CAPITOLO OTTAVO

Due settimane dopo la sua partenza da Hlurle la neve invernale cominciò a cadere. L’aveva prevista, ne aveva annusato l’odore nell’aria, aveva sentito il suo arrivo nella voce del vento selvaggio e incessante. S’era diretto lungo la costa fino alla foce dell’Ose, il grande fiume le cui sorgenti erano nel cuore del Monte Erlenstar. Scorrendo attraverso Passo Isig il fiume aggirava le pendici delle montagne, e nel suo percorso diretto al mare formava il confine meridionale di Osterland. Morgon ne risalì il corso verso occidente, passando su terre mai reclamate da nessuno, foreste dimenticate che solo i mercanti scesi via fiume da Isig avevano visto, aspri colli sassosi dove s’arrampicavano branchi di daini, di alci e di capre di montagna nel loro spesso vello invernale. Una volta gli parve d’aver visto muoversi oltre un bosco lontano un branco di vesta, con le loro leggendarie corna punteggiate d’oro, luccicanti fra gli alberi. Ma sullo sfondo del cielo vuoto e bianco avrebbe potuto trattarsi di semplici refoli di nebbia, e non ne fu certo.

Attraverso quella terra selvaggia si spostò il più rapidamente possibile, sentendosi incalzato dalla neve, cacciando ogni tanto, chiedendosi in un angolo della mente se una tale desolazione avesse mai fine, se c’erano rimasti degli esseri umani nel reame del Supremo, o se il fiume che stava costeggiando non fosse affatto l’Ose ma un altro, mai cartografato, che nasceva a ovest nell’immenso e disabitato entroterra del reame. Quel sospetto lo tenne sveglio più di una volta la notte, quando si domandava cosa stesse facendo lì nel mezzo del nulla, dove una frattura ossea o un animale spaventato, o un’improvvisa bufera di neve, avrebbero potuto ucciderlo facilmente come i suoi nemici. I continui timori scorrevano come una corrente nel suo subconscio. Una torpida pace scendeva tuttavia in lui la notte, quando non c’era nessun colore oltre quello del fuoco e del cielo nero, e nessun suono oltre quello della sua arpa. In quei momenti apparteneva alla notte, era un essere senza nome e senza corpo, come se potesse mettere radici e diventare un albero, alla deriva in un mondo di sensazioni notturne e silvestri.

Finalmente cominciò a scorgere in distanza delle fattorie, greggi di pecore, bestiame che s’abbeverava al fiume, e seppe che da qualche parte aveva oltrepassato il confine di Osterland. Ma in parte per cautela, in parte per l’abitudine al silenzio che nelle ultime settimane era cresciuta in lui, preferì evitare i casolari e i paesetti lungo il fiume. Si fermò soltanto una volta ad acquistare pane, formaggio e vino, e per farsi indicare la strada per Yrye. Gli sguardi curiosi lo mettevano a disagio; si rendeva conto di quanto doveva apparire insolito, né mercante né cacciatore, proveniente dalle terre incolte, vestito con un elegante quanto sporco abito di Herun, e capelli e barba da eremita.

Yrye, la città dove dimorava il Lupo-Re, si trovava a nord, nell’abbraccio delle gelide propaggini di Monte Fosco, il massiccio centrale di una bassa catena montagnosa; da uno dei villaggi una strada conduceva in quella direzione. Morgon aggirò la cittadina e si accampò per la notte in un bosco poco più oltre. Il vento ululava come un lupo fra i castagni e le betulle; fu costretto a star sveglio fino all’alba dal gelo che gli penetrava nelle ossa, accanto a un fuoco che agonizzava come un uccello ferito fra i rami umidi. Le raffiche di vento continuarono a scuotere sia lui che il cavallo per tutto il giorno successivo, ringhiando e frusciando con voce ostile. Solo a sera si placarono; il cielo era un cappa di nuvole fittissime, oltre la quale il sole aveva vagato inosservato ed inosservato tramontava. Quella notte la neve cominciò a cadere, e al mattino si svegliò sotto una spessa coperta bianca.

Il vento freddo s’era però placato del tutto, e la neve scendeva in lievi fiocchi cotonati. Morgon cavalcò dall’alba al tramonto in un silenzio di sogno, rotto soltanto dal frullio delle ali di un merlo, dalla fuga di una lepre nella sua tana, dal mormorio d’un torrente. Quella sera, quando si fermò, mise insieme una tenda usando le pelli conciate di cui era fatto il suo giaciglio, e s’aggirò in cerca di sterpaglia asciutta con cui innescare il fuoco. I suoi pensieri indugiarono, mentre mangiava, su quello strano e antico Re che nel suo repertorio di enigmi ne aveva uno anch’esso sconosciuto ai Maestri di Caithnard. Har, il Lupo-Re, era nato ancor prima dei maghi stessi; regnava in Osterland fin dall’Anno dell’Insediamento. Gli aneddoti che lo riguardavano erano numerosi e spesso spaventosi. Era dotato della facoltà di mutare forma. Il suo tutore era stato il mago Suth, durante gli anni in cui Suth conduceva una vita selvaggia. Sulle sue mani vi erano cicatrici identiche alle corna dei vesta, e s’intendeva di enigmi quanto un Maestro. Morgon sedette con la schiena poggiata a un tronco e sorseggiò lentamente il vino dalla borraccia, chiedendosi dove quel Re poteva aver appreso tali nozioni. In lui tornavano a balenare interessi e curiosità che la solitudine aveva sopito, e provava la nostalgia dei luoghi frequenti e civili. Finì il vino, si volse per cercarne dell’altro, e in quel momento vide oltre il chiarore del bivacco due occhi che lo fissavano.

Si sentì raggelare. L’arco era dall’altra parte del fuoco; il coltello era conficcato verticalmente nel grosso pezzo del formaggio. Lentamente allungò una mano verso di esso. Gli occhi lampeggiarono. Ci fu un movimento, uno stormire di fronde; poi un vesta avanzò nella luce rosata della fiamma.

Morgon deglutì un groppo di saliva, pesante come una pietra. L’animale era poderoso, grosso quanto un cavallo da tiro, con un muso da cervo triangolare e delicato. Aveva il vello d’un bianco scintillante; i palchi delle sue corna erano del colore dell’oro battuto. Lo fissò con occhi di rubino liquidi e imperscrutabili, quindi si avvicinò e allungò il collo a mordicchiare un rametto di pino proprio sopra la sua testa. Trattenendo il fiato come se stesse facendo qualcosa di proibito Morgon alzò una mano verso la lucida pelliccia di neve. Il vesta non parve accorgersi del suo tocco lievissimo. Dopo qualche istante Morgon osò di nuovo respirare, staccò un angolo della pagnotta. Il vesta abbassò la testa incuriosito dall’odore, annusò il pane. Lui gli accarezzò il muso affilato; l’animale ebbe un fremito sotto la sua mano ed i grandi occhi purpurei, misteriosi e lontani, si fissarono in quelli dell’uomo. Poi il vesta abbassò la testa e addentò la pagnotta, sbocconcellandola, mentre lui gli accarezzava dolcemente la sommità del cranio fra le corna. Finito il pane, il suo muso tornò ad annusargli la mano per averne dell’altro. Lui lo tolse dal cartoccio e glielo mise in bocca, un pezzo dopo l’altro, finché non ce ne fu più. L’animale esplorò le sue mani vuote, gli annusò il vestito un momento, quindi si volse e quasi senza rumore tornò a scomparire nella notte.

Morgon emise un lungo sospiro. Aveva sentito dire che i vesta erano timidi come bambini. Assai raramente se ne vedeva una pelle negli empori cittadini, poiché si tenevano alla larga dagli uomini, e il timore dell’ira di Har tratteneva chiunque, mercante o cacciatore, dall’intrappolarli. Essi seguivano la neve, e durante l’estate vagavano nelle zone più impervie delle montagne. Con improvviso disagio Morgon si domandò cosa avesse annusato l’animale, nell’aria della notte, da condurlo così lontano dalle montagne.

Era destinato a scoprirlo ancor prima del mattino. Una raffica di vento, furiosa come uno sciame d’api, gli strappò via la tenda da sopra la testa e la scaraventò nel fiume. Stringendosi al fianco del cavallo, accecato dalla neve che gli si incrostava sulla faccia, sopportò il gelo in attesa di un’alba che sembrava non arrivare mai. Quando finalmente sorse il sole, esso tramutò le tenebre della notte in un caos lattiginoso attraverso il quale Morgon non riusciva neppure a vedere il fiume, che scorreva a dieci passi da lì.

Un devastante senso d’angoscia gli attanagliò il cuore. Paralizzato dal freddo malgrado il mantello col cappuccio che si stringeva addosso, con le raffiche della bufera che gli ruggivano attorno come branchi di lupi, incapace perfino di capire dove fosse il fiume, sentì il mondo perdere solidità e diventare un caotico inferno senza forma. Con uno sforzo cercò di ricordare la posizione del fiume. Vacillò in piedi accanto al cavallo, che tremava sotto la coperta gettata sulla sua groppa, e gli mormorò qualche parola con labbra semicongelate; mentre gli voltava le spalle lo sentì scuotersi e ansare nervosamente. Abbassando la testa contro il nevischio pungente si mosse in una direzione a caso, chiedendosi dove fosse il fiume. Se lo trovò dinnanzi all’improvviso, scintillante e rapido sotto i turbini di neve; per poco non rischiò di piombare nell’acqua a capofitto. Tornò indietro a prendere il cavallo, mezzo chino in avanti per non perdere di vista le sue impronte. Quando giunse al punto in cui esse avevano inizio, scoprì che il cavallo era scomparso.

Per un po’ di tempo non fece che guardarsi attorno e chiamarlo; il vento gli ricacciava la voce in gola. Fece qualche passo verso una forma scura nella neve, ma la vide confondersi e svanire nel biancore. Si volse, raggiunse il cumulo di neve pestata e s’accorse che fra quel dedalo d’ombre confuse l’arpa e la bisaccia non c’erano più.

Barcollò qua e là ciecamente, affondando le mani nella neve, frugando fra i cespugli e gli alberelli che emergevano come scheletri nudi da quel candore. Ogni volta che alzava la testa il vento gli ficcava negli occhi nugoli di aghi di ghiaccio. Disperato e furibondo continuò a cercare, smarrendo anche lo scarso orientamento che era riuscito a recuperare, e vacillò vagando a caso, ansimando imprecazioni al vento che ululava contro di lui.

Finalmente, senza saper come, trovò l’arpa nella sua custodia, già mezzo sepolta, e quando poté stringerla fra le mani riuscì a rimettere un po’ d’ordine nei suoi pensieri. Lo strumento era sempre nel punto in cui lo aveva lasciato, presso il cespuglio accanto al quale egli aveva trascorso la notte; il fiume, dunque, si trovava alla sua sinistra. La bisaccia e la sella dovevano essere sotto il cumulo che vedeva di fronte a sé; ma per non rischiare di perdere ancora la posizione del corso d’acqua non osò mettersi a cercarle. Si infilò l’arpa a tracolla e lentamente, passo dopo passo, tornò sulla riva del fiume.

Il suo cammino lungo il corso d’acqua fu un calvario di fatica. La necessità di non perdere di vista lo scintillio della corrente lo costringeva a stare pericolosamente vicino alla scarpata della riva; non di rado, allorché davanti ai suoi occhi tutto si confondeva in un abbacinante biancore, dovette fermarsi smarrito, chiedendosi se non si stava addentrando in un’illusione dove nulla esisteva più. La faccia e le mani, intorpidite, erano insensibili come suole di scarpa, i capelli erano diventati una crosta di ghiaccio intorno ai bordi del cappuccio. Poi perse anche il senso del tempo, e fu incapace di dire se, da quando aveva cominciato a camminare, erano trascorsi minuti o ore, né se fosse mattina o pomeriggio. Lo spettro della notte che gli si preparava bastava a farlo gemere.

A un certo punto andò a sbattere dritto contro un albero invece di girargli attorno, sebbene l’avesse visto; con la fronte poggiata al tronco scabro rimase lì, incapace di muoversi. Vagamente si domandò quanto ancora avrebbe potuto resistere, cosa sarebbe successo quando non avrebbe più saputo mettere un piede dietro l’altro, e col buio non sarebbe rimasto neppure il fiume a fargli da guida. La presenza solida dell’albero, che oscillava ritmicamente nel vento, era rassicurante. Morgon sapeva che avrebbe potuto proseguire, ma le sue braccia avevano circondato il tronco e rifiutavano di lasciarlo. Improvvisamente, poiché i suoi pensieri erano caotici come la bufera, vide il volto di Eliard davanti al suo, iroso, angosciato, e risentì la propria voce uscire da un lontanissimo passato: Ti giuro questo: io tornerò sempre indietro.

Il suo abbraccio intorno all’albero si allentò con riluttanza. Rammentò la fiducia che c’era stata negli occhi di Eliard. Se Eliard avesse dubitato di quelle parole, egli avrebbe potuto adesso radicarsi insieme a quell’albero nella bianca desolazione di Osterland; ma Eliard, testardo contadino uso a prendere alla lettera le promesse, avrebbe preteso che lui mantenesse fedelmente la parola. Riaprì gli occhi; il mondo senza colore era ancora lì, davanti al suo naso, così ostile che avrebbe voluto mettersi a piangere per la stanchezza.

Impercettibilmente, l’universo che lo circondava cominciò a farsi più scuro. Dapprima non lo notò, intento a fissare l’acqua, e poi rifletté stordito che la bufera si stava portando via anche il fiume stesso. Nell’avanzare inciampava di continuo su radici e rocce rese scivolose dal ghiaccio, e trovava sempre più faticoso agitare le braccia per riprendere l’equilibrio. Quando un sasso si mosse sotto ai suoi piedi, precipitando nell’acqua, soltanto la provvidenziale vicinanza di un alberello lo salvò dall’andargli dietro a ruzzoloni. Aggrappato al tronco si rimise in piedi, scosso da tremiti convulsi come una bestia ferita. Poi sollevò lo sguardo al cielo con un sospiro e il colore del vento lo lasciò sbigottito.

A denti stretti, schiaffeggiato dal vento, cercò di pensare. Non sarebbe sopravvissuto a una notte come quella. Avrebbe potuto trovar riparo in una grotta, in un albero cavo, o fare un tentativo d’accendere il fuoco; le probabilità di riuscire in una o l’altra di quelle cose erano ridicolmente basse. Di seguire il corso del fiume nell’oscurità non se ne parlava neppure: l’avesse perso di vista avrebbe di certo vagabondato senza meta per qualche ora, poi si sarebbe semplicemente fermato e sarebbe svanito nella neve e nel vento, trasformandosi, col suo scomparire, in un’altra curiosità di Hed, come Kern, che i Maestri avrebbero messo nella loro lista di enigmi. Considerò la sua situazione con pensieri che faticavano a prender forma, volgendo le spalle al vento per tenere almeno gli occhi aperti. Un rifugio e un fuoco, pur impossibili come apparivano, erano la sua sola speranza. Si raddrizzò contro il punto d’appoggio, rendendosi conto che era stato l’albero, non le sue gambe, a permettergli di stare in piedi. Un odoroso vapore tiepido, che lo spaventò più di quant’altro gli era accaduto quel giorno, gli investì il lato destro del volto. Sussultò e si girò: la testa candida di un vesta lo stava fissando da meno di un palmo di distanza.

Morgon non seppe mai quanto tempo restò a guardare vacuamente quegli occhi purpurei. Il vesta era immobile sotto la neve, e il vento gli scompigliava la folta pelliccia. Le mani di lui si mossero come per volontà propria, accarezzandogli il muso e il collo, mentre mormorava qualcosa più per rassicurare se stesso che l’animale. Seguendo con le mani il collo arcuato e il dorso si scostò dall’albero, vacillando contro il fianco peloso. Il vesta si mosse appena in avanti per mordicchiare un ramoscello. Lui strinse fra le dita la folta criniera, fece un profondo respiro, e con le ultime forze di cui disponeva gli saltò in groppa.

Nulla lo aveva preparato all’improvvisa, incredibile esplosione di velocità che lo trascinò come un fuscello nel cuore della bufera di neve. Chiuse gli occhi e a denti stretti si aggrappò alle corna, con l’arpa che gli sbatteva con forza contro le reni, quasi incapace di respirare nel vento divenuto simile a un muro di ghiaccio. Un grido di protesta gli uscì infine di bocca; come in risposta il selvaggio e terrorizzato galoppo rallentò, mutandosi in un trotto liscio e regolare che senza sforzo riusciva ad essere più rapido di quello di un cavallo di razza. Morgon aderì disperatamente al gran corpo tiepido dell’animale, senza domandarsi dove questi stava andando, né per quanto tempo gli avrebbe permesso di restargli in groppa, e il solo pensiero su cui si concentrò fu di rimanergli abbarbicato il più a lungo possibile, a ogni costo.

Ben presto cadde in uno stato di sonnolenza ipnotica, oltre la quale avvertiva soltanto l’ondeggiare di quel trotto sciolto. Poi le sue mani attanagliate alle corna persero la presa; sbilanciato scivolò di lato e precipitò sul duro terreno. I suoi occhi si sbarrarono sul cielo nero e splendente; il silenzio in cui era sepolta ora la zona innevata sembrava concreto come un elemento naturale. Si alzò in piedi fissando stancamente le stelle, e riabbassando il capo seguì con lo sguardo la curva del firmamento, che in distanza confinava con un orizzonte bianco. S’accorse che il vesta s’era fermato a osservarlo, immobile, candido sulla neve candida. S’incamminò verso di esso. Per un momento il quadrupede parve fissarlo come se vedesse in lui uno strano animale. Poi, con passi che sgualcivano appena il tessuto della neve, gli venne incontro. Lui gli risalì in groppa, tremando in tutte le membra per lo sforzo. Il trotto riprese, diretto all’orizzonte stellato.

A risvegliarlo dalla sonnolenza fu ancora il solletico del nevischio sul volto. Il vesta stava procedendo al passo lungo la strada deserta e coperta di neve di una città. Eleganti case di legno e botteghe dai colori vivaci erano allineate lungo le vie, con porte e finestre chiuse nel lucore dell’alba. A fatica Morgon si mise a sedere, spazzando via la crosta di ghiaccio dal mantello. Il vesta girò un angolo; dinnanzi a sé Morgon vide un grande edificio privo di recinzioni, le cui alte strutture erano costruite in varietà di legno provenienti dai più lontani angoli del reame: quercia, pallida betulla, cedro sfumato di rosso, scuro e liscio mogano; le grondaie, le finestre e le doppie porte erano intarsiate da spirali e intrecci d’oro puro.

Il vesta avanzò senza alcuna paura nel cortile e si fermò. L’oscura magione giaceva immersa nel sonno e nella neve. Morgon la contemplò apaticamente, stordito, per qualche istante; il vesta ebbe uno scarto impaziente sotto di lui, quasi che finito il suo lavoro adesso fosse ansioso di andarsene. Morgon scivolò giù dalla sua groppa. I suoi muscoli rifiutarono però di sostenerlo e cadde subito in ginocchio, con l’arpa contro un fianco. Sotto lo sguardo intenso e incuriosito del vesta cercò di rialzarsi, cadde misteriosamente a sedere e ansimò esausto, tremando. L’animale lo sfiorò col muso, alitandogli il fiato caldo in un orecchio. Lui gli passò un braccio sul collo, gli appoggiò la fronte alla mandibola pelosa e lo sentì restare immobile in quell’abbraccio. Poi il robusto collo si scostò da lui con un movimento improvviso, la testa scattò verso l’alto, il palco di corna d’oro si sollevò in un lampo che parve il sorgere del sole sullo sfondo del cielo; un attimo dopo il vesta si dissolse nell’aria, e al posto dell’animale comparve un essere umano.

Era alto e snello, bianco di capelli, e stava in piedi seminudo sulla neve. Nel suo volto magro e angoloso erano incastonati due occhi azzurro-ghiaccio; le sue mani, tese verso Morgon, recavano cicatrici bianche la cui forma era quella delle corna di un vesta.

Morgon sussurrò: — Har! — Un lieve sorriso balenò in quegli occhi luminosi. Il Lupo-Re si chinò a cingere le spalle di lui con un braccio fortissimo, e lo aiutò a mettersi in piedi.

— Benvenuto — disse l’uomo, sostenendolo con pazienza su per gli scalini. Aprì la grande porta e Io introdusse in un salone largo quanto il granaio di Akren, a un lato del quale campeggiava un enorme caminetto. La voce di Har esplose in quel silenzio, facendo sobbalzare e starnazzare una coppia di corvi appollaiati su una finestra: — Questa casa è forse andata in letargo per l’inverno? Portate cibo, vino, abiti asciutti, e presto. Non voglio diventare un vegliardo sdentato nell’attesa.

Numerosi servi assonnati e mezzo spogliati comparvero di corsa nel salone, inciampando in cinque o sei cani uggiolanti che si precipitavano al richiamo del padrone. Un mezzo tronco d’albero e fasci di sterpi vennero piazzati sulle braci semispente del camino, e nuvole di scintille rombarono su per la canna fumaria. Sulle spalle di Har venne deposto un mantello di lana bianca; Morgon si vide letteralmente strappare di dosso gli abiti fradici prima ancora d’essersi potuto guardare attorno: dalla testa gli fu infilata una lunga tunica di lana, e qualcuno gli coprì le spalle con un mantello di pelliccia multicolore. Vassoi di cibo furono piazzati a scaldarsi sulle apposite grate del camino; Morgon quasi ansimò nel sentire l’odore del pane caldo e della carne arrosto. Gli parve di sognare mentre Har lo fece sedere al tavolo dinnanzi alle fiamme scoppiettanti e gli avvicinò un boccale alle labbra; il vino, freddo e secco, gli fu quasi forzato in bocca. Lo ingoiò avidamente, sforzandosi di non soffocare, e subito sentì il sangue tornare a scorrergli lentamente, dolorosamente, nelle membra intorpidite.

Una donna entrò e si avvicinò al tavolo, mentre cominciavano a servirsi del cibo. Era anziana, con un volto energico e piacevole, e capelli color dell’avorio riuniti in due trecce lunghe fino alle ginocchia. Davanti al fuoco rallentò il passo, terminando di allacciarsi la cintura dell’abito, ed i suoi occhi esplorarono con calma sia il volto di Har che quello di Morgon.

Sorrise, si chinò a baciare dolcemente Har su una guancia e poi gli poggiò una mano su una spalla. — Bentornato a casa. Chi hai portato con te, questa volta?

— Il Principe di Hed.

Morgon si volse a fissarlo di scatto, e i suoi occhi catturarono quelli di Har in una domanda senza parole. Il sorrisetto del Lupo-Re si attenuò un poco. Disse: — Ho uno speciale talento per i nomi. Lo insegnerò anche a te. Questa è la mia sposa, Aia. — Si volse a lei. — L’ho trovato che vagava a piedi nella tempesta, sulla riva dell’Ose. Quando assumo le spoglie di un vesta me ne capitano di tutti i colori; una volta un cacciatore mi ha perfino preso in una rete, a Monte Fosco, prima di capire chi ero; ma non m’era mai accaduto che un uomo, ricercato da metà dei mercanti del reame e smarrito fra la neve, mi nutrisse col suo ultimo pezzo di pane. — Tornò a osservare Morgon, che aveva smesso di mangiare. La sua voce suonò morbida nel crepitare del fuoco: — Voi e io siamo maestri degli enigmi; non intendo fare nessuna gara con voi. So qualcosa di voi, ma non abbastanza. Ad esempio, non so cosa vi conduce al Monte Erlenstar, né da chi vi state nascondendo. Ma voglio saperlo. Vi darò tutto ciò che mi chiederete, informazioni o aiuto, in cambio di una cosa sola. Se voi non foste venuto nella mia terra sarei stato io a cercarvi, in una forma o nell’altra: magari come un vecchio corvo, o sotto le spoglie di un mercante disposto a barattare oggetti per un’informazione. Vi avrei cercato.

Morgon abbassò il cucchiaio nella scodella. Le energie gli stavano tornando, e con esse i suoi ricordi, i suoi scopi, come se le parole di Har avessero risvegliato in lui la capacità di pensare. Mormorò: — Se voi non mi aveste soccorso, là sul fiume, sarei morto. Vi darò tutto ciò che volete.

— Questa è una promessa pericolosa, se fatta incautamente in casa mia — commentò Har.

— Lo so. Ho sentito parlare un poco di voi. Vi darò tutto quello di cui avete bisogno.

Har sorrise. Gli mise una mano su un braccio, leggermente. — Stavate andando per la vostra strada passo dopo passo, là sull’Ose, a dispetto del vento e della tormenta, abbarbicato alla vostra arpa come alla vita stessa. Ho fiducia negli uomini come voi. I contadini di Hed sono famosi per la loro caparbietà.

— Forse. — Si appoggiò allo schienale, socchiudendo gli occhi nel bagliore del fuoco. — Ma quando ho lasciato Deth a Herun fu per tornare a Hed. E invece sono venuto qui.

— Perché avete cambiato idea?

— Voi avete fatto filtrare un enigma fuori da Osterland, per cercarmi… — La sua voce si smorzò. Udì Har dire qualcosa, ma gli parve che quelle parole si perdessero nel crepitio del focolare. Vide le fiamme danzare e nei suoi occhi esse divennero i turbini della bufera, roteanti, informi, scuri, sempre più scuri…

Si risvegliò in una piccola e lussuosa camera, pervasa dalle ombre della sera. Giacque con la mente del tutto vuota, incapace di aprire gli occhi, finché un fruscio metallico nel caminetto non lo indusse a voltarsi. C’era qualcuno che si occupava del fuoco e, all’improvvisa vista di una capigliatura argentea, Morgon esclamò stupito: — Deth!

La testa bianca si volse. — No. Sono io. Har mi ha chiesto di badare a voi. — Un ragazzo giovane e snello si alzò in piedi davanti al camino, e venne ad accendere la torcia a fianco del letto. Era qualche anno più giovane di Morgon, solidamente costruito, e con capelli bianchi come il latte. Il suo volto era impassibile, ma Morgon captò in lui una timidezza da animale selvatico. Alla luce della torcia i suoi occhi scintillavano rossi come rubini, e sotto lo sguardo stupito di Morgon la sua voce vacillò e parve incrinarsi, quasi che per lui parlare fosse cosa insolita: — Lui ha detto… Har ha detto di darvi il mio nome. Io sono Hugin… figlio di Suth.

Morgon non riuscì a trattenere un fremito. — Suth è morto.

— No.

— Tutti i maghi sono morti!

— No. Har conosce Suth. Har mi ha… mi ha trovato tre anni fa, insieme a un branco di vesta. Lui guardò nella mia mente e vide Suth.

Morgon lo fissò, ammutolito. Poi si tirò a sedere e si alzò, sentendosi come se gli avessero preso a bastonate ogni osso e muscolo del corpo. — Dove sono i miei vestiti? Devo parlare con Har.

— Lui lo sa — disse Hugin. — Vi sta aspettando.

Quando si fu lavato e rivestito Morgon seguì il ragazzo nel salone della dimora di Har. Era pieno di gente, uomini eleganti e ricche dame della città, mercanti, cacciatori, musicisti, un gruppetto di contadini vestiti poveramente, e alcuni bevevano vino accanto al grande camino, altri giocavano a scacchi, chiacchieravano, leggevano. L’informalità di quella riunione rammentò a Morgon i pomeriggi festivi ad Akren. Har, con al fianco Aia che accarezzava un cane stretto alle sue ginocchia, sedeva sul suo pesante scranno davanti al fuoco e stava ascoltando un arpista. Nel vedere Morgon che si faceva strada fra la gente verso di lui, gli diresse un sorriso.

Morgon sedette su una panca accanto a loro. Il cane lasciò Aia per annusarlo incuriosito, e soltanto allora comprese, con un sussulto, che si trattava di un lupo. Davanti al fuoco erano accovacciati altri animali: una volpe rossa, un tasso grassoccio, una coppia di donnole bianche come la neve nei riflessi della fiamma.

Aia diede una grattatina energica agli orecchi del lupo, e notando l’espressione di lui disse: — Sono amici di Har, e vengono qui a ripararsi dal freddo. Talvolta trascorrono qui tutto l’inverno, e non di rado vengono a portare notizie di uomini o di animali di Osterland. A volte sono i nostri figli a mandarceli, quando non possono venire a farci visita di persona… quel falcone bianco che dorme lassù fra le travi, lo ha mandato nostra figlia.

— Voi riuscite a parlare con loro? — domandò Morgon. Lei scosse la testa.

— Io posso solo entrare nella mente di Har, e quando è nella sua forma umana. Ed è meglio così, altrimenti sarei già morta per le preoccupazioni, specie quando ero giovane e lui se ne andava in giro dappertutto, a mettere alla prova i suoi sudditi.

La musica dell’arpa si spense; l’arpista, un individuo magro di pelle scura, fornito di un sorrisetto severo, si alzò per andare a bere un po’ di vino. Il lupo si accostò ad Har, mentre il Re allungava una mano verso il suo boccale. Har mescé vino anche per Morgon, e mandò un servo a prendergli del cibo. Poi parlò a voce alta per farsi udire attraverso le chiacchiere altrui: — Mi avete offerto il vostro aiuto. Se foste un altro uomo non vi riterrei legato a questa promessa, ma voi siete un Principe di Hed, la meno fantasiosa delle terre. Ciò che vi chiedo potrà essere molto difficile, ma è importante per me. Voglio che troviate Suth.

— Suth? Har, come può essere vivo? Come, dopo settecento anni?

— Morgon, io ho conosciuto Suth. — La voce del Re era cortese, ma vi si era infiltrata una nota dura. — Siamo stati ragazzi insieme, un’eternità di tempo fa. Eravamo avidi di conoscenza, e non importava come la raggiungevamo, né quel che facevamo a noi stessi, l’un l’altro. Ancor prima che Caithnard esistesse facevamo gare di enigmi, gare che potevano durare anni mentre cercavamo le risposte. Lui perse un occhio in quegli anni turbolenti; e fu lui a segnare le mie mani con le corna di vesta quando mi insegnò come cambiar forma. Allorché scomparve con tutta la scuola dei maghi, pensai che fosse morto. Ma tre anni fa, quando un giovane vesta si trasformò in un ragazzo davanti ai miei occhi, e quando guardai nei suoi pensieri e nella sua memoria, vidi l’uomo che lui conosceva come suo padre. E quel volto era impresso da secoli nella mia mente: Suth. Ed è vivo. Fuggì e si tenne nascosto per settecento anni. Nascosto. Una volta, allorché gli chiesi come aveva perso l’occhio, lui rise e disse soltanto che non c’era nulla che non potesse essere esplorato. Tuttavia egli vide qualcosa che lo fece fuggire, e se ne andò, svanì come una palla di neve in una tormenta. Non ebbe torto a nascondersi. Lui mi conosce. Sono stato alle sue calcagna come un lupo per tre anni, e lo ritroverò.

Le congetture si formavano e si frantumavano nella mente di Morgon, lasciandolo irritato e confuso. — La Morgol di Herun ha suggerito che Ghisteslwchlohm, il Fondatore di Lungold, sia vivo anch’egli. Ma è soltanto un’ipotesi, mancano le prove. Da cosa sta fuggendo Suth?

— Cos’è che vi conduce al Monte Erlenstar?

Morgon rimise il boccale sul tavolo. Con una mano si tirò indietro i capelli, mostrando le tre stelle che rosseggiavano sul pallore della sua fronte. — Queste.

Le mani di Har ebbero un brevissimo tremito che fece scintillare i suoi anelli. Aia ascoltava immobile, con occhi pensosi. — Così — disse il Re, — le mosse di questa grande gara di poteri coinvolgono Hed. Quando ve ne siete reso conto?

Lui rifletté un attimo. — A Ymris. Trovai là un’arpa con tre stelle, che richiamavano quelle sulla mia fronte, e che nessun altro poteva suonare. Conobbi la donna sposata a Hereu Ymris, ed ella tentò di uccidermi per queste stelle che io porto, e disse d’essere più antica del più antico degli enigmi…

— Com’eravate arrivato a Ymris?

— Stavo portando ad Anuin la corona di Aum.

— Ymris — puntualizzò Har, — è nella direzione opposta.

— Har, voi dovete aver saputo cos’è successo. Perfino se tutti i mercanti del reame fossero finiti in fondo al mare insieme alla corona di Aum, voi lo avreste probabilmente saputo, in qualche modo.

— So cos’è accaduto — confermò Har, imperturbabile. — Ma non conoscevo voi. Siate paziente con un vecchio come me, e cominciate dal principio.

Morgon lo prese alla lettera. Quando il resoconto dei suoi viaggi giunse al termine, gli ospiti se n’erano andati. Nel salone restavano soltanto il Re, Aia, l’arpista che ascoltava sfiorando le corde del suo strumento, e Hugin, che era venuto a sedersi ai piedi di Har e gli aveva poggiato la testa sulle ginocchia. Le torce ardevano debolmente; gli animali dormivano accovacciati davanti al camino. La sua voce aveva finito col farsi rauca. Har osservava le braci e restò in quella posizione, silenzioso e immobile per interminabili minuti.

— Suth… — cominciò Morgon. Il volto di Hugin si volse di scatto nell’udire il nome. Lui scosse le spalle stancamente. — Perché Suth dovrebbe sapere qualcosa? La Morgol pensa che ogni informazione sull’esistenza delle stelle sia stata strappata via dalla mente dei maghi.

Har lo guardò pensosamente. Come se non avesse sentito quelle parole, disse: — Voi odiate l’idea di uccidere. Ci sono altri modi per difendersi. Io posso insegnarvi a guardare nella mente di un uomo, a vedere dietro le illusioni, a chiudere la porta dei vostri pensieri contro la curiosità altrui. Siete vulnerabile come un animale privo della sua pelliccia invernale. Potrei insegnarvi a farvi beffa dell’inverno stesso…

Morgon gli restituì lo sguardo. Nel fondo della sua mente si agitava qualcosa, l’accenno di un ingrato sospetto. — Non capisco — mormorò, sebbene cominciasse a intuire.

— Vi ho avvertito: non dovreste mai promettere qualcosa alla cieca in casa mia — continuò Har. — Credo che Suth si stia spostando con un branco di vesta, dietro al Monte Fosco. Vi insegnerò ad assumere la forma di un vesta; potrete muovervi fra loro liberamente e trascorrere l’inverno come un vesta, senza tuttavia essere un vero vesta. Il vostro corpo e i vostri istinti saranno animaleschi, ma la vostra mente apparterrà a voi; Suth potrà forse nascondersi al Supremo stesso, ma finirà per rivelarsi a voi.

La schiena di Morgon fu percorsa da un brivido. — Har, io non ho neppure in minima parte il dono di cambiare forma.

— Come lo sapete?

— Io non… nessun abitante di Hed è mai nato con facoltà simili. — Ebbe una smorfia acre, immaginando se stesso fornito di quattro zampe poderose, la testa appesantita da un palco di corna d’oro, niente mani per toccare, niente voce per parlare.

Hugin intervenne, esitante: — È una cosa piacevole… essere un vesta. Har lo sa.

A Morgon parve di vedere la faccia di Grim Oakland e quella di Eliard, che lo fissavano con sbigottita disapprovazione e senza capire: Tu puoi fare cosa? E perché vorresti fare una cosa del genere? Sentì lo sguardo di Har pesargli addosso. Con riluttanza mormorò: — Tenterò, poiché ve l’ho promesso. Ma dubito che funzionerà; è contrario a tutti i miei istinti.

— I vostri istinti. — Gli occhi del Re riflettevano il fuoco come quelli di un animale, mettendo Morgon a disagio. — Siete un uomo testardo. Con la faccia volta al Monte Erlenstar, mille miglia più lontano di quanto un Principe di Hed abbia mai osato andare, con un’arpa e un nome in vostro possesso, vi abbarbicate ancora al vostro passato come un uccellino al nido. Cosa ne sapete dei vostri istinti? Cosa sapete di voi stesso? Vorreste condannarci tutti col vostro rifiuto di guardare dentro di voi e di dare un nome a ciò che vedete?

Le mani di Morgon erano attanagliate al bordo del tavolo. Rigido, cercò di dare un tono fermo alla sua voce: — Io sono un governatore della terra, un maestro degli enigmi e un portatore di stelle, in quest’ordine esatto…

— No. Voi siete il Portatore di Stelle. Non avete altro nome che questo, e nessun altro futuro. Siete nato con un dono ignoto a qualsiasi altro governatore della terra di Hed; voi avete occhi che vedono, una mente che sa immaginare. I vostri istinti vi hanno portato fuori da Hed ancor prima che ne capiste il perché: a Caithnard, ad Herun, in Osterland, terre i cui Re non hanno pietà per coloro che sfuggono la verità.

— Io sono nato per…

— Siete nato come Portatore di Stelle. Il saggio conosce il proprio nome. Voi non siete uno sciocco; voi potete vedere chiaro quanto me quale caos si agita sotto la superficie della nostra esistenza. Tagliate il legame col vostro passato; è privo di senso. Potete vivere anche senza il governo della terra, se necessario; non è cosa indispensabile…

Morgon si ritrovò in piedi senza accorgersi d’essersi mosso. — No!

— Avete un Erede capace, che baderà alla casa e alla terra invece di lasciarsi attrarre da oscuri enigmi. La vostra terra può continuare a esistere senza di voi. Ma se insistete a sfuggire al vostro destino, potreste essere l’uomo che ci distruggerà tutti quanti.

Har tacque. Dalla bocca di Morgon uscì un ansito rauco e doloroso come un singhiozzo senza lacrime. Il volto di Aia e quello di Hugin sembravano rigidi come il marmo nei riflessi del fuoco; la faccia di Har parve torcersi, aliena, quasi non fosse né di uomo né di animale. Morgon si portò una mano alla bocca come per cancellarne il gemito e sussurrò: — Che valore date alle leggi? Quale incentivo mi offrirete per ripudiarle? Che prezzo potete pagarmi per tutto ciò che io ho amato?

Gli occhi di Har restarono fermi come cristalli di ghiaccio. — Cinque enigmi — disse. — Una buona moneta, per un uomo che ha la borsa vuota. Chi è il Portatore di Stelle, e qual è il legame che solo lui scioglierà? Cos’è ciò che una stella evoca dalle tenebre, e una stella evoca dalla morte? Chi verrà alla fine del tempo, e cosa porterà? Chi suonerà l’arpa della terra, silenziosa fin dal Principio? Chi porterà stelle di fuoco e di ghiaccio al Termine dell’Era?

Morgon strinse involontariamente i pugni. Il salone era immerso in un silenzio profondo. Sentì le lacrime che gli scorrevano calde sugli zigomi. — Quale termine? — Il Lupo-Re non rispose. — Quale termine?

— Rispondere agli enigmi è il vostro compito. Un giorno Suth mi diede questi cinque enigmi, come se mi mettesse il cuore in mano perché glielo conservassi al sicuro. Li ho tenuti per me, senza risposta, fin dal tempo della sua scomparsa.

— E lui dove li apprese?

— Questo lo sa lui.

— Allora glielo domanderò. — Il suo volto era esangue nella luce rosata; i suoi occhi, scuri come braci spente, fissarono con durezza quelli chiari e scintillanti di Har. — Risponderò a questi enigmi per voi. E credo che, quando lo avrò fatto, vi troverete a desiderare per quanto avrete vita che io non abbia mai messo piede fuori da Hed.


Il mattino successivo trovò Morgon seduto su una pietra circolare, in una stanzetta sul retro della dimora di Har, in attesa che Hugin accendesse il fuoco per spandere un po’ di calore sul pavimento gelido. Indossava una leggera tunichetta di lino, i suoi piedi erano nudi. In un angolo c’erano brocche di vino annacquato e boccali, ma nient’altro, né cibo né giacigli. La porta era chiusa e la sola apertura del locale, privo di finestre, era il foro nel tetto da cui il fumo usciva per mescolarsi ai turbini di neve che biancheggiavano all’esterno. Har sedeva di fronte a lui, col volto che sembrava torcersi e deformarsi alla luce della fiamma. Hugin si accoccolò alle sue spalle a gambe incrociate e restò immobile, osando a stento respirare.

— Ora entrerò nella tua mente — disse il volto al di là del fuoco. — Dentro di essa vedrò anche pensieri che tu hai sempre tenuto segreti. Non opporti alla mia curiosità. Se vorrai eluderla, limitati a lasciare che i ricordi fluiscano via da te come acqua e svaniscano informi, perdendosi nel vento.

Morgon avvertì un tocco incorporeo rimescolargli i pensieri, sceglierli, esaminarli, scartarli. Immagini di momenti che facevano parte del suo passato nacquero e ripresero vita nella sua mente: Rood che studiava con lui a tarda notte alla luce di una candela consunta; Dama Eriel che gli parlava con voce morbida in un salone oscuro, mentre le dita di lui scivolavano verso l’ultima corda di basso dell’arpa; Tristan, con le scarpe infangate, che annaffiava i suoi cespugli di rose; Lyra mentre raccoglieva una spada che fra le sue mani prendeva vita, mutando forma. Sentì l’ingresso di una conoscenza estranea, di ricordi che non gli appartenevano e s’intrecciavano ai suoi, e non contrastò quelle dita che lo frugavano così intimamente. D’un tratto, dalla parete buia dei suoi pensieri scaturì l’immagine di un uomo, che s’allontanava da lui con un guizzo. Ci fu il lampeggiare di una lancia dinnanzi a quei lineamenti fluidi e mutevoli, color del mare, e il volto divenne nitido per un istante mentre egli cadeva. Morgon trasalì con un mormorio stupito. Gli occhi di Har oltre le fiamme si fissarono impassibili nei suoi.

— Non c’è niente che non possa essere affrontato, niente che non possa essere esplorato. Continuiamo.

I ricordi della sua vita gli passarono dinnanzi agli occhi in una serie di scene che sfumavano l’una nell’altra, e Har indugiò a lungo su quelle che lo incuriosivano maggiormente. Le ore si susseguirono lente, senza nulla che segnasse il loro trascorrere salvo le ceneri del fuoco che si consumava; Morgon sopportò quella prova con pazienza, cedendo senza protestare anche le memorie più profondamente sepolte in lui. Infine, stanco, cominciò a sfuggire a quell’incessante ricerca interiore, lasciò che i suoi pensieri si confondessero e che il passato divenisse una nebbia informe in cui la mente vagava senza captare più nulla di preciso. Ad un tratto si ritrovò in piedi: stava camminando avanti e indietro nella minuscola stanza, col cervello vuoto di tutto, la fame che gli urlava nello stomaco come un animale, il freddo che gli irrigidiva i piedi come due blocchi di marmo, e tutte le cellule del suo corpo gemevano per la sfinitezza invocando il sonno. Continuò ad aggirarsi nel locale senza ascoltare la voce di Har che stava parlando, senza far caso a Hugin che lo fissava, e quando il giovane uscì per cercare altra legna non si accorse neppure che all’esterno era notte. Poi sentì che la mano incorporea di Har sfiorava l’angolo più remoto della sua mente, dov’erano riposti i pensieri più intimi e segreti: un disagio asfissiante misto a un senso di terrore salì in lui, scuotendolo come una mazzata a cui fu sul punto di cedere. Sgomento tentò di sfuggire a quell’indagine impietosa che metteva a nudo la sua personalità, si ribellò, lottò furiosamente contro il bisturi di Har che scavava in lui, ma senza alcun successo. Improvvisamente fu conscio della fissità con cui lo scrutavano gli occhi dell’uomo, fermi e indagatori nella debole luce del fuoco, e intuendo che gli restava una sola via di fuga si protese verso quello sguardo; lasciò dietro di sé i suoi pensieri e gettò tutto se stesso oltre il sipario di un’altra mente umana.

Fu come se fosse piombato di colpo in un mondo alieno e sconosciuto. Vide l’interno del locale attraverso gli occhi di Har, e vide se stesso, immobile nell’ombra, in atteggiamento sorpreso. Esitante saggiò il continuo rivolo di ricordi che fluiva dalle profondità della mente di Har. Vide una giovane donna coi capelli schiariti dal sole, intenta ad osservare i falegnami che piegavano e intarsiavano i pannelli di legno destinati alla sua nuova casa, e seppe che era Aia. Vide un mago dai bianchi capelli lunghi e scarmigliati, a piedi nudi nella neve, che rideva mentre si mutava nella magra forma di un lupo. Vide tratti delle regioni più interne di Osterland: la tana di una volpe scavata nella terra calda, sotto il candido manto invernale, colma di piccoli cuccioli rossi; il nido di un gufo delle nevi nella forcella di un’alta betulla; una mandria di cervi che brucavano la scarsa erba di un pianoro desolato; una rustica casa di contadini nella cui cucina fumosa ogni genere di utensili pendevano dalle pareti scabre, e bambini che giocavano dinnanzi al focolare. Seguì i percorsi abituali di Har attraverso il suo regno, talvolta in forma di animale, talaltra sotto le spoglie di un vecchio dall’aria danarosa che ostentava atteggiamenti sciocchi, celando una mente indagatrice dietro due occhi sonnolenti. Quando riconobbe alcuni dei luoghi presenti in quei ricordi capì che Har non aveva limitato le sue peregrinazioni alla sola Osterland. Dalla mente dell’uomo emerse d’un tratto una casa d’aspetto quanto mai familiare, e con un sussulto di sorpresa che lo fece rientrare di nuovo nel suo corpo Morgon riconobbe la soglia di casa sua.

— Ma quando… — ansimò, con voce rauca e impastata, quasi che si svegliasse in quel momento dal sonno.

— Andai a Hed per conoscere Kern. Avevo sentito delle voci che mi avevano incuriosito molto, riguardo a lui e a una Cosa senza nome. Me n’ero quasi dimenticato. Tu hai fatto buon uso di quell’enigma.

Morgon si rimise a sedere sul pavimento di pietra. Le necessità del suo corpo gli giungevano ora come sensazioni vaghe, non più urgenti che se fossero appartenute alla sua ombra. Il fuoco si abbassò fra le braci, scomparve, tornò a danzare sui ceppi e riprese forza. Il suo calore si sparse in lente onde pulsanti. Morgon penetrò nella mente di Hugin, scoprì il suo linguaggio senza parole, condivise il verde e freddo mondo della sua infanzia, la fame, le immensità desolate, il sorriso negli occhi di un vesta. Poi Har s’impadronì ancora dei suoi pensieri, tornò a sondarli incessantemente, lo mise alla frusta, gli insegnò a infrangere gli sbarramenti di una mente chiusa e a difendere l’intimità della sua, attaccandolo, replicando ai suoi assalti, aggredendo senza sosta, finché Morgon fu sul punto di esplodere per la rabbia e la stanchezza. Svuotato, incapace perfino di odiarlo, sentì d’essere giunto al limite delle sue possibilità fisiche. Soltanto allora Har lo lasciò. Il sudore gli colava sulla faccia e sulla schiena in rivoli gelidi, ed egli s’accorse di tremare malgrado la vicinanza del fuoco.

— Quanto tempo… per quanto abbiamo… — La gola gli si bloccò, rigida come una corteccia.

— Ha forse importanza per noi? Hugin, porta del vino.

Il ragazzo s’inginocchiò accanto a Morgon e gli porse un boccale. Il suo volto giovane era tirato, intorno agli occhi aveva scure ombre di stanchezza, ma riuscì ugualmente a piegare la bocca in un accenno di sorriso. Nel minuscolo locale stagnava denso il fumo della legna, e alzando gli occhi verso il foro del soffitto velato di caligine Morgon non riuscì a capire se fuori fosse giorno o notte. Hugin aprì la porta per dare aria; raffiche di vento taglienti come lame balzarono nell’interno, trascinando refoli di nevischio. Il mondo era immerso in un’oscurità gelida e ostile, la cui vista bastò a farlo rabbrividire. Accorgendosi dei suoi tremiti Hugin s’affrettò a chiudere il battente.

— Ancora! — ordinò Har con voce ingannevolmente lieve, e s’insinuò nella mente di Morgon con artigli che graffiavano e assalivano i suoi pensieri, costringendolo a reagire con un automatismo che solo in quel momento egli scoprì di avere. Di nuovo s’intrecciarono fra loro duelli interminabili e violenti, durante i quali Morgon si sforzava con ogni mezzo di bloccare la ficcante sonda psichica di Har e, nello stesso tempo, escogitava stratagemmi per penetrare nelle difese della sua mente. Hugin era accovacciato al suo fianco silenzioso come un’ombra. A tratti Morgon riuscì a notare vagamente che dormiva, steso per terra. A tratti, quando poté liberarsi per qualche istante di Har e si volse esausto, vide i rossi occhi del ragazzo che lo fissavano e scorse nelle loro profondità l’immagine di un vesta. Poi cominciò a vedere il corpo snello e robusto di un vesta là dove avrebbe dovuto trovarsi seduto Hugin, e stupito si chiese se fossero soltanto i pensieri del ragazzo a penetrare in lui oppure se erano le sue sembianze fisiche a mutare realmente, alterando la forma umana a quella animale. A un certo punto, tornando a guardare oltre il fuoco, scorse al posto di Har un grosso lupo grigio che lo osservava con un freddo sorriso nelle iridi giallastre.

Si sfregò gli occhi col dorso delle mani, li riaprì, e dinnanzi a lui Har ebbe una smorfia secca. — Proviamo ancora.

— No — sussurrò egli, conscio che la mente e il corpo non gli rispondevano più. — No, basta.

— Allora rinuncia!

— No.

L’alito del fuoco s’impadronì di lui come un vento. Gli parve d’esserne sollevato e di vedere se stesso da grande altezza, quasi che la spoglia di carne che era stato il suo corpo non avesse più nulla a che fare con lui. Hugin e Har erano immagini di fumo, talora con le sembianze di un Re e del figlio di un mago, talaltra con quelle di un lupo e di un vesta, e parevano fissarlo con aria d’attesa. Il lupo si alzò e gli venne accanto, facendosi sempre più vicino; gli girò intorno lentamente con occhi di brace e poi gli si fermò di fronte. Morgon sentì le sue mani aprirsi, sporche di cenere umida, calde, sudate.

— Ora! — esclamò improvvisamente il lupo.

Il repentino dolore lo riportò di nuovo in se stesso. Sbarrò gli occhi, offuscati da un effluvio di cocenti lacrime salate, e le rosse pupille del vesta si confissero profondamente nelle sue. Una lama balenò minacciosa nel vortice della sua mente, dalla gola gli emerse un rantolo di protesta. Girò la testa sconvolto, desideroso soltanto di sfuggire al fumo soffocante, all’agonia della sua stanchezza, al bruciore di quella lama, e senza un grido precipitò nel mondo che c’era al di là degli occhi del vesta. D’un tratto tutto fu luce.

I muri di pietra s’erano dissolti, lasciando il posto alla piatta e desolata linea del bianco orizzonte invernale. Intorno a lui c’era l’intima e sterminata solitudine della neve e del cielo terso, e le sue narici fiutavano il vento analizzando gli odori che portava. Da qualche parte dentro di lui un viluppo di pensieri si contorse, cercando di emergere alla superficie; li evitò e li tenne lontani, preferendo esplorare più a fondo il piacevole silenzio bianco che aveva scoperto. Sotto la cupola azzurra del cielo scivolava una brezza frizzante, carica di profumi e odori a cui s’accorse di poter dare un nome: l’acqua, una lepre, un lupo, i pini, un branco di vesta. Ascoltò la voce dura e insistente del vento, e s’accorse che soffiava con forza, ma non vi fece troppa attenzione e la sentì divenire sempre più insignificante e vuota. Trasse un lungo respiro, assaporò l’aria invernale e la voce svanì. Il vento divenne qualcosa che gli attraversava le membra, pulsava nel suo cuore, gli fluiva nelle vene, tonificava i muscoli col suo impatto forte e fremente. Avvertì la sua pressione che lo incitava, lo sfidava, e d’istinto le sue membra robuste si tesero per scattare in corsa, in una gara contro il vento.

I muri di pietra balzarono fuori dal nulla intorno a lui. Stupefatto si arrestò scalpitando, ansò in cerca di una via di fuga e fu conscio delle strane e silenziose figure che lo fissavano. Il fuoco lo morse con zanne lingueggianti, indietreggiò e si volse spaurito. Le sue corna urtarono contro la pietra scabra. E fu in quel momento, mentre il panico esplodeva in lui, che s’accorse di avere alti palchi di corna. Un attimo più tardi si ritrovò nel suo vecchio corpo familiare, scosso da tremiti, con le mani rigate di cenere e di sangue, gli occhi sbarrati in quelli di Har.

Hugin aprì la porta. La morbida luce del pomeriggio scintillava sullo strato di neve oltre la soglia. Quando Har si alzò in piedi stava tremando anch’egli. Non disse una parola, e Morgon, che ormai conosceva la mente del Re quanto la propria, sentì l’ondata di panico ritrarsi da lui lasciando il posto a una spossatezza greve come una malattia. Vacillò fino alla soglia e si appoggiò allo stipite, avido d’aria pulita, sfregandosi le mani sporche sulla tunica malconcia. Stranamente si sentiva invaso da un inspiegabile senso di malinconia, come se avesse voltato le spalle per sempre a qualcosa che era una parte di lui. Har gli mise una mano su una spalla.

— Riposa, adesso. Devi dormire. Hugin…

— Lo so. Lo accompagno io.

— Fasciagli le mani. Resta con lui. Riposatevi, tutti e due.

Загрузка...