CAPITOLO NONO

Mentre le mani di Morgon guarivano, Har continuò ad addestrarlo; egli imparò così a mantenere la forma-vesta per lunghi periodi di tempo. Hugin gli fece da guida nei dintorni di Yrye, gli insegnò a nutrirsi dei teneri germogli di pino nella boscaglia che circondava la città, e si arrampicò con lui sulle pendici rocciose e ammantate d’alberi di Monte Fosco, che si levavano a settentrione di Yrye. Dapprima gli istinti da vesta non fecero che confondere Morgon; combatté contro di essi come se si sentisse affogare in una palude, e il solo risultato fu che si ritrovò di nuovo in forma umana e mezzo nudo nella neve gelida, con Hugin che lo annusava e gli inviava mentalmente consigli seccati.

Devi rilassarti, Morgon, devi correre. Tu ami galoppare come un vesta; non c’è nulla che possa spaventarti in questo. Esci da quel mucchio di neve, Morgon!

Galopparono fianco a fianco sulla neve per miglia e miglia, senza stancarsi, sfiorando appena la coltre bianca con gli zoccoli, i cuori possenti che pompavano linfa vitale nei loro muscoli agili e veloci. Spesso tornarono a Yrye soltanto a sera, talvolta a notte tarda, portando sui loro mantelli di pelo la neve e il silenzio delle solitudini invernali dove avevano vagato. Har li attendeva nel salone della sua dimora, dove si attardava a chiacchierare con Aia o ad ascoltare pigramente la musica dell’arpista accanto al grande focolare. Durante questo periodo di apprensione Morgon non parlò molto con Har, quasi che nella sua mente vi fossero cicatrici che stentavano a guarire più delle mani. Har lo osservava tornare e si limitava a fissarlo, taciturno anch’egli. Vi fu infine una notte in cui Eliard e Hugin rientrarono quand’era buio da un pezzo, e il suono inatteso delle loro risate che si spensero soltanto sulla soglia del palazzo fece comparire un sorriso negli occhi di Aia. Morgon si diresse senza esitare verso Har e si gettò a sedere accanto a lui, mentre Hugin andava in cucina in cerca di cibo. Sollevò le mani aperte e contemplò pensosamente le bianche cicatrici a forma di corna di vesta rimaste sulle palme.

Har inarcò un sopracciglio. — Essere un vesta non è poi una cosa tanto spiacevole, in fondo. No?

Lui dovette sorridere. — No. Ho imparato a goderne. Amo il silenzio che mi porta dentro. Ma come potrò mai spiegarlo a Eliard?

— Questa — disse freddo Har, — dovrebbe essere l’ultima delle vostre preoccupazioni. Altri sono venuti a cercarmi da quando regno in Osterland, supplicandomi d’insegnar loro i segreti della mente che consentono di mutar forma; e soltanto pochissimi hanno lasciato questa casa con il marchio del vesta sulle mani. Voi avete grandi doti. Hed era un mondo troppo piccolo per voi.

— È un fatto senza precedenti. Come potrò spiegarlo al Supremo?

— Perché dovreste giustificare con altri le vostre capacità?

Morgon lo fissò con calma. — Har, anche voi, malgrado gli argomenti che avete usato con me, sapete che devo sempre rispondere al Supremo dei miei doveri come sovrano di Hed, non importa quanti strani arpisti usciti dal mare vogliano chiamarmi Portatore di Stelle. Preferisco vedere le cose a questo modo, finché possibile.

Il sorrisetto scomparve dallo sguardo di Har. — Forse soltanto il Supremo potrà schiarirvi le idee su questo. Siete pronto a mettervi alla ricerca di Suth?

— Sì. Ho alcune domande da fargli.

— Benissimo. Presumo che si aggiri nella zona dei laghi a nord di Monte Fosco, sul confine delle immense terre bianche settentrionali. Sull’alto lato della montagna c’è un grande branco di vesta; li ho avvicinati assai di rado. È il solo angolo del mio regno in cui non abbia frugato in lungo e in largo, e altrove non ho mai trovato traccia di lui. Hugin vi condurrà lassù.

— Venite con noi.

— Impossibile. Da me sfuggirebbe, come ha fatto in questi settecento anni. — Tacque, e Morgon ebbe l’impressione di vedere i suoi pensieri scivolare verso qualche ricordo lontano e per lui sgradito.

— Capisco — disse. — Questa spina è piantata anche nella mia testa: perché? Voi conoscete Suth. Da cosa sta fuggendo?

— Un tempo ero convinto che avrebbe preferito morire piuttosto che sfuggire a qualcosa. Siete sicuro di sentirvi pronto? È un’impresa per cui potrebbero occorrervi dei mesi.

— Sono più che pronto.

— Allora partite domani all’alba con Hugin, e senza farvi notare troppo. Cercate oltre Monte Fosco; e se non troverete segno della presenza di Suth spostatevi a esplorare lungo l’Ose… ma attento alle trappole dei bracconieri. Avvicinate più vesta possibile: loro sentiranno che siete in parte uomo, e se Suth è in contatto coi branchi verrà a sapere di voi. Se la cosa dovesse rivelarsi pericolosa, lasciate perdere e tornate immediatamente a Yrye.

— Farò così — mormorò Morgon, distratto. Nella sua mente era scivolata all’improvviso la visione delle lunghe monotone settimane che lo attendevano oltre le nevi della montagna, nelle desolazioni dell’entroterra, dove avrebbe vissuto ai lenti ritmi del giorno e della notte, del vento, della neve, e del silenzio che aveva cominciato ad amare. Gli occhi di Har che lo fissavano con insistenza lo trascinarono fuori da quelle fantasie. In essi c’era una fredda luce d’avvertimento.

— Se trovaste la morte sotto forma di vesta nella mia terra, non potrò evitare che il vostro amico arpista venga a bussare alla mia porta, pieno di domande imbarazzanti. Perciò badate a voi.

Partirono alle prime luci del giorno, entrambi in forma di vesta. Hugin guidò Morgon su per i versanti di Monte Fosco, attraverso immense gole granitiche dove le capre di montagna li fissavano incuriosite da lontano, mentre i falchi veleggiavano alti nel vento in cerca di preda. Quella notte dormirono fra le rocce; il giorno dopo valicarono un passo e cominciarono a scendere verso la zona dei laghi freddi oltre Monte Fosco, dove non viveva nessuno salvo pochi cacciatori, che tendevano trappole e vendevano le pelli ai mercanti disposti a spingersi sui confini delle desolazioni settentrionali. Mandrie di vesta si spostavano come banchi di nebbia su quelle terre, senza che nessuno li disturbasse. Morgon e Hugin si unirono a loro tranquillamente, agendo in modo da non provocare la sfida del capobranco, e gli animali li accettarono come già avevano accettato Har: una creatura strana ma non minacciosa. Si spostarono seguendo l’uno o l’altro branco nella zona impervia fra i laghi, nutrendosi di germogli di pino, dormendo ogni notte all’aperto senza timore del vento, che non penetrava nelle loro spesse pellicce. Ogni tanto accadde loro di vedersi seguiti dai lupi, bestie magre, caute quanto affamate, e Morgon cominciò a sentire i loro ululati perfino nei sogni. Durante la marcia li fronteggiava però senza paura, conscio che i soli a dover temere le loro zanne erano i vesta molto giovani o quelli vecchi e malati, isolati dal gruppo. Morgon e Hugin restavano con un branco per il tempo necessario a cercare in esso un animale guercio, che corrispondesse in qualche modo all’immagine di Suth, e quindi si mettevano sulle tracce di un altro gruppo nelle profondità della foresta o lungo le rive dei laghi ghiacciati che scintillavano argentei sotto la luna. E finalmente Morgon vide qualcosa che corrispondeva all’immagine che s’era costruita nella mente: l’immagine di un vesta con un occhio solo, purpureo, mentre l’altro era bianco come fosse occluso da una cataratta.

Viaggiava da solo quando scoprì quel branco. Si avvicinò, pascolò con gli altri animali, e frugando nei loro pensieri trovò il ricordo: essi avevano conosciuto quella presenza. Li seguì lungo i bordi di una foresta e si accovacciò a dormire fra loro, nella speranza che il vesta guercio prima o poi si riunisse al branco. Hugin era lontano oltre le colline, e vagava fra i laghi anch’egli alla ricerca della stessa immagine. Il tempo trascorse, venne la luna piena, calò fino all’ultimo quarto e fu la luna nuova, e ad ogni notte insonne e agitata che trascorse in quell’attesa Morgon tornò a vederla crescere nel cielo, spicchio dopo spicchio, senza che nulla accadesse. Innervosito prese ad aggirarsi da solo più a settentrione, sul confine delle terre gelate. Un giorno oltrepassò le ultime basse colline e spinse lo sguardo sulla piatta immensità nordica, bianca e senza vita. Il vento sollevava refoli di neve e li trascinava in grigi turbini attraverso quella sterminata desolazione, dove null’altro sembrava muoversi fino all’orlo del mondo. Nessuna creatura dal sangue caldo si avventurava verso quell’orizzonte piatto, su cui perfino il cielo appariva immoto e incolore. Volgendosi a ovest vide, lontanissimo, il profilo del Monte Erlenstar che sovrastava terre altrettanto gelide e inospitali. Con un brivido di sconforto abbassò il capo, annusò quella neve ostile e senza tracce, poi tornò indietro e si diresse di nuovo nell’interno di Osterland.

Fu mentre scendeva da quelle alture che scorse per caso un vesta dietro un boschetto. Aveva il mantello chiazzato di bianco per l’età avanzata, e le sue grandi corna erano intrappolate da qualcosa entro un mucchio di neve. A testa bassa, sbuffando, inarcava il collo e cercava di far forza con le zampe, nel tentativo di liberare le corna dal garbuglio che le aveva imprigionate, e nel far ciò non s’era accorto della presenza di alcuni lupi che vedendolo in difficoltà gli si stavano portando alle spalle. Sottovento rispetto a loro Morgon sentì nell’aria l’odore acre e ferino dei predatori. Un attimo dopo, spinto da un impulso che sorprese lui stesso, si trovò a galoppare furiosamente verso le belve mentre dalle sue nari scaturiva un mugolio che mai si sarebbe creduto capace di emettere.

Sotto l’attacco delle sue lunghe corna i lupi ringhiarono e scattarono qua e là, disperdendosi fra i cespugli e le rocce. Ma il capobranco, folle di rabbia, balzò ad azzannare il muso di Morgon e poi si gettò ancora sul vesta intrappolato. In un impeto di cieca furia Morgon roteò su se stesso, con uno scatto delle corna scaraventò via un lupo che balzava su di lui dall’alto di un macigno e si precipitò sul capobranco. Il suo zoccolo anteriore destro colpì il cranio del lupo con la violenza di un’accetta, facendogli schizzare le cervella sulla neve, ed egli ansò soddisfatto. Ma l’emozione e l’odore del sangue sconvolsero i suoi istinti, un’improvvisa confusione mentale lo travolse e lo trascinò fuori dalla forma-vesta. E subito dopo si ritrovò a piedi nudi nella neve, vacillante, stordito e in preda alla nausea.

La repentina apparizione di un essere umano aveva spaventato i lupi, che disparvero nella boscaglia. Morgon imprecò, si massaggiò le braccia infreddolite e andò ad inginocchiarsi davanti al vesta. Frugando con dita intirizzite nella neve trovò i rami del cespuglio che gli avevano imprigionato le corna. Sospirò, alzò una mano ad accarezzare il capo dell’animale per tranquillizzarlo, e scoprì di guardare un occhio cieco e bianco.

Si fece indietro e sedette sui talloni. Il vento s’infiltrava sotto il leggero tessuto della sua tunichetta, raggelandolo, ma quasi non se ne accorse. Incuriosito spinse la mente oltre quell’occhio velato, e un breve contatto in cui sfruttò con destrezza la sua capacità di sondare i pensieri bastò a confermargli quel che voleva sapere.

— Suth? — chiese. Il vesta lo fissò, immobile. — Ti stavo cercando.

Qualcosa di oscuro dilagò nella sua mente, annichilendo i sensi. Era una tenebra contro cui lottò spaventato, disperato, conscio solo che da essa emergeva un comando perentorio, una volontà che cercava di dominarlo infilandosi in lui come una lama. Si accorse che le sue mani si muovevano da sole, scavando freneticamente la neve intorno ai rami. E solo allora l’impulso che l’aveva fatto agire alla cieca si smorzò. Avvertì una sonda psichica che si calava nei suoi pensieri, e la presenza di una strana mente sconosciuta intenta a frugare la sua in profondità, ma non si mosse finché non la sentì ritrarsi. Poi l’ordine silenzioso echeggiò di nuovo in lui: Liberami!

Spezzò i rami aggrovigliati sotto la neve. Il vesta diede alcuni strattoni e quando finalmente le sue corna si districarono indietreggiò, sollevando di scatto la testa. Il corpo del quadrupede si dissolse come fumo. Un istante dopo dinnanzi a Morgon c’era un uomo, magro ma robusto, con una criniera di capelli bianchi che ondeggiavano al vento ed un solo occhio, grigio con riflessi d’oro.

Con un gesto brusco l’individuo scostò i capelli dalla fronte di Morgon, mettendo allo scoperto le tre stelle. Poi gli afferrò le mani, le volse a palmo in su e sfiorò le cicatrici sulle sue palme, e qualcosa che poteva essere il barlume di un sorriso lampeggiò nel suo unico occhio.

Lo agguantò per le spalle con energia, quasi per accertarsi della sua concretezza umana, e la sua voce suonò incredula: — Hed?

— Morgon di Hed.

— La speranza che io vidi più di mille anni fa è dunque un isolano… un Principe di Hed? — La sua voce era profonda, rauca come avesse taciuto per secoli, fremente. — Tu hai conosciuto Har; è stato lui a lasciare questo marchio su di te. Bene. Avrai certo bisogno di tutto l’aiuto che riuscirai a trovare.

— L’aiuto che io cerco è il vostro.

La bocca sottile del mago si contrasse. — Io non posso darti niente. Har avrebbe dovuto saper far di meglio che mandarti da me. Ha sempre avuto occhi acuti; dovrebbe aver visto.

— Non vi capisco. — Il freddo stava cominciando a farlo soffrire. — Voi avete dato ad Har degli enigmi; io ne voglio le risposte. Perché avete lasciato Lungold? Perché vi siete sempre tenuto nascosto da Har?

— Secondo te, perché mai qualcuno dovrebbe nascondersi da uno che ama? — Le mani adunche lo scossero. — Non riesci a vedere? Neppure tu? Io sono chiuso in una trappola. Parlarti vuoi dire la morte, per me!

Morgon lo fissò sbalordito, in silenzio. La risata amara del mago lo fece rabbrividire, come se dietro di essa vi fosse una desolazione più fredda di tutti i ghiacci del nord. Scosse il capo. — Non riesco a capire. Voi avete un figlio, ed è Har che si prende cura di lui.

L’occhio del mago si chiuse. Emise un lungo sospiro. — Mi fa piacere. Contavo che Har lo trovasse, prima o poi. Ma sono così stanco, così stanco di tutto questo… Chiedi ad Har d’insegnarti a resistere alla costrizione. Cosa credi di poter fare tu, con le tue stelle sulla fronte, in questa partita di morte?

— Non lo so — sbottò lui, offeso dal suo tono. — So solo che non posso cancellarmele dalla faccia.

— Vorrei vedere la fine di tutto questo. Vorrei vederti… Al diavolo! Sei così incredibile che potresti perfino vincere questa partita!

— Di che partita parlate? Suth, cos’è successo in questi settecento anni? Cos’è che vi intrappola qui, in una vita da animale braccato? Che posso fare per aiutarvi?

— Niente. Io sono già morto.

— E allora fate voi qualcosa per me. Ho bisogno di aiuto! La terza interpretazione di Ghisteslwchlohm è questa: il mago che nel sentire un grido d’aiuto volge la faccia altrove, il mago che nell’osservare un demone non parla, il mago che cercando la verità se ne allontana: questi sono i falsi maghi del falso potere. Io capisco che un uomo fugga, ma non quando non resta più nessun posto dove fuggire davvero.

Una luce dolorosa brillò nell’occhio d’oro che lo fissava. Suth ebbe un sorriso acre che ricordò a Morgon i sorrisi di Har. La sua voce si raddolcì stranamente. — Metto la mia vita nelle tue mani, Portatore di Stelle. Coraggio, chiedi.

— Perché siete fuggito via da Lungold?

— Me ne andai da Lungold perché lui… — La voce gli si strozzò d’improvviso. Annaspò verso Morgon, mandando rantoli di fiato bianco dalla bocca spalancata, e cadde sulle ginocchia. Mentre si rovesciava al suolo Morgon lo afferrò per le spalle con un grido, chinandosi su di lui.

— Lui? Suth!

Le mani del mago si chiusero come morse al colletto della sua tunica, costringendolo a piegarsi col volto sopra il suo. Dalla gola gli uscì un ansito penoso, debolissimo, che soltanto con uno sforzo disperato riuscì a deformarsi in un’ultima parola, quasi inudibile:

— Ohm…!


Portò il corpo senza vita del mago da lì fino alla città di Yrye. Hugin procedette al suo fianco, talora in forma di vesta, talaltra, per uno o due miglia, nelle sue sembianze umane, un ragazzo alto e taciturno dallo sguardo sofferente, che camminando teneva fermo il corpo del padre sulla groppa del vesta accanto a lui. Ma mentre attraversavano le impervie gole di Monte Fosco Morgon provò una recondita ostilità, un disagio, verso la sua forma-vesta, come per un vestito ormai indossato troppo a lungo. La pianura si spalancò perlacea davanti a loro, fredda sotto un cielo d’avorio invernale. Yrye era a tal punto coperta di neve che soltanto i tetti scuri delle abitazioni ne emergevano. Quando annasparono nella profonda coltre bianca verso il palazzo di Har, il Re di Osterland era fermo sulla soglia ad attenderli.

L’uomo non disse parola. Tolse il cadavere dalla groppa di Morgon e restò a fissarlo mentre egli riprendeva la sua forma umana, con la barba e i capelli di due mesi e le cicatrici ormai grinzose e dure sul palmo delle mani. Morgon fece per dire qualcosa, poi richiuse la bocca e si limitò a un sospiro. La voce di Har suonò incolore: — È stato morto per settecento anni. Lo seppellirò io. Andate dentro.

— No — protestò debolmente Hugin. Appesantito dal corpo di Suth, Har si volse a fissarlo.

— Allora aiutami.

I due scomparvero sul retro della grande dimora, portando con loro la salma irrigidita. Morgon entrò nel salone. Due mani gli misero una pelliccia sulle spalle subito oltre la soglia, ed egli se la aggiustò addosso distrattamente, quasi senza accorgersene, quasi senza vedere le facce incuriosite che s’erano girate a osservarlo in silenziosa attesa. Sedette davanti al camino e si versò un boccale di vino. Aia venne a sederglisi accanto, sulla panca, e con gentilezza gli poggiò una mano su un braccio.

— Sono contenta che siate tornati salvi, voi e Hugin, il mio ragazzo. Non rammaricatevi per Suth.

Lui ritrovò la voce. — Come siete venuta a saperlo?

— I pensieri di Har non sono un segreto per me. Si cancella il dolore dalla faccia solo per appenderselo dietro la schiena. Non abbandonatelo.

Morgon abbassò gli occhi sul fondo del boccale. Poi lo depose sul tavolo e si passò le mani sugli occhi. — Avrei dovuto intuirlo — sussurrò. — Avrei dovuto pensarci. Un mago, ancora vivo dopo sette secoli, e io l’ho costretto a venire allo scoperto, solo perché morisse fra le mie braccia… — Sentendo Har e Hugin che rientravano si tolse le mani dalla faccia. Har sedette sul suo scranno. Hugin si accovacciò ai suoi piedi e gli poggiò una tempia contro un ginocchio, poi chiuse gli occhi. La mano di Har indugiò un momento a carezzargli i capelli candidi, ma il suo sguardo cercava il volto di Morgon.

— Raccontatemi.

— Leggetelo nei miei pensieri — borbottò stancamente lui. — Voi lo conoscevate bene. Forse dovreste esser voi a parlarne a me. — Girò gli occhi sul focolare e lasciò che i ricordi di quei giorni e quelle notti trascorressero sullo schermo della sua mente, fino al momento dell’assalto dei lupi e agli ultimi istanti di vita del mago. Finito che ebbe, Har smise di leggere in lui e lo fissò con calma, impassibile.

— Chi è Ohm?

Morgon ebbe una smorfia. — Ghisteslwchlohm, o almeno credo… il Fondatore della Scuola dei Maghi, di Lungold.

— Il Fondatore è ancora vivo?

— Sempre che sia veramente lui — precisò cauto Morgon.

— Cos’è che vi preoccupa? C’è qualcosa che non mi avete detto, vero?

— Ohm… a Caithnard c’è un Maestro degli Enigmi con questo nome. Io ho… mmh, studiato anche sotto di lui. Ne ho sempre avuto un grande rispetto. La Morgol di Herun ha suggerito che egli potrebbe essere il Fondatore.

— La Morgol di Herun non farebbe un’affermazione di questo genere senza averne una prova.

— Se così la si può chiamare… c’è appena la faccenda del suo nome, e il fatto che lei non è riuscita a… uh, guardare attraverso di lui.

— Il Fondatore di Lungold è a Caithnard? E ha ancora il controllo di eventuali maghi rimasti in vita?

— È appena un’ipotesi. Null’altro. Perché mai avrebbe dovuto mantenere il suo vecchio nome, quando tutto il mondo potrebbe sospettare…

— Chi volete che sospetti, dopo sette secoli? E anche se fosse, chi avrebbe abbastanza potere da controllare il suo?

— Il Supremo…

— Il Supremo! — sbottò Har. Hugin sussultò. Il Lupo-Re si accostò di più al fuoco. — Il suo silenzio è perfino più misterioso di quello di Suth. Certo, non è mai stato tipo da metter bocca nelle nostre faccende, ma questo suo riserbo ha dell’incredibile.

— Ha lasciato morire Suth.

— Suth aspettava soltanto la morte. — Il tono di Har era stato così brusco che Morgon replicò rabbiosamente:

— Era vivo! Vivo, finché non l’ho trovato!

— Smettetela di incolpare voi stesso. Era morto. L’uomo con cui avete parlato non era più Suth, ma un involucro senza nome.

— Questo non è vero…

— Cos’è che voi chiamate vita? Direste che io sono un essere vivente se vi evitassi tremando di spavento, rifiutando di darvi un aiuto che potrebbe salvarvi la vita? Direste che io sono ancora Har?

— Sì. — La voce di lui suonò calma. — Il grano ha questo nome quando è ancora un seme nella terra, e poi quando è un verde germoglio, e poi quando è una spiga matura che sussurra al vento d’estate i suoi enigmi. E allo stesso modo Suth ha tenuto fede al suo nome di uomo, fino all’ultimo enigma che mi ha mormorato col suo sospiro di morte. Ed è perciò mia la colpa se al mondo non c’è più l’uomo che portava quel nome. Ha preso la forma di un vesta, ha avuto perfino un figlio in quelle terre; e in qualche modo, malgrado la paura e la disperazione, c’erano ancora cose che lo rendevano capace di amare.

Hugin lasciò ricadere la fronte sulle sue ginocchia. Har chiuse gli occhi e restò davanti al fuoco senza parlare, senza muoversi, mentre rughe di stanchezza e di dolore si accumulavano sulla dura maschera del suo volto.

Morgon incrociò le braccia sul tavolo e si chinò ad appoggiarvi la faccia. — Se il Maestro Ohm è Ghisteslwchlohm — mormorò, — il Supremo lo saprà. Io glielo domanderò.

— E poi?

— E poi… non lo so. Ci sono troppi pezzi del rompicapo che non vanno al loro posto. È come… i frammenti di vasi che tempo fa cercavo di rimettere insieme, a Ymris, senza sapere se li avevo tutti, o se appartenevano a dieci vasi diversi.

— Non potete viaggiare da solo da qui alla residenza del Supremo.

— Sì, posso. Voi me ne avete insegnato il modo. Har, nessun essere vivente m’impedirà di portare a termine questo viaggio, adesso. Se mi ammazzassero, sarei capace di trascinar fuori le mie ossa dalla tomba e di portarle a Monte Erlenstar. Ci sono domande a cui devo avere risposta.

Sentì una mano di Har poggiarglisi su una spalla, con insospettata gentilezza, e risollevò la testa.

Il Re disse, sottovoce: — Proseguite il vostro viaggio; nessuno di noi può far nulla, senza quelle risposte. Ma poi non azzardatevi più a stare scioccamente solo. Da Anuin a Isig vi sono Re che saranno lieti di darvi aiuto, e a Monte Erlenstar c’è un arpista le cui capacità vanno ben oltre la sua arpa. Volete farmi questa promessa? Se il Maestro Ohm è davvero Ghisteslwchlohm, non dovreste essere così pazzo da tornare di corsa a Caithnard a dirgli che lo avete smascherato.

Morgon scosse le spalle stancamente. — Non credo che sia lui. Comunque ve lo prometto.

— E tornate qui a Yrye, invece di andare dritto filato a Hed. Più la vostra ignoranza si dissolverà, e più sarete in pericolo. E a quel punto, credo che le forze che si muovono contro di voi agiranno molto più rapidamente.

Morgon avvertì la fitta dolorosa dei ricordi che tornavano a tormentarlo. Strinse i denti. — No, non andrò a casa mia… Ohm, i cambiaforma, perfino il Supremo, tutti sembrano stagnare in una calma ingannevole, in attesa di un segnale di qualche genere che preannunci l’uragano. E quando questo accadrà, io non voglio dar loro motivo di volgersi a Hed. — Si volse a fissare Har. I loro occhi si conoscevano ormai al punto che sapevano parlare in silenzio. Poi chinò il capo. — Domani partirò per Isig.

— Vi accompagnerò fino a Kyrth. Hugin potrà cavalcare uno di noi, portando la vostra arpa. In forma-vesta impiegheremo solo un paio di giorni.

Morgon annuì. — D’accordo. Vi ringrazio. — Esitò, guardò ancora Har ed ebbe un gesto di sconforto come se non gli venissero altre parole.

— Grazie — ripeté sottovoce.

Lasciarono Yrye il mattino dopo, verso l’alba. Morgon e il Lupo-Re avevano assunto la forma-vesta; Hugin cavalcava in groppa a Har, con l’arpa a tracolla e alcuni abiti che Aia aveva impacchettato per Morgon. Approfittando del tempo buono trottarono veloci verso ovest, lungo campagne seppellite sotto una dura crosta di neve immacolata, aggirando paesetti irti di camini da cui correnti di fumo affluivano come ruscelli al grande mare del cielo color cenere. Viaggiarono anche nelle ore notturne attraversarono foreste scarsamente illuminate dalla pallida luce lunare, e intorno ai versanti di basse colline rocciose, finché raggiunsero l’Ose che scendeva a sud dalle strette valli di Isig. Sulla riva si fermarono a mangiare e a dormire, poi si alzarono prima dell’alba per risalire il fiume all’intreccio di alture all’ombra del Monte Isig. L’immensa cima della montagna incappucciata di neve torreggiava sopra di loro mentre trottavano nelle profonde valli ricche di minerali, di giacimenti di ferro e rame, e di miniere da cui si estraevano pietre preziose. La città mercantile di Kyrth comparve in distanza ai piedi dei monti, distesa lungo la riva dell’Ose le cui fredde acque s’ingrossavano dirette al mare. A occidente di Kyrth si levava una distesa di rocce frastagliate come onde selvagge, che si spartivano a formare il passo ventoso oltre il quale era possibile viaggiare verso il Monte Erlenstar.

I tre si fermarono poco prima di entrare in città. Morgon riassunse la sua forma umana, indossò la pesante pelliccia che Hugin aveva portato per lui, e si mise a tracolla la custodia dell’arpa e la sacca da viaggio. Esitò, aspettando che il massiccio vesta accanto a lui riprendesse le fattezze di Har, ma l’animale si limitò a fissarlo con occhi che nelle prime ombre del tramonto sembravano elargirgli un ultimo ironico, familiare sorriso. Allora gli passò un braccio intorno al collo e appoggiò brevemente la fronte contro la bianca e fredda pelliccia. Si volse poi ad abbracciare Hugin.

— Scopri chi ha ucciso Suth — mormorò il ragazzo. — E torna indietro vivo. Torna indietro.

Si allontanò dai due senza voltarsi a guardarli, seguendo la riva del fiume che penetrava in Kyrth. Giunto in città trovò che la via principale era affollata perfino in quella stagione di mercanti, di cacciatori di pellicce, di marinai del fiume e di minatori. La strada proseguiva tagliando il fianco della montagna sopra la città, libera dalla neve e solcata dalle profonde tracce dei carri. Nella penombra serotina l’abitato aveva un’apparenza tranquilla, e gli abeti cominciavano a confondersi in un’unica massa scura. In distanza, parzialmente nascoste dalle sporgenze del monte, Morgon vide le scure mura della grande dimora di Danan Isig, irte di merli e di torrette, e gli parve che quella fortezza fosse antica come la roccia su cui sorgeva e il vento che soffiava gelido sulle sue pietre. Da lì a poco scorse, con la coda dell’occhio, un uomo che camminava nella sua stessa direzione silenzioso come un’ombra.

Morgon si fermò bruscamente. L’individuo era alto, robusto quanto un tronco d’albero, e dal candido cappuccio che gli nascondeva la testa spuntavano ciocche di capelli sfumati di grigio, e una barba dai toni rossicci. Si arrestò subito anch’egli, e lo fissò con occhi verdi piuttosto vivaci.

— Non sono armato — s’affrettò a dire. — Sono soltanto curioso. Voi siete un arpista?

Morgon esitò. Gli occhi verdi e l’espressione dell’uomo erano cordiali. Infine, con voce che i mesi di solitudine avevano quasi disabituata alle chiacchiere, rispose: — No, sono un viaggiatore. Contavo di chiedere a Danan Isig ospitalità per la notte, ma ora non so… Ditemi, tiene aperta la sua dimora agli stranieri?

— In pieno inverno ogni viaggiatore è ben accolto. Voi venite da Osterland?

— Sì. Da Yrye.

— Il covo del Lupo-Re… Io sto giusto andando ad Harte per i miei affari. Posso accompagnarmi a voi?

Morgon accennò di sì. Per un poco camminarono in silenzio, ascoltando soltanto il crocchiare della neve crostosa sotto i loro stivali. L’uomo aspirò una profonda boccata d’aria odorosa di abeti, emise una nuvola di fiato bianco e disse in tono discorsivo: — Mi è capitato di conoscere Har, anni fa. Stava venendo a Isig travestito da mercante, con un carico di ambra e di pellicce. In via confidenziale mi rivelò che cercava un bracconiere colpevole d’aver venduto ai mercanti pelli di vesta, ed era senz’altro così, ma ebbi l’impressione che fosse soprattutto curioso di esaminare la zona del Monte Isig.

— Trovò poi quel bracconiere?

— Credo di sì. Prima di lasciare Isig ne esplorò ogni roccia e ogni sentiero. Sta bene?

— Sì.

— Sono lieto di saperlo. Dovrebbe essere un vecchio lupo, adesso, così come io sono un vecchio albero. — Si fermò. — Ascoltate. Da qui si può udire la voce dell’acqua che scorre attraverso Isig, sotto di noi.

Morgon tese gli orecchi. Il mormorio incessante del fiume era un sottofondo di musica su cui le raffiche di vento cantavano la loro aspra e mutevole canzone. Accanto a loro si levavano alture scarsamente innevate, le cui cime svanivano lontano nella nebbia, mentre più indietro Kyrth sembrava essersi rimpicciolita, chiusa nell’immensa curva della montagna.

— Mi piacerebbe visitare l’interno di Isig — disse d’un tratto.

— Davvero? Ve lo mostrerò io. Conosco quella montagna meglio delle mie tasche.

Morgon lo fissò. Su quel volto già anziano, barbuto, le rughe si contrassero in un lievissimo sorriso. — Chi siete voi? Siete forse Danan Isig? Non riesco a sentire i vostri pensieri. È perché siete appena uscito dal vostro mutamento di forma?

— Come se fossi stato un albero? Certo, a volte mi capita di stare tanto a lungo fermo nella neve a guardare gli alberi, chiusi nei loro pensieri silenziosi, che dimentico me stesso e divento un loro simile. Qui ci sono alberi vecchi come me, vecchi come Isig… — Tacque. Il suo sguardo corse sugli abiti di Morgon, sui suoi capelli scompigliati, sulla sua arpa, poi aggiunse: — Ho sentito i mercanti dire qualcosa circa un Principe di Hed che viaggia verso Monte Erlenstar, ma questa potrebbe essere soltanto una chiacchiera; sapete quanto siano pettegoli…

Morgon sorrise. Gli occhi verdi gli restituirono un’espressione cordiale. Ripresero a camminare, e dal cielo cominciò a scendere un nevischio sottile che si appiccicava alla peluria dei loro mantelli. La strada girò intorno a un’ultima alta sporgenza rocciosa e si allargò, diretta alla fortezza di Harte che ora appariva in tutta la sua estensione, sormontata da torrette coniche, come cime di abeti. Le finestre, dai vetri colorati come mosaici, brillavano alla luce interna delle torce. La strada s’immergeva dritta in un’immensa arcata.

— Questa è la porta di Isig — disse Danan Isig. — Nessuno può entrare e uscire dalla montagna senza che io lo sappia. I più grandi artisti di Isig sono stati addestrati nella mia dimora, e hanno lavorato i metalli e le gemme della mia terra in questo luogo. Mio figlio Ash li istruisce, come un tempo faceva Sol, prima d’essere ucciso. Fu Sol a intagliare le stelle che Yrth inserì nella vostra arpa.

Morgon sfiorò la cinghia dell’arpa. Le parole di Danan avevano fatto penetrare in lui una sensazione di antichità, di inizi radicati nelle profondità del passato. — Perché Yrth incastrò le stelle nell’arpa?

— Non lo so. Non me lo chiesi, a quel tempo… Yrth lavorò sull’arpa per mesi, incìdendola ed elaborando i disegni degli incastri; disponeva dei miei artigiani per tagliare l’avorio, le pietre preziose e i lavori in argento. E poi salì a isolarsi all’ultimo piano della più antica torre di Harte per accordare le corde. Restò là sette giorni e sette notti, e durante quel periodo feci chiudere la fonderia in cortile perché il fracasso dei fabbri non lo disturbasse. Infine si decise a scendere e suonò per noi. Non c’era arpa più bella in tutto il mondo. Ci disse che per essa aveva rubato la voce del vento e delle acque di Isig. E ci lasciò senza fiato, l’incanto di quell’arpa e del suo arpista… Quando terminò di suonare rimase immobile un istante, con gli occhi fissi sullo strumento. Poi passò lentamente una mano sopra le corde, ed esse divennero mute. Allorché noi tutti protestammo egli rise, e disse che sarebbe stata l’arpa stessa a scegliere il suo arpista. Il giorno dopo se ne andò, portandola con sé. Quando fece ritorno al mio servizio, un anno più tardi, non menzionò l’arpa mai più. Fu come se tutti avessimo soltanto sognato di vederla costruire.

Morgon si fermò. La mano con cui stringeva la cinghia dell’arpa ebbe un tremito mentre il suo sguardo scorreva sulla lontana parete d’alberi velati di nebbia, quasi che per un attimo fugace avesse scorto la misteriosa figura di quel mago prender forma nel crepuscolo. — Mi domando…

— Che cosa? — lo interrogò Danan.

— Niente. Mi piacerebbe parlare con lui.

— Anche a me. Era al mio servizio fin quasi dall’Anno dell’Insediamento. Giunse qui da qualche strano posto a occidente del Reame, di cui non avevo mai sentito parlare, e ogni tanto se ne andava da Isig per un anno intero, a esplorare altre terre, a conoscere altri maghi, altri Re… ogni volta che faceva ritorno dava l’impressione d’essere più potente, e anche più gentile. Aveva la curiosità di un mercante e una risata che rimbombava fin nelle cantine. Fu lui a scoprire la Caverna dei Perduti. E quella fu l’unica volta in cui lo vidi completamente serio. Mi disse che io avevo costruito la mia dimora su un’ombra oscura, e che sarei stato saggio a dimenticare la presenza di quest’ombra. Così i miei minatori son sempre stati attenti a starne alla larga, specialmente dopo che trovarono il cadavere di Sol dinnanzi a quella porta… — Tacque un poco, poi come se intuisse la domanda inespressa di Morgon aggiunse: — Yrth mi condusse là una volta, per mostrarmela. Non si è mai saputo chi fu a costruire la porta di quella caverna; era laggiù prima che io giungessi qui, fatta di marmo verde e nero. L’interno della caverna era incredibilmente bello e prezioso, ma… non c’era niente là dentro. Niente che io potessi vedere.

— Niente?

— Soltanto le pietre, il silenzio, e la spaventosa sensazione di qualcosa che giaceva oltre la portata degli occhi, come l’angoscia della morte in fondo al cuore di un uomo. Domandai a Yrth cosa fosse quell’impressione, ma egli non me lo disse mai. Laggiù accadde qualcosa, prima della fondazione di Isig, molto tempo prima della venuta dell’uomo nel Reame del Supremo.

— Forse durante le guerre dei Signori della Terra.

— Suppongo che debba esserci un nesso. Ma quale, non so dirlo. E il Supremo, seppure sa quel che è successo, non ne ha parlato mai.

Morgon ripensò alla bellissima città in rovina sulla Piana del Vento, ai frammenti di cristallo che aveva trovato in una delle vuote stanze prive di tetto, e che gli erano parsi contenere un accenno di risposta a certe domande. E all’improvviso quel ricordo fece nascere in lui la gelida paura di quella che poteva essere la risposta, costringendolo a fermarsi ancora sulla neve, gli occhi fissi sulle montagne nude e bianche come ossa spolpate che aveva di fronte. La sua voce fu un sussurro: — Guardati dagli enigmi senza risposta!

— Cosa?

— Nessuno sa chi o cosa distrusse i Signori della Terra. Chi può esser stato ancor più potente di loro, e in quale forma questo potere si è scatenato…

— Ma accadde migliaia di anni fa — obiettò Danan. — Cosa può avere a che fare questo con noi?

— Niente. Forse. Ma noi abbiamo dato per certa questa considerazione per migliaia di anni, e il saggio sa che non deve dar nulla per certo.

Il Re della montagna lo fissò con stupore. — E cos’è che voi vedete incombere su di noi nelle tenebre, e che nessun altro può vedere?

— Non lo so. Qualcosa senza nome…

Giunsero alla grande arcata dell’ingresso di Harte proprio mentre la neve cominciava a cadere più fitta. Il cortile interno, dove si aprivano le fonderie e i laboratori degli artigiani, era deserto; qua e là strisce di luce giallastra si allungavano fuori da porte semiaperte; le ombre di alcuni artigiani al lavoro si stagliavano sulla soglia di qualche bottega. Danan condusse Morgon attraverso il cortile e lo fece entrare in un salone le cui pareti scabre erano come filigranate di gemme preziose multicolori, incastonate nella pietra. Un ruscello artificiale seguiva un percorso curvilineo attraverso il pavimento, passando di fronte a un enorme caminetto le cui fiamme lingueggiavano specchiandosi nell’acqua scura. Numerosi minatori, artigiani dalle vesti semplici e quasi incolori in uso sulle montagne, mercanti nei loro ricchi abiti esotici, cacciatori vestiti di cuoio e pellicce, si volsero nel vedere Danan entrare, e Morgon d’istinto si spostò in una zona d’ombra dove la luce delle torce giungeva meno intensa, per evitare i loro sguardi.

Danan gli accennò di seguirlo con un gesto cortese. — Nella torre orientale c’è una camera tranquilla dove potrete lavarvi e riposare; scenderete più tardi, quando ci sarà meno gente. Molti di quelli che vedete lavorano qui, e torneranno a Kyrth dopo cena. — Usciti dal salone, Danan gli fece strada in un corridoio e su per una rampa di scale che spiraleggiava nell’interno di una grande torre. — Questa è la torre in cui abitava Yrth. Talies era solito fargli visita qui, e un paio di volte venne anche Suth. Suth era scontroso e selvatico, e ricordo che aveva una gran massa di capelli bianchi anche da giovane. Evitava i minatori come se avesse paura, ma una volta lo vidi cambiare una forma dopo l’altra per divertire i miei figli. — Si fermò su un pianerottolo e scostò una tenda di pelliccia bianca oltre la quale c’era un corridoio. — Manderò un servo ad accendervi il fuoco. — Poi ebbe una lieve esitazione. — Se non è domandarvi troppo, mi piacerebbe udire ancora la musica di quest’arpa.

Morgon sorrise. — Non domandate troppo, no. Vi sono molto grato per la vostra cortesia.

Entrò nella camera e depose l’arpa e la bisaccia. Le pareti erano tappezzate di pellicce d’animale e di arazzi, ma nel caminetto pulitissimo non c’erano ceppi pronti e faceva freddo. Sedette sulla pesante seggiola di fronte ad esso. Le mura, circolari, erano una prigione di silenzio intorno a lui. Non udiva né una risata né un fil di voce giungere dalla parte del salone, né il soffiare del vento all’esterno. Un senso di solitudine, ancor più profondo di quello che l’aveva accompagnato nel suo viaggio in terre così desolate, lo sommerse. Chiuse gli occhi, colto da una stanchezza che gli sorgeva dall’anima più che dal corpo, e per vincerla fu costretto ad alzarsi, innervosito. Giusto allora alcuni servi comparvero portando legna da ardere, acqua, vino, e un vassoio di cibarie miste; restò a osservarli mentre accendevano il fuoco, sistemavano sottili torce alle pareti e mettevano acqua a scaldare nel camino. Quando se ne andarono sedette a lungo senza far altro che guardare il fuoco, con gli occhi fissi nelle fiamme. L’acqua cominciò a bollire. Si spogliò lentamente e si lavò. Mangiò senza quasi sentire il sapore delle vivande, si versò un boccale di vino, poi invece di bere s’appoggiò allo schienale della sedia e ascoltò la notte chiudersi come una mano oscura intorno alla torre, mentre l’inspiegabile inquietudine si torceva e si addensava sempre più nel fondo del suo cuore.

Lasciò che le palpebre gli si chiudessero. Per un poco galoppò con i vesta che conosceva sulla superficie dei suoi sogni, finché non si ritrovò sprofondato nella neve in forma umana e il branco svanì in distanza. Poi, odiando quella solitudine insopportabile, attraversò lo spazio e il tempo con l’abilità di un mago e riprese solidità ad Akren. Eliard e Grim Oakland stavano chiacchierando davanti al caminetto; si accostò a loro con passi ansiosi e chiamò il fratello per nome. Eliard si volse, e nel vuoto stupore dei suoi occhi Morgon vide rispecchiato se stesso, i suoi capelli sciolti, la sua faccia segnata, le livide cicatrici del vesta pulsanti sulle sue mani. Sono Morgon! gridò. Ma Eliard scosse il capo perplesso e rispose: Devi essere in errore. Morgon non è un vesta. Morgon si volse allora a Tristan, che era immersa in una divagante e sconnessa discussione con Snog Nutt. Lei gli sorrise speranzosa, con ansia, la ma speranza morì subito nei suoi occhi e fu sostituita da una gran delusione. Snog Nutt brontolò tristemente: Lui disse che mi avrebbe aggiustato il tetto prima della stagione delle piogge, ma non lo ha fatto e se n’è andato, e non è più tornato. Bruscamente si ritrovò a Caithnard, nell’atto di bussare a una porta. Rood la spalancò, facendo svolazzare una larga manica nera, ed esclamò: Arrivi troppo tardi. E comunque, lei è una delle due donne più belle di An; non può certo sposare un vesta. Girandosi Morgon vide uno dei Maestri che usciva dalla biblioteca. Corse a raggiungerlo. Alle sue preghiere la testa abbassata e cespugliosa finalmente si volse; gli occhi gravi e colmi di rimprovero del Maestro Ohm lo fissarono accusatori, ed egli si arrestò terrorizzato. Il Maestro si allontanò senza una parola, mentre lui lo seguiva gemendo: Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!

D’un tratto fu a Piana del Vento. Era scuro, e la superficie verde-blu del mare stagnava pigra in una notte senza luna, balenante di luci ultraterrene, ma la mole del Monte Isig si levava così vicina che riusciva a vedere le finestre illuminate della dimora di Danan. Qualcosa stava crescendo in quella tenebra; non avrebbe potuto dire se fosse il vento o il mare; tutto ciò che sapeva era che una cosa immane stava costruendo se stessa, poderosa, senza nome, inesorabile, e risucchiava entro di sé tutte le energie, tutte le leggi e i progetti umani, tutte le canzoni e gli enigmi e le leggende, per farle poi esplodere nel caos sulla Piana del Vento. Cominciò a correre in cerca di un rifugio, disperatamente, sferzato da spaventose raffiche di tempesta mentre il mare distante oltre mezzo miglio sollevava ondate così alte che gli spruzzi arrivavano a schiaffeggiarlo. Fuggì verso le luci della fortezza di Danan. Ma pian piano, mentre correva, cominciò a capire che anche Harte era una rovina, distrutta e vuota come la città dei Signori della Terra, e che quelle bianche luci simili a riflessi di ossa scarnificate provenivano da profondi recessi sotto l’Isig. Si fermò. Dalla montagna provenne una voce, echeggiando da una caverna la cui porta di marmo verdastro non veniva aperta da secoli, e, al di sopra della nera furia del cielo e del mare, gridò il suo nome:

— Portatore di Stelle!

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