando ho spiegato a Danan le mie ragioni.

Bere tacque qualche istante, cercando con lo sguardo quello di lui. — Vi ho sentito. Ma Morgon, questo è… è importante. Per favore! Non ci vorrà molto ad andare e tornare…

— Tornare com’è tornato Sol?

Bere si morse le labbra. — Quella è una storia di molto tempo fa.

— No. — Vide che il suo tocco secco aveva fatto apparire un lampo disperato negli occhi del ragazzo, e lo raddolcì. — Sii ragionevole. Ascolta: io sono stato sempre mezzo passo davanti alla morte fin da quando ho lasciato Hed. Quelli che hanno cercato di uccidermi sono dei cambiaforma; potrebbero esser stati alla stessa tavola di Danan anche stasera, insieme a te, sotto le spoglie di minatori o mercanti che conosci benissimo. Nulla esclude che siano già qui, in agguato, in attesa che io faccia proprio questa mossa: se reclamassi il possesso della spada di Yrth, e se tu ed io fossimo sorpresi da loro nella caverna, ci ucciderebbero. E io ho troppo rispetto per la mia intelligenza, e per la mia vita, per farmi intrappolare così stupidamente.

Bere scosse la testa, quasi per scuotere via le parole di Morgon. Fece ancora un passo verso di lui, e nell’ombra la sua faccia si contrasse supplichevole. — Non è giusto lasciarla là, non è giusto ignorarla. Appartiene a voi, è vostra di diritto, e se assomiglia in qualche modo all’arpa nessun nobile del reame ha mai avuto una spada più bella.

— Io detesto le spade.

— Non è la spada che conta — disse Bere, pazientemente. — È l’abilità artigianale. È l’arte che c’è dentro. La prenderò io, se voi non la volete.

— Bere…

— Non è giusto che io non possa neanche vederla. — Strinse i denti. — Quand’è così, andrò laggiù da solo.

Morgon fece un passo verso di lui e lo afferrò per le spalle. — Io non posso impedirtelo — disse sottovoce. — Però devo chiederti di aspettare almeno finché non me ne sia andato da Isig, perché quando ti troveranno morto in quella caverna non voglio vedere la faccia di Danan.

Bere chinò il capo; le sue spalle si aggobbirono nella stretta di Morgon, poi si scostò e andò all’uscita. — Credevo che voi avreste capito cosa significa dover far una cosa.

Il ragazzo scomparve verso le scale. Stancamente Morgon tornò verso il caminetto, aggiunse legna al fuoco e si gettò sul letto. Per oltre un’ora, con gli occhi fissi sulla fiamma e il peso delle fatiche di quei giorni che gli doleva nelle ossa, non riuscì a prender sonno. Infine la sua mente scivolò in una tenebra dove bizzarre immagini si formavano e scoppiavano come pigre bolle in un calderone.

Rivide le alte pareti del salone di Harte, che le torce screziavano di bagliori argentei, dorati, neri e metallici. Vide, nei segreti cunicoli della montagna, pietre preziose grezze, cristalli di fuoco e di ghiaccio, blu-notte e giallo-topazio, emergere dalle loro nicchie di roccia. Gallerie col soffitto a volta e interminabili passaggi s’intrecciavano in un labirinto d’ombra. Stalattiti la cui estremità superiore si perdeva nell’oscurità scendevano in forme solidificate dal tempo. Lui si fermò ad ascoltare la voce del silenzio. Muovendosi leggero ed etereo come l’aria seguì una scura corrente sotterranea, viscida quanto una lastra di vetro, che nascendo da fenditure segrete andava a ruscellare in un vastissimo lago senza confini, dove sottili esseri sconosciuti agli uomini vivevano in un mondo privo di colori. Alla foce di uno di quei fiumicelli si trovò in un locale di pietre candide come il latte e venate di azzurro. Tre scalini emergevano da una polla d’acqua verso una superficie piatta su cui stavano due sarcofagi, d’oro massiccio e coperti di gemme bianche, che scintillavano alla luce di una torcia. Una grande tristezza entrò in lui al pensiero della morte degli Isig: Sol e Grania, la moglie di Danan. Attraversò la polla e si avvicinò a una delle bare. Il coperchio si spalancò improvvisamente, spinto dall’interno. Una faccia evanescente e irriconoscibile, né di uomo né di donna, lo fissò e dalla bocca uscì il nome: Portatore di Stelle.

Bruscamente si trovò di nuovo nella sua camera, vestito di tutto punto, mentre una voce mormorante nei corridoi di Harte lo chiamava, sottile e insistente come il lamento di un bambino nella notte. Fece per uscire, rifletté un istante e si mise l’arpa a tracolla. In punta di piedi scese per le scale deserte della torre e attraversò il salone dove il fuoco si stava estinguendo. Senza esitazioni trovò le porte di pietra del passaggio segreto oltre il locale, che si apriva nel ventre della montagna e conduceva giù negli umidi e freddi cunicoli delle miniere. Orizzontandosi con istintiva naturalezza trovò le gallerie principali, le rampe e le scale dirette in fondo al pozzo dove i carrelli di minerali riposavano sulle rotaie, e giunto là staccò una torcia dalla parete. Al termine di una galleria una fenditura nella solida roccia luccicò davanti a lui; il richiamo che continuava a udire usciva da lì, ed egli lo seguì senza porsi domande. Più oltre la pavimentazione era irregolare, consunta e polverosa. Masse di roccia calcarea simili a teste deformi crescevano al suolo strato dopo strato, scivolose per l’incessante sgocciolio dell’acqua. Il soffitto brillò all’improvviso così basso che dovette chinarsi, e poi si sollevò a un’altezza incredibile, mentre le pareti si restringevano invece al punto che per procedere fu costretto a girarsi di traverso sollevando la torcia sulla testa. Il silenzio era una cosa solida come la roccia stessa; e nel sogno sentì, lieve e acre, l’odore della pietra e delle acque sotterranee senza vita.

Aveva smarrito il senso del tempo, e non esistevano né il freddo né la stanchezza; c’era soltanto il vago susseguirsi delle ombre, lo sconfinato irretirsi di passaggi che egli seguiva con ottusa sicurezza. Si addentrò nelle viscere profonde della montagna protendendo una torcia che non si consumava mai, che nessuna corrente d’aria faceva oscillare; ad un tratto, percorrendo uno stretto cornicione, ne vide il riflesso in una superficie liquida molto più in basso. Il sentiero in discesa tornò finalmente orizzontale e intorno a lui vi furono pareti di pietra lavorata, ricurve, che si univano in alto ad arco acuto. Erano massi squadrati a mano ma consunti, e spezzati come da qualche antichissimo terremoto. Dovette scavalcarne alcuni che s’erano staccati dal soffitto. Il tunnel terminò improvvisamente con una porta chiusa.

Per un po’ non fece che esaminarla, immobile come la sua ombra proiettata sul muro. Qualcuno pronunciò il suo nome; allungò una mano per aprire il battente. E in quell’istante, quasi che il contatto lo avesse riportato alla superficie del sogno, Morgon fu scosso da un tremito e si svegliò. E s’accorse d’essere di fronte alla porta della Caverna dei Perduti!

Quella vista gli fece sbattere storditamente le palpebre, ma ciò che la torcia illuminava era indubbiamente una grande porta di marmo verde, percorso da sottili venature nere. Poi, mentre il freddo che nel sogno non aveva avvertito gli penetrava sotto la tunichetta, comprese la realtà delle enormi masse di roccia che lo opprimevano, nel silenzio e nella tenebra, e con un grido strozzato fece un passo indietro. Con uno scatto si volse: la torcia vacillava, e intorno a lui c’era un buio così impenetrabile che la luce sembrava ritrarsene con spavento.

Il fiato gli si mozzò in gola; corse avanti quasi alla cieca e urtò con un ginocchio in un macigno abbattuto, sbandando contro una parete umida e scivolosa. Il ricordo dei caotici labirinti di roccia che aveva percorso esplose nella sua mente; vacillò come ubriaco per il panico improvviso, col cuore che gli pulsava follemente e un gemito raggelato chiuso fra le corde vocali.

Poi udì ancora la voce del sogno, la voce che lo aveva guidato fuori dalla dimora di Danan e giù per le budella della montagna:

— Portatore di Stelle!

Proveniva da oltre la porta, ed era una voce strana, poiché malgrado la limpidezza non aveva un timbro definibile. Il suo suono lo spaventò ancor di più; come se avesse un terzo occhio vide la presenza del pericolo che stava al di là della porta, e seppe cosa avrebbe potuto costargli mettere le mani su una conoscenza proibita. Appoggiato con una spalla alla parete restò a fissarla a lungo, ogni tanto scosso da tremiti di freddo, cercando di pesare il pro e il contro di ogni sua eventuale decisione. Antica di millenni, mai sfiorata dalla pioggia e dal vento, la porta stava lì fin dalla sua ignota origine e rispondeva allo sguardo di lui solo col silenzio. Infine egli si decise a passare una mano su quella superficie marmorea. Quel tocco bastò per far spalancare il battente su un panorama di tenebra. Si mosse nell’interno, e muovendo la torcia a destra e a sinistra vide pareti di roccia scabra punteggiate di cristalli verdi e azzurrini. Poi qualcuno avanzò di fronte a lui nell’alone luminoso, ed egli si arrestò con un sussulto.

L’emozione gli impediva di respirare. Una mano esile e affusolata si alzò a sfiorargli la fronte, come avrebbe fatto Suth, quasi per convincersi della sua realtà. Con gli occhi fissi su quel volto finemente modellato Morgon riuscì ad ansimare: — Tu sei un bambino!

Gli occhi simili a stelle bianche, incastonati nei lineamenti pallidi, si sollevarono nei suoi. — Noi siamo i figli. — La voce era la stessa da lui udita, fanciullesca, chiara e sognante.

— I figli?

— Noi siamo tutti i figli. I figli dei Signori della Terra.

Morgon stava per fare un’altra domanda, ma non ne fu capace. Il panico che gli aveva stretto la gola se ne stava andando, e tuttavia lo stupore lo lasciava altrettanto incapace di pensare chiaramente. Ma quello che gli stava di fronte era senza dubbio un ragazzino. Allungò una mano a toccargli una spalla e lo sentì esile ma concreto.

— Siamo divenuti pietra nella pietra. La terra ci ha sottomessi.

Sollevò la torcia. Tutto intorno a lui molte figurette sottili, eteree e fanciullesche, stavano emergendo dall’oscurità, ed i loro sguardi erano curiosi, privi di timore, quasi che egli fosse qualcosa facente parte dei loro sogni. La luce gli rivelò volti pallidi e lisci come la pietra delle stalattiti.

— Quanto tempo… da quanto siete qui?

— Dal tempo della guerra.

— La guerra?

— Prima dell’Insediamento. Aspettavamo te. Tu ci hai risvegliati.

— Siete stati voi a svegliarmi. E non so cosa… no, non capisco.

— Tu ci hai risvegliati, e noi ti abbiamo chiamato. Tu hai le stelle. — L’esile mano gli sfiorò la fronte. — Tre per la vita, tre per il vento, e tre per… — D’un tratto il fanciullo sollevò l’altra mano, e Morgon vide che reggeva una spada. L’elsa stellata gli venne offerta. — Tre per la morte. Questo ci fu promesso.

Le dita di lui si chiusero intorno alla lama; nella bocca aveva un sapore così acido che anche le parole gli uscirono amare: — Chi vi ha fatto questa promessa?

— La terra. Il vento. La grande guerra ci ha distrutti. Così ci venne promesso un uomo di pace.

— Vedo. — La sua voce tremava. — Vedo. — Tacque, e poggiò un ginocchio a terra per portarsi alla stessa altezza del fanciullo. — Qual è il tuo nome?

Lui esitò a lungo, come se non riuscisse a rispondere. Il suo volto si contrasse. Poi quasi stupito esclamò: — Io ero… io ero Tirnon. Mio padre era Tir, Signore della Terra e del Vento.

— Io ero Ilona — intervenne una bambinetta. Si accostò a Morgon con fiducia, anch’essa pallidissima nella cornice di capelli candidi. — Mia madre era… mia madre era…

— Trist — disse un bambino dietro di lei. I suoi occhi fissavano Morgon come se avesse letto in lui il proprio nome. — Io ero Trist. Io potevo assumere ogni forma della terra, uccello, albero, fiore… io li conoscevo. Potevo anche prendere la forma-vesta.

— Io ero Elore — disse con impazienza una snella ragazzina. — Mia madre era Rena… ella poteva parlare ogni linguaggio della terra. Mi stava insegnando la lingua dei grilli.

— Io ero Kara…

I bambini gli si affollarono intorno, ignorando la vicinanza della torcia accesa, e il coro delle loro voci era ingenuo e sognante. Lui li lasciò parlare, fissando incredulo i loro volti senza vita; poi esclamò bruscamente, sovrastando quel diluvio di parole: — Cos’è accaduto? Perché voi siete quaggiù.

Nella caverna cadde il silenzio. Tirnon si fece avanti. — Loro ci distrussero.

— Loro chi?

— Quelli venuti dal mare. Edolen. Sec. Essi ci distrussero, affinché non potessimo più vivere sulla terra; noi non possiamo dominarla. Mio padre allora ci difese e ci fece venire qui, lontani dalla guerra. Qui trovammo l’estremo rifugio.

Morgon rifletté su quelle parole. Abbassò la torcia lentamente, e le ombre tornarono a chiudersi sui bambini che lo circondavano. — Capisco. Cosa posso fare per voi?

— Libera i venti.

— Sì. In che modo?

— Una stella chiamerà fuori dal silenzio il Signore dei Venti; una stella chiamerà dalla tenebra il Maestro delle Tenebre; una stella richiamerà dalla morte i figli dei Signori della Terra. Tu hai chiamato; essi hanno risposto.

— Chi è…

— La guerra non è finita, ma soltanto interrotta per radunare le forze. Tu porterai le stelle di fuoco e di ghiaccio al Termine dell’Era del Supremo…

— Ma noi non potremmo vivere senza il Supremo.

— Questo ci è stato promesso. Questo sarà. — Il fanciullo sembrava non udire la sua stessa voce, quasi che quelle parole uscissero da ricordi sepolti in lui millenni addietro. — Tu sei il Portatore di Stelle, e tu scioglierai dal loro ordine i…

Improvvisamente tacque. Morgon lo scrutò, perplesso. — Continua.

Tirnon abbassò la testa. Si afferrò a un polso di Morgon con dita gelide, e nella sua voce esplose una nota di angoscia: — No!

Morgon sollevò di nuovo la torcia. Al di là di quel cerchio di volti nivei, di snelle figure fanciullesche e immobili, un’ombra più alta scivolò fuori dal buio. La luce si riflesse su un viso aureolato da lunghi capelli neri: una donna, affascinante e bellissima, che fissandolo con strana calma gli sorrise.

Si alzò di scatto, mentre i bambini balzavano qua e là disperdendosi come foglie al vento. Tirnon era caduto in ginocchio abbassando la fronte sulle cosce nude, e Morgon poté vedere i contorni del suo corpo cominciare a dissolversi e rimescolarsi in una massa unica, quasi calcarea. Si volse e corse disperatamente fuori dalla caverna. Ma aveva appena oltrepassato la porta marmorea che vide venire verso di lui, nel lungo tunnel in discesa e alla luce di lampade azzurrine, un gruppo di individui dalle membra verdastre e mutevoli, i cui movimenti erano fluidi come le acque del mare.

Un attimo di cieco panico lo fece irrigidire, finché a stento s’accorse che sulla sua destra la roccia presentava una spaccatura alta un paio di metri. Con un’imprecazione scaraventò via la torcia, e la vide rimbalzare fin tra i piedi dei suoi inseguitori. Poi trovò alla cieca la fessura e vi si cacciò dentro ansimando, con le braccia protese nell’oscurità, sbattendo a ogni passo contro spigoli e pareti di roccia. Si allontanò più in fretta che poté, lungo un budello che faceva continue curve, scivolando, urtando le spalle e la faccia, annaspando avanti coi piedi a ogni passo. Dinnanzi a lui c’era una tenebra identica a quella in cui erano precipitati i suoi pensieri. Alle sue spalle non si scorgeva alcuna luce; l’ignoto più completo lo circondava. D’un tratto il timore lo costrinse a voltarsi, e tese gli orecchi: a parte l’ansito del suo respiro, attorno aveva soltanto l’immenso silenzio delle viscere dell’Isig. Continuò a procedere, e le sue dita si ferirono sul granito e sui nidi di cristalli; uno spigolo gli aprì sulla fronte un taglio da cui un rivolo caldo gli scese su entrambi gli occhi, e sbattendo le palpebre ebbe l’impressione di piangere sangue. E poi, senza preavviso, sotto i suoi piedi ci fu il vuoto: precipitò in basso, e il suo grido di spavento si spense in un gelido stagno d’acqua nera.

Agitò le braccia, e l’elsa della spada che stringeva nella mano destra urtò nella roccia. Riemerse, sputacchiando, e senza lasciare l’arma si trascinò su per una superficie inclinata finché non fu di nuovo all’asciutto. Qui si fermò, bocconi, dolorante e senza riuscire a far altro che ansimare penosamente. Più tardi, quando i suoi rantoli si furono acquietati, udì uno scalpiccio e il respiro di qualcun altro, vicinissimo, e trattenne il fiato. Una mano lo toccò.

Con uno scatto repentino Morgon balzò in piedi, indietreggiando. Udì un sussurro concitato: — Morgon, attento! L’acqua…

A denti stretti s’immobilizzò e tese una mano in cerca di un appiglio, aguzzando gli occhi nel tentativo di scorgere la figura dello sconosciuto; ma l’oscurità era assoluta. Poi riconobbe la voce:

— Morgon! Sono io, Bere. Non muovetevi da lì, o cadrete ancora nell’acqua. Aspettate, vengo io verso di voi.

Per restare fermo su quel terreno scivoloso, col sangue che gli riempiva la bocca, gli occorse tutto il suo coraggio. Mai l’oscurità gli era parsa così ostile. Una mano di Bere gli afferrò un gomito. Poi sentì la spada muoversi fra le sue dita, e gli sfuggì un brontolio.

— Dunque era là! Avevate ragione, io lo sapevo. L’avrei giurato che lui aveva intarsiato la lama. È… non riesco a vederla bene. Avrei bisogno di… — Tacque un istante. — Ma che avete fatto? Vi siete tagliato la mano, stringendo la lama a questo modo.

— Bere, io non posso vederti. Non vedo niente. Ma ci sono dei cambiaforma che mi inseguono.

— Erano dei cambiaforma, allora? Li ho visti. Mi sono nascosto in una fenditura, e subito dopo voi mi siete passato davanti. Che devo fare? Volete che vi lasci qui e vada…

— No. Puoi aiutarmi a uscire da questo labirinto?

— Credo di sì. Se seguiamo il torrente sotterraneo, ci porterà quasi certamente a una delle miniere inferiori. Morgon, sono contento che siate venuto a prendere la spada; ma cosa vi ha convinto ad avventurarvi qui senza parlarne a Danan? E come avete trovato la strada? Tutti vi stanno cercando. Io ero salito da voi a vedere se non avevate cambiato idea, e non vi ho trovato. Così sono andato a cercarvi nella stanza di Deth, che stava dormendo e si è svegliato nel sentirmi entrare. Quando gli ho detto che eravate sparito è andato ad avvertire Danan, e Danan ha tirato giù dal letto i minatori. Vi stanno cercando dappertutto. Io li ho preceduti. Però non capisco…

— Se riusciamo a tornare vivi in casa di Danan, te lo spiegherò. Racconterò tutto. Ma non ora.

— Va bene. Lasciate che vi porti io la spada. — Il ragazzo lo prese per un polso. — Attento, c’è una stalattite alla vostra sinistra. Dovreste bendarvi la testa.

Si avviarono in fretta nelle tenebre, senza scambiarsi parola salvo a tratti qualche mormorio di avvertimento. Malgrado lo scampato pericolo Morgon era teso, nervoso, e si sforzava di scorgere davanti a sé il riflesso di un cristallo, lo scintillio dell’acqua, ma i suoi occhi non trovavano nulla su cui posarsi. Alla fine li chiuse, e lasciò che Bere lo conducesse dietro di sé ubbidendo passivamente alla sua mano. Il percorso cominciò a salire, irregolare, fra svolte continue. Sotto le sue dita le pareti mutavano come fossero vive, talora stringendosi al punto che rendevano difficoltoso il passaggio, talaltra allargandosi oltre la portata del suo braccio mentre il soffitto invece si faceva così basso da costringerli a piegarsi in due. Finalmente Bere si fermò, in un luogo non meno buio degli altri.

— Qui c’è una scala. Conduce al pozzo principale della miniera. Volete riposarvi un po’?

— No. Vai avanti.

Gli scalini di pietra si susseguivano interminabilmente. Tremante di freddo, con le dita incrostate di sangue, Morgon cominciò a vedere ombre e chiazze di colore dinnanzi agli occhi, ma li tenne chiusi. Agli orecchi gli giungeva l’ansito di Bere, stanco quanto il suo. Da lì a poco il ragazzo emise un sospiro: — Bene. Siamo in cima. — Si fermò così bruscamente che Morgon gli urtò addosso. — C’è luce nel pozzo. Dev’essere Danan. Andiamo!

Morgon spalancò gli occhi. Bere era di fronte a lui, sotto un’arcata di mattoni le cui pareti erano soffuse di una pallida luce azzurrina. Il ragazzo chiamò, incerto: — Danan?… — Poi fece un balzo indietro e mandò un ansito di spavento. Una lama di colore grigio-verde balenò fuori dall’oscurità e gli sfiorò la testa. Bere finì lungo disteso al suolo, mentre la spada gli sfuggiva rimbalzando sonoramente, sbatté il capo e svenne.

Sbigottito Morgon fissò il corpo immobile del giovinetto, e la sua sorpresa si mutò in un impeto di rabbia animalesca. Con un ringhio scattò indietro evitando la spada che era saettata verso di lui come un serpente metallico. Si chinò, e un’altra sciabolata gli strappò un lembo della tunica; poi corse a raccogliere la spada dall’elsa stellata. Il suo assalitore lo aveva seguito con la velocità di un felino, e per schivare due fendenti successivi fu costretto a gettarsi contro la parete; ne arrestò un terzo, violentissimo e dall’alto in basso, opponendogli la sua lama, e vide scaturire dall’impatto una lingua di scintille simile a un lampo. Ma era riuscito a far ruotare la spada in semicerchio, e indietreggiando vide il sangue ruscellare sulla faccia del suo assalitore, bianca come la madreperla. Magicamente una seconda lama si materializzò in mano al cambiaforma, ed egli si trovò costretto a fronteggiarne due; con una sciabola schiacciò al suolo una di esse, evitò un affondo, fu sul punto di scivolare e imprecò furente. L’altra lama tornò ad abbattersi in cerca delle sue carni. Stavolta Morgon la evitò con un guizzo laterale e proiettò avanti la sua: sentì un contraccolpo vibrargli nel braccio fino alla spalla, e vide la spada stellata affondarsi come una scheggia di luce nel petto dell’avversario. Il cambiaforma si rovesciò all’indietro, strappandogli l’elsa dal pugno, e cadde senza un grido sull’umido e polveroso suolo della galleria.

Solo quando il silenzio fu tornato a pesare nel freddo che lo circondava Morgon s’accorse d’essere stato ferito a un braccio. Il sangue gli colava fino al polso. La sua spada, conficcata fra le costole del cambiaforma, si muoveva al ritmo dei suoi ultimi penosi ansiti di morte, e poi si immobilizzò. C’era sangue anche sull’elsa, e sulle tre stelle. La strana lampada azzurrina, rotta ma ancora accesa, era caduta a terra accanto a una mano del cambiaforma. Morgon fissò la spada stellata ed un brivido violento lo scosse da capo a piedi. Qualche istante dopo si mosse, schiacciò la lampada con un ansito di furia e vacillò fino alla parete. Appoggiò la fronte contro i mattoni scabri e chiuse gli occhi.

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