CAPITOLO UNDICESIMO

Il taglio lungo il suo braccio non si sarebbe rimarginato prima di due settimane, e sulle cicatrici-vesta della sua mano sinistra vi sarebbero state altre cicatrici, causate dalla lama della spada stellata. Morgon non pronunciò parola quando infine i minatori di Danan, muniti di torce fumose, scesero nella galleria e lo trovarono accanto al cadavere del cambiaforma, con gli occhi ancor fissi sulle tre stelle arrossate di sangue. Tacque anche quando Bere, con una chiazza nerastra e insanguinata sulla faccia, vacillò verso i soccorritori per tranquillizzarli, sebbene il suo sollievo nel vederlo alzarsi fosse stato grande. Risalendo lungo la miniera in compagnia di Danan si limitò a scuotere il capo alle sue domande, preferendo tacere. Senza guardare nessuno, muto e angosciato, si lasciò condurre fuori dalla montagna e su nella torre, in casa di Danan Isig.

Ruppe il silenzio soltanto il giorno dopo, a letto in camera sua e col braccio fasciato dal polso alla spalla, mentre Bere ricopiava le incisioni sulla lama della spada con aria intenta e grave quanto tranquilla. Ubbidendo alla sua richiesta il ragazzo si alzò e scese a chiamare Deth e Danan. Morgon riferì loro con voce piatta ciò che volevano sapere, in ogni particolare.

— Bambini… — mormorò Danan. — Quando Yrth mi condusse laggiù io vidi soltanto pietre. Come poteva sapere cosa fossero in realtà?

— Glielo domanderò.

— A Yrth? Credete che sia ancora vivo?

— Se è vivo, lo troverò. — I suoi occhi si fecero pensosi, imperscrutabili. — C’è qualcun altro coinvolto in questa faccenda, oltre al Fondatore e ai cambiaforma. Mi sono stati fatti dei nomi strani… Edolen, e Sec. E qualcuno che essi chiamavano il Signore dei Venti. Forse intendevano riferirsi al Supremo. — Si volse a Deth. — Il Supremo è anche un Signore del Vento?

— Sì.

— E c’è poi un Signore delle Tenebre, che senza dubbio si farà conoscere anch’egli quando gli parrà meglio. L’Era del Supremo sta volgendo al termine…

— Ma com’è possibile? — protestò Danan. — Le nostre terre moriranno, senza il Supremo.

— Io non so come possa o non possa essere. So che ho toccato la faccia del figlio di un Signore del Vento, mentre mi parlava, e che era di pietra. Credo che se è possibile una cosa del genere, allora tutto è possibile, compresa la distruzione del Reame. Questa non è la nostra guerra, non siamo stati noi a cominciarla, non possiamo essere noi a finirla… ma non possiamo evitarla. Non c’è scelta.

Danan fece per borbottare qualcosa ma poi tacque. La matita di Bere s’era immobilizzata, e i suoi occhi seri li stavano scrutando. Danan emise un lungo sospiro: — Il termine dell’era… Come può qualcuno mettere termine a una montagna? Morgon, dovete aver frainteso. Quelli che cominciarono questa guerra, migliaia di anni fa, non sapevano che avrebbero dovuto fare i conti con uomini che si battevano per ciò che amavano. Questi cambiaforma possono essere distruttì; lo avete dimostrato.

— Sì, l’ho fatto. Ma dobbiamo evitare la guerra con loro. Se riuscissero a uccidere il Supremo, per noi sarebbe la fine.

— Allora perché hanno tentato di uccidervi? Perché hanno mirato a voi invece che al Supremo? Questo non ha senso.

— Ce l’ha. Ogni enigma ha una risposta. Quando avrò cominciato a mettere insieme le risposte alle domande che intendo fare, avrò anche un principio di soluzione per la vostra domanda.

Danan scosse la testa. — E come potete riuscirci voi? Neppure i maghi ne furono capaci.

— Devo farlo. Non ho alternativa.

Deth non aveva parlato molto. Dopo che essi furono usciti, portando Bere con loro, Morgon si alzò dal letto con una smorfia di dolore e andò davanti a una delle finestre. Era il tramonto; i fianchi candidi della montagna pullulavano d’ombre azzurrine fra cui non si scorgeva alcun movimento. Soltanto gli abeti fremevano lievemente nel crepuscolo mentre l’immensa mole dell’Isig si stagliava contro un cielo sempre più scuro, senza stelle.

Poco dopo udì dei passi che risalivano le scale, e il fruscio della tenda che veniva tirata. Senza voltarsi disse: — Quando partiremo per il Monte Erlenstar?

— Morgon…

Lui si girò di scatto. — Questa è una cosa che ho udito pochissime volte nella tua voce: un tono di protesta. Siamo sulla soglia del Monte Erlenstar, e ci sono mille domande a cui voglio una risposta.

— Il Monte Erlenstar — disse con calma Deth. — È un luogo dove tu potresti trovare le risposte che cerchi, e potresti non trovarle. Sii paziente. I venti che soffiano dalle terre di ghiaccio giù attraverso il Passo Isig possono essere spaventosi, in pieno inverno.

— Ho già assaggiato il morso di quei venti, e l’ho sopportato bene.

— Lo so. Ma se affronterai quel gelo prima d’esserti rimesso in forze, non sopravviverai per due giorni dopo aver lasciato Kyrth.

— Sopravviverò! — esclamò ferocemente Morgon. — Questa è una cosa che so far bene… sopravvivere a ogni costo, con tutti i mezzi. Per essere un Principe di Hed ho delle qualità davvero insolite. Non hai visto le facce dei minatori quando ci hanno trovati là in quel tunnel? E con tutti i mercanti che ci sono qui, quanto tempo credi che passerà prima che il racconto di quell’avvenimento raggiunga Hed? Non solo sono diventato un bravo apprendista assassino, ma ho anche una spada col mio nome praticamente inciso sopra pronta a fare di me un maestro in quest’arte. Una spada datami da un bambino dalla faccia di pietra. Una spada forgiata da un mago il quale dava per certo il fatto che avrei accettato sia quella lama che il mio destino. Sono in trappola. Se non c’è altro che possa fare, salvo quello che ho ormai deciso, allora voglio farlo il più presto possibile. Fuori non spira un alito di vento. Se parto stanotte posso arrivare al Monte Erlenstar in tre giorni.

— Cinque — lo corresse Deth. — Anche in forma di vesta. — Andò al caminetto e si chinò a prendere altri ceppi. Mentre la fiamma si alzava più vivace il suo volto rivelò una rete di sottilissime rughe, che Morgon non gli aveva mai visto prima. — Quanta strada credi che possa fare un vesta con una zampa anteriore ferita?

— Mi stai suggerendo di restare qui ad aspettare che mi ammazzino?

— I cambiaforma hanno tentato un colpo di mano qui, e hanno fallito. Con la fortezza di Danan piena di sentinelle, con ogni spada pronta, e sapendo che quei bambini dalla faccia di pietra non possono averti detto molto, forse i cambiaforma decideranno di aspettarti là fuori.

— E se io restassi qui, tanto per deluderli?

— Non lo farai, lo sai benissimo.

— Sì, lo so — mormorò lui. Cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. — Mi chiedo come puoi essere tanto tranquillo. Tu non hai mai paura, nulla ti sorprende mai. Hai vissuto per mille anni, e hai preso il Nero dei Maestri… quanti di questi fatti ti aspettavi che accadessero? Tu fosti il primo a darmi il mio nome, a Herun. — Vide lo sguardo dell’arpista, dapprima stupito, velarsi di riserbo, e questo lo fece accigliare. — Che ti aspettavi da me? Forse che, una volta immerso fino al collo in questo gioco, io avrei osato lasciarti fuori dalle mie domande? Tu conoscevi Suth… non ti ha mai parlato degli enigmi sulle tre stelle? Conoscevi Yrth, mi hai detto tu stesso che eri a Isig quando costruì l’arpa. Non ti ha mai rivelato ciò che aveva visto nella Caverna dei Perduti? Tu sei nato a Lungold: eri là quando la Scuola dei Maghi fu abbandonata? Hai studiato là anche tu?

Deth si erse, fissandolo dritto negli occhi. — Io non sono un mago di Lungold. Non ho mai servito nessuno salvo il Supremo. Per un breve periodo ho studiato alla Scuola dei Maghi, ma soltanto perché vidi che gli anni passavano e io non invecchiavo. Fu perciò che ipotizzai che mio padre fosse un mago. Ma non avevo alcun talento per la magia, cosi lasciai perdere… e questo riassume l’esperienza che ebbi coi maghi di Lungold. A Ymris ti ho cercato per cinque settimane; qui a Kyrth ti ho aspettato due mesi senza mai toccare la mia arpa, per evitare che qualcuno capisse chi ero e chi stavo aspettando. Quando i minatori di Danan si sono dispersi in quei budelli di roccia alla tua ricerca, io mi sono infilato un paio di stivali e ho corso con loro dappertutto. Credi davvero che se potessi far qualcosa per te mi rifiuterei di farla?

— Sì, lo credo. — La frase parve raggelarli entrambi, e ciascuno evitò lo sguardo dell’altro. Morgon allungò una mano ad afferrare la spada, che Bere aveva deposto sul piano sopra il caminetto, la sollevò in un largo semicerchio e poi, a denti stretti, la abbatté rabbiosamente contro la nuda pietra della parete. Alcune scintille schizzarono sul pavimento, e la lunga lama emise una vibrazione sonora come una nota d’arpa. Morgon ignorò il dolore che gli era saettato nella mano, e la sua espressione rimase cupa. — Tu potresti rispondere alle mie domande!

Quattro giorni più tardi Morgon mise fine al suo volontario isolamento nella torre e scese nel cortile degli artigiani. Il suo braccio era pressoché guarito; un’energia fisica da tempo quasi dimenticata tornava a fremergli piacevolmente nelle membra. Coi piedi piantati nella neve colma d’impronte allargò i polmoni a respirare l’odore di legna e di metallo delle fonderie. Il mondo sembrava un’oasi di tranquillità sotto il mantello grigio-bianco del cielo. La voce di Danan chiamò il suo nome, ed egli si girò. Avvolto in una spessa pelliccia il Re della montagna venne a mettergli amichevolmente una mano su una spalla.

— Sono felice di vedere che state meglio.

Lui annuì. — Oggi si sta bene all’aperto. Dov’è Deth?

— È sceso a cavallo a Kyrth questa mattina, con Ash. Torneranno verso sera. Morgon, ho riflettuto… pensavo che mi sarebbe piaciuto darvi un aiuto di qualche genere, e mi sono spremuto il cervello senza tirarne fuori niente, finché poi mi sono detto che potreste aver bisogno di un buon sistema per nascondervi, se nel viaggio che vi attende foste inseguito dai vostri nemici. Per nascondervi da tutti, se volete, dagli amici e dal resto del mondo, e riflettere un po’… E non c’è niente che sia più invisibile di un albero in una foresta d’alberi identici.

— Un albero? — I suoi occhi ebbero un lampo d’interesse. — Danan, voi potreste insegnarmi questo?

— Il talento per cambiar forma non vi manca. E tramutarsi in un albero è molto più facile che assumere la forma-vesta. Tutto ciò che dovete imparare è il segreto dell’immobilità totale. Voi sapete quale genere d’immobilità c’è in una pietra, o in una manciata di terra, vero?

— Una volta lo sapevo.

— Lo sentite ancora, dentro di voi — affermò Danan. Esplorò il cielo con lo sguardo, poi girò una rapida occhiata sui lavoranti indaffarati nelle botteghe. — Non è difficile starsene fermi in un giorno come questo. Venite. Nessuno sentirà la nostra mancanza, per un po’.

Morgon lo seguì fuori dalle mura di Harte, giù per la ricurva strada sterrata e poi nella foresta che dominava la città di Kyrth. Le loro impronte si fecero sempre più profonde nella neve alta, e nel passare fra i cespugli e gli alberi ne scossero i rami, che balzarono in alto liberati dal loro carico. La corteccia degli abeti era umida e nera, il solo colore che vi fosse in tutto quel candore intatto. Procedettero in silenzio finché, girandosi, non videro più la strada né la città, né le mura di Harte, ma soltanto gli alberi coperti di neve. Si fermarono e tesero gli orecchi. Il cielo era una cappa soffice e impenetrabile; gli abeti sembravano plasmati da un’immobilità che risaliva dalle radici alle cime appuntite, quasi che l’essenza stessa della loro vita fosse nella mancanza di moto, nello stagnare della forma. Un falco che veleggiava più in alto sorvolò gli alberi con un lievissimo fruscio e scomparve verso la valle. Morgon, che lo aveva seguito con gli occhi, si volse in cerca di Danan e stupito s’accorse d’essere solo. Là dove terminavano le impronte del Re di Isig sorgeva un abete, perfetto, svettante e silenzioso sotto la sua veste di neve.

Rimase dove si trovava, più fermo che poté. Dopo un poco il freddo dovuto alla sua stessa immobilità si fece tormentoso, poi quella sensazione svanì ed il tempo divenne qualcosa che egli poteva misurare col suo respiro, col battito del cuore, e che rallentava a mano a mano che rallentavano i suoi pensieri. Si concentrò nello sforzo di far divenire linfa il suo sangue, e rami le sue ossa, finché gli parve di svuotarsi e di essere un ottuso particolare di quel panorama invernale. Gli alberi che lo circondavano cominciarono a dargli la sensazione di sicurezza e di calore, come le mura di pietra di un rifugio di montagna, come una casa. Protendendo la mente fu sorpreso di avvertire il sussurro dei loro vasi linfatici, che estraevano la vita dal duro terreno coperto di neve. Nella montagna c’era una forza che lo attirava in basso e gli imponeva di radicarsi al suolo, c’era un ritmo vitale, e quel ritmo si mescolava al suo smorzandogli l’energia, la memoria, i pensieri, mentre il silenzio stesso diveniva la mano di un artigiano che plasmava la sua forma. In lui subentrò una conoscenza senza parole, fatta di antichità e di attese, di venti che sussurravano o urlavano, di stagioni che cominciavano e finivano, di paziente sete per ciò che si trovava intorno alle profonde radici, di lunghi sonni e lentissimi risvegli…

Qualcosa mise termine alla sua immobilità. Si stiracchiò, e una buffa difficoltà nel contrarre la faccia gli diede la sensazione d’avere la pelle di corteccia. Aveva le dita rigide come rami. Il respiro, quando ricordò di emetterlo, gli scaturì dalla bocca in una rapida nuvola di vapore. A scuoterlo era stata una mano.

Con voce che sembrava appartenere ancora al silenzio, Danan disse: — Quando avrete un po’ di tempo fate pratica, così potrete mutarvi da uomo in albero nello spazio di un pensiero. Ma attento a conservare un legame col mondo. Talvolta io dimentico di tornare uomo: guardo la montagna svanire nel crepuscolo, e le stelle spostarsi in lenti archi che smarriscono ogni significato, finché Bere deve venire a chiamarmi, o finché qualche movimento casuale nelle vicinanze mi costringe a ricordare chi sono. Quando saprò di essere stanco della vita salirò più in alto che potrò sull’Isig, poi mi fermerò e diventerò un albero per sempre. Se il cammino che avete intrapreso vi divenisse intollerabile, potrete semplicemente sparire un po’, e nessun mago o cambiaforma di questo mondo potrà trovarvi finché non sarete pronto.

— Grazie. — Stupito s’accorse che aveva faticato un istante per ricordare di possedere ancora una voce.

— Voi avete poteri notevoli. Ho guidato la vostra mente sulla giusta strada, ma avete imparato più in fretta dei miei stessi figli.

— È stato facile. Così facile che mi sembra strano di non averlo mai fatto prima d’ora. — S’incamminò a fianco di Danan, seguendo le tracce che avevano lasciato dopo essere usciti di strada, ancora conscio della tranquillità che c’era in quell’immobile foresta invernale. La voce di Danan era così pacata che non lo disturbava affatto.

— Ricordo che una volta, da giovane, trascorsi un intero inverno in forma di albero, tanto per capire quell’esperienza. Non mi accorsi neppure del tempo che scorreva. Grania mandò fuori i minatori a cercarmi, poi venne anche lei stessa, ma io non notai affatto la sua presenza, così come lei non notava la mia. In questa forma potrete sopravvivere alle tormente più terribili, se ve ne fosse bisogno, nel vostro viaggio al Monte Erlenstar. Perfino i vesta cedono, a volte, contro quei venti.

— Io ce la farò. Ma Deth? Sa mutare la sua forma?

— Non lo so. Non gliel’ho mai chiesto. — Danan si fece pensoso. — Ho sempre sospettato che abbia altri talenti, oltre l’abilità di arpista e il tatto, ma se devo esser sincero non ce lo vedo a trasformarsi in un albero. C’è qualcosa in questa forma che non gli si addice.

Morgon lo fissò. — Quali talenti sospettate in lui?

— Nessuno in particolare, ma non sarei sorpreso nel vedergli fare anche cose impensabili. In lui c’è un silenzio che, per quante volte abbiamo parlato insieme, non ha mai infranto. Probabilmente voi lo conoscete meglio di chiunque altro.

— No. Conosco quel suo silenzio… talvolta ho pensato che fosse la calma di chi ha imparato a riflettere con cura, altre volte mi è parso soltanto il silenzio dell’attesa.

Danan annuì. — Vero. Ma l’attesa di cosa?

— Non lo so — ammise Morgon. — Vorrei poterlo capire.

Raggiunsero la strada. Da Kyrth stava risalendo un carro, mezzo carico di pellicce, e il conducente nel riconoscerli fece arrestare i due robusti cavalli da tiro. Morgon e Danan salirono sul retro e si misero a sedere sulle pelli. Accarezzando una bella coda di volpe il Re della montagna mormorò: — Deth mi ha incuriosito fin dalla prima volta che lo vidi entrare nel mio cortile, un inverno di settecento anni fa. Suonò per noi, e in cambio chiese che gli insegnassimo certe vecchie canzoni di Isig. Il suo aspetto era più o meno lo stesso di adesso, e la sua abilità di arpista… anche allora non aveva rivali.

Morgon si volse, perplesso. — Settecento anni fa?

— Sì. Ricordo che fu allora, pochi anni dopo la scomparsa dei maghi.

— Io credevo… — S’interruppe, mentre una ruota rimbalzava violentemente su un sasso nascosto nella neve. — Allora non era qui a Isig quando Yrth costruì la mia arpa?

— No — dichiarò Danan, sorpreso. — Come avrebbe potuto esserci? Yrth fabbricò l’arpa circa cent’anni prima della fondazione di Lungold, e Lungold è la città dove Deth nacque.

Morgon sentì un peso in gola, come se deglutisse una pietra. La neve stava riprendendo a cadere, leggera e futile; d’improvviso sollevò gli occhi verso la grigia coltre del cielo, disperato e impaziente. — Ecco che ricomincia!

— No. Non siete riuscito a sentirlo sotto di voi, nel terreno? Il tempo cambia…

Quella sera Morgon sedette in camera sua, da solo e immobile, con gli occhi fissi nel fuoco. Le pareti della stanza e le pareti della notte lo circondavano col loro silenzio familiare e sconsolante. Fra le mani aveva l’arpa ma non la suonava; le sue dita si muovevano lente e pensose sugli spigoli e sulle superfici delle stelle. Infine udì i passi di Deth sulle scale, la tenda frusciò aprendosi e lui sollevò la testa; all’ingresso dell’arpista cercò il suo sguardo, poi tentò di spingere i suoi pensieri oltre quegli occhi oscuri e impenetrabili.

In lui balenò un senso di sorpresa, come se, aprendo la porta di unatorre solitaria e sconosciuta, si fosse accorto d’essere entrato in casa sua. Ma subito qualcosa di simile a una saetta di fuoco bianco rimbalzò nella sua mente; sconvolto e accecato balzò in piedi, e l’arpa rotolò sul pavimento. Per qualche istante non poté vedere né udire nulla, finché, quando la sfolgorante palla di luce si ritrasse dai suoi globi oculari, sentì accanto a sé la voce di Deth:

— Morgon… mi spiace. Siediti.

Morgon si tolse le mani dagli occhi e sbatté le palpebre; barbagli di colore stavano guizzando per tutta la stanza. Fece un passo e inciampò nel tavolo con la bottiglia del vino; Deth lo aiutò a sedersi sulla sedia.

Lui sussurrò: — Cos’è successo?

— Una variazione del Grande Urlo. Morgon, avevo dimenticato il lavoro mentale che hai imparato da Har; mi hai colto di sorpresa. — Versò del vino in un boccale e glielo porse. Rigido e a pugni stretti, con le vibrazioni dell’urlo mentale che gli sciabordavano nella testa come onde, Morgon riuscì ad aprire un mano e lo prese. Una convulsione non del tutto involontaria gli fece scattare il braccio di lato, il boccale volò attraverso tutta la stanza e si fracassò nel muro, schizzando attorno vino e cocci.

Si volse a fronteggiare l’arpista, controllando la voce. — Perché hai cercato di darmi a bere che eri a Isig quando Yrth ha fabbricato l’arpa? Danan ha detto che fu fatta prima che tu nascessi.

Nello sguardo dell’arpista non ci fu alcuno stupore, soltanto un barlume di rassegnazione. Abbassò la testa, poi si versò del vino e ne bevve un sorso. Sedette sull’altra sedia, cullandosi il boccale fra le mani.

— Tu pensi che io ti abbia mentito?

Morgon tacque. Poi con sua stessa sorpresa disse: — No. Tu sei un mago?

— No. Io sono l’arpista del Supremo.

— E allora, vuoi spiegarmi com’è possibile che tu fossi a Isig cento anni prima della tua nascita?

— Ti accontenti di una mezza verità, o la vuoi tutta?

— La verità!

— Quand’è così dovrai fidarti di me. — La sua voce, più morbida del fruscio del fuoco, parve mescolarsi al silenzio e alla penombra. — Al di là di ogni logica, al di là della ragione, al di là della speranza. Dovrai fidarti.

Morgon si appoggiò all’indietro, con la testa che gli doleva. — Quello scherzetto, l’hai imparato a Lungold?

— Fu una delle poche cose che riuscii a imparare. Una volta venni colpito accidentalmente dall’urlo mentale del mago Talies, che aveva avuto un’esplosione d’ira. M’insegnò lui a farlo, per farsi perdonare.

— Pensi di potermelo insegnare?

— Adesso?

— No. Per il momento la mia testa è un groviglio, non sopporterei un altro urlo. Lo usi spesso?

— No. Può essere pericoloso. Per istinto, sentendo un’altra mente che entrava nella mia, ho reagito. Ci sono espedienti più semplici per schermarsi; se avessi capito che eri tu mi sarei ben guardato dal colpirti. — Fece una pausa. — Ero salito per dirti che il Supremo ha scolpito il suo nome in ogni roccia e in ogni albero del Passo Isig. La terra al di là di Isig è sua, e lui può sentire ogni passo che la calpesta come i battiti del suo cuore. Soltanto a noi concederà di attraversarla. Danan mi ha suggerito di partire appena il ghiaccio dell’Ose comincierà a sciogliersi. E questo accadrà presto; il tempo sta cambiando.

— Lo so. L’ho sentito. Oggi pomeriggio Danan mi ha insegnato ad assumere la forma-albero. — Si alzò e andò a prendere un altro boccale, poi se lo riempì. — Ho fiducia in te, col mio nome e con la mia vita. Ma la mia vita è stata tolta al mio controllo, e io sono diventato uno strumento che deve correre avanti cercando risposte, inseguendo enigmi. Tu questa sera me ne hai dato uno; io troverò la risposta.

— Questo — disse con calma l’arpista, — è proprio il motivo per cui te l’ho dato.

Pochi giorni più tardi, mentre risaliva sull’Isig per far pratica del cambiamento di forma, Morgon riprese contatto con la corrente di silenzio assoluto e d’immobilità delle piante; e poco dopo trovò in essa un’inattesa scintilla di calore che risaliva dalle profondità del suolo per risalire come linfa nei suoi rami, finché, tornato di nuovo se stesso, gli parve d’avvertirla ancora nei polpastrelli e nel cuoio capelluto. Un soffio di vento scivolò sulle pendici della montagna; egli lo annusò e vi sentì l’odore della terra di Hed.

Trovò Deth e Danan nel cortile, che parlavano con uno degli artigiani. Nel sentirlo arrivare Danan si volse e sorrise, quindi si frugò in una tasca interna del mantello. — Morgon, oggi è arrivato un mercante da Kraal… cominciano già a svolazzare dappertutto, come uccellini all’inizio della primavera. Ha portato una lettera per te.

— Da Hed?

— No. Ha detto che se l’è portata dietro per mesi. Da Anuin.

— Anuin… — sussurrò Morgon. Si tolse i guanti e ruppe il sigillo di ceralacca. Lesse in silenzio, mentre gli altri lo osservavano. Il tiepido vento del sud che lo aveva sfiorato sulla montagna agitava il foglio fra le sue dita. Quand’ebbe finito non rialzò subito lo sguardo; stava cercando di ricostruire dentro di sé un volto che il tempo e la distanza avevano trasformato in un vago insieme di sensazioni piacevoli. Poi sollevò la testa.

— Lei vuole vedermi. — Le due facce davanti a lui gli apparvero per un momento nebulose. — Mi scrive di tenermi alla larga dalle navi. E di tornare a casa.

Quella notte, mentre dormiva, sentì il rumore dei ghiacci dell’Ose che si frantumavano e ne fu svegliato. Al mattino la superficie gelata del fiume era irretita da profonde crepature; due giorni dopo la corrente scura e turbinosa trascinava lastroni di ghiaccio grossi come carri dinnanzi alla città di Kyrth, in direzione del mare. Ad Harte i mercanti cominciarono a imballare le loro merci da portare a Kraal, sulla costa. Danan diede a Morgon un cavallo da carico e una giumenta irsuta proveniente dagli allevamenti di Herun. Regalò a Deth una collana d’oro e di smeraldi per compensarlo d’aver suonato in quelle sere quiete e interminabili. All’alba del mattino successivo il Re della montagna, i suoi due figli e Bere, uscirono a salutare Morgon e Deth. Mentre il sole si alzava in un cielo azzurro e senza nubi i due viaggiatori scesero a Kyrth, poi presero la piccola strada poco frequentata che conduceva attraverso il Passo di Isig e verso il Monte Erlenstar.

Nudi picchi granitici scintillavano umidi sopra di loro, nella luce che pian piano si spingeva giù lungo i fianchi della montagna. La strada, che per tre stagioni all’anno era tenuta sgombra dagli uomini al servizio del Supremo, serpeggiava ricoperta da pietre cadute, alberi stroncati dal vento e mucchi di neve. Per un poco seguì il corso di un fiume, poi si alzò fra le pendici e gli strapiombi dei monti. Grandi cascate su cui soffiava il tiepido e persistente vento del sud mormoravano in angoli nascosti fra l’alta vegetazione, e altre ancora congelate scintillavano argentee fra spogli picchi rocciosi. Nel silenzio assoluto gli zoccoli dei cavalli strappavano sonori clangori al sentiero sassoso.

Trascorsero la prima notte accampati sulla riva del fiume. Sopra di loro il cielo, pieno di bagliori accecanti durante il giorno, era d’un nero straordinariamente intenso. La luce del fuoco sembrava espandersi all’insù in riflessi e aloni che offuscavano le stelle. Il fiume scorreva pigro in quel tratto, profondo e silenzioso. Durante la cena non parlarono quasi, ma più tardi Morgon, mentre lavava le stoviglie nell’acqua, senti le note di un’arpa che tintinnavano nell’oscurità leggere e veloci come le sonanti cascatelle fra cui erano passati. Restò in ascolto, inginocchiato sui sassi, finché le mani cominciarono a bruciargli per il gelo pungente; poi tornò presso il fuoco. Deth suonava una melodia dolce e vivace come la voce del fiume, gli occhi fissi nelle fiammelle che delineavano i lucidi contorni del suo strumento. Morgon gettò altri rami sul bivacco. Mandò un’esclamazione di protesta, quando l’arpista s’interruppe.

— Ho le dita mezzo congelate — disse Deth. — Mi dispiace. — Raccolse la custodia dell’arpa. Morgon sedette con la schiena appoggiata a un tronco caduto, rovesciò la testa indietro e fissò i rami del pino sopra di lui, trapunti di stelle.

— Quanto tempo impiegheremo?

— Con la buona stagione occorrono dieci giorni. Se questo tempo tiene non dovremmo metterci molto di più.

— È bello qui. È la terra più bella che abbia mai visto in vita mia. — I suoi occhi tornarono sul volto dell’arpista che s’era disteso accanto al fuoco, seminascosto da un suo avambraccio. La calma e i misteri che c’erano in lui di nuovo infastidirono Morgon. Con uno sforzo mise da parte le domande che gli ronzavano nella mente, e disse: — Hai detto che mi avresti insegnato l’urlo mentale. Potresti insegnarmi anche il Grande Urlo?

Deth sollevò l’avambraccio, se lo passò dietro la nuca. Il suo volto era disteso, e una volta tanto tranquillissimo. — Il Grande Urlo del corpo non si può insegnare; è una cosa che deve venirti spontanea. — Tacque, poi aggiunse pensosamente: — L’ultima volta che mi accadde di udirlo fu al matrimonio di Mathom di An e di Cyone, la madre di Raederle. Cyone emise un Urlo che falciò via dagli alberi un intero raccolto di noci già mezze mature, e spaccò le corde di tutte le arpe che c’erano nel salone. Io lo udii da oltre un miglio di distanza; quel giorno fui l’unico arpista in grado di suonare.

Morgon fu costretto a ridere. — E perché mai aveva gridato?

— Mathom non lo ha mai detto a nessuno.

— Mi chiedo se anche Raederle possa farlo.

— Probabilmente. Fu un Urlo formidabile. L’urlo del corpo è qualcosa d’incontrollabile e di molto personale. A te sarebbe più utile l’urlo mentale. Emette in un solo istante tutta l’energia della mente, concentrata in un unico suono. I maghi lo usavano per chiamarsi l’un l’altro da distanze enormi, da diversi reami se ne avevano la necessità. Entrambi gli urli possono essere usati per difesa, sebbene l’urlo del corpo sia debole quando non è spontaneo. Se uno è psichicamente scosso può invece essere molto efficace. L’urlo mentale è solitamente il più pericoloso; se tu urli con tutta la forza nella mente di un uomo che ti sta accanto, puoi fargli perdere i sensi. Così dovrai andarci cauto. Prova. Urla il mio nome.

— Ho paura di farlo.

— Se ci metti troppa forza ti fermerò. Occorre tempo per imparare a radunare l’energia mentale. Concentrati.

Morgon isolò la mente dall’esterno. Il fuoco parve immobilizzarsi davanti ai suoi occhi, come un cristallo di luce nelle tenebre. Il volto del compagno divenne un oggetto anonimo, come un albero o una pietra. Poi egli s’insinuò oltre la maschera di quei lineamenti e lasciò che i suoi pensieri esplodessero col nome di lui in un lampo improvviso. La sua concentrazione si dissolse, e vide il volto e il fuoco e le ombre degli alberi riprendere forma solida.

Pazientemente Deth osservò: — Morgon, ti ho sentito come se tu fossi dall’altra parte della montagna. Prova di nuovo.

— Non so bene cosa sto facendo…

— Pronuncia il mio nome, con naturalezza ma usando la tua voce mentale. Poi gridalo.

Lui tentò ancora. Questa volta dimenticò di applicare gli insegnamenti di Har, e l’urlo non fu più che un innocuo pensiero dentro di lui. Cercò di schiarirsi la mente, riprovò, e il suono telepatico che produsse gli parve il soffice esplodere di una bolla in un pentolone. Trasalì.

— Mi spiace. Ti ho fatto male?

Deth sorrise. — Questo era un tantino più forte. Di nuovo.

Lui tentò e ritentò. Quando poco più tardi sorse la luna era esausto e non riusciva più a concentrarsi. Deth si alzò in cerca di altra legna.

— Ciò che stai facendo è di emettere un’illusione di suono senza suono. Non è facile, ma dal momento che riesci a trasmettere i tuoi pensieri a un uomo dovresti anche essere capace di gridarglieli.

— Dov’è che sbaglio?

— Forse sei troppo cauto. Pensa ai Grandi Urlatori di An: il Nobile Col di Hel e la strega Madir, che contendendosi il possesso di una foresta di querce dove si nutrivano i loro maiali fecero un duello di urla rimasto leggendario. E Kale, il primo Re di An, che per la disperazione mandò un urlo tale da disperdere l’esercito mandatogli contro da Aum. Dimentica che tu sei Morgon di Hed e che io sono un arpista di nome Deth. Nel più profondo di te stesso c’è un enorme potere che non stai usando affatto. Sfruttalo, e riuscirai a emettere un urlo mentale che non sembrerà soltanto il miagolio d’un gatto in fondo a una buca.

Morgon sospirò. Provò a schiarirsi i pensieri, ma in lui scivolarono le immagini di Col e di Madir nell’atto di scambiarsi urla che crepitavano come fulmini nel cielo azzurro di An. Di Cyone, vestita di porpora e d’oro nel giorno del suo sposalizio, che emetteva un incredibile e misterioso urlo dai leggendari risultati. Di Kale, la cui figura era come perduta nell’ombra dei secoli, che sconvolto e disperato urlava nel vedere l’esercito venuto a distruggerlo. Fu immedesimandosi in Kale che Morgon, quasi senza pensarci, mandò un urlo telepatico nitido come la freccia scagliata da un arco contro una belva che lo stesse aggredendo.

Il volto di Deth tornò concreto dinnanzi a lui, rigido e pallido al di là del fuoco.

Un po’ stordito Morgon si rilassò. — Era migliore?

Deth non rispose subito. Poi mormorò, cautamente: — Sì.

Morgon si raddrizzò. — Ti ho fatto male?

— Un poco.

— Avresti dovuto… perché non mi hai fermato?

— Mi hai colto di sorpresa. — Fece un respiro profondo. — Sì. Questo era molto meglio.

Il giorno dopo la strada si scostò dal corso del fiume e risalì tagliando i fianchi scoscesi delle montagne, lungo immense scarpate biancastre che molto più in basso precipitavano direttamente nell’acqua. Per un po’ persero di vista il fiume, cavalcando attraverso una foresta. Morgon lasciò vagare gli occhi sulla lenta processione d’antichi alberi che gli sfilavano ai lati, ripensò a Danan, e gli parve di vedere scolpito in quelle rugose cortecce il volto del Re della montagna. A metà del pomeriggio sbucarono di nuovo sui costoni di roccia nuda; il loro sguardo poté di nuovo spaziare sulle curve rapide e scintillanti del fiume e sulle montagne, avvolte nel loro candido mantello invernale.

Il cavallo da carico, che procedeva all’esterno, staccò dal ciglio della strada una pietra che rotolò e rimbalzò fino al fiume. Morgon trasse l’animale più all’interno. Il sole intenso sfavillava sui picchi che li sovrastavano, trasformando i lunghi ghiaccioli in pendule dita di luce. Ogni volta che Morgon alzava gli occhi sulla parete gelida accanto a cui s’inerpicavano ne restava abbagliato.

Strinse le palpebre, e si volse a Deth. — Se io volessi mietere un raccolto di noci dagli alberi di Hed con il Grande Urlo, come dovrei agire?

Preso nei suoi pensieri l’altro rispose, distrattamente: — Devi attingere alla stessa sorgente di energia che hai sfruttato ieri notte, ma bada a tenere alla larga tutti i tuoi animali, che a un urlo del genere si disperderebbero ai quattro venti. La difficoltà sta nel produrre un suono molto alto al di là delle possibilità fisiche. Ciò richiede sia una causa che ti scuota, sia un grande abbandono psichico. Di conseguenza ti converrebbe piuttosto aspettare che sia una bufera a scrollare i tuoi alberi.

Morgon ci pensò sopra. Il lieve scalpiccio degli zoccoli e la lontana voce del fiume erano fragili suoni in quel silenzio, così immenso da sembrare capace di assorbire qualunque urlo. Rifletté sui suoi tentativi della sera prima, cercando d’identificare la sorgente di quell’energia così intima e indefinibile, che l’aveva sopraffatto nel momento di emettere il suono silenzioso. Il sole balzò fuori da dietro un’enorme roccia e all’improvviso cosparse la strada di bagliori. Nell’immenso azzurro del cielo tremolava un’altrettanto immensa nota di suono senza suono. Aspirò un profondo respiro, fece appello a ogni sua risorsa nascosta e mandò un urlo, più forte che poté.

Le montagne che li circondavano echeggiarono in risposta. Per qualche istante ascoltò con calma quelle grida, poi s’accorse che davanti a lui Deth s’era voltato stupefatto. L’uomo balzò giù di sella e afferrò le redini del cavallo da trasporto, e Morgon, allarmato dall’espressione del compagno lo imitò e si affrettò a tirare la propria cavalcatura a ridosso della parete rocciosa. Fece appena in tempo a schiacciarvisi contro, perché sopra di loro ci fu un tramestio, quindi una valanga di pietre rimbalzò sulla strada precipitando giù per il pendio.

Il tuono di echi stava scuotendo i picchi spogli e le sottostanti foreste. Un macigno grosso quanto un cavallo passò di poco sopra le loro teste, fece vibrare il terreno col suo tonfo e rotolò per la scarpata fino al fiume, stroncando numerosi alberi al suo passaggio. Pian piano i rumori si spensero, e nella zona tornò a calare il silenzio.

Inchiodato alla parete come se vi si fosse congelato contro Morgon osò sollevare cautamente la testa. Gli occhi di Deth incontrarono i suoi, privi di espressione. Poi nelle pupille gli passò un lampo.

— Morgon… — disse.

Richiuse la bocca. Accarezzò gli animali per tranquillizzarli e li riportò al centro del sentiero. Morgon fece scostare il suo cavallo dalla roccia. Per un poco gli restò accanto, all’improvviso troppo stanco per montare, e il vento gelò il sudore che gli aveva imperlato la fronte.

Dopo un poco riuscì a dire: — È stata una cosa stupida.

Deth abbassò la testa dietro il collo del suo cavallo. Morgon, che non lo aveva mai sentito ridere da quando lo conosceva, restò immobile coi piedi in mezzo alla neve, sconcertato. L’eco di quel suono rimbalzò sul picco di fronte a loro, finché la risata dell’uomo e della parete rocciosa sì miscelò in una vibrazione discordante che a Morgon parve quasi inumana. Fece un passo avanti, stranamente disturbato. Appena Deth captò il movimento di lui, tacque. Le sue mani, immerse nella criniera del cavallo, stavano tremando. Le sue spalle erano rigide.

— Deth! — lo chiamò Morgon, sottovoce.

L’arpista risollevò la testa. Prese le redini e montò in sella lentamente, senza guardare Morgon. Poco più in basso un grande albero, mezzo sradicato e col tronco spaccato verticalmente, cigolò inclinandosi sulla scarpata nevosa. Morgon lo fissò, scosso da un brivido. — Mi spiace. Non avevo idea di quel che significa un Grande Urlo fra le montagne piene di neve alta. Per poco non ho causato la nostra morte.

— Già. — L’arpista si schiarì la voce, che aveva avuto un tremito. — Sembra che il Passo sìa fortificato contro i cambiaforma, ma non contro di te.

— È per questo che ridevi in quel modo?

— Non so per cos’altro dovrei ridere. — Finalmente si volse a guardarlo. — Te la senti di proseguire?

Morgon si tirò stancamente in sella al suo cavallo. Ormai prossimo al tramonto il sole si stava abbassando in direzione del Monte Erlenstar, e sul Passo le ombre si stagliavano lunghe.

Deth disse: — La strada scende di nuovo al fiume fra un paio di miglia; potremo accamparci laggiù.

Morgon annuì. Batté una mano sul collo del cavallo, accorgendosi che sembrava tremare ancora. — Non è stato poi un urlo molto forte.

— No. È stato debole, anzi. Però ugualmente notevole. Se mai tu riuscissi a fare il Grande Urlo con tutta la sua potenza, credo che rischieresti di spaccare il mondo in due.

Impiegarono otto giorni per seguire il fiume fino alla sorgente: le immense scarpate e il ghiacciaio della montagna che sovrastava il reame del Supremo. Il mattino del nono giorno videro il termine della strada, che attraversava l’Ose e sembrava immergersi in un’immensa parete del Monte Erlenstar. Morgon tirò le redini e spinse per la prima volta lo sguardo verso la soglia della dimora del Supremo. Al di là del fiume la strada era sgombra dalla neve, e fiancheggiata da grandi alberi biancheggiava liscia e dritta. Il portone d’ingresso era una frattura nella roccia nuda della montagna sagomata e scolpita a forma di una poderosa arcata. Mentre Morgon guardava, ne vide uscire un uomo, che scese lungo la strada colma di luce e si fermò ad aspettarli al ponte.

— Seric — disse Deth. — La Guardia del Supremo. È stato addestrato a Lungold dai maghi. Andiamo.

Ma non si mosse. Morgon, attanagliato da un misto di timore e di eccitazione, lo fissò in attesa. L’arpista sedeva in sella immobile, il volto atteggiato alla calma consueta, osservando il portale che conduceva all’interno di Erlenstar. Poi si volse bruscamente. Fermandosi sul volto di Morgon i suoi occhi ebbero una strana espressione, fra indagatoria e interrogativa, quasi che stesse soppesando dentro di sé un enigma e una risposta. Poi, mettendo da parte quel pensiero, spronò avanti il cavallo. Morgon gli tenne dietro lungo la discesa fino al fiume e poi al di là del ponte. Qui giunti Seric, che indossava un lungo abito sciolto da cui il sole traeva riflessi multicolori, li fermò.

— Questo è Morgon, Principe di Hed — disse Deth, smontando.

Serie sorrise. — Dunque Hed è venuta al Supremo, infine. Tu sei il benvenuto. Lui vi sta aspettando. Prenderò io i vostri cavalli.

Fianco a fianco con Deth Morgon s’incamminò sulla strada, sulle cui pietre lisce scintillavano frammenti di grosse pietre preziose non tagliate. All’interno del portale si apriva un’immensa anticamera, nel cui centro ardeva un fuoco. Serie condusse i cavalli sulla destra. Deth guidò invece Morgon verso i due battenti di una porta ad arco. Li spinse ed essi si aprirono senza rumore. Alcuni uomini vestiti negli stessi eleganti abiti di stoffa luminosa s’inchinarono lievemente a Morgon, e chiusero la grande porta scolpita alle loro spalle.

Nella penombra brillavano dozzine di torce, i cui riflessi scintillavano sulle gemme che coprivano il pavimento, le pareti, l’arcuato soffitto di roccia, quasi che la dimora del Supremo fosse al centro di un firmamento stellato. Tenendolo leggermente per un gomito Deth condusse Morgon verso l’estremità opposta del salone tondeggiante. Su una piattaforma a cui salivano tre scalini c’era un trono dall’alta spalliera, intagliato in un unico enorme cristallo giallo, e ai suoi lati ardevano due torce. Morgon si arrestò ai piedi degli scalini. Deth lo lasciò e salì, andando a fermarsi a lato del trono. Il Supremo, nella sua veste dorata come il sole, i lunghi capelli candidi tirati indietro a rivelare le placide e austere fattezze del viso, tolse le mani dai braccioli del trono e se le poggiò sulle ginocchia, unendo le punte delle dita.

— Morgon di Hed, tu sei il benvenuto — disse dolcemente. — Come posso esserti d’aiuto?

Morgon si sentì tremare le vene per la violenza insopportabile con cui il sangue gli pulsava nella testa e nel petto. Le pareti ingioiellate che lo circondavano erano muri di luci che battevano al ritmo folle del suo cuore. Spostò lo sguardo su Deth. L’arpista lo fronteggiava con calma, studiandolo con occhi imperscrutabili e spassionati. Tornò a fissare il Supremo, ma il volto che aveva di fronte continuò a restare lo stesso: il volto di quel Maestro di Caithnard che per ben tre anni egli aveva conosciuto senza conoscerlo affatto.

La voce gli uscì in un rantolo: — Maestro Ohm…

— Io sono Ohm di Caithnard. Io sono Ghisteslwchlohm, il Fondatore di Lungold, e… come hai già compreso, il suo distruttore. Io sono il Supremo.

Morgon scosse la testa, deglutendo a vuoto, stordito. Guardò nuovamente Deth e ai suoi occhi la figura di lui apparve velata, immobile, taciturna e lontana come il silenzio e il ghiaccio che per giorni avevano pesato intorno a loro sul Passo Isig. — E tu…? — sussurrò.

— Io sono il suo arpista.

— No! — ansimò lui. — Oh, no! — Poi sentì che la parola s’immergeva nella terribile sorgente d’energia oscura dentro di lui, per tornare a scaturirgli follemente dalle labbra spalancate, e la grande porta chiusa della dimora del Supremo si spaccò dalla base fino alla sommità sotto la violenza sconvolgente dell’Urlo.

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